San Francesco D’Assisi

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Vita%20Spirituale/04-05/09-San_Francesco_Eucarestia.html
SAN FRANCESCO E L’EUCARESTIA
San Francesco amò grandemente la liturgia e da essa trasse nutrimento per la sua vita interiore. E volle che fosse così anche per i suoi frati. Egli stabilì che usassero la liturgia della curia papale e fu per questo motivo che i francescani, nel loro dinamismo e nella loro diffusione, contribuirono a rendere universale questa liturgia.
È per il loro influsso e per la revisione del breviario e del messale compiuta dal loro quarto generale, P.Aimone da Faversham, che messale e breviario francescano, divennero di fatto il messale e il breviario della chiesa intera. L’Ordine Francescano nacque in un momento in cui quella che noi chiamiamo “partecipazione attiva e consapevole del popolo alla vita liturgica” era già perduta. Il latino, ormai, non era più inteso dal popolo.
Nel fervore di rinascita della vita dei Comuni si andava affievolendo il senso religioso dei laici verso i sacerdoti e del popolo in genere verso la gerarchia ecclesiastica. Frattempo, si stava fissando il ciclo liturgico con una ricchezza e una varietà talvolta eccessiva e confusa.
Inoltre, per svariate ragioni, alla diffusione della fede e al prestigio, anche materiale, della Chiesa, non corrispondeva sempre un’intensità di vita cristiana consapevole e profonda.
Il distacco tra chierici, dotti e potenti, e i laici, che non sapevano il latino e si occupavano dei traffici e dei lavori di questo mondo, si proiettava e si approfondiva nella vita liturgica. In particolare veniva a soffrirne l’aspetto sacramentale della liturgia stessa, soprattutto quello eucaristico. Comunione e culto della presenza reale erano fortemente trascurati.
Un’offerta viva
In questo contesto si colloca il forte amore di Francesco per l’Eucaristia. Il culto che ne consegue è una chiara eredità peculiare e singolare dei figli di Francesco. È certo che al centro della vita di Francesco stava il Cristo: il Cristo del Vangelo a cui egli voleva conformarsi in tutto, “l’altissimo Figlio di Dio”, il cui “santissimo corpo e il sangue suo… solamente i sacerdoti consacrano ed essi soli amministrano agli altri”.
Di qui la venerazione di Francesco per i sacerdoti, il restauro e la cura per le chiese povere, il culto per l’Eucaristia, la premura di assistere ogni giorno al sacrificio della Messa, con adesione piena, per cui “riteneva grave segno di disprezzo – afferma il suo biografo Tommaso da Celano – non ascoltare ogni giorno la Messa, se il tempo lo permetteva. Francesco si comunicava sovente e con tanta devozione da rendere devoti anche gli altri.
Infatti, essendo colmo per questo venerando sacramento, offriva il sacrificio di tutte le sue membra, e quando riceveva l’Agnello immolato, immolava il suo spirito in quel fuoco, che ardeva sempre nell’altare del suo cuore. Un giorno volle mandare dei frati per il mondo con pissidi preziose, perché riponessero in luogo il più degno possibile il prezzo della redenzione, ovunque lo vedessero conservato con poco decoro”.
Francesco voleva inoltre
“che si dimostrasse grande rispetto alle mani del sacerdote, perché ad esse è stato conferito il divino potere di consacrare gli altri. Se mi capitasse – diceva – di incontrare insieme un santo che viene dal cielo e un sacerdote poverello, saluterei prima il prete e correrei a baciargli le mani. Direi infatti: “Oh! Aspetta, San Lorenzo; perché le mani di costui toccano il Verbo di vita e possiedono un potere sovrumano”.
Sorpresa adorante
Si notino in questa citazione i vari elementi accennati: ammirato stupore di fronte al mistero eucaristico, espressione della benevolenza divina; partecipazione quotidiana alla Messa; comunione frequente, offerta di se stesso e immedesimazione con il sacrificio di Cristo, tanto da diventare un altare vivente, e questo mi pare essere l’aspetto più interessante di Francesco.
L’Eucaristia, durante la celebrazione e dopo, nella sua realtà salvifica come nelle persone, negli oggetti e nei luoghi che la circondano, è oggetto da parte di Francesco di un unico sguardo di fede, di amore e di venerazione sincera perché Francesco si immedesimava con il mistero eucaristico stesso. Francesco non solo trovava nell’Eucaristia, sacrificio e sacramento, ispirazione e alimento per la sua pietà personale, ma vedeva realmente in essa il centro della fede e della vita cristiana, a cui è ordinato il sacerdozio e tutto il culto.
Egli vedeva nell’Eucaristia il prolungamento dell’Incarnazione e intuiva l’universalità e la perennità del sacrificio di Cristo e la necessità di associarsi ad esso. La sua grande venerazione per il mistero eucaristico lo portava a pregare con queste parole: “ Ti adoriamo, Signore Gesù Cristo, in tutte le tue chiese che sono nel mondo intero e ti benediciamo, poiché con la tua santa croce hai redento il mondo”. Questa preghiera composta dal Santo ha un eminentemente sapore eucaristico e liturgico ed è uno splendido saggio di preghiera francescana.
La fede di Francesco abbracciava tutti i segni esterni della presenza di Cristo, unendo nella preghiera, l’adorazione e la lode, l’Eucaristia e la croce. Per Francesco, dunque, il ricevere il Corpo e il Sangue di Cristo, non è mai un incontro individuale dell’anima con Cristo, ma la partecipazione, anzi la conformazione di tutta la sua persona alla Passione che viene celebrata nell’Eucaristia.
Il Cristo presente nel mistero eucaristico, non è il Cristo del ricordo devoto, ma il Cristo vivente e vivificante nella pienezza della gloria che “riempie presenti e assenti, che sono degni di lui”.
L’Eucaristia quindi come invito alla conformazione a Cristo è perpetuazione dell’Incarnazione e della Passione: un invito pressante alla radicale sequela del Cristo povero:
“O umiltà sublime! O sublimità umile, che il Signore dell’universo, Dio e Figlio di Dio, così si umilii da nascondersi, per la nostra salvezza in poca apparenza di pane! Guardate, frati, l’umiltà di Dio, e aprite davanti a Lui i vostri cuori; umiliatevi anche voi, perché Egli vi esalti. Nulla, dunque, di voi tenete per voi; affinché vi accolga tutti Colui che a voi si dà tutto”.
Giuseppe Bonardi
http://digilander.iol.it/benparker/NET/NUOVI%20FILOCALIA/VARI/Francesco.htm
(il sito è sull’esicasmo)
LA PREGHIERA DI S. FRANCESCO: “CON GESU’ SEMPRE NEL CUORE”
Gesù portava sempre nel cuore, Gesù sulle labbra, Gesù nelle orecchie, Gesù negli occhi, Gesù nelle mani, Gesù in tutte le altre membra
Pregava il Padre suo in segreto
Alla periferia della città c’era una grotta, in cui essi andavano sovente, parlando del «tesoro». L’uomo di Dio, già santo per desiderio di esserlo, vi entrava, lasciando fuori il compagno ad attendere, e, pieno di nuovo insolito fervore, pregava il Padre suo in segreto.
Desiderava che nessuno sapesse quanto accadeva in lui là dentro; e, celando saggiamente a fin di bene il meglio, solo a Dio affidava i suoi santi propositi.
Supplicava devotamente Dio eterno e vero di manifestargli la sua via e di insegnargli a realizzare il suo volere.
Si svolgeva in lui una lotta tremenda, né poteva darsi pace, finché non avesse compiuto ciò che aveva deliberato.
Mille pensieri l’assalivano senza tregua e la loro insistenza lo gettava nel turbamento e nella sofferenza.
Bruciava interiormente di fuoco divino, e non riusciva a dissimulare il fervore della sua anima.
Deplorava i suoi gravi peccati, le offese fatte agli occhi della maestà divina.
Le vanità del passato o del presente non avevano per lui più nessuna attrattiva, ma non si sentiva sicuro di saper resistere a quelle future.
Portava Gesù sempre nel cuore
I frati che vissero con lui, inoltre sanno molto bene come ogni giorno, anzi ogni momento affiorasse sulle sue labbra il ricordo di Cristo; con quanta soavità e dolcezza gli parlava, con quale tenero amore discorreva con Lui. La bocca parlava per l’abbondanza dei santi affetti del cuore, e quella sorgente di illuminato amore che lo riempiva dentro, traboccava anche di fuori.
Era davvero molto occupato con Gesù.
Gesù portava sempre nel cuore, Gesù sulle labbra, Gesù nelle orecchie, Gesù negli occhi, Gesù nelle mani, Gesù in tutte le altre membra.
Quante volte, mentre sedeva a pranzo, sentendo o pronunciando lui il nome di Gesù, dimenticava il cibo temporale e, come si legge di un santo, «guardando, non vedeva e ascoltando non udiva».
C’è di più, molte volte, trovandosi in viaggio e meditando o cantando Gesù, scordava di essere in viaggio e si fermava a invitare tutte le creature alla lode di Gesù.
Proprio perché portava e conservava sempre nel cuore con mirabile amore Gesù Cristo, e questo crocifisso, perchè fu insignito gloriosamente più di ogni altro della immagine di Lui, che egli aveva la grazia di contemplare, durante l’estasi, nella gloria indicibile e incomprensibile, seduto alla «destra del Padre», con il quale l’egualmente altissimo Figlio dell’Altissimo, assieme con lo Spirito Santo vive e regna, vince e impera, Dio eternamente glorioso, per tutti i secoli. Amen!
Si sentiva un peccatore perdonato
Un giorno, pieno di ammirazione per la misericordia del Signore in tutti i benefici a lui elargiti, desiderava conoscere dal Signore che cosa sarebbe stato della sua vita e di quella dei suoi frati.
A questo scopo si ritirò, come spesso faceva, in un luogo adatto per la preghiera. Vi rimase a lungo invocando con timore e tremore il Dominatore di tutta la terra, ripensando con amarezza gli anni passati malamente e ripetendo: «O Dio, sii propizio a me peccatore!»
A poco a poco si sentì inondare nell’intimo del cuore di ineffabile letizia e immensa dolcezza.
Cominciò come a uscire da sé: l’angoscia e le tenebre, che gli si erano addensate nell’animo per timore del peccato, scomparvero, ed ebbe la certezza di essere perdonato di tutte le sue colpe e di vivere nello stato di grazia.
Poi, come rapito fuori di sé e trasportato in una grande luce, che dilatava lo spazio della sua mente, poté contemplare liberamente il futuro.
Quando quella luce e quella dolcezza dileguarono, egli aveva come uno spirito nuovo e pareva un altro.
Poneva tutta la sua fiducia in Dio
In quella fossa, che era sotto la casa, ed era nota forse ad uno solo, rimase nascosto per un mese intero, non osando uscire che per stretta necessità.
Mangiava nel buio del suo antro il cibo che di tanto in tanto gli veniva offerto, e ogni aiuto gli era dato nascostamente. Con calde lacrime implorava Dio che lo liberasse dalle mani di chi perseguitava la sua anima e gli concedesse la grazia di compiere i suoi voti.
Nel digiuno e nel pianto invocava la clemenza del Salvatore e, diffidando di se stesso, poneva tutta la sua fiducia in Dio.
Benché chiuso in quel rifugio tenebroso, si sentiva inondato da indicibile gioia, mai provata fino allora. Animato da questa fiamma interiore, decise di uscire dal suo nascondiglio ed esporsi indifeso alle ingiurie dei persecutori.
Il suo contegno nella preghiera
Quando ritornava dalle sue preghiere personali, durante le quali si trasformava quasi in un altro uomo, cercava di conformarsi quanto più poteva agli altri, per il timore che, se appariva col volto raggiante, il venticello dell’ammirazione non gli togliesse il merito guadagnato. Anzi spesso ripeteva ai suoi intimi: «Quando il servo di Dio nella preghiera è visitato dal Signore con qualche nuova consolazione, deve prima di terminare, alzare gli occhi al cielo e dire al Signore a mani giunte: « Tu, o Signore, hai mandato dal cielo questa dolce consolazione a me indegno peccatore: io te la restituisco, affinché tu me la metta in serbo, perché io sono un ladro del tuo tesoro ! ».
E ancora: «Signore, toglimi il tuo bene in questo mondo, e conservamelo per il futuro ».
E continuava: « Così deve comportarsi, in modo che, quando esce dalla preghiera, si mostri agli altri così poverello e peccatore, come se non avesse conseguito nessuna nuova grazia ».
E spiegava: «Per una mercede di poco valore capita di perdere un bene inestimabile e di provocare facilmente il nostro benefattore a non ridarlo più».
Infine, era suo costume alzarsi a pregare così di nascosto e silenziosamente, che nessuno dei compagni poteva accorgersi che si alzava o pregava. Quando invece alla sera si metteva a letto, faceva rumore e quasi strepito, per far sentire a tutti che andava a coricarsi.
Insegnava a pregare e lodare Dio
Quando, poi, i frati gli chiesero che insegnasse loro a pregare, disse: Quando pregate, dite: Padre nostro, e: «Ti adoriamo, o Cristo, in tutte le tue chiese che sono in tutto il mondo, e ti benediciamo, perché, per mezzo della tua santa croce, hai redento il mondo».
Inoltre insegnò loro a lodare Dio in tutte le creature e prendendo lo spunto da tutte le creature, ad onorare con particolare venerazione i sacerdoti, come pure a credere fermamente e a confessare schiettamente la verità della fede, così come la tiene e la insegna la santa Chiesa romana.
Essi osservavano in tutto e per tutto gli insegnamenti del padre santo e, appena scorgevano qualche chiesa da lontano, o qualche croce, si volgevano verso di essa, prostrandosi umilmente a terra e pregando secondo la forma loro indicata.
Si dimostrava poverello e peccatore
Quando, trovandosi in pubblico, veniva improvvisamente visitato dal Signore, cercava sempre di celarsi in qualche modo ai presenti, perché gli intimi contatti con lo Sposo non si propagassero all’esterno.
Quando pregava con i frati, evitava assolutamente le espettorazioni, i gemiti, i respiri affannosi, i cenni esterni, sia perché amava il segreto, sia perché, se rientrava nel proprio intimo, veniva rapito totalmente in Dio.
Spesso ai suoi confidenti diceva cose come queste «Quando il servo di Dio, durante la preghiera, riceve la visita del Signore, deve dire: « O Signore, tu dal cielo hai mandato a me, peccatore e indegno, questa consolazione, e io la affido alla tua custodia, perché mi sento un ladro del tuo tesoro ».
E quando torna dall’orazione, deve mostrarsi così poverello e peccatore, come se non avesse ricevuto nessuna grazia speciale».
Trascorreva il tempo nella preghiera
Francesco, uomo di Dio, sentendosi pellegrino nel corpo lontano dal Signore, cercava di raggiungere con lo spirito il cielo e, fatto ormai concittadino degli Angeli, ne era separato unicamente dalla parete della carne. L’anima era tutta assetata del suo Cristo e a Lui si offriva interamente nel corpo e nello spirito.
Delle meraviglie della sua preghiera diremo solo qualche tratto, per quanto abbiamo visto con i nostri occhi ed è possibile esporre ad orecchio umano, perché siano d’esempio ai posteri.
Trascorreva tutto il suo tempo in santo raccoglimento, per imprimere nel cuore la sapienza; temeva di tornare indietro se non progrediva sempre.
E se a volte urgevano visite di secolari o altre faccende, le troncava più che terminarle, per rifugiarsi di nuovo nella contemplazione.
Perché a lui, che si cibava della dolcezza celeste, riusciva insipido il mondo, e le delizie divine lo avevano reso di gusto difficile per i cibi grossolani degli uomini.
I suoi luoghi di preghiera
Cercava sempre un luogo appartato, dove potersi unire non solo con lo spirito, ma con le singole membra, al suo Dio.
E se all’improvviso si sentiva visitato dal Signore, per non rimanere senza cella, se ne faceva una piccola col mantello. E se a volte era privo di questo, ricopriva il volto con la manica, per non svelare la manna nascosta.
Sempre frapponeva fra sé e gli astanti qualcosa, perché non si accorgessero del contatto dello sposo: così poteva pregare non visto anche se stipato tra mille, come nel cantuccio di una nave.
Infine, se non gli era possibile niente di tutto questo, faceva un tempio del suo petto (cfr. il parallelo con gli esicasti).
Assorto in Dio e dimentico di se stesso, non gemeva né tossiva, era senza affanno il suo respiro e scompariva ogni altro segno esteriore.
Il suo fervore
Quando pregava nelle selve e in luoghi solitari, riempiva i boschi di gemiti, bagnava la terra di lacrime, si batteva con la mano il petto; e lì, quasi approfittando di un luogo più intimo e riservato, dialogava spesso ad alta voce col suo Signore: rendeva conto al Giudice, supplicava il Padre, parlava all’Amico, scherzava amabilmente con lo Sposo.
E in realtà, per offrire a Dio in molteplice olocausto tutte le fibre del cuore, considerava sotto diversi aspetti Colui che e sommamente Uno.
Spesso senza muovere le labbra, meditava a lungo dentro di sé e, concentrando all’interno le potenze esteriori, si alzava con lo spirito al cielo. In tale modo dirigeva tutta la mente e l’affetto a quell’unica cosa che chiedeva a Dio: non era tanto un uomo che prega, quanto piuttosto egli stesso tutto trasformato in preghiera vivente.
Ma di quanta dolcezza sarà stato inondato, abituato come era a questi trasporti? Soltanto lui lo sa; io non posso che ammirarlo. Solo chi ne ha esperienza, lo può sapere; ma è negato a chi non l’esperimenta. Quando il suo spirito era nel pieno del fervore, egli con tutto l’esteriore e con tutta l’anima completamente in deliquio si ritrovava già nella perfettissima patria del regno dei cieli.
Il Padre era solito non trascurare negligentemente alcuna visita dello Spirito: quando gli si presentava, l’accoglieva e fruiva della dolcezza che gli era stata data, fino a quando il Signore lo permetteva.
Così, se avvertiva gradatamente alcuni tocchi della grazia mentre era stretto da impegni o in viaggio, gustava quella dolcissima manna a varie e frequenti riprese.
Anche per via si fermava, lasciando che i compagni andassero avanti, per godere della nuova visita dello Spirito e non ricevere invano la grazia.
Pregava senza interruzione
Il servo di Cristo, vivendo nel corpo, si sentiva in esilio dal Signore e, mentre al di fuori era divenuto totalmente insensibile, per amor di Cristo, ai desideri della terra, si sforzava, pregando senza interruzione, di mantenere lo spirito alla presenza di Dio, per non rimanere privo della consolazione del Diletto.
Camminando e sedendo, in casa e fuori, lavorando e riposando, con la forza della mente restava così intento nella orazione da sembrare che avesse dedicato ad essa ogni parte di se stesso: non solo il cuore e il corpo, ma anche l’azione e il tempo.
Molte volte veniva investito da tale eccesso di devozione che, rapito al di sopra di se stesso, e oltrepassando i limiti della sensibilità umana, ignorava totalmente quanto avveniva al di fuori, intorno a lui.
Pregava in solitudine
Per raccogliere con maggior raccoglimento l’interiore elargizione delle consolazioni spirituali, si recava nella solitudine e nelle chiese abbandonate, per pregarvi di notte, quantunque anche là provasse le orrende battaglie dei demoni, che venivano a conflitto con lui, quasi con un contatto fisico, e si sforzavano di stornarlo dall’impegno della preghiera.
Ma l’uomo di Dio li metteva in fuga con la potenza e l’instancabile fervore delle preghiere, e così se ne restava solo e in pace.
Riempiva i boschi di gemiti, cospargeva quei luoghi di lacrime, si percuoteva il petto e, quasi dall’intimità di un più segreto santuario, ora rispondeva al giudice, ora supplicava il Padre, ora scherzava con lo Sposo, ora dialogava con l’amico.
Là fu visto, di notte, mentre pregava, con le mani e le braccia stese in forma di croce, sollevato da terra con tutto il corpo e circondato da una nuvoletta rifulgente: così la meravigliosa
luminosità e il sollevarsi del corpo diventavano testimonianza della illuminazione e della elevazione avvenuta dentro il suo spirito.
Su di lui lo spirito di profezia
Indizi sicuri comprovano, inoltre, che durante queste elevazioni, per virtù soprannaturale, gli venivano rivelate le cose incerte ed occulte della sapienza divina, anche se egli non le divulgava all’esterno, se non nella misura in cui urgeva lo zelo della salvezza dei fratelli e dettava l’impulso della rivelazione dall’alto.
La dedizione instancabile alla preghiera, insieme con l’esercizio ininterrotto delle virtù, aveva fatto pervenire l’uomo di Dio a così grande chiarezza di spirito che, pur non avendo acquisito la competenza nelle Sacre Scritture mediante lo studio e l’erudizione umana, tuttavia, irradiato dai fulgori della luce eterna, scrutava la profondità della Scrittura stessa con intelletto limpido e acuto.
Si poso’ su di lui anche lo spirito multiforme dei profeti con tale pienezza e varietà di grazie che, per la potenza mirifica di quello spirito, egli si faceva vedere presente ai suoi frati assenti ed aveva notizia sicura dei lontani.
Penetrava pure i segreti dei cuori, come pure preannunziava gli eventi del futuro. Lo dimostrano con evidenza molti esempi e noi ne riporteremo qui alcuni.
La sua preghiera era efficace
Mentre Francesco attraversava una provincia, gli venne incontro l’abate di un monastero, che lo venerava con profondo affetto.
L’abate scese da cavallo e si trattenne per qualche ora in conversazione con Francesco parlando sulla salvezza dell’anima sua. Al momento del commiato, l’abate gli chiese con viva devozione che pregasse per lui. Gli rispose Francesco: «Lo farò volentieri».
Quando l’abate fu un poco lontano, il Santo disse al suo compagno: «Fratello, fermiamoci un momento, perché voglio pregare per l’abate, come ho promesso». E si raccolse in orazione.
Era infatti abitudine di Francesco, se qualcuno per devozione lo avesse richiesto di pregare Dio per la salvezza della sua anima, di fare orazione più presto che poteva, per timore di scordarsene.
L’abate intanto seguitava il suo cammino. Non si era allontanato molto da Francesco, quando il Signore lo visitò nel cuore. Un soave calore gli soffuse il volto e per un istante si sentì elevato in estasi. Tornato in sé, subito si rese conto che Francesco aveva pregato per lui, cominciò a lodare Dio, e fu ricolmo di letizia nel corpo e nello spirito.
Da quel giorno provò per il Santo una devozione più grande, poiché aveva sperimentato in se stesso l’alta santità di Francesco. E finché visse considerò quello un grande miracolo, e più volte raccontava l’accaduto ai fratelli e agli altri.
La preghiera cibo dell’anima
Una volta, che pioveva a dirotto, Francesco, obbligato dalla malattia, andava a cavallo. Era tutto bagnato, e scese dal giumento, quando volle dire le ore canoniche; e le recitò con fervente devozione e concentrazione, stando immobile sulla strada mentre la pioggia veniva giù senza sosta, come fosse in chiesa o in una celletta.
Disse poi al compagno: « Se il corpo esige di prendere in tutta pace e comodità il suo cibo, che insieme con lui diventerà pasto dei vermi: con quanta pietà e devozione non deve prendere l’anima il suo cibo, che è Dio stesso! »
Invocava il suo dolcissimo Iddio
Andò una notte frate Lione al luogo e all’ora usata per dire mattutino con santo Francesco; e dicendo da capo al ponte, com’egli era usato, Domine, labia mea aperies, e santo Francesco non rispondendo, frate Lione non si tornò addietro, come santo Francesco gli avea comandato, ma con buona e santa intenzione passò il ponte ed entrò pianamente in cella sua, e non trovandolo, si pensò che fusse per la selva in qualche luogo in orazione.
Di che egli esce fuori e al lume della luna il va cercando pianamente per la selva: e finalmente egli udì la voce di santo Francesco e, appressandosi, il vide stare ginocchioni in orazione con la faccia e con le mani levate al cielo, e in fervore di spirito si dicea: «Chi se’ tu, o dolcissimo Iddio mio? Che sono io, vilissimo vermine e disutile servo tuo? »
E queste medesime parole pure ripetea, e non dicea niuna altra cosa.
Per la qual cosa frate Leone, forte maravigliandosi di ciò levò gli occhi e guatò in cielo; e guatando sì vide venire dal cielo una fiaccola di fuoco bellissima e splendentissima, la quale discendendo si posò in capo di santo Francesco; e della detta fiamma udiva uscire voce, la quale parlava con santo Francesco; ma esso frate Lione non intendea le parole.
Vedendo questo e riputandosi indegno di stare così presso a quello luogo santo dov’era quella mirabile apparizione e temendo ancora di offendere santo Francesco o di turbarlo dalla sua considerazione, s’egli da lui fossi sentito, si si tirò pianamente addietro e, stando da lunge, aspettava di vedere il fine.
E guardando fiso, vide santo Francesco stendere tre volte le mani alla fiamma e finalmente dopo grande ispazio, e’ vide la fiamma ritornarsi in cielo.
Di che egli si muove sicuro e allegro della visione e tornavasi alla cella sua.
La sua gioia
Avvenne che un ecclesiastico spagnolo, persona pia, ebbe la fortuna di incontrarsi e di parlare con san Francesco. Tra le altre cose che riferì riguardo ai frati che si trovavano in Spagna, rese felice il Santo con questa notizia: « I tuoi frati nel nostro paese vivono in un povero eremo, e si sono dati questo regime di vita: metà attendono ai lavori domestici e metà alla contemplazione. Ogni settimana, il gruppo degli attivi passa alla contemplazione e quello dei contemplativi all’esercizio del lavoro.
« Un giorno era già stata preparata la tavola, e, dato il segnale per chiamare gli assenti, arrivano tutti, eccetto uno, del gruppo contemplativo. Dopo un po’ vanno alla sua cella per chiamarlo a tavola, ma egli già si nutriva alla mensa ben più lauta del Signore.
« Era prostrato con la faccia a terra, le braccia aperte in forma di croce e non dava segno di vita né col respiro né con altro movimento. Due candelabri accesi, uno al capo e l’altro ai piedi, illuminavano la cella con una luce sfolgorante in modo meraviglioso.
« Lo lasciano in pace per non turbare l’estasi e non svegliare la diletta, sino a che non voglia». Però i frati cercano di osservare attraverso le fessure della cella, stando dietro il muro e spiando per le inferriate. Per essere brevi, mentre gli amici sono intenti ad ascoltare colei che se ne stava nel giardino, all’improvviso scompare tutto quel bagliore ed il frate ritorna in se stesso. Subito si alza e, recatosi a tavola, si accusa di essere giunto in ritardo.
Ecco – concluse l’ecclesiastico spagnolo – quanto è accaduto nella nostra terra! Francesco non stava in sé dalla gioia, inebriato com’era dal profumo dei suoi figli. Subito si mise a lodare il Signore e, come se il sentire parlare bene dei frati fosse l’unica sua gloria, esclamò dal più profondo del cuore:
« Ti ringrazio, Signore, che santifichi e guidi i poveri, perché mi hai riempito di gioia con queste notizie! Benedici, ti prego, con la più ampia benedizione e santifica con una grazia particolare tutti quelli che rendono odorosa di buoni esempi la loro professione religiosa! »
Era compassionevole con tutti
Francesco voleva un giorno recarsi ad un eremo per dedicarsi più liberamente alla contemplazione; ma, poiché era assai debole, ottenne da un povero contadino di poter usare del suo asino.
Si era d’estate, ed il campagnuolo che seguiva il Santo arrampicandosi per sentieri di montagna, era stanco morto per l’asprezza e la lunghezza del viaggio.
Ad un tratto, prima di giungere all’eremo, si sentì venir meno riarso dalla sete. Si mise a gridare dietro al Santo, supplicandolo di avere misericordia di lui, perché senza il conforto di un po’ d’acqua sarebbe certamente morto.
Il Santo, sempre compassionevole verso gli afflitti, balzò dall’asino, e inginocchiato a terra alzò le mani al cielo e non cessò di pregare fino a quando si senti esaudito. «Su, in fretta – gridò al contadino – là troverai acqua viva, che Cristo misericordioso ha fatto scaturire ora dalla roccia per dissetarti».
Mirabile compiacenza di Dio, che piega così facilmente ai suoi servi! L’uomo bevve l’acqua scaturita dalla roccia per merito di chi pregava e si dissetò alla durissima selce. Non vi era mai stato in quel luogo un corso d’acqua, né si trovò dopo, per quante ricerche siano state fatte.
Quale meraviglia, se un uomo ripieno di Spirito Santo riunisce in sé le opere mirabili di tutti i giusti? Non è certo cosa straordinaria, se ripete azioni simili a quelle di altri Santi chi ha il dono di essere unito a Cristo per una grazia particolare.
Amò sino alla fine i suoi frati
Poi il Santo alzò le mani al cielo, glorificando il suo Cristo, perché poteva andare libero a lui senza impaccio di sorta.
Ma per dimostrare che in tutto era perfetto imitatore di Cristo suo Dio, amò sino alla fine i suoi frati e figli, che aveva amato fin da principio.
Fece chiamare tutti i frati presenti nella casa, e cercando di lenire il dolore che dimostravano per la sua morte, li esortò con affetto paterno all’amore di Dio.
Si intrattenne a lungo sulla virtù della pazienza e sull’obbligo di osservare la povertà, raccomandando più di ogni altra norma il santo Vangelo. Poi, mentre tutti i frati gli erano attorno, stese la sua destra su di essi e la pose sul capo di ciascuno cominciando dal suo vicario, disse:
«Addio voi tutti figli miei, vivete nel timore del Signore e conservatevi in esso sempre! E poiché si avvicina l’ora della prova e della tribolazione, beati quelli che persevereranno in ciò che hanno intrapreso! Io infatti mi affretto verso Dio e vi affido tutti alla sua grazia».
http://www.santiebeati.it/immagini/?mode=view&album=24750&pic=24750AU.JPG&dispsize=Original&start=20
http://www.mistagogia.net/E12.asp
PER IL 2 OTTOBRE: I SS ANGELI CUSTODI
La meditazione luminosa di San Bernardo sugli angeli
Introduzione: Riverenza, devozione, fiducia verso gli angeli
“Amiamo affettuosamente gli angeli di Dio, che saranno un giorno nostri coeredi, mentre ora sono nostre guide e tutori… Essi ci custodiscono in tutte le nostre vie. Sono fedeli, sono prudenti, sono potenti. Perché trepidare? Soltanto seguiamoli, stiamo loro vicini e restiamo nella protezione del Dio del cielo”[1].
E’ bello inoltrarci nella riflessione che fa Bernardo da Chiaravalle[2] intorno agli angeli partendo proprio dal salmo 90 e potremmo proprio constatare come questo grande personaggio della Chiesa abbia scritto molto sugli angeli, avendo avuto intuizioni di grande valore teologico e spirituale. Possiamo dire senza esagerare che in questa riflessione saliamo la scala che ci porta in cielo.
Il testo citato sopra è tratto dai sermoni sul salmo 90:
Egli ( Dio Padre) darà ordine ai suoi angeli
di custodirti in tutti i tuoi passi.
Sulle loro mani ti porteranno
perché non inciampi nella pietra il tuo piede.
Commenta entusiasta S. Bernardo:
“Queste parole quanta riverenza devono suscitare in te, quanta devozione recarti, quanta fiducia infonderti! Riverenza per la loro presenza, devozione per la loro benevolenza, fiducia per la loro custodia. Sono presenti, dunque, e sono presenti a te, non solo con te, ma anche per te. Sono presenti per proteggerti, sono presenti per giovarti”[3].
1. I nove cori angelici e la loro configurazione.
S.Bernardo oltre al commento al salmo 90, in cui fa dei sermoni stupendi, in un’altra opera, nei sermoni sul Cantico dei Cantici inserisce dei brani meravigliosi sugli angeli. Inoltre nel famoso libro “Considerazioni” [4] che Bernardo ha indirizzato al suo discepolo monaco che divenne papa, Eugenio III, [5] al quale suggerisce come si deve fare il papa, svolge una stupenda descrizione sugli angeli dipingendo le loro caratteristiche. La riporto perché sono parole toccanti e sorprendenti:
“Gli angeli sono spiriti potenti, gloriosi, beati, distinti nelle loro persone, divisi secondo la loro dignità, fedeli fin dall’inizio al loro ordine, perfetti nella loro natura, eterei nel corpo, immortali, fatti e non creati impassibili, vale a dire per grazia e non per natura; puri nella mente, buoni nella volontà, devoti a Dio, totalmente casti, unanimi nella concordia, sicuri nella loro pace, creati da Dio, consacrati alla sua lode e al suo servizio”[6] (De consideratione 5,4,7)
Queste pennellate formano un quadro su cui potremo fermarci a meditare. Bernardo li descrive come se li vedesse; infine dice “creati da Dio” , perciò sono creature e non dèi, ma spiriti immortali consacrati totalmente alla sua lode, obbedienti al suo servizio, ossia nella piena disponibilità ad eseguire i suoi ordini verso le creature umane. Vi è un duplice elemento che compone la figura angelica: sono esseri eternamente contemplativi immersi nella santità, nella bontà di Dio, insieme restano disponibilissimi ad essere inviati come Dio vuole, se e quando vuole, presso le creature umane in modo che queste siano aiutate e sorrette nel cammino verso Dio. Questi due aspetti noi li potremmo chiamare “ la contemplazione e l’azione” che negli angeli coesistono in maniera armonica e complementare.
In un altro testo, Bernardo dice che quando sono al servizio degli uomini, non si distaccano da Dio, ma continuano la contemplazione di Dio e intanto sono a disposizione delle creature umane, senza perdere mai la loro identità specifica di essere consacrati alla lode divina e insieme generosi al suo servizio.
Bernardo accetta la divisione gerarchica in nove cori secondo l’elenco già sistemato dallo Pseudo Dionigi[7] che poi è stato inserito nella tradizione anche occidentale latina da S.Gregorio Magno. [8] Egli ha accolto questa divisione dei cori ma dando ad ognuno un significato, cominciando dal coro più infimo, quello degli angeli, salendo poi agli arcangeli fino ai più eccelsi. Bernardo vede e descrive le molteplici missioni angeliche svolte nei confronti nostri e della storia degli uomini fino alla consumazione finale.
Gli angeli sono spiriti assegnati ad ogni uomo per assistere coloro che devono ereditare la vita eterna. Ognuno di noi ha un angelo accanto a sé perché possiamo meritare la salvezza.
Poi parla degli arcangeli, che sono iniziati ai misteri divini e sono inviati presso gli uomini solo per missioni gravissime e di eccezionale importanza, come Gabriele per l’annuncio dell’incarnazione del Verbo a Maria santissima. Poi vengono le Virtù, superiori agli arcangeli, che intervengono presso gli uomini con segni prodigiosi sia nella natura sia nell’uomo o nella società.
Questo è l’ordine più basso, vicino agli uomini: angeli, arcangeli e virtù.
Poi ci sono le potestà che possiedono la forza per annientare le potenze delle tenebre e frenare la malizia degli spiriti dell’aria. Alle potestà seguono i principati, che fondano, governano, limitano, trasferiscono, mutano ogni principato umano, quindi sorvegliano i comandanti del mondo. Il loro compito è di fondamentale importanza per il buon andamento della società e della vita pubblica. Da qui il valore di pregare i principati quando abbiamo bisogno di persone valide che ci governino bene. Ai principati succedono le dominazioni che sono poste al di sopra degli ordini precedenti e fanno da intermediari, sono in un certo senso i trasmettitori dei voleri divini agli altri cori angelici subalterni perché poi li eseguano concretamente.
Questo l’ordine centrale composto dalle potestà, principati e dominazioni.
Al grado più alto, al primo ordine vicino a Dio, dice Bernardo, si trovano i troni, così chiamati perché stanno posizionati nel senso che possiedono la calma di una quiete assoluta e in loro troneggia assiso Dio, Signore degli eserciti e giudice supremo. Quindi i troni sono gli angeli che sorreggono e sostengono la gloria di Dio nella sua altezza sublime e autorevole.
Dopo i Troni vengono i cherubini oranti[9]. Essi sono coloro che hanno una particolare scienza o luce divina, perché attingono la sapienza direttamente dall’Altissimo e la distribuiscono a tutti i cittadini celesti come un fiume impetuoso. Sono coloro che contemplano la luminosità, la verità e la scienza di Dio, entrando profondamente nel mistero divino e si alimentano di questo, ma poi come torrenti o fonti diffondono la divina sapienza su tutta la faccia della terra. I cherubini sono dunque gli angeli della conoscenza sublime della divinità, conoscono i segreti di Dio, i suoi desideri, i suoi progetti per noi, la sua santissima volontà, sono esseri luminosi e folgoranti della verità eterna.
Poi accanto ai cherubini ci sono i serafini infuocati,[10] divorati dal fuoco divino cioè dall’amore intensissimo, con il quale incendiano tutti gli altri spiriti celesti in modo che tutti siano ardenti di amore come i serafini e splendenti di verità come i cherubini. Questi hanno la missione di penetrare nei misteri profondi dell’Essere divino mentre i serafini hanno la funzione di lasciarsi infiammare dall’amore che sgorga dall’essere divino, un fuoco che li divora totalmente e li incendia di amore intensissimo che poi da loro si riversa su tutti gli altri spiriti celesti e poi sulle creature umane[11].
Bernardo dice che queste qualità angeliche sono il rifrangente in cui risplende l’essere perfettissimo di Dio, il suo amore sublime, la sua scienza imperscrutabile, la sua maestà infinita, la sua onnipotenza, la sua bontà purissima, la sua santità eccelsa. Ogni coro angelico costituisce il riflesso di tali caratteristiche divine che da esso si diffondono in qualche modo sul mondo umano. Pertanto gli angeli, proprio per questa funzione sono i trasmettitori delle molteplici e varie peculiarità divine, sono come delle trasparenze purissime, attraverso cui Dio può fare risplendere e trasmettere a tutte le creature il suo fulgore, la sua gloria divina, la sua onniscienza e potenza sconfinata.
Gli esseri celesti hanno il compito di accogliere le immense qualità di Dio in modo che si riflettano sugli altri spiriti, affinché questi a loro volta le effondano alle creature umane, le quali attraverso tali aiuti angelici possano risalire alla fonte che è l’Essere divino. In fondo la visione[12] della scala coeli che ha contemplato Bernardo è propriamente questa: una discesa di luce, una cascata d’amore, di santità per mezzo degli angeli verso di noi e poi la nostra risalita attraverso varie gradazioni sfumate, per giungere fino a Dio ed essere immersi anche noi nel suo essere infinito.
Per questo gli angeli sono la pura trasparenza della divinità, le luci seconde o i raggi, ma ciò non significa che non abbiano una propria personalità. Essi sono creature che possiedono intelligenza perché hanno una acutezza mentale propria del loro essere spirituale, in forza della quale intuiscono la profondità dell’essere umano così come penetrano nei pensieri più reconditi di Dio. Hanno anche una loro volontà per cui sono mossi da un grande amore verso Dio e verso il Cristo Signore. In forza di questo amore e di questa conoscenza di Dio, sono totalmente sottomessi alla sua suprema volontà, per cui qualsiasi cosa Dio ordina loro, sono pronti a compierla e la fanno propria. Ciò costituisce il dinamismo degli angeli di cui parla Bernardo. Sono creature così sensibili e così acute rivolte all’Essere divino, che qualsiasi cosa colgono in quell’Essere la fanno propria. E di essa si saziano pienamente, pur sempre desiderosi di approfondire e scandagliare il mistero divino[13].
2. La missione degli angeli nell’evento dell’incarnazione.
In particolare, siccome il grande progetto di Dio si è attuato nell’incarnazione del Figlio, con cui è iniziata e si è compiuta la salvezza dell’umanità e il Verbo si è fatto carne attraverso il corpo purissimo e immacolato di Maria Vergine, è chiaro che tutti i cori angelici si sono impegnati per questo progetto, contemplandolo e accogliendolo in tutti i suoi vari aspetti e vi si sono sottomessi affinché questo progetto sia portato a compimento. Hanno capito che questo è il disegno altissimo che Dio vuole realizzare e non c’e n’è un altro più bello, più grande, più significativo di questo: l’incarnazione del Verbo e la sua opera di salvezza. Secondo Bernardo gli angeli sono inseriti vitalmente nel piano salvifico, attuato da Cristo, non solo passivamente perché lo accettano così come semplici esecutori, ma anche attivamente con la collaborazione, con la disponibilità, con il loro amore pieno e incondizionato.
Di fatto Cristo si è servito degli angeli prima della sua incarnazione per preparare gli uomini al grande evento della sua venuta, ma anche dopo la sua incarnazione durante la sua passione morte e resurrezione, similmente quando ritornerà nella gloria alla fine dei tempi saranno ancora gli angeli ad annunciare il suo avvento finale.
A questo punto Bernardo fa una precisazione nel confronto tra gli angeli e Cristo. Questi è Dio, Figlio di Dio, quindi gli angeli sono sottomessi a lui, ma il Figlio di Dio ha preso la debolezza umana e in quanto uomo è inferiore ad essi. Ecco il mistero da cui prendono luce gli angeli stessi. Per la sua divinità Cristo è più grande degli angeli, per la sua umanità è inferiore.
Qui si vede la loro umiltà, accettando di servire Cristo anche come uomo, di sottomettersi alla sua signoria, anche umana, perché in questo evento si attua, si concretizza, si concentra il volere superiore di Dio Padre. Così ha voluto il Padre, essi accolgono la sua altissima volontà e si prostrano davanti al bambino che nasce a Betlemme. Gesù è un bambino, un uomo in tutto uguale a noi eccetto il peccato, quindi un essere debole, fragile, rispetto a loro che sono puri spiriti, tuttavia in quella carne umana sussiste il Verbo eterno di Dio, il loro Signore. Per questa ragione si inchinano, lo adorano, si prostrano e cantano la sua gloria, lo servono con grande disponibilità e umiltà.
Alcuni autori, tra i quali Francisco Suarez [14], ma anche altri padri antichi, hanno sostenuto che il peccato degli angeli si sia consumato precisamente quando Dio ha mostrato loro il progetto in cui il suo Figlio eterno si sarebbe fatto uomo. Davanti a tale enorme disegno salvifico, gli angeli buoni lo hanno accolto, gli angeli ribelli invece no, si sono rifiutati. A capo di questi stava Lucifero, satana, che non voleva adorare un uomo perché si sentiva superiore; dietro il suo incitamento i suoi gregari si sono opposti a Dio, non hanno accettato una simile umiliazione.
E’ interessante la cosa perché in effetti gli angeli sono metafisicamente superiori all’uomo, perché puri spiriti, noi siamo impastati con la debolezza della carne pur essendo anche spirito. Tuttavia il Verbo è diventato carne, non si è fatto angelo. Proprio in Cristo si scontrano le due schiere angeliche: gli angeli sottomessi pienamente si sono lasciati travolgere da questo mistero senza avanzare alcuna obiezione ed opposizione, invece gli angeli orgogliosi della loro grandezza, non hanno accettato di abbassarsi e si sono contrapposti.
3. Uno sguardo ammirato all’angelo custode.
Bernardo si sofferma soprattutto sull’angelo custode, e anche qui ci sono degli aspetti interessanti che vanno accennati: l’azione dell’angelo custode, l’ultimo grado della gerarchia celeste, è quella di custodire ogni uomo. Bernardo considera proprio questo ministero degli angeli come una mediazione tra Dio e gli uomini perché il loro operato consiste precisamente nel salire e scendere dal cielo, secondo le parole stesse di Gesù: “Vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo”[15]. Cosa vuol dire salire e scendere? Bernardo spiega: la via ascendente in salita, è quella della beatitudine celeste che a loro è data dalla contemplazione di Dio, dallo loro lode a Dio, dal Trisagio “Santo Santo Santo”, che si ripete alla S. Messa.
La via discendente, li porta a volgersi verso la terra, dice Bernardo, “con passione” (compatire significa sentire tenerezza verso le persone più deboli, che siamo noi creature umane); essi sentono compassione per venire incontro ai nostri bisogni, alle nostre necessità, tuttavia – precisa Bernardo – non perdono la visione beatifica quando vengono verso di noi, anzi trasmettono agli uomini quella verità che essi contemplano in modo da aiutarli nel sentiero che conduce alla medesima verità. Quindi scendono dalle altezze celesti per venire verso l’uomo, affinché l’uomo possa salire verso le altezze di Dio. Qui sta il significato più bello della salita e discesa degli angeli.
Essi imprimono al loro custodito lo stesso anelito di ascendere verso le vette della santità divina. E così facendo – dice Bernardo – imitano l’esempio di Cristo, perché come Gesù è divenuto uomo per servire l’uomo, per comunicargli la grazia divina, per dargli la sua salvezza, così essi partecipano alla medesima missione di avvicinarsi umilmente agli esseri umani. Accostandosi ad essi e vivendo con loro, quali vigili custodi, essi non fanno altro che condividere l’azione del Verbo eterno, il quale dalle sublimi altezze della sua divinità è sceso fino alla realtà debole e fragile dell’uomo, per farsi in tutto simile all’essere umano eccetto il peccato.
Questa umiltà e disponibilità di Dio ha suscitato negli angeli una tale impressione e ammirazione, una tale movenza interiore, che li ha spinti a fare la stessa cosa, in modo che essi sono mossi, come il Verbo eterno, da un amore sconfinato verso le creature umane, affinché anche esse possano accogliere la bontà di Gesù, la sua grazia ed essere innalzate alla partecipazione della natura divina fino a diventare figli di Dio nel Figlio. Perciò gli angeli rientrano perfettamente, secondo la visione di Bernardo, nel mistero salvifico del Cristo, ne sono coinvolti e dipendenti, si muovono continuamente e unicamente con lo scopo che il progetto di amore del Padre si compia in ogni creatura umana.
Di fronte a così elevate considerazioni, l’anima di Bernardo si innalza in una preghiera stupenda di ringraziamento a Dio per la Sua infinita accondiscendenza verso l’uomo, dicendo che il Padre celeste ha inviato l’Unigenito nel mondo e anche il suo Santo Spirito dopo che l’Unigenito è salito al cielo, per condurre gli uomini alla visione di se nel mondo della sua beatitudine eterna. Affinché tale opera giunga felicemente al compimento, Dio manda inoltre gli spiriti beati a esercitare il proprio ministero a vantaggio dell’umanità assegnando loro il compito di custodirci e di farsi nostri precettori.
Non è stato sufficiente al volere di Dio che il Verbo si facesse carne, ha anche effuso il suo Santo Spirito alla Pentecoste, ma non è bastato neanche questo, manda i suoi angeli ad ognuno di noi, perché ognuno possa entrare nel mistero d’amore divino ed esservi totalmente coinvolto e trasfigurato dall’amore del Verbo incarnato per salire verso il Padre e congiungersi a Lui come figlio amato, perdonato e salvato da Lui.
Quale mistero infinito d’amore! Tutto ha compiuto il Padre, affinché noi piccole povere creature, perse nella nostra debolezza, non ci smarrissimo. Abbiamo bisogno di questi aiuti celesti, che sembrano addirittura eccessivi, ma di fatto avvolgono totalmente il nostro essere se noi siamo sensibili a recepirli e a lasciarci condurre da essi, che il Padre ha voluto riservare a noi, sue creature predilette.
Soprattutto – dice Bernardo – l’angelo custode ha il compito di aiutare l’uomo nel custodire il frutto dell’albero della croce, cioè il frutto della salvezza proveniente dal Cristo crocifisso, soprattutto dal suo sangue prezioso sgorgato sulla croce. Gli angeli svolgono la funzione di aiutare e sorreggere creature umane, affinchè pervengano a dissetarsi al sangue effuso dal Cristo trafitto sulla croce, per essere purificate, trasformate, rinnovate.
Questo è il loro ruolo specifico perché – dice Bernardo – l’uomo da solo è inaffidabile, inefficace, anzi spesse volte è vulnerabile e inetto. Quale senso profondo aveva Bernardo della fragilità umana ed è Dio che glie lo ha trasmesso, perché Dio ci conosce fino in fondo e sa che siamo deboli e fragili come foglie al vento sbattute ovunque. Per questo il Padre ci assiste attraverso l’azione soccorritrice degli angeli, affinché non siamo travolti, buttati per terra e calpestati, ma portiamo frutti per la vita eterna.
Bernardo invita tutti noi perché agli angeli custodi dobbiamo dare il nostro culto, non quello riservato a Dio, il culto di “latria”,[16] ma la nostra devozione. Egli spiega che al di sopra di tutto sta l’amore per Cristo Dio, quindi gli angeli non possono essere amati di più, come neanche i santi, neanche la Vergine Maria, perché Dio deve stare al primo posto, tuttavia – prosegue Bernardo – Dio è amato anche nelle sue creature, per cui esorta caldamente i suoi monaci ad avere rispetto del proprio angelo custode, anzi devono sentire gratitudine, amore e onore verso di lui. Ecco le sue parole esatte:
“ Anche se gli angeli sono semplici esecutori di comandi divini, si deve essere grati anche a loro perché ubbidiscono a Dio per il nostro bene. Siamo dunque devoti, siamo grati a protettori così grandi, riamiamoli, onoriamoli quanto possiamo e quanto dobbiamo. Tutto l’amore e tutto l’onore vada a Dio, dal quale deriva interamente quanto è degli angeli e quanto è nostro. Da lui viene la capacità di amare e di onorare, da lui ciò che ci rende degni di amore e di onore. Amiamo affettuosamente gli angeli di Dio, come quelli che saranno un giorno i nostri coeredi, mentre nel frattempo sono nostre guide e tutori, costituiti e preposti a noi dal Padre. Ora, infatti, siamo figli di Dio. Lo siamo, anche se questo attualmente non lo comprendiamo chiaramente, perché siamo ancora bambini sotto amministratori e tutori e, conseguentemente, non differiamo per nulla dai servi. Gli angeli di Dio non possono essere sconfitti né sedotti e tanto meno sedurre, essi che ci custodiscono in tutte le nostre vie. Sono fedeli, sono prudenti, sono potenti. Perché trepidare? Soltanto seguiamoli, stiamo loro vicini e restiamo nella protezione del Dio del cielo.”[17]
4. Conclusione: le due mani degli angeli.
L’uomo, la creatura umana, è ancora immatura, ha bisogno di simili custodi, fedeli prudenti e potenti, non possiamo dimenticarci di loro. Noi siamo piccoli, poveri, deboli. Dal senso di umiltà, dalla consapevolezza della nostra piccolezza, nasce precisamente la devozione agli angeli, l’affidamento alla loro cura, alle loro luci, alla loro protezione, soprattutto nei momenti di apprensione e di prova, ognuno deve invocarli, poiché sono gli angeli con le loro mani a sostenerci e a rafforzarci. Le loro mani – aggiunge Bernardo – in mille modi vengono in soccorso a ciascuno eletto, a cui Dio li ha affidati. Queste mani, naturalmente non sono mani fisiche, sono invisibili, ma esprimono l’effluvio del loro amore, l’abbondanza delle premure con cui ci circondano e ci avvolgono. Dice ancora che spesse volte queste mani invisibili proteggono l’uomo, anche quando non se ne avvede, da numerosi pericoli sia fisici sia morali. Poi spiega che con le mani dell’angelo egli intende il duplice effetto dell’azione di soccorso, teso da un lato a ricordarci che la tribolazione non durerà per sempre e dall’altro ad assicurarci l’eternità della ricompensa.
Quando siamo nella tribolazione l’angelo ci ricorda con una mano che la tribolazione non sarà eterna, non durerà per sempre, e con l’altra mano invece ci dice che la ricompensa sarà eterna, se la tribolazione verrà accettata con amore. In tal modo l’aiuto angelico serve a superare e trasformare i momenti di sofferenza in momenti di grazia, per salire sempre più la scala che ci porta all’incontro amoroso e gratificante con Dio. Infine Bernardo conclude che queste bellissime mani al termine della vita solleveranno l’anima umana verso il cielo[18].
E’ vero che Bernardo si riferiva soprattutto ai monaci, ma le sue esortazioni sono valide anche per noi cristiani, perché vogliamo bene al Signore e vogliamo seguire la via giusta fino alla fine e perciò dobbiamo anche noi servirci di questi aiuti che il Signore ci offre, in particolare degli angeli custodi, dobbiamo rendercene conto che ci sono, sono accanto a noi, ma sono anche per noi, affinché possiamo unirci ed essere sempre con Dio e non lasciarci deviare da altre realtà che ci portano lontano dalla pienezza di gioia eterna.
Dobbiamo chiederci onestamente: perché li trascuriamo e li dimentichiamo? Perché non pensiamo a loro? In fondo siamo degli stolti, perché, pur avendo questi tesori a disposizione, neanche ce ne rendiamo conto; siamo molto superficiali illudendoci di poter vivere solo con le nostre forze, ma non ce la facciamo. Tutto parte dall’umiltà, dal considerarci creature bisognose dell’amore di Dio e dell’aiuto dell’angelo.
Bernardo avverte che gli angeli agiscono con una delicatezza impressionate, non fanno rumore, né forzature, rispettano la nostra libertà e non amano il chiasso. Ne segue che per accogliere la loro presenza operante, è necessario il silenzio e il raccoglimento: silenzio esteriore per eliminare il chiasso che ci tormenta durante il giorno e la notte, ma anche il silenzio interiore, per liberarci dai nostri pensieri; alle volte le ansie, le tensioni e le angosce ci distruggono e fanno perdere il senso vero delle cose. Occorre inoltre una sensibilità spirituale, altrimenti gli angeli non si possono percepire, immersi come siamo nel materialismo, nelle cose che colpiscono i sensi esterni, nelle preoccupazioni, nelle tensioni che ci impediscono di maturare la sensibilità interiore dello spirito, perché solo lo spirito intende lo spirito, capisce lo spirito, ascolta lo spirito, accoglie lo spirito; la carne non ne è capace, la carne vive di carne, di cose terrene e futili.
Le riflessioni di Bernardo sugli angeli ci hanno permesso di conoscere le due caratteristiche che dobbiamo coltivare noi cristiani, con grande forza interiore, oggi in particolare per non seguire la comune corrente delle concezioni mondane: il raccoglimento e la delicatezza interiore. Da una parte viviamo in un chiasso e un rumore assordanti, nel qual caso gli angeli restano accanto a noi, ma né li sentiamo, né li vediamo, né ci accorgiamo di loro, siamo come sordi ciechi e muti nei loro confronti, perché storditi dal fracasso che ci circonda e che sta anche dentro di noi; dall’altra parte abbiamo una grossolanità d’animo, una torbidezza spirituale che ci impedisce di cogliere le loro movenze soavi e delicate, ma stupende. Facciamo nostro l’insegnamento di Bernardo: esso innesti profondamente in ciascuno di noi uno sprazzo di gioia e di amore per il nostro angelo custode.
Don Renzo Lavatori
http://www.carmelosicilia.it/santa_teresina.htm
1 OTTOBRE: S. TERESA DEL BAMBINO GESÙ DEL VOLTO SANTO
Biografia
Nacque ad Alençon, piccolo paese della Normandia francese, il 2 gennaio 1873, da Luigi Giuseppe Stanislao Martin (22 agosto 1823 – 29 luglio 1894) e Maria Zelia Guérin (23 dicembre 1831 – 28 agosto 1877), ultima di nove bimbi. Battezzata nel pomeriggio del giorno 4 nella chiesa di Notre – Dame, la bambina ricevette i nomi di Maria Francesca Teresa. L’ambiente familiare era tutto pervaso di fede e di pietà.
I genitori, che nella loro giovinezza avevano aspirato ambedue alla vita religiosa, formarono poi una famiglia, animati dalla preoccupazione principale del bene spirituale delle figlie. Teresa scriverà: «Avevo soltanto buoni esempi intorno a me, naturalmente volevo seguirli» (MA 32). Ebbero nove figli, tra i quali quattro morti in tenera età:
Maria (Suor Maria del Sacro Cuore, carmelitana a Lisieux, 22 febbraio 1860 – 19 gennaio 1940); Paolina (Suor Agnese di Gesù, carmelitana a Lisieux, 7 settembre 1861 – 28 luglio 1951); Leonia (Suor Francesca Teresa, visitandina, 3 giugno 1863 – 16 giugno 1941); Elena (1864 – 1870), Giuseppe Luigi (1866 – 1867), Giuseppe Giovanni Battista (1867 – 1868); Celina (Suor Genoveffa del Volto Santo, carmelitana a Lisieux, 28 aprile 1869 – 25 febbraio 1959); Melania Teresa (16 agosto – 8 ottobre 1870); Teresa (Suor Teresa del Bambino Gesù del Volto Santo, carmelitana a Lisieux, 2 gennaio 1873 – 30 settembre 1897).
Il padre aveva imparato l’orologeria in Svizzera mentre la madre dirigeva merlettaie che a domicilio facevano i celebri pizzi di Alençon. Teresa, nata quando la mamma aveva 42 anni ed era sofferente e affaticata, aveva ereditato una salute precaria.
Da piccina soffriva facilmente di bronchiti, infiammazioni polmonari con febbre alta e oppressione. Di indole e intelligenza precoce, era affettuosissima: «Per tutta la vita è piaciuto a Dio circondarmi d’amore: i primi ricordi sono sorrisi e carezze tenerissime…» (MA 14), ma non era una bambina mite e mansueta: la stessa madre, nei suoi scritti, affermava che quella sua piccola figlia era vivace, fiera e testarda. «…,è di una ostinazione quasi invincibile; quando dice “no”, niente da fare; la metti in cantina tutta la giornata, lei ci dorme piuttosto che dire “sì”» (Lettera della mamma a Paolina 5.12.1875).
Alla morte della madre (per un male di natura cancerogena), avvenuta il 28 agosto 1877, Teresa aveva solo quattro anni. Il giorno delle esequie della mamma «il buon Dio volle darmene un’altra sulla terra e volle che scegliessi liberamente». E così se Celina si gettò nelle braccia della sorella maggiore, Maria, Teresa si buttò in quelle di Paolina (cfr. MA 44). Il grave lutto le procurò una ferita profonda e il suo carattere cambiò: diventò timida, dolce, sensibile.
Ebbe, nel padre, un valido supporto materiale ma soprattutto spirituale. Egli la chiamava scherzosamente « piccola Regina di Francia e di Navarra », o anche « l’orfanella della Beresina », quasi prevedendo il freddo che la piccola Teresa avrebbe sofferto senza mai un lamento, nel Convento del Carmelo.
In famiglia, Teresa fu oggetto della tenerezza più delicata del padre e delle sorelle, per cui non provò alcun dispiacere nel lasciare Aleçon per la nuova residenza a Lisieux, nella bella villa dei Buissonnets dove vivevano zii e cugini. «Non soffrii lasciando Alençon. I bimbi gradiscono i cambiamenti; e venni a Lisieux con piacere» (MA 46). Il trasferimento si era reso quasi necessario a papà Martin per trovare un sostegno nell’ educazione delle cinque figlie.
«Potrei dire che fu durante il mio soggiorno ad Alençon che feci il mio primo ingresso nel mondo. Tutto era gioia, felicità attorno a me, ero festeggiata, coccolata, ammirata, in una parola la mia vita per quindici giorni fu cosparsa soltanto di fiori. Confesso che quella vita aveva un fascino per me… perciò considero una grande grazia non essere rimasta ad Alençon; gli amici che avevamo là erano troppo mondani,… non pensavano abbastanza alla morte…
Quanto ringrazio Gesù di avermi fatto trovare solo «amarezza nelle amicizie della terra». Con un cuore come il mio, mi sarei lasciata prendere e tarpare le ali, … Come può un cuore dedito all’affetto delle creature unirsi intimamente a Dio? … Senza aver bevuto alla coppa avvelenata dell’amore troppo ardente per le creature, io sento che non posso sbagliarmi… Ah, lo sento, Gesù mi sapeva troppo debole per espormi alla tentazione! … Quindi non ho alcun merito per non essermi abbandonata all’amore delle creature, dal momento che ne fui preservata solo per la grande misericordia del buon Dio!»
Paolina, come sua seconda mamma, le era vicina da quando si svegliava: l’aiutava a vestirsi, a recitare le preghiere; più tardi, con l’aiuto delle sorelle, imparò a leggere e a scrivere.
Verso la fine del 1879 Teresa si accostò per la prima volta al sacramento della penitenza. Educata dalle Benedettine di Lisieux, l’8 maggio 1884 ricevette la prima Comunione che fu per lei una « fusione d’amore ».
«Il giorno bello tra tutti finalmente arrivò… come fu dolce il primo bacio di Gesù alla mia anima! Fu un bacio d’amore, mi sentivo amata, e perciò dicevo: «Ti amo, mi do a te per sempre» …da molto tempo, Gesù e la povera piccola Teresa si erano guardati e si erano capiti… Quel giorno non era più uno sguardo, ma una fusione, non erano più due: Teresa era scomparsa, come la goccia d’acqua che si perde in seno all’oceano…» (MA 109).
Poche settimane più tardi, il 14 giugno, ella ricevette il sacramento della Cresima.
L’entrata nel Carmelo di Lisieux della sorella Paolina nel 1882 consentì a Teresa di capire come la vita fosse sofferenza e separazione continua. Pur nel grande dolore per la partenza della sorella cominciò ad avvertire la certezza di una chiamata di Dio. Infelice a scuola, nonostante la pronta e non comune intelligenza, si ammalò di una malattia grave e misteriosa. Un’insistente preghiera a Maria la salvò il 13 maggio 1883: aveva 10 anni. La « Vergine del sorriso » diventò sua Madre.
Nel 1885, Teresa affrontò un’altra dolorosa separazione in quanto la sorella Maria, colei che sapeva tutto quello che passava nella sua anima, decise di farsi anche lei carmelitana.
La notte del 25 dicembre del 1886 ottenne la “grazia di Natale”: la grazia della sua trasformazione, della sua completa conversione. Ricevette la forza di Cristo e la guarigione da una specie di nevrosi (timidezza eccessiva, ipersensibilità, fragilità emotiva, scrupoli, paure…) che la paralizzava, recuperando la sua serenità.
Ormai rassicurata, si aprì a grandi interessi ed intensi desideri, dedicandosi alla conversione dei peccatori. Avendo sentito parlare di un grande criminale, il Pranzini, appena condannato a morte, volle ad ogni costo impedirgli di ricevere il castigo eterno e pose questa intenzione in tutte le sue preghiere. La sua fiducia nella misericordia divina fu appagata e il criminale salì al patibolo baciando il crocifisso. Fu il suo primo figlio… Intanto il desiderio e la determinazione di entrare anche lei al Carmelo si fecero sempre più forti. «Gesù mi istruiva in segreto delle cose che riguardavano il suo amore». «Tutte le grandi verità della religione… immergevano l’anima mia in una felicità che non era di questa terra. Presentivo ciò che Dio riserva a coloro che lo amano» (MA 138).
Il 29 maggio del 1887 (solennità della Pentecoste), Teresa chiese al padre il permesso di entrare al Carmelo: «Soltanto nel pomeriggio, tornando dai vespri, trovai l’occasione per parlare al mio babbo carissimo; era andato a sedersi sul bordo della vasca, e, con le mani giunte, contemplava le meraviglie della natura… Il bel volto di Papà aveva un’espressione celeste, sentivo che la pace gl’inondava il cuore. Senza dire una parola mi sedetti accanto a lui, gli occhi pieni di pianto. Mi guardò con tenerezza, mi prese la testa, l’appoggiò sul suo cuore, dicendomi: “Che cos’hai, reginetta? Confidamelo”. Poi, alzandosi come per nascondere la propria emozione, camminò lentamente tenendomi sempre la testa appoggiata sul suo cuore. Tra le lacrime gli confidai che desideravo entrare nel Carmelo. Allora le lacrime sue si unirono alla mie, ma non disse una parola per distogliermi dalla mia vocazione… egli fu subito convinto che il mio desiderio era quello di Dio stesso, e nella sua fede profonda esclamò che il buon Dio gli faceva un grande onore a domandargli così le sue figlie. Continuammo a lungo la nostra passeggiata; il mio cuore, sollevato dalla bontà con la quale il mio incomparabile padre aveva accolto le sue confidenze, si riversava dolcemente nel suo. Papà sembrava godere di quella gioia tranquilla che dà il sacrificio consumato…» (MA 143).
Al Carmelo le monache non erano contrarie al suo ingresso, ma il canonico Delatroette, delegato del Vescovo per il monastero, oppose un veto risoluto, motivandolo con la sua giovane età. Ma «ero risoluta a raggiungere il mio scopo… sarei andata perfino al Santo Padre se Monsignore non mi avesse permesso d’entrare nel Carmelo a quindici anni… » (MA, 146).
Un pellegrinaggio diocesano a Roma, in occasione delle nozze d’oro sacerdotali di Leone XIII, rese immediatamente possibile quel passo. La accompagnarono il papà e Celina. Dopo varie tappe, giunsero a Roma, al grande giorno, domenica 20 novembre.
«Prima di entrare nell’appartamento pontificio ero ben decisa a parlare, ma mi sentii mancare il coraggio quando vidi alla destra del Santo Padre “Monsignore Révérony!”… “Santo Padre – dissi – in onore del vostro giubileo, permettetemi di entrare nel Carmelo a quindici anni”. L’emozione certo mi fece tremare la voce, cosicché il Santo Padre, volgendosi al Monsignore Révérony, il quale mi guardava meravigliato e scontento, disse: “Non capisco bene”… “Beatissimo Padre – rispose il Vicario generale – è una bambina che desidera entrare nel Carmelo a quindici anni, ma i superiori stanno esaminando la questione”. “Ebbene, figlia – rispose il Santo Padre guardandomi con bontà – fate ciò che vi diranno i superiori”. Allora, appoggiando le mani sulle sue ginocchia, tentai un ultimo sforzo e dissi con voce supplice: “Oh! Beatissimo Padre, se voi diceste ‘sì’, tutti sarebbero d’accordo”. Mi guardò fissamente, e pronunciò queste parole appoggiando su ciascuna parola: “Bene…, bene… Entrerete se Dio lo vorrà» (MA 173-174).
Finalmente il 9 aprile 1888 Teresa, dopo tre mesi di attesa, entrò al Carmelo di Lisieux, varcò la soglia della clausura in preda ad un emozione così profonda che a causa dei battiti del proprio cuore temette di morire.
La mattina del gran giorno, dopo aver dato un ultimo sguardo ai Buissonnets, «partii al braccio del mio caro Re per salire la montagna del Carmelo» (MA 192). «La mia emozione non mi tradì all’esterno. Dopo aver abbracciato tutti i miei, m’inginocchiai dinanzi al mio incomparabile Padre, chiedendogli la benedizione, Per darmela, si mise in ginocchio e mi benedisse piangendo… Dopo qualche istante le porte dell’arca santa si chiusero dietro di me, e là ricevetti gli abbracci delle consorelle… Sentivo nell’animo una pace così dolce e profonda che non posso esprimerla, e da sette anni e mezzo questa intima pace mi è rimasta e non mi ha mai abbandonata, neppure tra le più grandi prove» (MA 193).
Al Carmelo incontrò « più spine che rose », ma ella tutto offrì per la salvezza delle anime e per i sacerdoti in particolare. Aveva quindici anni, e più delle altre patì il rigore del freddo: andava al refettorio come ad un supplizio per il cibo non adatto – ma era così paziente che le consorelle le passavano i cibi avanzati dalle altre – e poi le penitenze prescritte dalla Regola: astinenza perpetua dalle carni, frequenti e prolungati digiuni, tre flagellazioni settimanali, recita notturna di una parte della liturgia delle Ore, abito di panno rozzo, biancheria di ruvida tela, il pagliericcio. Ma soffriva anche per altro. Scrisse della madre Superiora, Maria di Gonzaga: «… il buon Dio permetteva che, senz’accorgersene, fosse molto severa; non potevo incontrarla senza baciar terra e lo stesso accadeva nei rari colloqui di direzione che avevo con lei» (MA, 197).
La Comunità religiosa era la sua nuova famiglia e lei non doveva avere preferenze, non doveva avere delle confidenti privilegiate, neppure le sorelle Maria e Paolina. Trasformò in stimoli di santificazione maltrattamenti, mediocrità, storture, restituendo gioia in cambio delle offese.
Cercò, con semplicità evangelica e con il sorriso, espressione di quella gioia ultraterrena che la animava, di trasmettere ciò che sentiva e ciò a cui anelava alle sue consorelle, con la parola e con l’esempio. «Non c’è che una cosa da fare per provarti il mio amore, o Gesù, – ella scriveva nel suo libro – : gettare sotto i vostri passi i fiori dei piccoli sacrifici». E altrove: «lo voglio insegnare i piccoli modi che mi sono riusciti»; oppure «0 mio Ben amato, ti supplico d’abbassare il tuo sguardo divino su un gran numero di piccole anime; ti supplico di sceglierti in questo mondo una legione di piccole anime, degne del tuo amore».
Spesso però questi gesti, la sua umiltà e le sue parole furono incomprese. Ma ella non se ne curò e accettò e sopportò pazientemente tutto, non rifiutò alcun lavoro e offrì risolutamente e serenamente tutti i sacrifici, come disse con parole che sono diventate il suo segno distintivo, «per gettare rose su tutti, giusti o peccatori» o «l’indulgenza plenaria, che tutti possono acquistare, non è forse quella della Carità che copre la moltitudine dei peccati?».Teresa «senza illusioni» aveva trovato «la vita religiosa così come se l’era immaginata»; «nessun sacrificio mi ha meravigliato»; «la sofferenza mi ha teso le braccia, e mi sono gettata con amore» (MA 195).
E in sé compì la riforma del monastero.
Il 23 giugno ebbe una prova quale forse mai avrebbe pensato le accadesse: il signor Martin – il suo «re» – sparì da casa per quattro giorni; il 12 agosto poi fu colpito da paralisi. «O Madre, quanto abbiamo sofferto!… ed era soltanto l’inizio della nostra prova. Tuttavia il tempo della mia vestizione era giunto; fui accolta dal capitolo, ma come pensare a fare una cerimonia? Già si parlava di darmi il santo abito senza farmi uscire, quando si decise di aspettare. Contro ogni speranza il nostro diletto papà si riprese dal suo secondo attacco e Monsignore fissò la cerimonia al 10 gennaio» .
Il giorno della vestizione il papà era presente alla cerimonia, e lei, in abito da sposa, uscì dalla clausura per assistere in mezzo alla famiglia alla cerimonia. Aveva desiderato la neve per quel giorno, e, nonostante il clima mite, nevicò. In quel giorno al nome di Suor Teresa del Bambino Gesù aggiunse anche quello del Volto Santo. «Che bella festa!… niente mancò, niente, nemmeno la neve… e il fiore più bello, più incantevole, era il mio diletto Re … quel giorno fu il suo trionfo, la sua ultima festa quaggiù. Aveva dato tutti i suoi figli al buon Dio… Dopo aver abbracciato per l’ultima volta il mio diletto Re, rientrai in clausura:… subito dopo il mio sguardo si posò sui fiocchi di neve… il cortile era bianco come me. Che delicatezza di Gesù! Prevenendo i desideri della sua piccola fidanzata, le donava la neve…»
«Che io cerchi e non trovi mai che te solo… Che le cose della terra non possano mai turbare la mia anima… Gesù, non ti domando che l’amore, l’amore infinito, senza altro limite che te… l’amore che non sia più io ma Tu»: questa fu la preghiera formulata da Teresa nel giorno della sua professione, l’8 settembre 1890. «Finalmente il bel giorno delle mie nozze arrivò: fu senza nubi, ma la sera prima si alzò nella mia anima una tempesta come mai ne avevo viste. Mai il minimo dubbio sulla mia vocazione mi era venuto in mente; bisognava che conoscessi questa prova». Il Signore sembrava “dormire” nella sua anima. Erano i primi segni della “notte oscura” della fede: «… La sera, mentre facevo la via Crucis dopo mattutino, la mia vocazione mi apparve come un sogno, una chimera: trovavo bellissima la vita del Carmelo, ma il demonio mi ispirava la certezza che non era fatta per me, che avrei ingannato le superiore procedendo per una strada alla quale non ero chiamata. Le mie tenebre erano così grandi che vedevo e capivo una cosa sola: Non avevo la vocazione! Ah, come descrivere l’angoscia della mia anima? Mi sembrava, cosa assurda che dimostra che quella tentazione veniva dal demonio, che se dicevo i miei timori alla maestra questa mi avrebbe impedito di pronunciare i Santi Voti; … piena di smarrimento le raccontai lo stato della mia anima… appena ebbi finito di parlare i miei dubbi scomparvero… La mattina dell’8 settembre, mi sentii inondata da un fiume di pace e fu in questa pace «che sorpassa ogni sentimento» che pronunciai i Santi Voti… Quante grazie ho chiesto in quel giorno! …»(MA 217).
Ebbe in quel periodo una grande consolazione. Era di gusti raffinati anche nello spirito e non trovava facilmente dei “buoni” predicatori, ma le piacquero gli esercizi predicati da padre Alexis Prou che le disse che «le sue colpe non addoloravano il Signore, e aggiunse come suo rappresentante e a nome suo, che Dio era molto contento» di lei (MA 227).
Il suo maestro di preghiera era Gesù, e il suo libro: il Vangelo. «Quando leggo certi trattati spirituali… il mio povero spirito è ben presto affaticato. Chiudo il dotto libro che mi spacca la testa e mi secca il cuore, e apro la S. Scrittura. Basta una sola parola perché scopra al mio animo orizzonti infiniti e la perfezione mi sembra facile» (LT 226). «Senza mostrarsi, senza far sentire la propria voce, Gesù mi istruisce segretamente, non attraverso i libri, poiché io non capisco ciò che leggo» (MB 241).
Il 12 maggio 1892 Teresa ricevette l’ultima visita al Carmelo del signor Martin, che riuscì a dire soltanto: «Al Cielo». Dopo la morte del padre, il 29 luglio 1894, la vita di Teresa fu ancora attraversata da prove interiori, ma fu sollevata dall’incontro con il proprio padre spirituale che la spinse a vele spiegate sulle onde della fiducia e dell’amore.
Venne affidata a Teresa la formazione delle novizie e anche la sorella Celina, il 14 settembre, fece il suo ingresso fra le suore del Carmelo di Lisieux prendendo il nome di suor Genoveffa del Volto Santo. Le due sorelle si ritrovarono ed ebbero modo di aiutarsi reciprocamente nel loro cammino verso la perfezione.
Verso al fine del 1894, un giorno, proprio durante l’orazione, due versetti dell’Antico Testamento la illuminarono. In San Paolo e nel Vangelo trovò conferma. Anche lei, che si sentiva così piccola, fragile, debole e impotente, incapace di cose grandi, poteva aspirare alla santità: l’ascensore che le avrebbe permesso di salire così in alto sarebbero state « le braccia di Gesù ». Sarebbe bastato aver confidenza totale in Lui, abbandonarsi, restare piccola e divenirlo sempre più. «Il buon Dio non può ispirare desideri inattuabili, perciò posso, nonostante la mia piccolezza, aspirare alla santità; diventare più grande mi è impossibile: debbo sopportarmi tale quale sono con tutte le mie imperfezioni. Nondimeno voglio cercare il mezzo di andare in Cielo per una via ben diritta, molto breve, una piccola via tutta nuova» (MC 271). Teresa ebbe la gioia di scoprire nei Proverbi (9,4) queste parole: «Chi è molto piccolo venga a me»; ed anche la gioia di apprendere da Isaia (66,13) quel che Dio avrebbe preparato al piccolissimo che fosse andato da Lui: «Come una madre accarezza il suo bambino, così io vi consolerò, vi porterò sul seno e vi cullerò sulle ginocchia». La via tutta nuova, breve, diritta era quella dei “piccoli” del Vangelo: «Se non diventerete come fanciulli non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18,13).
Scoprì così la « piccola via » dell’infanzia spirituale ispirata alla semplicità e all’umile confidenza nell’amore misericordioso del Padre. Non riusciva a rendersi ragione di come alcune sue consorelle avessero « paura di Dio » e si sentiva un po’ sola nella ricerca della santità, perché il suo padre spirituale era andato missionario in Canada. La sua «piccola via » aveva in sé una potenza di dedizione senza limiti e trasformò la sua vita: «Non ho mai rifiutato nulla al buon Dio! ».
Il 9 giugno 1895 Teresa ricevette l’ispirazione di offrirsi quale olocausto all’Amore misericordioso e compì questa offerta di sé insieme alla sorella Celina:
«Pensavo alle anime che si offrono come vittime alla Giustizia di Dio allo scopo di stornare e di attirare su di sé i castighi riservati ai colpevoli; questa offerta mi sembrava grande e generosa, ma io ero lontana dal sentirmi portata a farla. «O mio Dio! esclamai in fondo al cuore, ci sarà solo la tua Giustizia a ricevere anime che si immolano come vittime? Il tuo Amore Misericordioso non ne ha bisogno anche lui? … O mio Gesù! che sia io questa felice vittima, consuma il tuo olocausto con il fuoco del tuo Amore Divino!». Madre diletta, lei che mi ha permesso di offrirmi così al buon Dio, lei conosce i fiumi o meglio gli oceani di grazie che sono venuti ad inondare la mia anima. Ah, da quel giorno felice, mi sembra che l’Amore mi penetri e mi circondi, mi sembra che ad ogni istante questo Amore Misericordioso mi rinnovi, purifichi la mia anima e non vi lasci nessuna traccia di peccato…».
Ella accompagnò con la preghiera un giovane seminarista che si preparava a divenire missionario, incoraggiandolo ad affrontare con coraggio e fiducia il suo impegno.
Proprio in quell’anno la Priora, madre Agnese di Gesù (Paolina), le domandò di scrivere i suoi appunti, quasi un diario. Su di un piccolo quaderno di scuola, cominciò a « Cantare le Misericordie del Signore » nella sua vita. Scisse la prima parte della «Storia di un’anima» (Manoscritto A). I suoi pensieri furono la cronaca quotidiana del suo cammino di identificazione con l’Amore. Scrisse pure dei poemi e delle scene teatrali per le ricreazioni nei giorni di festa particolare per la comunità.
Né la malattia – una grave forma di tubercolosi la stava divorando! – né una tremenda prova interiore contro la fede e la speranza (e qui arrivò a comprendere e com-patire gli increduli del suo tempo!) riuscirono ad arrestare la sua audace fiducia in Gesù Salvatore.
Nella corrispondenza con i suoi due fratelli spirituali sacerdoti missionari, maturò una mentalità ed una passione missionaria per tutta la Chiesa.
«Vorrei percorrere la terra, predicare il tuo nome e piantare sul suolo infedele la tua Croce gloriosa! Ma, o mio Amato, una sola missione non mi basterebbe: vorrei al tempo stesso annunciare il Vangelo nelle cinque parti del mondo e fino nelle isole più lontane. Vorrei essere missionaria non solo per qualche anno, ma vorrei esserlo stata dalla creazione del mondo ed esserlo fino alla consumazione dei secoli…Da molto tempo avevo un desiderio che mi pareva veramente irrealizzabile, quello di avere un fratello sacerdote … ed ecco che Gesù non solo mi ha fatto la grazia che desideravo, ma mi ha unita con i vincoli dell’anima a due dei suoi apostoli, …poiché «lo zelo di una carmelitana deve incendiare il mondo», spero con la grazia del buon Dio di essere utile a più di due missionari …».
Il 3 aprile 1896, durante la notte fra il giovedì ed il venerdì santo, ebbe una prima manifestazione della malattia che l’avrebbe condotta alla morte: «Dopo essere rimasta al “sepolcro” fino a mezzanotte, rientrai nella nostra cella; ma avevo appena posto la testa sul cuscino che sentii un fiotto salire, salire quasi bollendo fino alle mie labbra» (MC, 275).
Nel corso del suo ultimo ritiro (nel settembre 1896), Teresa scrisse il Manoscritto B. Ella scoprì la sua vocazione: « Nel cuore della Chiesa, mia Madre, io sarò l’amore! » e offrì la sua vita per la salvezza delle anime e per l’edificazione della Chiesa.
«Essere tua sposa, Gesù, essere carmelitana, essere, grazie all’unione con te, madre di anime, dovrebbe bastarmi. Non è così! Certo, questi tre privilegi sono la mia vocazione: Carmelitana, Sposa e Madre; ma io sento in me altre vocazioni: mi sento la vocazione di Guerriero, di Sacerdote, di Apostolo, di Dottore, di Martire; insomma, sento il bisogno, il desiderio di compiere per te, Gesù, tutte le opere più eroiche…Sento in me la vocazione di Sacerdote: con quanto amore, o Gesù, ti porterei nelle mie mani … Con quanto amore ti darei alle anime! … vorrei illuminare le anime come i Profeti, i Dottori! Ho la vocazione d’essere Apostolo. Vorrei percorrere la terra, predicare il tuo nome …Ma vorrei soprattutto, o mio Amato Salvatore, vorrei versare il sangue per te fino all’ultima goccia! Il Martirio: ecco il sogno della mia giovinezza! … O mio Gesù, cosa risponderai a tutte le mie follie? Esiste un’anima più piccola, più impotente della mia? … Durante l’orazione i miei desideri mi facevano soffrire un vero e proprio martirio. Aprii le epistole di San Paolo per cercare qualche risposta. Mi caddero sotto gli occhi i capitoli XII e XIII della prima lettera ai Corinzi. Nel primo lessi che non tutti possono essere apostoli, profeti, dottori, ecc…, che la Chiesa è composta da diverse membra e che l’occhio non potrebbe essere al tempo stesso la mano. La risposta era chiara ma non appagava i miei desideri, non mi dava la pace… continuai la lettura e questa frase mi rincuorò: «Cercate con ardore i doni più perfetti; ma io vi mostrerò una via ancora più eccellente». E l’Apostolo spiega come tutti i doni più perfetti non sono niente senza l’Amore. Che la Carità è la via eccellente che conduce sicuramente a Dio. Finalmente avevo trovato il riposo! … Capii che solo l’Amore faceva agire le membra della Chiesa: che se l’Amore si dovesse spegnere, gli Apostoli non annuncerebbero più il Vangelo, i Martiri rifiuterebbero di versare il loro sangue. Capii che l’Amore racchiudeva tutte le vocazioni, che l’Amore era tutto, che abbracciava tutti i tempi e tutti i luoghi! Insomma che è eterno! Allora, nell’eccesso della mia gioia delirante ho esclamato: O Gesù mio Amore, la mia vocazione l’ho trovata finalmente! La mia vocazione è l’Amore! Sì, ho trovato il mio posto nella Chiesa e questo posto, o mio Dio, sei tu che me l’hai dato: nel Cuore della Chiesa, mia Madre, sarò l’Amore! Così sarò tutto, così il mio sogno sarà realizzato!!!».
Teresa ricevette il dono di comprendere davvero il mistero dell’infanzia di Cristo: una infanzia che si estendeva fin sulla Croce, là dove Egli diventò totalmente il Bambino del Padre celeste, abbandonato nelle Sue mani, prima di essere nuovamente deposto sul grembo della Vergine Addolorata. A Teresa – nell’ultimo anno e mezzo di sua vita – fu chiesto di immedesimarsi nella passione di Gesù. Morendo in Croce, Egli si caricò di tutti i nostri peccati, di tutto il nostro rifiuto di Dio, di tutta la nostra maledizione. Perfino il mondo si coprì di tenebra. Ma contemporaneamente il Suo cuore bruciava di amore per il Padre e per tutti gli uomini. Così Cristo esperimentava assieme tutta la tenebra del nostro male e tutto il fuoco luminoso del Suo amore. Così pure Teresa – in quegli ultimi mesi di vita – si sentiva avvolta da tenebre fittissime e da pensieri angoscianti, ma i suoi insegnamenti più caldi sull’amore di Dio e del prossimo, i suoi desideri più travolgenti, le sue espressioni più tenere e delicate appartengono tutte a questo periodo. Fu allora che ella divenne compiutamente «Teresa del Bambino Gesù del Volto Santo».
L’8 luglio 1897, date le sue gravi condizioni, Teresa venne trasferita in infermeria e madre Agnese di Gesù (Paolina), giorno dopo giorno, ne annotò gli Ultimi colloqui. «Sento di avviarmi al riposo. Ma soprattutto sento che la mia missione sta per cominciare: la mia missione di fare amare il Signore come io l’amo… Sì, voglio passare il mio Cielo a fare del bene sulla terra. Dopo la mia morte farò cadere una pioggia di rose. Nessuno m’invocherà invano. Lavorerò fino alla fine del mondo per i miei fratelli che sono sulla terra fino a che non li vedrò tutti in Paradiso. Quando l’Angelo del Signore dirà: « Il tempo non è più! » allora riposerò perché il numero degli eletti sarà completo» (NV, 17 luglio 1897). I dolori e le prove, sopportati con pazienza, si intensificarono; Teresa, comunque, completò il racconto della propria vita scrivendo il Manoscritto C. Il 30 luglio ricevette l’Estrema Unzione e il Santo Viatico. Il 19 agosto l’ultima Comunione.
«Se questa è l’agonia, che cosa sarà la morte?». «Sì, Dio mio, tutto quello che vorrete, ma abbiate pietà di me!». «Sì, mi pare di aver cercato sempre la verità. Sì, ho capito l’umiltà del cuore». «Non mi pento di essermi offerta all’Amore». E più tardi: «Non avrei mai creduto possibile soffrire tanto! Mai! Mai! Non posso spiegarmelo se non con i desideri ardenti che ho avuto di salvare la anime» (NV, 30 settembre 1897). Ogni respiro divenne un tormento. Pregò la Madonna: «Mamma!… l’aria della terra mi manca… quand’è che il buon Dio mi darà l’aria del Cielo?» (Ultimi Colloqui, 28,9,1). E, alla fine, fissando gli occhi sul suo Crocifisso: «Oh… l’amo!… Dio mio… Vi… amo!…».
Dopo aver pronunciato queste parole cadde dolcemente indietro, la testa reclinata a destra. Morì il 30 settembre 1897, all’età di ventiquattro anni, con i polmoni quasi completamente consumati. Il 4 ottobre Suor Teresa del Bambino Gesù del Volto Santo fu sepolta nel cimitero di Lisieux, nel recinto riservato alle Carmelitane Scalze.
La sua fama, dopo la pubblicazione dei suoi scritti, attraversò velocemente la Francia, l’Europa e il mondo. Venne dichiarata beata da Pio XI il 29 aprile 1923, e dopo appena due anni, il 17 maggio del 1925, lo stesso Pontefice procedette alla solenne canonizzazione in S. Pietro a Roma. Il 14 dicembre del 1927 Santa Teresa fu proclamata « Patrona delle missioni cattoliche universali » insieme a San Francesco Saverio; nel 1932 « Protettrice della Russia » e nel 1944 Pio XII la affiancò a Santa Giovanna d’Arco quale « Patrona di Francia ». Giovanni Paolo II, nella XII Giornata Mondiale della Gioventù a Parigi (1997), volle riproporne la testimonianza additandola come esempio a tutti giovani del mondo. Il 19 ottobre 1997 lo stesso Pontefice proclamò Santa Teresa di Lisieux Dottore della Chiesa (terza « eccezione » dopo Caterina da Siena e Teresa d’Avila).
Teresa Martin è una Santa cattolica amata e venerata anche da ortodossi e protestanti e onorata perfino nel mondo arabo. Un privilegio che condivide solo con S. Francesco d’Assisi.