Archive pour novembre, 2013

The crucifixion of St Andrew, Art Gallery of South Australia

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LA VITA DI S. ANDREA – 30 NOVEMBRE

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LA VITA DI S. ANDREA – 30 NOVEMBRE

Il 30 novembre nel Martirologio romano si legge: Festa di sant’Andrea, Apostolo: nato a Betsaida, fratello di Simon Pietro e pescatore insieme a lui, fu il primo tra i discepoli di Giovanni Battista ad essere chiamato dal Signore Gesù presso il Giordano, lo seguì e condusse da lui anche suo fratello. Dopo la Pentecoste si dice abbia predicato il Vangelo nella regione dell’Acaia in Grecia e subíto la crocifissione a Patrasso. La Chiesa di Costantinopoli lo venera come suo insigne patrono. All’apostolo Andrea, infatti, spetta il titolo di Primo chiamato. Ed è commovente il fatto che, nel Vangelo di Giovanni, sia perfino annotata l’ora («le quattro del pomeriggio») del suo primo incontro e primo appuntamento con Gesù. Fu poi Andrea a comunicare al fratello Pietro la scoperta del Messia e a condurlo in fretta da Lui. La sua presenza è sottolineata in modo particolare nell’episodio della moltiplicazione dei pani. Sappiamo inoltre che, proprio ad Andrea, si rivolsero dei greci che volevano conoscere Gesù, ed egli li condusse al Divino Maestro. Su di lui non abbiamo altre notizie certe, anche se, nei secoli successivi, vennero divulgati degli Atti che lo riguardano, ma che hanno scarsa attendibilità. Secondo gli antichi scrittori cristiani, l’apostolo Andrea avrebbe evangelizzato l’Asia minore e le regioni lungo il mar Nero, giungendo fino al Volga. È perciò onorato come patrono in Romania, Ucraina e Russia. Commovente è la ‘passione’ – anch’essa tardiva – che racconta la morte dell’apostolo, che sarebbe avvenuta a Patrasso, in Acaia: condannato al supplizio della croce, egli stesso avrebbe chiesto d’essere appeso a una croce particolare fatta ad X (croce che da allora porta il suo nome) e che evoca, nella sua stessa forma, l’iniziale greca del nome di Cristo. La Legenda aurea riferisce che Andrea andò incontro alla sua croce con questa splendida invocazione sulle labbra: «Salve Croce, santificata dal corpo di Gesù e impreziosita dalle gemme del suo sangue… Vengo a te pieno di sicurezza e di gioia, affinché tu riceva il discepolo di Colui che su di te è morto. Croce buona, a lungo desiderata, che le membra del Signore hanno rivestito di tanta bellezza! Da sempre io ti ho amata e ho desiderato di abbracciarti… Accoglimi e portami dal mio Maestro». Frasi oggi riportate in parte nei testi liturgici della festa del 30 novembre. Infine, il nome di Andrea compare nel primo capitolo degli Atti con quelli degli altri apostoli diretti a Gerusalemme dopo l’Ascensione. E poi la Scrittura non dice altro di lui, mentre ne parlano alcuni testi apocrifi, ossia non canonici. Uno di questi, del II secolo, afferma che Andrea ha incoraggiato Giovanni a scrivere il suo Vangelo. E un testo copto contiene questa benedizione di Gesù ad Andrea: “Tu sarai una colonna di luce nel mio regno, in Gerusalemme, la mia città prediletta. Amen”. Lo storico Eusebio di Cesarea (ca. 265-340) scrive che Andrea predica il Vangelo in Asia Minore e nella Russia meridionale. Poi, passato in Grecia, guida i cristiani di Patrasso. Ed è questo autore a raccontare il martirio per crocifissione. Questo accade intorno all’anno 60, un 30 novembre. Nel 357 i suoi resti vengono portati a Costantinopoli; ma il capo, tranne un frammento, resta a Patrasso. Nel 1206, durante l’occupazione di Costantinopoli (quarta crociata) il legato pontificio cardinale Capuano, di Amalfi, trasferisce quelle reliquie in Italia. E nel 1208 gli amalfitani le accolgono solennemente nella cripta del loro Duomo. Quando nel 1460 i Turchi invadono la Grecia, il capo dell’Apostolo viene portato da Patrasso a Roma, dove sarà custodito in San Pietro per cinque secoli. Ossia fino a quando il papa Paolo VI, nel 1964,durante il Concilio Vaticano II, farà restituire la reliquia alla Chiesa di Patrasso, attraverso il Cardinale Agostino Bea.  Un frammento di queste preziose Reliquie è ancora oggi conservate nella nostra Chiesa Parrocchiale di Gallicano.

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I° SETTIMANA DI AVVENTO VESPRI DOMENICA – MT 24, 37-44

http://www.dellepiane.net/patristica%20AVV%20a.htm

I° SETTIMANA DI AVVENTO VESPRI DOMENICA   -  MT 24, 37-44  

Discorsi per l’avvento, 2, 2-4 : PL 185, 15-17 (in l’Ora dell’Ascolto p. 118)

 « Nell’ora che non immaginate, il Figlio dell’uomo verrà »  di Beato Guerrico d’Igny nel dodicesimo secolo    

Siamo nell’attesa dell’anniversario della nascita di Cristo… Si levi dunque il nostro spirito con vivida gioia, e corra incontro al suo Salvatore… La scrittura sembra esigere da noi un gaudio tale che anche il nostro spirito, elevandosi al di sopra di sé, brami di andare incontro in qualche modo a Cristo che viene, si protenda col desiderio e, non sopportando indugi, si sforzi di vedere già l’evento promesso… Prima della sua venuta nel mondo, il Signore venga da voi. Prima di apparire al mondo intero, venga a visitarvi intimamente. Infatti ha detto : « Non vi lascerò orfani, ritornerò da voi » (Gv 14,18).          E certamente, a seconda del merito e dell’amore, tale visita del Signore in ogni anima è frequente, in questo tempo che intercorre fra la prima e l’ultima venuta, tempo che ci rende conformi alla prima e ci prepara all’ultima. Egli viene in noi ora per non rendere vana per noi la sua prima venuta, e per non tornare adirato contro di noi nella seconda. Con queste visite, tende a riformare la nostra mentalità superba per renderla conforme alla sua umiltà, che ci dimostrò venendo la prima volta ; e lo fa per poi « trasfigurare il nostro misero corpo e conformarlo al suo corpo glorioso » (Fil 3,21), che ci manifesterà al suo ritorno. Per questo dobbiamo desiderare con tutte le nostre forze, e chiedere con fervore tale venuta intima che ci da la grazia della prima venuta e ci promette la gloria della seconda…          La prima venuta fu umile e nascosta, l’ultima sarà folgorante e magnifica ; quella di cui parliamo è nascosta, e nello stesso tempo, magnifica. Dico che è nascosta, non perché sia ignota da colui che la riceve, ma perché avviene in lui nel segreto … Avviene senza essere vista e si allontana senza che se ne accorga. La sua sola presenza è luce dell’anima e dello spirito. In essa vediamo l’invisibile e conosciamo l’inconoscibile. Questa venuta del Signore mette l’anima di chi la contempla in una dolce e beata ammirazione. Allora dall’intimo dell’uomo scoppia questo grido : « Signore, chi è come te ? » (Sal 34, 10). Lo sanno quanti hanno fatto tale esperienza, e voglia Dio che coloro che non l’hanno ancora fatta ne provino il desiderio.  

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1 DICEMBRE 2013 | 1A DOMENICA DI AVVENTO A

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1 DICEMBRE 2013  | 1A DOMENICA DI AVVENTO A  |  PROPOSTA DI LECTIO DIVINA

LECTIO DIVINA SU: MT 24,37-44

(vedete spesso che metto gli stessi nomi, o, almeno la stessa provenienza per le Omelie, io ne leggo molte prima di scegliere e queste sembrano, a mio parere, quelle che offrono sia una preparazione alla messa sia una meditazione omiletica di grande livello, a me piacciono insomma!)

ll tempo di Avvento apre l’Anno Cristiano: con non poco sforzo la Chiesa cerca di concentrarci nella contemplazione, tranquilla ma senza interruzioni, del mistero della nostra salvezza. Facendo memoria di lei, la nostra fede si riaffermerà con più forza; quanto più contempliamo l’amore che Dio ci ha donato, tanto più si rafforzerà la nostra speranza, tanto più nostalgia sentiamo di quell’amore che tante volte ignoriamo o perdiamo per colpa nostra, tanto più riusciamo a sentirci meglio amati da Dio, nella misura con la quale gli permettiamo che Lui ci ami di più, giorno per giorno. Convinti come erano i primi cristiani della venuta del Signore, si preoccupavano molto di conoscere il momento del suo arrivo per prepararvisi. Matteo non risponde alle aspettative dei suoi lettori: ripete la sua fede che verrà il Signore, e l’inutilità di dedicarsi ad indovinare la sua venuta, perché verrà inaspettatamente. Egli ricorda il comportamento spensierato degli uomini prima del diluvio ed immagina l’atteggiamento previdente di chi teme la venuta di un ladro. Per chi sa che il suo Signore sta in cammino, non gli rimane altro che mettersi ad aspettarlo: veglia e senso della propria responsabilità sono i modi di vivere oggi la speranza cristiana; sono la forma di attendere, che il Signore che sta per venire, desidera trovare nei suoi fedeli. Così li ha avvertiti già due mila anni fa.

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: – « Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata. Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo ».

 1. LEGGERE: capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice Il passo evangelico è parte dell’ultimo discorso di Gesù nel vangelo di Matteo; tratta della venuta del figlio dell’uomo, evento, che anche se sperato, si pensa imminente. Dopo avere confermato la sua venuta in una prima parte (Mt 24,1-35), Gesù parla ora della necessaria preparazione (Mt 24,36-51): un evento tanto decisivo esige diligenza: non si può pensare che sta per arrivare il Signore senza mettersi a vegliare; che l’ora del suo arrivo sia incerta, non la rende ipotetica; se il Signore sta già in cammino, bisogna aspettarlo senza indugio. Nei tempi di incertezza non si dovrebbe avere altra occupazione che vegliare continuamente. Gesù rafforza la sua esortazione con due altre similitudini: uno, tratto dalla storia biblica; l’altro, dall’esperienza di vita. In entrambi i casi, Gesù motiva i suoi discepoli a ‘leggere’ la vita, passata o presente, per comprendere l’attuazione del piano di Dio ed i suoi ‘tempi.’ Quello che è successo nei giorni di Noè è esemplare: dato che nessuno aspettava un diluvio, tutti continuavano indaffarati la propria vita; in ciò non facevano niente di male; facevano quello che di solito facevano sempre: mangiavano, bevevano, si sposavano…; pensavano che non sarebbe accaduto niente di straordinario, ma morirono. Non facevano quello che li avrebbe salvati: entrare nell’arca; non si fecero un’arca, perché non pensavano a un diluvio. Non si prepararono per quello che non speravano…: ‘venne il diluvio e travolse tutti’. Normalmente succede che quando un ladro irrompe in una casa, il padrone di casa non se lo aspetta affatto; il fatto inaspettato della sua irruzione, la sorpresa che causa, sono il suo miglior alleato. Se l’avesse saputo, il proprietario si sarebbe difeso meglio, lo avrebbe aspettato vegliando, avrebbe ostacolato che forzasse l’entrata. Il diluvio è una calamità naturale; viene senza avvisare, che succeda non è una decisione presa liberamente da qualcuno. È una disgrazia inevitabile. Non così l’arrivo del ladro che normalmente sceglie di agire quando non è aspettato. La venuta del Figlio dell’uomo assomiglia ad entrambe le sventure: sarà tanto inevitabile come una calamità naturale, tanto abile e ben scelta, come un appuntamento. Non c’è altra possibile risposta che vegliare e prepararsi.

 2. MEDITARE: applicare alla vita quello che dice il testo! Benché l’abbiamo dimenticato o non lo vogliamo capire, il cristiano vive aspettando il ritorno del suo Signore che deve venire a giudicare i vivi e i morti. Credere nel Signore Risuscitato è crederlo in cammino verso di noi. Senza alcun dubbio, uno dei sintomi più evidenti della perdita di fede, quasi impercettibile, ma in continuo progresso in cui viviamo noi credenti, è la scarsa nostalgia che sentiamo per Cristo, la debole nostalgia che alimentiamo di lui, la perdita dell’entusiasmo davanti alla certezza del suo ritorno. E pensare che i primi cristiani incominciarono a credere in Cristo, quando cominciarono ad aspettare la sua venuta gloriosa! Ciò significa che non è possibile, non è nemmeno pensabile, un’autentica vita di fede che non viva, si nutra e si esprime come speranza. Non vi è niente di estraneo che, per non aspettare niente nuovo, niente di meglio del nostro Dio, perdiamo Dio nel nostro mondo e nel nostro cuore. Più ancora, Dio sta perdendo credibilità davanti ai nostri occhi; e si nota, a volte in modo palese, perché ormai non l’aspettiamo, perché ci dedichiamo con leggerezza a vivere ‘a fondo’ la vita che perirà; niente, quello che ci sembra è che non bisogna sperare in un Dio che non si rende presente quando è necessario. Si pensa che merita poco rispetto un Dio che non ci obbliga a cercarlo; poco varrebbe se non ci obbligasse a sentire la sua mancanza, a desiderarlo, ad aspettarlo: sarebbe indegno della nostra fede, se non ci costringesse a vivere speranzosi perché un giorno deve ritornare. I credenti oggi, come i contemporanei di Noè, continuiamo ad occuparci, a bere, mangiare, sposarci… Solo perché ci preoccupa il nostro futuro lo programmiamo in anticipo e ci illudiamo di tenerlo sotto controllo; viviamo il presente per sopravvivere nel futuro. Col pianificare oggi quello che di noi sarà domani, crediamo di essere al riparo delle sorprese. Siamo tanto preoccupati per le cose importanti che dobbiamo risolvere oggi che non speriamo che ci possa accadere domani qualcosa di migliore; abbiamo sempre qualcosa da fare oggi che non abbiamo né tempo né voglia di metterci a pensare a ciò che ci manca, Dio. Sono molte le cose che ci tolgono il sonno, e non è quasi mai Dio, né la sua mancanza, il motivo delle nostre insonnie. Non pensiamo, come il padrone di casa che non la custodiva, che il ladro può venire a saccheggiarla in qualsiasi momento. Perché, e qui risiede l’importanza dell’avvertimento di Gesù, né i contemporanei di Noè che vivevano la loro vita, né il signore che non previde l’assalto della sua casa facevano niente di strano; non pensavano, questo sì, che stava loro per succedere qualcosa di brutto e non facevano la cosa più necessaria; solo perché non erano preparati, non speravano che succedesse loro una disgrazia e vivevano spensierati: quella fu la loro disgrazia. Non ci occupiamo di cose straordinarie, né arriviamo a fare cose molto brutte: viviamo semplicemente la giornata, senza sentire Dio come il nostro migliore futuro. Occupati nelle nostre preoccupazioni giornaliere, Dio sta smettendo di preoccuparci. Dovendo occuparci di un mucchio di cose, ci sembra più che logico che trascuriamo Dio. Rinchiusi, come siamo, nei nostri problemi, stiamo seppellendo la nostra speranza e disinteressandoci della nostra salvezza. Non c’è scusa per chi, come discepoli di Gesù che siamo noi, sa che egli verrà un giorno; che egli sta già in cammino verso di noi. Lasciare, dunque, che le preoccupazioni giornaliere soffochino la nostra necessità di Dio, negare a Dio un posto – il posto di onore – tra le nostre migliori speranze, ci porta irrimediabilmente a perdere la fede nella vita e in Dio. Che triste spettacolo stiamo dando noi cristiani nella nostra società, contandoci – come gruppo e come individui – tra i meno impegnati a fare migliore il nostro mondo, e a diventare migliori in questo mondo! Quando verrà il nostro Signore, ci troverà ancora svegli, vivi, attivi, vigilanti?, ci troverà preparati per il suo arrivo? Dobbiamo testimoniare al mondo di oggi la nostra speranza. È vero: la speranza cristiana non si appoggia su ciò che vediamo né in ciò che ci offrono gli altri, essa riposa solo nella promessa del Signore: egli verrà un giorno, e chi lo sa, trova la forza di aspettarlo tutti i giorni. Lì dove manca Dio, lì dovremmo stare noi che lo speriamo, senza soppiantarlo ma solamente rappresentandolo. Lì dove c’è lo scoraggiamento, lì abbiamo un compito da svolgere. Chi vive aspettando il suo Dio non ha motivi per disperare: chi non lo trova nel suo mondo dà maggior forza alla sua speranza. Non sapere con certezza quando egli verrà, lo mantiene in continua attesa del suo Signore. Il mondo di oggi ha bisogno di testimoni di Dio, che mantengano viva la speranza di trovarlo un giorno e che vigilino giorno e notte fino a che lo trovino… Il Signore si lascerà trovare da coloro che sono occupati mentre l’aspettano: come stiamo vivendo questo tempo di attesa?

JUAN JOSE BARTOLOME sdb,

l’icona della Gioia inattesa

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OMELIA – PER LA MEDITAZIONE – I DOMENICA DI AVVENTO, 28 NOVEMBRE 2010 (ANNO A)

http://www.zenit.org/it/articles/avvento-levati-maria-corri-apri

AVVENTO: “LEVATI” MARIA, “CORRI, APRI!”

I DOMENICA DI AVVENTO, 28 NOVEMBRE 2010 (ANNO A)

di padre Angelo del Favero*

ROMA, venerdì, 26 novembre 2010 (ZENIT.org).- “In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: “Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finchè venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata. Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo” (Mt 24,37-44). “Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo” (Mt 24,44): non incutono timore queste parole del Vangelo (e quelle che precedono) se le ascoltiamo riferite alla vergine Maria nel giorno in cui le fu annunziato che il “Verbo della vita” (1 Gv 1,1) si sarebbe fatto carne in Lei, non senza il suo assenso al disegno del Padre. Questa fu davvero un’ora inimmaginabile per la fanciulla di Nazaret, immensamente sorpresa dall’annunzio più inconcepibile che mente umana potesse pensare: il Figlio di Dio sarebbe stato concepito nel suo grembo verginale per opera della Spirito Santo. Tale stupefacente iniziativa divina, a quanto sembra, trovò Maria del tutto impreparata: “Come avverrà questo? Non conosco uomo” (Lc 1,34); impreparata, ma pronta. Sì, perché si può essere pronti anche se impreparati, a ben considerare il duplice modo possibile della vigilanza. Anzitutto la nostra vigilanza può dirsi prossima: quella di chi attende un avvenimento conosciuto (se non quanto al contenuto, almeno come fatto ignoto ed importante che si avvicina); in secondo luogo essa può essere remota, cioè profonda, radicata nella vita: come quella naturale di una mamma nei confronti del suo bambino, vigilanza che il suo amore materno alimenta e tiene desta giorno e notte. Se in Maria mancò la vigilanza prossima, poiché le era impossibile prevedere il contenuto dell’annunzio celeste, certo non mancò quella remota. Non mancò e da sola fu più che sufficiente, dal momento che la “piena di grazia” attimo dopo attimo si ritrovava perfettamente disposta e pronta ad obbedire alla volontà di Dio, in forza e grazia della purezza del suo cuore verginale abitato solo dal desiderio di amare il Signore “con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6,5). Tale meravigliosa vigilanza è così cantata da un innamorato della Madonna: “Tutto il mondo è in attesa, prostrato alle tue ginocchia: dalla tua bocca dipende la consolazione dei miseri, la redenzione dei prigionieri, la liberazione dei condannati, la salvezza di tutti i figli di Adamo, di tutto il genere umano (…)Non sia che mentre tu sei titubante, egli passi oltre e tu debba, dolente, ricominciare a cercare colui che ami. Levati su, corri, apri! Levati con la fede, corri con la devozione, apri con il tuo assenso. “Eccomi”, dice, “sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Lc 1,38)” (San Bernardo, “Omelie sulla Madonna”, breviario del Tempo di Avvento). La triplice esortazione del santo (“levati, corri, apri!”) è una pura contemplazione dell’intima disposizione del cuore di Maria che ci aiuta a comprendere il dinamismo della sua vigilanza silenziosa e nascosta, perfettamente pronta ad accogliere in sé la venuta del Cristo non per una preparazione razionale, ma per l’attitudine profonda del suo essere, della sua persona, del suo cuore.

Al riguardo vi sono due osservazioni da fare. La prima inerisce all’indole femminile di Maria. La sua vigilanza pronta è anzitutto naturale, essenziale, perché scaturisce dalla sua natura femminile materna. E’ per questo istinto proprio della donna che, quando una mamma nella notte è svegliata dal pianto del suo bambino, subito si alza (levati), si affretta alla culla (corri) e se lo prende tra le braccia per calmarlo (il gesto concreto: apri!). Tutto ciò, in genere, è molto più faticoso per il papà, specie se si deve ripetere varie volte nella notte. E’ su questo terreno favorevole che si innesta poi la fede di Maria, amplificando al soprannaturale la vigilanza della sua natura così da acconsentire la libera e pronta adesione all’invito dell’Angelo, senza titubanza alcuna. Vediamo infatti che nel dialogo con Gabriele, Maria si leva con la fede: “Eccomi”; corre con la devozione: “sono la serva del Signore”; apre il suo grembo con l’assenso: “avvenga di me quello che hai detto” (Lc 1,38). La sua domanda “Come avverrà questo?” (Lc 1,34) non esprime un dubbio circa la possibilità di ciò che le viene detto, ma chiede responsabilmente una nuova luce per la ragione. Una volta ottenuta (“Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo”) (Lc 1,35), ella dichiara subito quella disponibilità che già era totalmente presente nel suo cuore. Un po’ come un malato che, prontissimo a farsi operare dal chirurgo, chiede in anticipo a che tipo di intervento sarà sottoposto. Ci aiuta a comprenderne bene questa vigilanza cooperante di Maria il beato J. H. Newman: “..la Vergine merita il suo posto nel piano della salvezza poiché corrispose attivamente e personalmente alla grazia di Dio. Nel momento del suo concepimento ella era passiva nelle mani creatrici di Dio, ma nel momento dell’Annunciazione, quando divenne la Madre di Dio e della misericordia divina, non fu semplicemente uno strumento fisico passivo, ma causa vivente, responsabile e intelligente del fatto che Dio prendesse carne umana dentro di lei. Se non avesse fatto volontariamente atto di obbedienza e di fede non sarebbe diventata la Madre di Dio” (in “MARIA. Pagine scelte”, p. 60). Alla Madonna l’Angelo non chiede l’assenso, ma attende quella risposta personale che il mondo intero sollecita “prostrato alla sue ginocchia” (S. Bernardo). Maria è così invitata ad esprimere il “sì” del proprio grembo al concepimento della “Vita invisibile” (1Gv 1,2), un sì che è assenso “in luogo e al posto della natura umana” (San Tommaso, S. Theol. III, q. 30, a. I) alla venuta del Salvatore. Venendo al Vangelo, vediamo che Gesù accosta oggi il Tempo dell’Avvento al tempo di Noè: “Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito..e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo” (Mt 24,38-39). Il messaggio per noi è reso ancor più chiaro dall’immagine di Maria incinta, inseparabile dall’Avvento. Come il ventre di una donna all’ottavo mese di gravidanza è segno inequivocabile della presenza del bambino dentro di lei, così l’Avvento è il “sacramento” della presenza viva ed efficace di Dio nel nostro mondo, e della sua venuta continua nella storia, entrambe le cose per mezzo della liturgia e della sua Chiesa. Quelli che ignorano tale presenza e tale venuta del Signore sono da compiangere più di tutti gli uomini, poiché, non sapendo nemmeno di avere bisogno di un Salvatore, sono nella condizione di coloro che perirono nel diluvio: un racconto, per altro, che non deve far venire in mente la “Protezione Civile”. Infatti: “Per la Sacra Scrittura quell’evento acquista i contorni di un atto di un giudizio divino morale sul peccato umano: il Dio biblico non è indifferente di fronte alla corruzione e all’immoralità. Il diluvio è perciò, secondo questa interpretazione, uno strumento di giudizio secondo la classica teoria della retribuzione per cui ad ogni delitto deve già ora corrispondere un castigo” (G. Ravasi, “150 Risposte. Questioni di fede”, p. 143-144). Oggi il peccato più di ogni altro abominevole ed emblematico dell’attuale cultura della morte è l’uccisione della vita umana nel grembo. Ogni aborto infatti, anche quando la vita è spuntata da un giorno, è una sorta di distruzione di tutta la storia sacra che Dio ha fatto con l’umanità nel suo Figlio, concepito e nato da Maria, poiché: “lo avete fatto a me” (Mt 25,40). “Ma l’ultima parola non è quella del giudizio e della morte. Nell’uomo giusto Noè, e nella sua discendenza, si manifesta l’amore del Creatore che fa pace con l’umanità. Sorge così l’aurora di un nuovo mondo e di una nuova storia, ed è per questo che la tradizione cristiana ha riletto l’epopea del diluvio in chiave battesimale, come anticipazione simbolica delle acque che cancellano l’uomo vecchio e fanno rinascere l’uomo nuovo che vive nella giustizia e nella santità”(G. Ravasi, id.). L’Avvento rivela che quest’aurora del mondo nuovo è la Madre di Gesù, Madre di tutti i viventi, di tutti gli uomini concepiti nel grembo e fuori del grembo. A Lei rivolgiamo la supplica della nostra speranza cristiana: “Santa Maria, Madre di Dio, Madre nostra, insegnaci a credere, sperare e amare con te; indicaci la via verso il Salvatore e guidaci nel nostro cammino!”(Enciclica “Spe Salvi”, n. 50, modificato).

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* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

HANUKKAH 2013

http://www.messiev.altervista.org/Hanukkah.htm

HANUKKAH 2013

(Argentino Quintavalle)

(da Chiesa Evangelica)

Come vedremo – Hanukkah – la Festa della Dedicazione o Festa delle Luci, illumina la vita e il ministero del Messia. La sua origine è menzionata profeticamente nel libro di Daniele, ma quello che maggiormente coglie di sorpresa è che il riferimento più chiaro di Hanukkah si trova nel Nuovo Testamento. Hanukkah è una celebrazione di otto giorni che inizia il giorno 25 del mese di Kislev (novembre/dicembre). Sebbene conosciuta come Festa delle Luci, Hanukkah significa Dedicazione, e il tema di questa festa è la ri-dedicazione (ri-consacrazione) del Tempio di Gerusalemme, dopo averlo liberato dal malvagio potere di un re pagano che l’aveva profanato. Ma per i credenti nel Messia Gesù, la festa ha un significato più profondo. Essere parte del corpo di Cristo significa avere la responsabilità di esprimere Cristo, dedicarsi a perseguire i suoi santi scopi, essendo stati salvati dalla potenza del male. Possiamo anche applicare il principio della dedicazione alle nostre vite in quanto individualmente membri del suo corpo. Siamo chiamati giornalmente a dedicare le nostre vite a Colui che ci ama e proclamare il glorioso vangelo del Messia Gesù, essendo luci in questo mondo di tenebre. Per capire completamente Hanukkah, abbiamo bisogno di conoscere un po’ la storia. La maggior parte di quello che conosciamo riguardo la storia di questa festa si trova nei libri extra-biblici di 1 e 2 Maccabei e negli scritti dello storico giudeo Giuseppe Flavio. Il periodo di tempo tra il Vecchio ed il Nuovo Testamento è stato chiamato “gli anni del silenzio”, ma la verità è che in questo periodo sono accadute molte cose di notevole rilevanza. La storia di Hanukkah è una storia di sopravvivenza, di audacia e di fede vittoriosa. Sono accadute cose troppo importanti per poterle passare sotto silenzio. Il messaggio è che davanti a cose inaspettate, con Dio siamo sempre vittoriosi. La storia risale ad Alessandro il Grande. Partendo dalla Grecia, nel 4° secolo a.C., l’ambizioso Alessandro, all’età di 23 anni, ha iniziato a conquistare il mondo allora conosciuto. Il libro del profeta Daniele lo ritrae, simbolicamente, dapprima come un leopardo alato e poi come un capro con un corno tra gli occhi, che correva così velocemente tanto da non toccare il suolo (Dan.7:6; 8:5-7). È stato con le sue conquiste che è iniziata l’Ellenizzazione del mondo. Le idee dei filosofi greci, che glorificavano il corpo umano sia nello sport che nell’arte, e la maniera greca di comprendere l’universo che ci circonda, ha permeato il mondo. Queste nuove idee filosofiche hanno cambiato le culture esistenti e hanno cercato d’influire anche sulle religioni dei popoli conquistati. Alla morte di Alessandro nel 323 a.C., c’è stata una spartizione di potere tra quattro dei suoi generali, ed ha segnato l’inizio di un lungo periodo di guerre durato per quasi 200 anni. Il regno è stato diviso in quattro parti, governato da varie dinastie. Alla fine, la dinastia Seleucide/Siriana, sotto il comando di Antioco IV, che si è chiamato Epifane (che vuole “manifestazione di Dio”), ha avuto il controllo della regione che includeva anche Israele. L’obiettivo di Antioco era quello di unificare il suo regno. Egli ha imposto una politica di assimilazione della cultura ellenista, senza alcun riguardo alla cultura ed alle usanze dei popoli conquistati. I greci pensavano che, per essere veramente efficace, questa assimilazione doveva essere applicata a tutti gli aspetti della vita, comprese la lingua, le arti e la religione. Tutto e tutti si dovevano conformare alla maniera greca di vivere, considerata superiore. Questa politica di ellenizzazione, per molti, non è stato affatto un problema. Infatti, i greci erano rispettati per la loro cultura ed anche molti giudei hanno accettato e difeso l’ellenismo. Però, c’era un numero significativo di Giudei che erano terrorizzati dal cambiamento della loro società e si sono rifiutati di sottoporvisi. È iniziata così una massiccia lotta tra culture: Giudaismo contro Ellenismo. Antioco credeva che la religione giudaica fosse l’ostacolo che impediva l’accettazione dell’ellenismo, così ha messo fuori legge il giudaismo e condannato a morte chiunque lo praticasse. Nel Tempio si è praticata la prostituzione sacra. È stato dichiarato illegale il possesso delle Sacre Scritture. Famiglie intere di giudei sono state uccise per aver voluto osservare il sabato e la circoncisione. Molte famiglie, quando si scopriva che avevano circonciso i loro figli, venivano crocifisse con i neonati impiccati sui loro colli. Nonostante queste misure raccapriccianti ed il clima di terrore, molti giudei si sono rifiutati di assimilarsi alla cultura greca. Nel 167 a.C., Antioco Epifane ha marciato su Gerusalemme, è entrato nel Tempio e l’ha saccheggiato. Vi ha eretto un’immagine del suo dio, Zeus, e sull’altare sacro vi ha sacrificato un maiale. I giudei “ribelli”, invece di chiamarlo Antioco Epifane (manifestazione di Dio), l’hanno chiamato Epimene – che è l’equivalente greco per “pazzo”. Egli ha inviato i suoi soldati nelle campagne, distruggendo villaggi e sinagoghe e costringendo gli abitanti a partecipare alla celebrazione di Zeus con una festa del maiale. Quando sono entrati nella città di Modin, la gente è stata fatta riunire nella piazza della città dai soldati greco-siriani, è stato fatto costruire un altare ed il vecchio sacerdote Mattatia avrebbe dovuto sacrificare un maiale affinché la cittadinanza lo mangiasse. Mattatia si è rifiutato. A questo punto, un uomo del villaggio si è offerto di collaborare con i greco-siriani. Come l’uomo si è avvicinato al maiale, Mattatia gli è andato incontro ed ha ucciso il collaborazionista. I cinque figli di Mattatia hanno preso le loro armi, colpito i soldati, e poi sono fuggiti verso le colline. Si sono uniti a loro molti altri Giudei, ed insieme hanno iniziato una rivolta contro il potente impero greco-siriano. Poco dopo, Mattatia è morto e suo figlio Giuda ha assunto la guida del gruppo, divenuto noto come il gruppo dei «Maccabei». Ci sono due teorie riguardo questo nome. Il primo e più comune è che derivi dalla parola maqqabôt, « martello », dalla radice maqab. Si crede che a Giuda sia stato dato il nome di maqqabôt per la sua grande forza. La seconda teoria è che la parola « maqqabôt » sia un acrostico – « Mi kamokha ba’elim Adonai » che significa, « chi tra i potenti è simile a te, o Signore?”. Si crede che “maqqabôt” sia stato il grido di battaglia dei Giudei che hanno combattuto contro l’esercito Siriano. Sotto la conduzione di Giuda e di fronte ad una siffatta disparità di forze, i « ribelli » hanno adottato la tattica della guerriglia, ed in seguito hanno sorpreso e sconfitto l’esercito Siriano mandato contro di loro per domare la rivolta. Convinti della fedeltà di Dio, i “ribelli” si sono spinti fino a Gerusalemme, l’hanno liberata dai Siriani ed hanno riconquistato il Tempio. Hanno buttato giù la statua di Zeus e rimosso l’altare contaminato, costruendone uno nuovo. È stata fissata una data per la riconsacrazione del Tempio – il 25 di Kislev, lo stesso giorno nel quale, tre anni prima, Antioco aveva emesso le sue leggi anti-giudaiche ed aveva commesso «l’abominazione della desolazione». Nel Luogo Santo del Tempio, con grande gioia dei conquistatori Giudei, è stata ritrovata la grande menorah, che era il simbolo della luce di Dio. Era stata danneggiata, ma essi l’hanno riparata ed hanno cercato lo speciale olio per accenderla. In uno dei magazzini hanno trovato una sola bottiglia d’olio, che era sufficiente solo per un giorno e la procedura per la sua preparazione richiedeva otto giorni. Essi erano di fronte alla decisione se fare l’olio ed aspettare otto giorni per accendere la menorah, dando così il tempo ai Siriani di riorganizzarsi ed attaccare, oppure accenderla subito e sperare che la gente, vedendo che la luce di Dio era ancora una volta nel Tempio, si unisse alla lotta insieme a loro. Il solo pensiero di riaccendere la luce per vederla splendere di nuovo era una cosa che toccava il cuore. Inoltre, lo zelo per la riconsacrazione del Tempio era così forte che, malgrado il dilemma, essi decisero di accendere il candelabro. Dio ha mostrato la Sua approvazione per gli atti di valore e di zelo dei Maccabei, quando l’olio, che doveva durate per un solo giorno, è miracolosamente durato per tutti gli otto giorni, fino a quando era pronto il nuovo olio santo. Il sentimento nazionale è cresciuto a tal punto che i Siriani non hanno più potuto riprendere Gerusalemme. Giuda stabilì che questo evento sarebbe stato ricordato con una festa annua, Hanukkah, la Festa della Dedicazione. Un detto tradizionale è nato dalla storia di Hanukkah: «nes gadol haya sham», che vuole dire, «un grande miracolo è accaduto». Perciò, questa festa di 8 giorni è conosciuta anche come «Festa delle Luci». Ci sono alcune tradizioni associate alla commemorazione di Hanukkah, ma voglio concentrarmi su quello che, in maniera molto chiara, mostra un simbolismo Messianico. Durante la festa, veniva usata una menorah speciale. L’Hanukkah Menorah ha nove bracci invece dei normali sette. Quello chiamato «Shamash» o «Servitore» si trova ad un lato oppure in mezzo ma in posizione più elevata. La prima notte, viene messa una candela nello Shamash e una alla fine. Si accende lo Shamash, e poi con esso si accende l’altra candela. La seconda notte, si aggiunge una candela, e così via fino alla fine degli otto giorni. Durante l’accensione, la famiglia recita una tradizionale preghiera di benedizione. È della candela Shamash di cui voglio parlare. La candela centrale, lo Shamash, il Servitore – ci ricorda Gesù e quello che egli ha detto di sé stesso: «il Figliuol dell’uomo non è venuto per esser servito ma per servire» (Mat.20:28). Come lo Shamash è l’unica fonte di luce per le altre candele, così Gesù è l’unica fonte di luce delle nostre vite. Vediamo in Giov.1:9 che «La vera luce che illumina ogni uomo, era per venire nel mondo». Per i credenti in Gesù la metafora è significativa: Gesù, la «luce del mondo» (Giov.8:12), è venuto come un servitore (Mar.10:45) per dare a tutti la luce (Giov.1:4,5), in modo da poter diventare luce per gli altri (Mat.5:14). Per la comunità ebraica, Hanukkah è diventata un tempo per esprimere la speranza Messianica, in quanto è un ricordo di liberazione. Noi sappiamo che il vero Shamash è Gesù, la Luce del mondo. Ho già detto che la citazione più chiara di Hanukkah si trova nel Nuovo Testamento, e precisamente in Giov.10:22-30. Leggiamo che Gesù era a Gerusalemme per celebrare la festa della Dedicazione ed è in quella occasione che egli ha scelto di dichiarare pubblicamente la sua divinità – dichiarare sé stesso come Messia. Il passaggio inizia: «In quel tempo ebbe luogo in Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era d’inverno, e Gesù passeggiava nel tempio, sotto il portico di Salomone». (vv.22,23). Gli Israeliti dei tempi di Gesù conoscevano gli eventi che avevano portato alla Festa della Dedicazione, quando gli si sono avvicinati nel Tempio. Era nel contesto di quella storia che gli hanno chiesto: «Se tu sei il Cristo diccelo apertamente» (v.24). Se egli era veramente il Messia, essi ragionavano, avrebbe dovuto avere il potere di liberare il popolo dalla tirannia dei Romani, così come Dio li aveva liberati dal perverso Antioco. Gesù ha risposto loro con un rimprovero. «Ve l’ho detto, e non lo credete» (v.25). Gesù ha chiaramente affermato la sua Messianicità. Egli ha dichiarato di avere la potenza divina per liberare e sostenere il suo popolo, ma non nel modo che essi speravano ed attendevano: «le opere che fo nel nome del Padre mio, son quelle che testimoniano di me; ma voi non credete, perché non siete delle mie pecore. Le mie pecore ascoltano la mia voce, e io le conosco, ed esse mi seguono; e io do loro la vita eterna, e non periranno mai, e nessuno le rapirà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha date, è più grande di tutti; e nessuno può rapirle di mano al Padre». (vv.25-29). Il potere di cui parlava Gesù non era un potere temporale e materiale. Era spirituale ed eterno – ed era basato sulla fede in lui come Cristo di Dio. La salvezza che egli offriva non era dall’oppressione romana, ma dall’oppressione di Satana, dal peccato e dalla morte. La riconsacrazione del Tempio ricordava la potenza di Dio per mantenere le Sue promesse e preservare il Suo popolo Israele. Ma Uno maggiore del Tempio stava nel portico di Salomone in quel giorno. Egli ha fatto una affermazione sbalorditiva: «Io ed il Padre siamo uno» (v.30). Questo è il ricordo di Hanukkah. Era ancora fresco tra la gente il ricordo che essi avevano rifiutato di sottomettersi ad Antioco. Ora c’è qui Gesù, che sta in piedi nel Tempio e che afferma la sua divinità. La reazione della gente era prevedibile. «I Giudei presero di nuovo delle pietre per lapidarlo» (v.31). E se egli non fosse stato colui che sosteneva di essere, essi avrebbero avuto pienamente ragione a fare questo. Non c’è stato alcun fraintendimento, essi hanno capito perfettamente quello che Gesù esigeva di essere, «Molte buone opere v’ho mostrate da parte del Padre mio; per quale di queste opere mi lapidate voi?» (v.32). I Giudei hanno risposto: «Non ti lapidiamo per una buona opera, ma per bestemmia; e perché tu, che sei uomo, ti fai Dio» (v.33). Quando la gente ha rifiutato Antioco, Dio ha mantenuto la Sua promessa di liberarli miracolosamente. Ma quando i capi Giudei hanno rifiutato Gesù, essi hanno perso un miracolo ben più grande della vittoria che Israele aveva ottenuto sull’esercito Siriano. Essi hanno perso il miracolo dell’Emmanuele, Dio con noi. Quel miracolo ha dato a Gesù il diritto di esercitare la potenza per salvare tutti quelli che vanno a Dio attraverso di Lui. Dio mantiene le Sue promesse, anche quando l’essere umano non riesce a vederlo. Egli ha detto, «Ecco, la giovane concepirà, partorirà un figliuolo, e gli porrà nome Emmanuele…Poiché un fanciullo ci è nato, un figliuolo ci è stato dato, e l’imperio riposerà sulle sue spalle; sarà chiamato Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre eterno, Principe della pace» (Is.7:14; 9:6). Gesù ha adempiuto queste promesse preziose di Dio. In lui, Dio ha dimostrato la Sua fedeltà ad Israele e a tutto il mondo. Quando guardiamo il miracolo di Hanukkah, sappiamo di avere motivo per fare festa. Poiché Dio mantiene le Sue promesse, Egli salverà e sosterrà Israele. Poiché Dio mantiene le Sue promesse, Egli salverà e sosterrà tutti quelli che sono venuti a Lui per mezzo della fede nell’Emmanuele, il nostro Messia Gesù. Poiché Dio mantiene le Sue promesse, Egli ha comprato con sangue ogni credente per essere il Suo proprio Tempio, dove l’Emmanuele, Dio con noi, ha posto la sua residenza. E poiché Dio mantiene le Sue promesse, ci uniamo ad altri nel dedicare noi stessi a vivere per Lui per mezzo della potenza del Ruach haKodesh, lo Spirito Santo che arde dentro di noi. Se non abbiamo mai considerato Hanukkah come una festa, un giorno santo, possiamo incominciare ad apprezzarla. Ricordiamo che ognuno di noi, illuminato dallo Shamash, è ora il Tempio di Dio. Ci è stata data una fiamma eterna – un rifornimento senza fine di « olio nelle nostre lampade ». Facciamo radiosamente bruciare questa fiamma nei nostri cuori. E ora, possa Dio darci luce agli occhi, e farci vedere Gesù nella vita di tutti i giorni. Possa la Sua luce illuminare della Sua presenza le nostre case. Possa Egli permettere ad ognuno di noi di essere come lampade splendenti nel mondo in cui viviamo.  

Publié dans:Ebraismo : feste |on 28 novembre, 2013 |Pas de commentaires »

Murillo, Gesù porta la croce

Murillo, Gesù porta la croce dans immagini sacre Murillo_Esteban_Christ_Carrying_the_Cross

http://fredbroom.blogspot.it/2012/03/passion-appreciating-passion-of-jesus.html

Publié dans:immagini sacre |on 27 novembre, 2013 |Pas de commentaires »

LETTERE PER MEDITARE: ALEF  » א

http://www.atma-o-jibon.org/italiano9/alfabeto_ebraico1.htm

LETTERE PER MEDITARE

ALEF «   א

SALMO 119

(ALEF) 1 Beati quelli che sono integri nelle loro vie, che camminano secondo la legge del SIGNORE. 2 Beati quelli che osservano i suoi insegnamenti, che lo cercano con tutto il cuore 3 e non commettono il male, ma camminano nelle sue vie. 4 Tu hai dato i tuoi precetti perché siano osservati con cura.  5 Sia ferma la mia condotta nell’osservanza dei tuoi statuti! 6 Non dovrò vergognarmi quando considererò tutti i tuoi comandamenti. 7 Ti celebrerò con cuore retto, imparando i tuoi giusti decreti. 8 Osserverò i tuoi statuti, non abbandonarmi mai.

Alef – Lettera muta o vocale

Pronuncia: A,E,I,O,U – a seconda della vocale*

Esempio: ECHAD (uno) oppure ACH (fratello).

Il valore numerico (Ghematria) della Alef è 1

La lettera alef rappresenta Dio, Uno, Unico ed Eterno. La forma grafica della lettera alef simbolizza la natura infinita ed eterna di Dio. Essa consiste di tre parti: il segmento superiore destro è una Yod, quello inferiore sinistro è, ancora, una Yod, e queste due lettere sono connesse da una Vav diagonale. Ogni Yod vale 10, e la Vav vale 6. La somma è 26, che è esattamente il valore della somma delle lettere del Nome Divino formato da quattro lettere (Tetragramma Yod=10, He=5 Vav=6, He=5). Questo è il nome che rappresenta Dio come Eterno, perché con queste quattro lettere si possono formare le parole HAYA’ (era) HOVE’ (presente) e IHIE’ (sarà). ALEF sta anche per ADAM (Uomo), la più nobile tra le creazioni di Dio. Le tre lettere che formano la parola ADAM alludono all’unicità dell’essere umano: ALEF per ADAM (uomo), DALET per DIBUR (la capacità di parlare), MEM per MAASE’ (la capacità di fare ). Tutte le grandi cose si fanno con un primo piccolo passo. Mattone su mattone si costruisce una casa, soldo per soldo si mette su una fortuna. La ALEF (uno), cresce e diventa ELEF (mille), semplicemente cambiando una vocale. Ma come puo’ un medio essere umano raggiungere la saggezza della Tora’, che e’ profonda come il mare? Come fa un principiante a partire dal riconoscere una alef per diventare un ALUF (maestro) di Tora’? La risposta è data nella Tora’ stessa: « Perche’ questi precetti che io ti comando oggi non sono una cosa straordinaria oltre le tue forze nè sono cosa lontana da te; non è nel cielo.. e neppure al di là del mare..questa cosa è molto vicina a te: è nella tua bocca, è nel tuo cuore perchè tu possa eseguirla. » (Deuteronomio 30:11) Per spiegare questo un Midrash descrive un ignorante che entra in Sinagoga. Vedendo la gente che studiava la Torà, egli chiese: « Come posso io studiare tutto questo? » Chi ascoltava gli rispose: « Comincia con l’alfabeto, continua con le Scritture, e quindi vai avanti con la Mishnà e la Ghemarà ». Dopo aver sentito ciò, egli pensò e concluse: « Come farò a studiare così tanto? » e se ne andò.

Publié dans:BIBBIA, BIBBIA. A.T. SALMI, biblica, ebraismo |on 27 novembre, 2013 |Pas de commentaires »

« I BAGLIORI DELLA BELLEZZA INCARNATA » – Teologia del restauro dei beni artistici

http://www.giannimanzone.it/Articoli/I%20bagliori%20della%20bellezza%20incarnata.html

« I BAGLIORI DELLA BELLEZZA INCARNATA »

Teologia del restauro dei beni artistici

in Nuntium 21(2003) 128-137

di Gianni Manzone (PUL)

Nell’allocuzione rivolta ai membri della prima Assemblea plenaria della pontificia commissione per i beni culturali della Chiesa, il 12 ottobre 1995, Giovanni Paolo II afferma che con il concetto di «beni culturali» s’intendono «innanzitutto i beni artistici della pittura, della scultura, dell’architettura, del mosaico e della musica, posti al servizio della missione della Chiesa. A questi vanno poi aggiunti i beni contenuti nelle biblioteche ecclesiastiche e i documenti storici delle comunità ecclesiali. Rientrano, infine, in questo ambito le opere letterarie, teatrali, cinematografiche. prodotte dai mezzi di comunicazione di massa». Essi vanno considerate come il volto storico e creativo della comunità cristiana. La traduzione della fede in immagini arricchisce il rapporto con la creazione e con la realtà soprannaturale, rimandando alle narrazioni bibliche e rappresentando le diverse visioni della devozione popolare (Ad Gentes n.21). Le singole comunità cristiane si riconoscono così nelle manifestazioni dell’arte, e dell’arte sacra in particolare, prodotte lungo i secoli per rispondere alle diverse necessità pastorali e culturali.

Per una conservazione contestuale Se le biblioteche possono essere considerate i luoghi di riflessione e gli archivi i luoghi della memoria, il patrimonio artistico della Chiesa è la testimonianza concreta espressa dalle comunità cristiane allo splendore della bellezza nei luoghi del culto, della pietà, della vita religiosa e dello studio. Attraverso la protezione dei beni artistici l’azione della Chiesa favorisce un nuovo umanesimo in vista della nuova evangelizzazione. La Chiesa in tutto l’arco della sua storia «si è servita delle differenti culture per diffondere e spiegare il messaggio cristiano»(GS n.58). Infatti «la fede tende per sua natura ad esprimersi in forme artistiche e in testimonianze storiche aventi un’intrinseca forza evangelizzatrice e valenza culturale di fronte alle quali la Chiesa è chiamata a prestare la massima attenzione»( giovanni paolo II, motu proprio Inde a pontìficatus nostri initio, 25.3.1993). Per questo, specialmente nei paesi di antica, ma già anche in quelli di recente evangelizzazione, si è venuto ad accumulare un abbondante patrimonio di beni culturali caratterizza­ti da un particolare valore nell’ambito della loro finalità ecclesiale.   Le manifestazioni dell’arte sacra sono intimamente legate al vissuto eccle­siale, poiché documentano visibilmente il percorso fatto lungo i secoli dalla Chiesa nel culto, nella catechesi, nella cultura e nella carità. Esse documentano l’evolversi della vita culturale e religiosa, oltrechè il genio dell’uomo. Di conseguenza non possono essere intese in sen­so «assoluto», cioè sciolte dall’insieme delle attività della Chiesa, ma vanno pensate in relazione con la totalità della vita ecclesiale e in riferimento al patrimonio storico-artistico di ogni nazione e cultura. È necessario quindi un approccio complessivo a questo “tesoro” che si inserisce nell’ambito delle attività pastorali, con il compito di riflettere la vita ecclesiale.    I «beni culturali, posti al servizio della missione della Chiesa» comunicano il sacro, il bello, l’antico, il nuovo. Sono quindi parte integrante delle manifestazioni culturali e della testimonianza dei credenti. La comunità cristiana comprende l’importanza del proprio passato, matura il senso di appartenenza al territorio in cui vive, percepisce la peculiarità pastorale del patrimonio artistico. Si tratta dunque di creare una coscienza critica al fine di valorizzare il patrimonio storico-artistico prodotto dalle diverse civiltà che si sono avvicendate nel tempo, grazie anche alla presenza della Chiesa, sia come committente illuminata sia come custode attenta delle vestigia antiche (Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa, La funzione dei musei ecclesiastici 2001).    I beni culturali ecclesiali sono patrimonio specifico della comunità cristiana. Nello stesso tempo, in forza della dimensione uni­versale dell’annuncio cristiano, appartengono in qualche modo all’intera umanità. Il loro fine è ordinato alla missione ecclesiale nel duplice e concorrente dinamismo di promozione umana ed evange­lizzazione cristiana. Il loro valore mette in risalto l’opera d’inculturazione della fede. Es­si sono dunque «luogo ecclesiale» in quanto sono parte integrante della missione del­la Chiesa nel tempo e nel presente, e presentano la bellezza dei processi creativi umani intesi a esprimere la «gloria di Dio» (Slavorum Apostoli n.21).    In quest’ottica l’accesso ad essi richiede una particolare predisposizione interiore, poiché qui si vedono non soltanto cose belle, ma nel bello si è chiamati e invitati a percepire il sacro. La loro visita non può quindi intendersi esclusivamente come proposta turistico-culturale, poiché molte delle opere in visione sono espressione di fede degli autori e rimandano al sensus fidei della comunità. Tali opere vanno quindi lette, comprese, fruite nella loro complessità e globalità, onde comprenderne l’autentico, originario e ultimo significato. “Il venerato ricordo di ciò che ha detto e fatto Gesù, della prima comunità cristiana, della Chiesa dei martiri e dei padri, dell’espandersi del cristianesimo nel mondo, è efficace motivo per lodare il Signore e ringraziarlo delle « grandi cose » che ha ispirato al suo popolo”. I beni artistici non devono acquisire, a causa della secolarizzazione, un significato quasi esclusivamente estetico. Il loro valore estetico non può essere distaccato totalmente dalla sua funzione pastorale, oltreché dal contesto storico, sociale, ambientale, devozionale del quale è peculiare espressione e testimonianza.

La cultura della memoria È a tutti noto l’impegno della Chiesa, durante l’intero arco del­la sua storia, nei confronti del proprio patrimonio storico e artistico, come appare evidente dai documenti dei sommi pontefici, dei concili ecumenici, dei sinodi locali e dei singoli vescovi. Tale cura si è espressa sia nella committenza di opere d’arte, destinate princi­palmente al culto e al decoro dei luoghi sacri, sia nella loro tutela e conservazione. «La volontà da parte della comunità dei credenti, e in particolare delle istituzioni ec-clesiastiche, di raccogliere sin dall’epoca apostolica le testimonianze della fede e coltivarne la memoria, esprime l’unicità e la continuità della Chiesa che vive questi tempi ultimi della storia”. Attraverso i beni culturali la Chiesa esercita il magistero pastorale della memoria e della bellezza. “Nella mens della Chiesa la memoria cronologica porta dunque a una rilettura spirituale degli eventi nel contesto dell’ eventum salutis e impone l’urgenza della con­versione al fine di pervenire all’ ut unum sint» (Pontificia commissione per i beni culturali della Chiesa, La funzione pastorale degli archivi ecclesiastici 1997).    Il patrimonio artistico è segno del divenire storico, dei cambiamenti culturali, della caducità contingente. In coerenza con la logica dell’incarnazione, rappresenta una «reliquia» del precedente vissuto ecclesiale, ordinata all’odierno sviluppo dell’opera di inculturazione della fede. Narra la storia della comunità cristiana attraverso ciò che testimoniano le diverse ritualizzazioni, le molteplici forme di pietà, le variegate congiunture sociali, le spe­cifiche situazioni ambientali. Presenta la bellezza di quanto è stato creato a) per il culto, al fine di evocare l’inesprimibile «gloria» divina; b) per la catechesi, al fine di infondere me­raviglia nel racconto evangelico; c) per la cultura, al fine di magnificare la grandezza della creazione; d) per la carità, al fine di evidenziare l’essenza del Vangelo. Appartiene alla complessità irriducibile dell’operato della Chiesa nel tempo per cui è «realtà viva» (Pontificia commissione per i beni culturali della Chiesa, Necessità di inventariare i beni culturali 1999).    La Chiesa fin dai tempi più antichi comprese l’importanza dei beni culturali nell’espletamento della sua missione. Infatti a tutto ciò che «attraverso i secoli in qualsiasi modo le appartenne» diede dignità d’arte, imprimendovi «come un riflesso della propria bellezza spirituale» (Circolare della Segreteria di Stato di sua Santità ai rev.di ordinari d’Italia 1–IX-1924). Essa inoltre non solo è stata committente d’arte e di cultura, ma anche si è prodigata per la salvaguardia e la valo­rizzazione dei propri beni culturali, come si può evincere da una pur rapida indagine storica.    Dell’importanza data dalla Chiesa alle opere d’arte sono valida testimonianza le pitture delle catacombe, lo splendore delle chiese e il pregio delle suppellettili sacre. Il Liber pontificalis e gli Inventari conservati nell’Archivio segreto vaticano documentano quale assidua cura ponessero i papi nell’ornare le chiese e come gli oggetti d’arte fossero ben presto considerati patrimonio da curare con attenzione. In epoca antica un primo intervento da parte del magistero papale sul riconoscimento del valore dell’arte sacra avvenne per opera del papa Gregorio Magno (590-604). A concludere la lotta iconoclasta, che travagliò per molti decenni la Chiesa d’Oriente, con notevoli ripercussioni in Occidente e a dettare i criteri dell’iconografia cristiana fu poi il concilio Niceno II (787). Per tutto il Medioevo è noto come gli ordini monastici (specialmente i benedettini) e gli ordini mendicanti abbiano coltivato una grande attenzione verso i beni artistici, fino a caratterizzarne lo stile e a emanare norme che talvolta sono entrate a far parte delle stesse regole religiose. Gli storici vedono, inoltre, nella preghiera d’istituzione degli ostiarii (databile forse nella metà del III secolo) un primo impegno per la tutela dei beni da parte della Chiesa. Ben presto apparvero numerosi interventi normativi dei Pontefici, specialmente per quanto riguarda l’alienazione o la donazione di beni culturali: infliggevano gravi pene, non esclusa la scomunica, a coloro che procedevano a tali atti senza le debite autorizzazioni. Non solo i pontefici, ma anche i concili ecumenici si occuparono della tutela dei beni culturali. Al riguardo possono essere ricordati il concilio Costantinopolitano IV (869-70) e il secondo concilio di Lione (1274). In particolare il concilio di Trento, oltre a ribadire con un decreto la sua posizione contro l’iconoclastia, aggiunse un elemento nuovo e assai importante, cioè l’appello fatto ai vescovi di istruire i fedeli sul significato e sull’utilità delle immagini sacre per la vita cristiana. Il 28 novembre 1534 il papa Paolo III nominò per la prima volta un commissario per la conservazione dei beni culturali anti­chi.    La preoccupazione della Chiesa che quanto era ordinato al culto dovesse essere d’indiscutibile valore artistico è evidente nelle istruzioni sulla musica sacra di Pio X del 22 novembre 1903 e nell’enciclica di Pio XII Mediator Dei (1947). L’attuale Codice di diritto canonico del 1983. nel canone 1283, nn. 2-3, ribadisce la norma del Codice del 1917, aggiungendo tra i beni da inventariare anche tutti quei beni mobili che comunque riguardano i beni culturali. L’inventariazione «accurata e detta­gliata» è di fondamentale importanza, poiché, mentre consente un’analitica ricognizione del patrimonio storico-artistico, promuove l’acquisizione di una «cultura della memoria» (Necessità di inventariare i beni culturali, o.c. ). Il dissolversi dell’unità culturale in tante società del mondo moderno, a causa della frammentazione ideologica ed etnica, può essere efficacemente bilanciata con la riscoperta del proprio pas­sato, delle radici comuni, della vicenda storica, della memoria cul­turale di cui il patrimonio storico-artistico è espressione. Questo, ricorda Giovanni Paolo II, visibilizzando l’azione pastorale della Chiesa in un determinato territorio, “dà un volto concreto e fruibile alla memoria storica del cristianesimo» (Messaggio ai partecipanti alla Assemblea plenaria della Pontificia commissione per i beni culturali della Chiesa, 25.9.1997).

La Bellezza che salva I beni culturali, in quanto espressione della memoria sto­rica, permettono di riscoprire il cammino di fede attraverso le ope­re delle varie generazioni. Per il loro pregio artistico, rivelano la ca­pacità creativa di artisti, artigiani e maestranze locali che hanno saputo imprimere nel sensibile il proprio senso religioso e la devozione della comunità cristiana. Per il contenuto culturale, consegnano alla società attuale la storia individuale e comunitaria della sapienza umana e cristiana nell’ambito di un particolare territorio e di un determinato periodo storico. Per il loro significato liturgico, sono ordinati specialmente al culto divino. Per la loro destinazione universale, consentono a ciascuno di esserne il fruitore senza diventarne il proprietario esclusivo. Il valore che la Chiesa riconosce ai propri beni culturali spiega «la volontà da parte della comunità dei credenti, e in particolare delle istituzioni ecclesiastiche, di raccogliere fin dall’epoca apostolica le testimonianze della fede e coltivarne la memoria, esprime l’unicità e la continuità della Chiesa che vive questi tempi ultimi della storia» (La funzione pastorale degli archivi ecclesiastici).    In questo contesto la Chiesa considera importante la trasmissione del proprio patrimonio di beni culturali. Essi rappresentano infatti un anello essenziale della catena della tradizione; sono la memoria sensibile dell’evangelizzazione; diventano uno strumento pastorale. Ne consegue allora «l’impegno di restaurarli, custodirli, catalogarli, difenderli» ai fini di una loro «valorizzazione, che ne favorisca una migliore conoscenza e un adeguato utilizzo tanto nella catechesi quanto nella liturgia» (giovanni paolo II, Allocuzione ai partecipanti all’Assemblea plenaria della Pontificia commissione per i beni culturali della Chiesa, 12.10.1995). Il patrimonio storico-artistico, radicato sul territorio e direttamente collegato all’azione della Chiesa, non si riduce alla semplice «raccolta di antichità e curiosità». Anche se tanti manufatti non svolgono più una specifica funzione ecclesiale, essi continuano a trasmettere un messaggio che le comunità cristiane viventi in epoche lontane hanno voluto consegnare alle successive generazioni. A questo fine Giovanni Paolo II esorta: “Siano ben realizzate la raccolta e la custodia dell’intero patrimonio artistico e storico in tutto il territorio, per essere a disposizione di tutti coloro che ne hanno interesse”( Pastor bonus n. 102).    Per adempiere alla propria missione pastorale, la Chiesa è im­pegnata a mantenere il patrimonio storico-artistico nella sua fun­zione originaria, indissolubilmente connessa con la proclamazione della fede e con il servizio della promozione integrale dell’uomo. Viene così sottolineata la dimensione specifica del bene culturale di carattere religioso, anteriore agli stessi usi ai quali sarà ordinato. Il tesoro d’arte ereditato dalla Chiesa va conservato, perché esso «è come la veste esteriore e l’orma materiale della vita so­prannaturale della Chiesa» (Circolare della Segreteria di Stato 1924).    In forza del suo valore pastorale, il patrimonio storico-artistico è ordinato all’animazione del popolo di Dio. Esso giova all’educazione alla fede e alla crescita del senso di appartenenza dei fedeli alla propria comunità. In molti casi esso è espressione dei desideri, dell’ingegno, dei sacrifici e soprattutto della pietà di per­sone di ogni condizione sociale, che si riconoscono nella fede. Il tesoro artistico d’ispirazione cristiana da dignità al territorio e co­stituisce un’eredità spirituale per le future generazioni. Esso è ri­conosciuto come mezzo primario d’inculturazione della fede nel mondo contemporaneo, poiché la via della bellezza apre alle di­mensioni profonde dello spirito e la via dell’arte d’ispirazione cristiana istruisce tanto i credenti quanto i non credenti. Soprattutto nell’ambito della celebrazione dei divini misteri, i beni culturali contribuiscono a far risplendere per dignità, decoro e bellezza, i segni e i simboli delle realtà spirituali (Sacrosanctum Concilium n.122).

Le tracce del Transitus Domini «La Chiesa, maestra di vita, non può non assumersi anche il ministero di aiutare l’uo­mo contemporaneo a ritrovare lo stupore reli­gioso davanti al fascino della bellezza e della sapienza che si sprigiona da quanto ci ha con­segnato la storia. Tale compito esige un lavoro diuturno e assiduo di orientamento, di in­coraggiamento e di interscambio» (Messaggio…, 25.9.1997). Si tratta “di riprendere i germi di verità seminati dalle singole generazioni, di lasciarsi illuminare dai bagliori della bellezza incarnata nelle opere sensibili, di riconoscere le tracce del transitus Domini nella storia degli uomini” (paolo VI, Discorso ai partecipanti al Convegno degli archivisti ecclesiastici.26.9.1963).    La cura del patrimonio storico-artistico ecclesiastico è un fatto di civiltà, che coinvolge la Chiesa in primo piano. Essa si è sempre dichiarata «esperta in umanità» (PP n.13) ha favorito in tutte le epoche lo sviluppo delle arti liberali e ha promosso la cura di quanto è stato creato per adempiere alla missione evangelizzatrice. Infatti, come ricorda Giovanni Paolo II, «quando la Chiesa chiama l’arte ad affiancare la pro­pria missione, non è soltanto per ragioni di estetica, ma per obbedire alla « logica » stessa della rivelazione e dell’incarnazione» (giovanni paolo II, Allocuzione L ‘importanza del patrimonio artistico nell’e­spressione della fede e nel dialogo con l’umanità, 12.10.1995).    La testimonianza di fede delle passate generazioni attraverso reperti sensibili viene riscoperta e rivissuta. I beni culturali conducono inoltre alla percezione della bellezza diversamente im­pressa in opere antiche e moderne, così che orientano cuore, mente e volontà a Dio. «Dai siti archeologici alle più moderne espressioni dell’arte cristiana, l’uomo contemporaneo deve poter rileggere la storia della Chiesa, per essere così aiutato a riconoscere il fascino misterioso del disegno salvifico di Dio»(Messaggio…, 25.9.1997). Questi ricordano, attraverso scarni reperti o insigni opere, le passate epoche evidenziando, con la bellezza di quanto si è conservato, la forza creativa dell’uomo congiunta alla fede dei credenti. In questa prospettiva i musei e i “tesori” della Chiesa assolvono pertanto a una funzione magisteriale e catechetica, fornendo anche una prospettiva storica e un godimento estetico. Tali espressioni artistiche «sono tanto più orientate a Dio e alla sua lode e gloria, in quanto nessun altro fine è loro assegnato se non contribuire il più efficacemente possibile a indirizzare pienamente le menti degli uomini a Dio” (Sacrosanctum Concilium n.122).

GIANNI  MANZONE 

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