Archive pour octobre, 2013

MARIA, DONNA DEL RINGRAZIAMENTO

http://www.suorefrancescaneimmacolatine.it/index_file/Di%20Muro1.pdf

(trascrizione da un PDF)

MARIA, DONNA DEL RINGRAZIAMENTO

DI P. RAFFAELE DI MURO OFMCONV

ALLORA MARIA DISSE:

 « L’anima mia magnifica il Signore
 e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
 perché ha guardato l’umiltà della sua serva.
 D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
 Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente
 e Santo è il suo nome:
  di generazione in generazione la sua misericordia
 si stende su quelli che lo temono.
 Ha spiegato la potenza del suo braccio,
 ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
 ha rovesciato i potenti dai troni,
 ha innalzato gli umili;
 ha ricolmato di beni gli affamati,
 ha rimandato a mani vuote i ricchi.
 Ha soccorso Israele, suo servo,
 ricordandosi della sua misericordia,
 come aveva promesso ai nostri padri,
 ad Abramo e alla sua discendenza,
 per sempre».
Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua (Lc 1, 46-56).

L’anima mia magnifica il Signore. Maria è la donna del ringraziamento perché rende grazie a Dio per tutti i prodigi che ha compiuto nella sua vita. La Vergine gode di grandi privilegi: è l’Immacolata, la Madre di Dio, Colei che coopera in modo perfetto al piano della Redenzione, Colei che è chiamata a seguire Gesù in tutta la sua vicenda terrena, ma è consapevole che deve tutto alla misericordia di Dio. La vocazione di Maria è un dono divino ed ella ringrazia l’Altissimo per i doni ricevuti. Nella Madonna ammiriamo proprio la capacità di ringraziare e lodare Dio per quanto compie in lei. Quante volte i religiosi hanno la capacità di ringraziare? Anche la nostra vocazione viene da Dio ed è caratterizzata da tanti doni, ma abbiamo la capacità di dire “grazie” a Colui che ci ha chiamati a vivere in stretta comunione con Lui? Dai tanti incontri, esercizi e ritiri con religiosi e religiose, a me pare che emerga una sorta di scoraggiamento dovuto alla convinzione che non è possibile vivere la propria chiamata all’insegna dell’autenticità. E’ venuta meno la percezione della grandezza della chiamata alla vita consacrata, nonché il desiderio di ringraziare Dio per questo stato
di vita che, nel passato era considerato perfetto. La nostra capacità di ringraziamento nasce ed è più grande se siamo consci dell’altezza e della bellezza della nostra vocazione. Ciò che pesa è proprio la chiamata a vivere la croce con Cristo. La sofferenza fisica o morale è spesso l’elemento scatenante di crisi durature o irreversibili. Le difficoltà comunitarie sembrano insormontabili e causano frequentemente depressione e sconforto, al punto di perdere la consapevolezza e la certezza della grandezza e della bellezza della sequela di Cristo. Conformarsi a Gesù vuol invece dire proprio accettare anche i momenti di prova. Conformarsi a Lui significa chiederGli la grazia della perseveranza e della fedeltà, nonostante i momenti di dolore e di deserto. Anche l’Immacolata ha conosciuto la prova e il dolore, ma ha saputo comunque ringraziare Dio per la sua vocazione. 
Grandi cose ha fatto in me l’onnipotente. Maria ringrazia Dio per i doni meravigliosi che ricevuto! Ella è la piena di grazia, è piena della presenza e della forza divina. La Madonna ringrazia l’Altissimo per quanto le ha donato. Anche noi religiosi non dobbiamo dimenticare che abbiamo ricevuto una vocazione bellissima: servire e amare Dio in modo esclusivo e con la forza della grazia che viene da Lui. E’ vero, talvolta siamo chiamati a vivere sofferenze intense o incomprensibili. Ricordiamo però che anche noi abbiamo il conforto della divina grazia che ci aiuta ad essere fedeli,
perseveranti. Anche nei consacrati il Signore compie prodigi, compie grandi cose per le quali sciogliere in inno di
ringraziamento e di lode. Il peso della croce, che pure siamo chiamati a sperimentare, non deve schiacciarci e farci dimenticare la bellezza e l’altezza della nostra vocazione. Siamo chiamati a stare con Gesù ed a seguirlo in tutto il suo mistero, in tutto quello che ha vissuto ed a detto, a vivere come Egli è vissuto, ad amare come Egli ha amato. Si tratta di una realtà che implica grande responsabilità da parte nostra ma che resta pur sempre entusiasmante. 
Di generazione in generazione. Maria realizza che la sua vita e la sua vocazione fanno parte di un preciso progetto di salvezza. Dio parla all’uomo lungo i secoli, lungo il fluire delle generazioni. E’ bene ricordare che noi siamo dentro una tradizione spirituale, quella del nostro istituto che è portatrice della presenza dell’Altissimo! Noi facciamo parte di un cammino spirituale, quello iniziato dai fondatori, e ci rendiamo portatori una speciale mozione dello Spirito Santo. Siamo già dentro un cammino di santità, quello suggerito dallo Spirito ai nostri fondatori. Non siamo chiamati a realizzare nostre “invenzioni” ma a continuare a seguire i fondamenti del carisma del nostro Istituto e ad approfondire quello del fondatore o della fondatrice. A volte i religiosi sembrano avere la memoria corta, dimenticando la tradizione spirituale da cui provengono e che sono, invece, chiamati ad arricchire. Recuperiamo il grande valore della nostra storia! Il passato ci insegna che Dio è fedele e sostiene con la sua grazia coloro che chiama alla realizzazione di un determinato progetto. Il dramma di tanti religiosi è rappresentato dal fatto che non sono sempre della fedeltà di
Dio e per questo manca la loro risposta fatta di amore e dedizione. 
Ha innalzato gli umili. Maria comprende che l’umiltà è la virtù che “apre” il cuore di Dio. Egli innalza gli umili perché essi hanno il Lui la loro unica ricchezza. Quando Egli è la nostra unica ricchezza, quando viviamo davvero di Lui, la nostra vita diventa un prodigio, diventa emanazione di Lui, del Suo amore, della Sua grazia, della Sua presenza tra gli uomini. Più siamo umili, più è grande la manifestazione dell’amore misericordioso di Dio nella nostra vita. Umiltà
è vivere di Dio e permettergli la massima disponibilità del nostro cuore. Questa virtù ci consente di aprire il cuore sempre alla grazia di Dio, a non aspettarci consensi dal “mondo” e ad attendere da Dio solo ogni bene! La nostra è
una vita all’insegna dell’imitazione di Gesù povero ed umile e chi nutre altro tipo di aspirazioni andrà certamente incontro a grandi  frustrazioni. Nel nostro linguaggio e nel nostro vissuto dovremmo dare più spazio all’ascesi, al
nascondimento, alla preghiera fervorosa, alla richiesta di grazie sempre più utili al nostro cammino. 
Come aveva promesso. Maria si rende conto di essere dentro un progetto. Vi è un progetto grande nel quale l’Immacolata è inserita! Con il suo “si” ella collabora in modo mirabile al piano della salvezza, grazie alla sua docilità a noi giunge il Salvatore, Colui che avrebbe lavato i peccati dell’umanità donandole la vita divina. Anche i religiosi sono inseriti in un progetto grande! Il nostro “si” ci pone nella condizione di vivere il piano di bene e di amore che l’Altissimo ha voluto per ogni consacrato. I religiosi e le religiose dovrebbero riflettere su questo grande mistero: essi entrano a far parte di un progetto di Dio, essi sono gli “strumenti” mediante i quali Egli parla all’umanità, soprattutto essi sono chiamati ad essere “terreno sacro” per Lui mediante la loro preghiera e la loro adorazione. I religiosi sono davvero privilegiati, ma se ne rendono davvero conto? Dio ci ha chiamati fin dal grembo materno ad amarLo in modo esclusivo, a servirlo senza riserve ed essere speciali testimoni del suo amore nel mondo.

Preghiera 
 Maria, Vergine del ringraziamento, aiutami ad essere sempre grato a Dio per i doni che mi ha concesso: la vocazione, la missione, la sua grazia, la sua presenza amorosa e prodigiosa nella mia vita! Anche nei momenti di dolore aiutami ad essere perseverante, a rinnovare il mio “si” e il mio “grazie” anche sotto la croce, proprio come hai fatto tu! AMEN.

13 OTTOBRE 2013 – 28A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C : LECTIO DIVINA SU: LC 17,11-19

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/03-annoC/annoC/12-13/05-Ordinario/Omelie/28-Domenica-2013-C/28-Domenica-2013_C-JB.html

13 OTTOBRE 2013  | 28A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C  |  PROPOSTA DI LECTIO DIVINA

LECTIO DIVINA SU: LC 17,11-19

La guarigione dei dieci lebbrosi fu, con tutta sicurezza, un successo fortuito nella vita di Gesù. Un giorno Gesù volle passare, mentre andava verso Gerusalemme, da un villaggio. Per caso nei dintorni girovagava un gruppo di infermi. Non era sua intenzione incontrarsi con loro: non andava alla loro ricerca. Però ugualmente non volle rimanere estraneo ai loro bisogni, quando lo pregarono di aver compassione di loro. Non li cercò, e neppure li evitò e si scusò. Le ragioni erano note: un lebbroso era una persona da schivare per questo non torneranno a ringraziarlo della guarigione. Erano accorsi a lui spinti dal loro stato di estremo bisogno, ma non tornarono da lui quando si videro liberati dalla loro terribile malattia. La guarigione gratuita non li fece uomini grati e neppure credenti guariti… a eccezione di uno, il samaritano, lo straniero, quello che meno ci si avrebbe aspettato un simile riscontro. Solo chi, curato, adorò Dio e ringraziò Gesù fu salvato. Una fede fatta di gratitudine e di preghiera, fece dell’incontro con Gesù un incontro con Dio salvatore.
Oggi il ricordo di questo episodio può servirci per rivedere la nostra relazione con Dio e domandarci in sua presenza come mai non ritorniamo a ringraziarlo quando abbiamo ottenuto ciò che gli abbiamo chiesto avvicinandoci a lui con la preghiera. Liberi dai nostri mali, superate le nostre necessità, ci sentiamo liberi di Dio e superiori, tanto da non ritornare a Lui per ringraziarlo. Ricorriamo a Dio quando abbiamo bisogno e ci dimentichiamo di Lui una volta che ci ha esaudito. E così, irriconoscenti, non ringraziamo. Per non perdere tempo in ringraziamenti, possiamo perdere la fede e la salvezza. Come appunto quel gruppo di lebbrosi così ingrati.

11 Venendo Gesù da Gerusalemme, passava tra la Samaria e la Galilea. 12Quando stava per entrare in un villaggio, gli si fecero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono ad una certa distanza 13e a gran voce dicevano: « Gesù, Maestro, abbi pietà di noi ».
14 Al vederli, disse loro: « Andate a presentarvi ai sacerdoti ».
E mentre essi andavano, furono guariti.
15 Uno di loro, vedendo che era guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce 16e si prostrò ai piedi di Gesù e lo ringraziò. Questi era un Samaritano.
17 Gesù prese la parola e disse:
« Non sono stati dieci i guariti? E gli altri nove dove sono? Solamente questo straniero è tornato per dar gloria a Dio »? 19 E gli disse: « Alzati, va’: la tua fede ti ha salvato ».
 1. LEGGERE: capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice

Luca ricorda un fatto casuale accaduto durante la salita di Gesù a Gerusalemme e lo presenta come una catechesi sulla salvezza e come il cammino per giungere a questa. Dunque, l’iniziativa non parte da Gesù -il suo obiettivo dichiarato è arrivare a Gerusalemme (Lc 17,11)- nel racconto è lui il protagonista. La sua parola domina la scena.
L’episodio ha due scene. La prima narra con estrema brevità la guarigione (Lc 17,12-14). All’entrata di un paese tra la Samaria e la Galilea, dei lebbrosi si avvicinano a Gesù. La malattia, terribile per l’aspetto esteriore e terribile per il contagio che provoca, era vista come una maledizione divina; imponeva la totale emarginazione sociale e religiosa. Di fatto con gesti e grida i lebbrosi cercano di catturare l’attenzione di Gesù (Lc 17,13). I lebbrosi non chiedono la guarigione, cercano la compassione del rabbino che passa dal loro pese. E Gesù gli ordina di fare, anche se ancora non guariti, quello che ordina la legge, cioè: presentarsi dinanzi ai sacerdoti e chiedere di essere riammessi nella comunità. Che siano i sacerdoti a riconoscere la loro guarigione (Lc 14,1-4). I lebbrosi obbediscono a Gesù e si mettono in cammino come fossero già guariti: lo saranno prima di presentarsi ai sacerdoti: guarivano mentre erano in cammino, dopo aver obbedito, fidandosi delle parole di Gesù. Gesù non li curò immediatamente, perché aveva bisogno della loro obbedienza per mondarli. Non fu, perciò, la legge rispettata, ma l’ordine di Gesù eseguito che provocò la purificazione.
La seconda scena si concentra in uno solo dei lebbrosi, l’unico che ritornò da Gesù ‘quando vide che era guarito (Lc 17,15-19). Annotando che era un samaritano, Luca presenta intenzionalmente l’allontanato, il disprezzato, lo straniero come l’autentico e unico, modello di fede. Gli altri non torneranno perché, essendosi già aggiustati con la legge, si erano reincorporati nella vita normale, recuperando famiglia e lavoro. Il caso è che tutti furono ‘guariti’, ma uno solo fu ‘salvato’. Era ritornato per adorare Dio e ringraziare il suo guaritore. Questo secondo incontro, da solo e con due buone ragioni, gli concede quello che non avrebbe perso: la sua ‘salvezza’. E Gesù dichiara che è stata la sua fede a decidere il suo viaggio di ritorno unicamente per dare gloria a Dio e a ringraziarlo. Dieci lebbrosi chiesero un giorno a Gesù la compassione ed ottennero la guarigione. Solo uno di loro acquistò la salvezza, quello che ebbe fede sufficiente per ritornare a ringraziare Gesù e adorare Dio. Il samaritano fu l’unico che, riscontrando la sua sanità, rincontrò Dio.

 2. MEDITARE: APPLICARE ALLA VITA QUELLO CHE DICE IL TESTO!
Il racconto esemplifica un preciso cammino di fede che solo un uomo seppe -alla fine- ricorrere: il samaritano, uno straniero. Dirigendosi verso Gerusalemme, Gesù attraversa un paese. Questa volta non va in cerca di uditori per il suo vangelo e neppure infermi da curare. Però non si disinteresserà di chi implora il suo aiuto. Pur occupato, si lascia commuovere da chi ha bisogno di aiuto. Chi, come lui cammina verso la sua passione, sente compassione verso chi sta soffrendo. Non si capisce molto bene che chi cammina pieno di passione per Dio, disposto a compiere la sua volontà, a qualsiasi prezzo, possa vedere sofferenze e passare, senza misericordia, inosservato.
Può essere che non riusciamo a capire bene il dramma di questo gruppo di lebbrosi e la loro necessità di guarigione, perché oggi per noi, la lebbra è una malattia vinta dalla scienza, non comprendiamo perciò facilmente la disgrazia di chi la contraeva. Nel tempo di Gesù si considerava lebbroso chiunque contraeva una malattia della pelle, malattie che per la maggior parte erano incurabili e degenerative. La deformazione esterna infondeva terrore e chi non la poteva nascondere era espulso dalla società, abbandonato anche dalla sua famiglia. I lebbrosi vivevano in gruppo per difendersi maggiormente dalla fame e dalla loro infermità. Considerando che si temeva il contagio, raramente incontravano aiuto, oppure compassione tra la gente. Fu sincero il grido col quale accolsero Gesù: Maestro abbi compassione di noi.
Molto ebbe da soffrire questo gruppo di lebbrosi prima di avere il coraggio di domandare gridando la compassione di Gesù verso di loro. Non avevano attorno nessuno al quale confidare la loro miseria e sperare la sua simpatia e comprensione. Fu facile richiamare l’attenzione di chi in quel momento si avvicinava, passando, e così, rispettando la legge, gli lanciarono a distanza la supplica. Ed è significativo che non chiesero la guarigione a Gesù ma solamente un poco di compassione. E sorprendentemente Gesù non dirige una sola parola di incoraggiamento. Risponde, senza avvicinarsi, come prova della sua compassione, con un mandato: andate a presentarvi ai sacerdoti.
E mentre obbedivano, durante il cammino, si trovarono sani e salvi. I lebbrosi sapevano che solo i sacerdoti potevano dichiarali guariti, ma intrapresero il viaggio, come già fossero guariti, fidandosi delle parole di Gesù. La compassione di Gesù si manifestò tramite un ordine preciso che portò alla guarigione non chiesta, quando si stava compiendo il mandato. Gesù fece questo non solamente perché ebbe compassione della loro miseria, ma perché loro obbedirono alle sue parole. Non bastò sentirsi ammalati e bisognosi della comprensione di Gesù, dovettero compiere il suo volere. Erano tanto disperati che chiesero aiuto a chi passava lungo il loro cammino, però furono guariti, perché ubbidirono senza titubanze. Nel cammino si incontrarono con la guarigione.
Bisogna essere veramente ingenui per adempiere la legge -presentarsi ai sacerdoti- senza l’obbligo di farlo, solamente perché Gesù li ha obbligati a farlo. Non fu perciò il compimento della legge, ma fu la cieca obbedienza a Gesù, ciò che li guarì mentre erano in cammino, guarigione che li ricondusse alle loro famiglie. Chi di noi si sente già bene, chi non soffre di solitudine, chi non ha bisogno di compassione per avere oggi le ragioni per richiamare l’attenzione di Gesù e riuscire a fidarsi di lui? Se i nostri mali -fisici e morali- più ripugnanti ci possono portare al nostro Salvatore, perché maledirlo? Di quel paese per il quale passava Gesù, se ne approfittarono solamente quelli che si sentivano male ed erano maledetti per la loro infermità.
E noi, perché non riusciamo a suscitare pietà e compassione in Gesù? Non sarà perché non la imploriamo? Quale debilitazione -esterna o interna- ci manca per sperimentare per affidarci al potere del nostro Maestro? oppure è che non ci sentiamo sufficientemente soli coi nostri problemi e colla nostra impotenza perché Gesù abbia compassione di noi, sempre che passi al nostro lato? In realtà ci manca la fede, quella fede che nasce dalla coscienza che possiamo ottenere quanto abbiamo bisogno e di cosa abbiamo bisogno da Dio perché ci salvi dalle nostre debolezze.
Però, soprattutto, ci manca l’obbedienza, tanto da metterci in cammino dove Dio ci manda senza saperci tuttavia curati del tutto; non dobbiamo dimenticarlo, i lebbrosi non furono curati solo per compassione, dovettero mettersi in cammino cercando il sacerdote. E’ che, invece di guarirci, a volte Dio non lascia che ci avviciniamo a Lui e ci obbliga ad allontanarci, perché andando con gli altri ci troviamo inopinatamente curati.
Quante volte abbiamo pensato che Dio non si interessa a noi, solo perché, come i dieci lebbrosi, invece di un gesto di compassione riceviamo un secco ordine! Apprendere dai dieci lebbrosi che unicamente l’obbedienza a Dio, ci mandi dove vuole, ci libera dalle nostre malattie. In più potremo conoscere piano piano come Dio desidera mostrare compassione per noi, però la otterremo sempre facendo ciò che Egli ci ha comandato. I lebbrosi non furono curati tramite una medicina, e neppure per un personale gesto di Gesù: da lontano, gli rivolsero una parola e allontanandosi da lui si trovarono del tutto guariti. Furono guariti dalle stesse parole che oggi Gesù dirige a noi; se continuiamo a non stare bene, sarà per la nostra colpa. Basterebbe ubbidirgli per recuperare la nostra salute, andando dove ci invia, tra gli altri recupereremo i nostri mali.
I dieci obbedirono al maestro: i dieci si ritrovarono guariti mentre erano in cammino verso il sacerdote. La necessità condivisa gli fece incontrare Gesù, seguendo le sue istruzioni, ricevettero un medesimo dono, la completa guarigione. Ma solamente uno ritorna a ringraziare della guarigione, solo lui è guarito all’interno. Che solo uno, uno straniero, tornerà a ringraziarlo, lo fece degno di una cura maggiore, anche se meno visibile. Gesù rimandò alla società degli uomini che non seppero mostrargli gratitudine. Per non essere stati capace di fare ciò che avrebbero dovuto fare, persero la cosa più importante. Il riconoscimento pubblico dei doni ricevuti da Dio è la forma di credere che salva il cuore, non solo la pelle dell’uomo. Ne consegue che gli estranei sono i più grati, perché meno sperano da Dio i doni che ricevono; e quelli che mostrano gratitudine saranno curati dai maggiori mali.
I malati gravi cercano in tutti i modi la cura e pochi, tranne alcuni, sono quelli che ringraziano per la guarigione, che riconoscono il bene che si è fatto loro. Ciò che sorprende è il giudizio di valore che, secondo Gesù, merita questa doppia forma di reazione davanti al bene che Dio ha fatto. La maggior parte è stata curata; uno solo salvato, per la fede dimostrata. In realtà il samaritano non ha fatto, riconoscendosi guarito, che ringraziare Dio e Gesù, confermando questa sua gratitudine con un viaggio di ritorno. Ma Gesù legge questo cammino come quello che nasce dalla necessità, non di chiedere misericordia e salute, ma di dare lode e gratitudine ai suoi benefattori come un atto di fede che salva.
Non è infrequente, Gesù se lo chiede con certa sorpresa, che quelli che sanno di meritare meno i doni di Dio, si mostrano con Lui più riconoscenti. Più riconoscenti di chi più si crede con diritto di essere aiutato, dando per scontato che gli si ‘deve’ il favore fatto. In fondo, non riusciamo ad essere più credenti perché ci manca non tanto la certezza del potere salvifico di Dio ma la capacità di riconoscerci favoriti tramite i suoi doni. Chi si rivolge a Dio solamente per chiedere, presto perderà il gusto di tornare a Lui. Adoriamo di meno Dio perché noi non torniamo a Lui pieni di gratitudine. Chi sa riconoscere i doni ricevuti -sia una grande guarigione oppure una piccola salvezza- senza molto sforzo sa di essere credente. La ‘conversione’ forse oggi più urgente, non è quella di curarsi del male, ma quella di ritornare a ringraziare Dio di ciò che ci da. Dio si mostra splendido con chi gli dimostra riconoscenza: se non desideriamo che l’azione di Dio sopra noi rimanga superficiale, se desideriamo che entri profondamente in noi, ritorniamo a ringraziarlo per quello che ha fatto a ognuno di noi. La nostra fede, esercitata nell’azione di grazia, ci avrà salvati. E supposto che abbiamo tanto bisogno di Dio, dobbiamo essere con Lui più riconoscenti.

 JUAN JOSE BARTOLOME sdb,

Pope John XXIII, election

Pope John XXIII, election dans Papa Giovanni XXIII papa_giovanni_xxiii

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Publié dans:Papa Giovanni XXIII |on 10 octobre, 2013 |Pas de commentaires »

11 OTTOBRE: PAPA GIOVANNI XXIII – BEATO, PROSSIMO ALLA CANONIZZAZIONE

http://www.giovaniemissione.it/testimoni/papagiovanni23.htm#Scrittisu

11 OTTOBRE: PAPA GIOVANNI XXIII – BEATO, PROSSIMO ALLA CANONIZZAZIONE

Giovanni XXIII è la figura principale del nuovo corso della Chiesa cattolica.

Biografia

Angelo Giuseppe Roncalli nasce il 25 novembre 1881 a Sotto il Monte, in provincia di Bergamo. E’ il quartogenito dei 13 figli di una modestissima famiglia di contadini mezzadri (“eravamo poveri ma contenti della nostra condizione…”). A 11 anni, Angelo entra nel seminario di Bergamo dove frequenta il ginnasio e il liceo. Continua gli studi a Roma presso il Seminario Romano dell’Appolinaire, esercita il servizio militare e diventa sacerdote nel 1904. E’ eletto segretario del Vescovo di Bergamo, mons. Radini-Tedeschi, ed inizia ad insegnare in seminario discipline storiche e teologiche. E’ cappellano militare durante la prima guerra mondiale. E’ in questi anni che esprime il suo metodo di lavoro: “Mettersi a contatto con tutti, essere presente dovunque, esporre con chiarezza la dottrina, non lasciarsi sopraffare dalle difficoltà, non arrendersi alle iniziative avversarie, non accontentarsi di fare argine e tenere posizioni, ma precedere e guidare in spirito di apostolato”.
 Nel 1921 è nominato presidente del Consiglio Centrale per l’Italia della Pontificie Opere Missionarie, incarico che accresce il suo amore per le missioni estere.
Nel 1925 diventa Vescovo ed inizia una fortunata carriera nella diplomazia vaticana.
Dal ’25 al ’34 è in Bulgaria in qualità di Visitatore e Delegato Apostolico. Dal ’34 al ’44 è ad Istanbul come Delegato Apostolico di Turchia e Grecia e dal ’44 al ’52 è a Parigi come Nunzio Apostolico. In tutti questi paesi, Mons. Roncalli affronta la difficile situazione sociale, politica e religiosa con equilibrio e semplicità, riuscendo a conquistare tutti, potenti e no.
 Nel 1953 Pio XII lo nomina Cardinale e Patriarca di Venezia. Nel suo discorso di nomina a Patriarca dice ai veneziani:  » “Vengo dall’umiltà e fui educato a una povertà contenta e benedetta… La Provvidenza mi trasse dal mio villaggio nativo e mi fece percorrere le vie del mondo… preoccupato più di quello che unisce che di quello che separa e suscita contrasti”. Continua: “Raccomando alla vostra benevolenza l’uomo, che vuol essere semplicemente vostro fratello, amabile, accostevole, comprensivo”. Decide che tutti i giorni per tre ore, dalle 10 alle 13, tutti i veneziani, soprattutto i più poveri, che avessero qualcosa da dirgli, potessero liberamente andarlo a trovare nel suo palazzo. Gli piace stare con la gente, tanto che compare per le strade e i campielli e trova spesso il tempo di visitare anche gli ammalati nei vari ospedali. La gente lo ama tantissimo perché vede in lui un fratello e un padre che accoglie tutti a braccia aperte.
Il 28 ottobre 1958, dopo la morte di Pio XII, è eletto Sommo Pontefice e sceglie il nome di Giovanni (nome di suo padre, del patrono del suo paese d’origine e dell’evangelista della carità). Angelo Giuseppe ha ormai 77 anni e l’impressione generale è quella che la sua elezione sia la nomina di un papa “di transizione”, che riceva l’eredità del suo predecessore fino a che la situazione della Chiesa e del mondo cristiano, in un’incerta epoca di trasformazione, si chiarisca. Ma già dopo soli tre mesi dalla sua elezione, egli dimostra che queste non erano le sue intenzioni, annunciando la convocazione di un Concilio Ecumenico. Inizia un nuovo modo di fare il Papa, con molte sorprese:
- Abolisce molte formalità nella Santa Sede.
- Visita inaspettatamente i bambini e gli anziani in ospedale e i detenuti in carcere.
 - Annuncia a sorpresa il Concilio Vaticano II con lo scopo di aggiornare la dottrina cristiana.
- Aumenta gli stipendi dei lavoratori della Santa Sede, raddoppiando le paghe delle categorie inferiori e migliorando quelle delle categorie superiori.
- In quanto Vescovo di Roma, visita personalmente le parrocchie e le borgate della città. – E’ il primo Papa ad uscire dal Lazio, (dopo l’annessione di Roma allo stato italiano nel 1870), compiendo un pellegrinaggio in treno a Loreto e Assisi.
- Durante il suo Pontificato, nomina 37 nuovi cardinali, tra cui per la prima volta nella storia un tanzaniano, un giapponese, un filippino e un messicano.
- E’ il primo Papa ad eleggere il primo santo di colore, fra Martin de Porres.
Il 10 maggio 1963 il Papa riceve il premio internazionale Balzan per la pace per la sua intensa attività contro i conflitti.
Dopo una breve malattia, Giovanni XXIII muore il 3 giugno 1963.
 Egli fu molto amato, e lo è tuttora, per la sua personalità umana, il suo interesse verso i più deboli, il suo zelo apostolico che lo portò ad iniziative insolite, a contatto diretto con la gente.

E’ stato beatificato da Giovanni Paolo II il 3 settembre 2000.

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LETTURE DELLA PREGHIERA NOTTURNA DEI CERTOSINI

http://www.certosini.info/lezion/24_TO_settimana.htm

LETTURE DELLA PREGHIERA NOTTURNA DEI CERTOSINI

 ANNO C – TEMPO ORDINARIO

VENTISETTESIMA SETTIMANA

VANGELO (Mt 22,34-46)
Amerai il Signore Dio tuo, e il tuo prossimo come te stesso.
 In quel tempo, i farisei, udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della legge, lo interrogò per metterlo alla prova: “Maestro, qual è il più grande comandamento della legge?”.
Gli rispose: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti”.
Trovandosi i farisei riuniti insieme, Gesù chiese loro: «Che ne pensate del Messia? Di chi è figlio?». Gli risposero: «Di Davide». Ed egli a loro: «Come mai allora Davide, sotto ispirazione, lo chiama Signore, dicendo:
Ha detto il Signore al mio Signore: Siedi alla mia destra,
finché io non abbia posto i tuoi nemici sotto i tuoi piedi?
Se dunque Davide lo chiama Signore, come può essere suo figlio?».Nessuno era in grado di rispondergli nulla; e nessuno, da quel giorno in poi, osò interrogarlo.

Il massimo comandamento
 Se l’uomo è portato per natura ad amare Dio (265), la carità soprannaturale, liberandoci da un attaccamento esclusivo alle realtà terrene (266) ci trasfigura (267). Ama e riceverai il regno! (268). Inghirlandato di umiltà, di fede e di preghiera (269), l’amore corre verso Dio (270).

265
Lunedì
Dalle “Regole ampie” di san Basilio.
Qst. 2. PG 31,908-912.
 L’amore di Dio non si insegna. Non abbiamo irnparato da nessuno a gioire della luce né ad essere attaccati alla vita più che ad ogni altra cosa. Nessuno ci ha neppure insegnato ad amare coloro che ci hanno messo al mondo o ci hanno allevato.
Allo stesso modo, o meglio, a più forte ragione, non è un insegnamento datoci dall’esterno quel che ci fa amare Dio. Nella natura stessa dell’essere vivente – voglio dire dell’uomo – si trova un germe che contiene in sé il principio di questa inclinazione ad amare. E solo alla scuola dei comandamenti di Dio è possibile raccogliere questo seme, coltivarlo con diligenza, nutrirlo con cura e portarlo a pieno sviluppo mediante la grazia divina.
Abbiamo ricevuto il precetto di amare Dio, sicché possediamo una forza, immessa in noi fin dalla prima strutturazione del nostro essere, che ci spinge ad amare. Siamo portati per natura a desiderare le cose belle, anche se il bello appare diverso all’uno e all’altro. Ora, che cosa c’è da ammirare più della divina bellezza? Quale desiderio spirituale è così ardente e quasi inarrestabile come quello che Dio fa nascere nell’anima purificata da tutti i vizi, la quale esclami con cuore sincero: Sono malata d’amore? (Ct 2,5). Del tutto ineffabile e inesprimibile è lo splendore della bellezza divina. Però, propriamente parlando è bello e amabile ciò che è buono. Ora Dio è buono. E se anche non abbiamo conosciuto dalla sua bontà quel che egli sia, dobbiamo grandemente amarlo e averlo caro per il solo fatto di essere stati da lui generati; restiamo continuamente sospesi alla memoria di lui, come bimbi aggrappati alla mamma.
266

Martedì
Dai  “Capitoli sulla carità” di san Massimo il confessore .
I, 4-5. 16-17.39-40. FG 2° 50-54.
 La carità è la migliore disposizione dell’anima che nulla preferisce alla conoscenza di Dio. Nessuno tuttavia, potrebbe mai raggiungere tale disposizione di carità se nel suo animo fosse esclusivamente legato alle cose terrene.
Chi ama Dio, antepone la conoscenza e la scienza di lui a tutte le cose create, e ricorre continuamente a lui con il desiderio e con l’amore dell’animo.
Chi mi ama, dice il Signore, osserverà i miei comandamenti (cf Gv 14,15). E aggiunge: Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri (Gv 15,17). Perciò, chi non ama il suo prossimo, non osserva i comandamenti di Dio, e chi non osserva i comandamenti non può neppure dire di amare il Signore. Beato l’uomo che sa amare in modo uguale ogni uomo.
Chi possiede dentro di sé l’amore divino, non si stanca e non viene mai meno nel seguire il Signore Dio suo, ma sopporta con animo forte ogni sacrificio e ingiuria e offesa, non augurando affatto il male a nessuno. Non dite, esclama il profeta Geremia, siamo tempio di Dio (cf Ger 7,4). E neppure direte: La semplice e sola fede nel Signore nostro Gesù Cristo mi può procurare la salvezza. Questo infatti non può avvenire se non ti sarai procurato anche l’amore verso di lui per mezzo delle opere. Per quanto concerne infatti la sola fede: Anche i demoni credono, e tremano (Gc 2,19).
Opera di carità è il fare cordialmente un favore, l’essere longanime e paziente verso il prossimo; e così pure usare in modo retto e ordinato delle cose create.

267
Mercoledì
 Dalla “Scala del Paradiso” di san Giovanni Climaco.
30° grado, 7-9.17.27-28.16. Op.cit. pp.306-308.
 L’amore è perfetto ripudio di qualsiasi pensiero che sia contrario alla carità verso il prossimo, perché san Paolo ci insegna che la carità non pensa il male. Perciò chi ama il Signore ama anche il fratello. Anzi, il secondo amore è la dimostrazione del primo. Colui che dice di amare il Signore, ma monta in collera contro suo fratello, assomiglia a chi corre mentra sta sognando.
L’amore, la quiete inalterata e l’adozione a figli di Dio differiscono solo di nome. Come la luce, il fuoco e la fiamma sono presenti in una medesima operazione, così queste tre realtà dello spirito sono una sola cosa. Quando l’uomo è pervaso completamente dall’amore di Dio, lo splendore dell’anima si irradia da tutta la persona come attraverso un cristallo.
Se il volto di un essere amato produce nel nostro essere intero un cambiamento manifesto e ci rende lieti, allegri e liberi da ogni cruccio, che cosa non farà il volto del Signore nell’anima pura venendo invisibilmente a dimorare in essa?
L’amore nella sua natura rende l’uomo simile a Dio, per quanto ciò è possibile ad un essere creato. Nei suoi effetti è ebbrezza dell’anima; nelle sue proprietà, l’amore è sorgente di fede, è abisso di pazienza, è oceano di umiltà.

268
Giovedì
 Dalle “Lettere” di sant’Anselmo d’Aosta.
Lett. 112 a Ugo il recluso. Opera omnia,VoI.3°,pp.245-246, Nelson, Edimburgo, 1946.
 Regnare in cielo altro non è che aderire a Dio e a tutti i santi, mediante l’amore, in una sola volontà, al punto che tutti esercitino un solo e medesimo potere. Ama perciò Dio più di te stesso e già comincerai ad ottenere quanto vuoi possedere perfettamente in cielo. Mettiti d’accordo con Dio e con gli uomini – purché tuttavia costoro non si separino da Dio – e già inizierai a regnare con Dio e tutti i beati.
Nel grado infatti in cui ora sei in armonia con la volontà divina e dei fratelli, Dio e tutti i santi saranno d’accordo con i tuoi voleri. Vuoi essere re in cielo? Ama Dio e gli uomini, come lo devi, e meriterai di essere quello che ti auguri.
Non potrai però possedere questo amore perfettamente, se non vuoti il cuore di ogni altro amore. Ecco perché quelli che colmano il proprio cuore di amore di Dio e del prossimo hanno come unica volontà quella di Dio – o quella di un altro uomo, purché non in disaccordo con quella di Dio. – Sicché sono fedeli nel pregare, nel ricordarsi del cielo e nel fissare il proprio pensiero su tali realtà; fa loro piacere desiderare il Signore, parlare di colui che amano, ascoltare parlare di lui, pensare a lui. Si rallegrano con chi è nella gioia, piangono con chi è afflitto, hanno compassione per gli infelici, distribuiscono beni ai poveri. Insomma amano gli altri come sé stessi. Sì, davvero tutta la legge e i profeti sono racchiusi nei due comandamenti dell’amore cf Mt 22,40).

269
Venerdì
 Dalle “Cento considerazioni sulla fede” di Diàdoco di Fòtica.
nn. 13.21 . S Ch 5.
So di uno che ama tanto Dio, eppure si lamenta di non amarlo come egli vuole, al punto che la sua anima non cessa mai di struggersi in un’ardente passione tale da fargli glorificare Dio in sé stesso e quasi annullarsi. Egli non riconosce di valere qualcosa, neppure quando nei discorsi ne tessono l’elogio. Infatti, non tiene in nessun conto la sua dignità, ma si dedica al servizio divino secondo il rito sacerdotale; decisamente impegnato ad amare Dio occulta il ricordo della propria dignità nel profondo dell’amore divino, ivi soffocando in spirito di umilità ogni gloria che ne potrebbe trarre. Vuole in ogni occasione presentarsi al giudizio della sua mente come un servo inutile. Cosi facendo, anche  noi dobbiamo fuggire ogni onore e gloria per la sovrabbondante ricchezza dell’amore del Signore che ci ha tanto amati.
Nessuno può vivere autenticamente nell’amore o nella fede se non si fa accusatore di sé stesso. Quando infatti la nostra coscienza si turba rimproverando sé stessa, allora la mente non si abbandona più a sentire in sé la fragranza dei beni sopramondani, ma subito rimane divisa tra le incertezze. Da una parte si muove in tensione fervida secondo la sua precedente esperienza di fede, dall’altra non può più coglierla col senso del cuore per le vie dell’amore, perché la coscienza la rimprovera. Solo quando ci saremo purificati con un più fervido impegno, realizzeremo il nostro desiderio con una maggiore esperienza di Dio.

270
Sabato
Dai “Capitoli” di Niceta Stéthatos.
II, 41; I,82; III,37. FG 3°, 435. 417. 468.

Niente altro innalza l’anima all’amore per Dio e alla carita verso il prossimo come l’umiltà, la compunzione e la preghiera pura. L’umiltà rende contrito lo spirito, fa scorrere rivi di lacrime e portando davanti agli occhi la brevità della vita umana, insegna a conoscere la pochezza di sé. La compunzione purifica l’intelletto dalla materia, illumina lo sguardo del cuore e rende l’anima fulgente. La preghiera pura congiunge l’uomo a Dio e lo rende nella vita simile agli angeli; gli fa gustare la dolcezza dei beni eterni, gli dona i tesori dei grandi misteri, e accendendolo di carità, lo persuade a osare di porre la propria vita per gli amici. Infatti in colui che è ferito nel profondo dall’amore di Dio, questa inclinazione è superiore alla forza del corpo, poiché in lui essa non si sazia nelle fatiche e nei sudori dell’ascesi.
Costui è nella condizione di quelli che patiscono una sete enorme; non c’è nulla che possa curare fino a saziarla l’arsura di quella inclinazione; per tutto il giorno e la notte ha sete di faticare. Infatti, quanto procede nelle sue ascensioni in virtù dello Spirito e penetra nelle profondità di Dio, tanto si consuma per il fuoco del desiderio e scruta la grandezza dei suoi misteri sempre più fondi. Essa ha fretta di accostarsi alla luce beata, ove si arresta ogni tensione dell’intelletto per conoscere nella letizia del cuore il riposo delle proprie corse.

Publié dans:liturgia, preghiere |on 10 octobre, 2013 |Pas de commentaires »

Icon of the Apostles Creed

Icon of the Apostles Creed dans immagini sacre

http://sacredlibrary.wordpress.com/2013/08/27/icon-of-the-apostles-creed/

Publié dans:immagini sacre |on 9 octobre, 2013 |Pas de commentaires »

CONTINUA A PASSARE IN MEZZO A NOI… ( GIOVANNI PAOLO II )

http://www.atma-o-jibon.org/italiano10/preg_gpaolo8.htm

CONTINUA A PASSARE IN MEZZO A NOI…   

( GIOVANNI PAOLO II )

Signore,
tu hai voluto salvare gli uomini
ed hai fondato la Chiesa
come comunione di fratelli,
riuniti nel tuo Amore.
Continua a passare in mezzo a noi
e chiama coloro che hai scelto
ad essere voce del tuo Santo Spirito,
fermento d’una società
più giusta e fraterna.
Ottienici dal Padre celeste le guide spirituali
di cui le nostre comunità hanno bisogno:
veri Sacerdoti del Dio vivente
che, illuminati dalla tua Parola,
sappiano parlare di Te
ed insegnare a parlare con Te.
Fa’ crescere la tua Chiesa
mediante una fioritura di consacrati,
che ti consegnino tutto,
perché tu possa salvare tutti.
Le nostre comunità celebrino
nel canto e nella lode l’Eucaristia, come rendimento di grazie
alla tua gloria e bontà,
e sappiano andare per le vie del mondo
per comunicare la gioia e la Pace,
doni preziosi della tua salvezza.
Volgi, Signore,
il tuo sguardo sull’intera umanità
e manifesta la tua misericordia
agli uomini e alle donne,
che nella preghiera
e nella rettitudine della vita
ti cercano senza averti ancora incontrato:
mostrati loro come via
che conduce al Padre,
verità che rende liberi,
vita che non ha fine.
Donaci, Signore, di vivere nella tua Chiesa
in spirito di fedele servizio
e di totale offerta,
affinché la nostra testimonianza
sia credibile e feconda.
Amen!

Publié dans:Papa Giovanni Paolo II, preghiere |on 9 octobre, 2013 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI: SALMO 129 – DAL PROFONDO A TE GRIDO

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2005/documents/hf_ben-xvi_aud_20051019_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

MERCOLEDÌ, 19 OTTOBRE 2005

SALMO 129 : DAL PROFONDO A TE GRIDO

PRIMI VESPRI – DOMENICA 4A SETTIMANA

1. È stato proclamato uno dei Salmi più celebri e amati dalla tradizione cristiana: il De profundis, così chiamato dal suo avvio nella versione latina. Col Miserere, esso è divenuto uno dei Salmi penitenziali preferiti nella devozione popolare.
Al di là della sua applicazione funebre, il testo è prima di tutto un canto alla misericordia divina e alla riconciliazione tra il peccatore e il Signore, un Dio giusto ma sempre pronto a svelarsi «misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato» (Es 34,6-7). Proprio per questo motivo il nostro Salmo si trova inserito nella liturgia vespertina del Natale e di tutta l’ottava del Natale, come pure in quella della IV domenica di Pasqua e della solennità dell’Annunciazione del Signore.
2. Il Salmo 129 si apre con una voce che sale dalle profondità del male e della colpa (cfr vv. 1-2). L’io dell’orante si rivolge al Signore dicendo: «A te grido, o Signore». Il Salmo poi si sviluppa in tre momenti dedicati al tema del peccato e del perdono. Ci si rivolge innanzitutto a Dio, interpellato direttamente con il «Tu»: «Se consideri le colpe, Signore, Signore, chi potrà sussistere? Ma presso di te è il perdono; perciò avremo il tuo timore» (vv. 3-4).
È significativo il fatto che a generare il timore, atteggiamento di rispetto misto ad amore, non sia il castigo ma il perdono. Più che la collera di Dio, deve provocare in noi un santo timore la sua magnanimità generosa e disarmante. Dio, infatti, non è un sovrano inesorabile che condanna il colpevole, ma un padre amoroso, che dobbiamo amare non per paura di una punizione, ma per la sua bontà pronta a perdonare.
3. Al centro del secondo momento c’è l’«io» dell’orante che non si rivolge più al Signore, ma parla di lui: «Io spero nel Signore, l’anima mia spera nella sua parola. L’anima mia attende il Signore più che le sentinelle l’aurora» (vv. 5-6). Ora fioriscono nel cuore del Salmista pentito l’attesa, la speranza, la certezza che Dio pronuncerà una parola liberatrice e cancellerà il peccato.
La terza ed ultima tappa nello svolgimento del Salmo si allarga a tutto Israele, al popolo spesso peccatore e consapevole della necessità della grazia salvifica di Dio: «Israele attenda il Signore, perché presso il Signore è la misericordia e grande presso di lui la redenzione. Egli redimerà Israele da tutte le sue colpe» (vv. 7-8).
La salvezza personale, prima implorata dall’orante, è ora estesa a tutta la comunità. La fede del Salmista si innesta nella fede storica del popolo dell’alleanza, «redento» dal Signore non solo dalle angustie dell’oppressione egiziana, ma anche «da tutte le colpe». Pensiamo che il popolo della elezione, il popolo di Dio siamo adesso noi. Anche la nostra fede ci innesta nella fede comune della Chiesa. E proprio così ci dà la certezza che Dio è buono con noi e ci libera dalle nostre colpe.
Partendo dal gorgo tenebroso del peccato, la supplica del De profundis giunge all’orizzonte luminoso di Dio, ove domina « la misericordia e la redenzione », due grandi caratteristiche del Dio che è amore.
4. Affidiamoci ora alla meditazione che su questo Salmo ha intessuto la tradizione cristiana. Scegliamo la parola di sant’Ambrogio: nei suoi scritti, egli richiama spesso i motivi che spingono a invocare da Dio il perdono.
«Abbiamo un Signore buono che vuole perdonare a tutti», egli ricorda nel trattato su La penitenza, e aggiunge: «Se vuoi essere giustificato, confessa il tuo misfatto: un’umile confessione dei peccati scioglie l’intrico delle colpe… Tu vedi con quale speranza di perdono ti spinga a confessare» (2,6,40-41: SAEMO, XVII, Milano-Roma 1982, p. 253).
Nell’Esposizione del Vangelo secondo Luca, ripetendo lo stesso invito, il Vescovo di Milano esprime la meraviglia per i doni che Dio aggiunge al suo perdono: «Vedi quanto è buono Iddio, e disposto a perdonare i peccati: non solo ridona quanto aveva tolto, ma concede anche doni insperati». Zaccaria, padre di Giovanni Battista, era rimasto muto per non aver creduto all’angelo, ma poi, perdonandolo, Dio gli aveva concesso il dono di profetizzare nel canto: «Colui che poco prima era muto, ora già profetizza», osserva sant’Ambrogio, «è una delle più grandi grazie del Signore, che proprio quelli che l’hanno rinnegato lo confessino. Nessuno pertanto si perda di fiducia, nessuno disperi delle divine ricompense, anche se lo rimordono antichi peccati. Dio sa mutar parere, se tu sai emendare la colpa» (2,33: SAEMO, XI, Milano-Roma 1978, p. 175).

6 ottobre: San Bruno di Colonia

6 ottobre: San Bruno di Colonia dans immagini sacre

http://it.wikipedia.org/wiki/Bruno_di_Colonia

Publié dans:immagini sacre |on 8 octobre, 2013 |Pas de commentaires »

LA MUSICA PIÙ BELLA (San Francesco)

http://www.santippolito.org/comunita/4ottobre2010.asp

LA MUSICA PIÙ BELLA (San Francesco)

Festa della Comunità Parrocchiale – 4 Ottobre 2010

La Musica più bella ancora non te l’ho suonata… le parole più belle ancora non tele ho dette… i giorni più belli ancora non li abbiamo vissuti! Eppure di giorni insieme ne abbiamo passati tanti a partire dal 4 ottobre di 76 anni fa quando veniva posta la prima pietra della nostra Chiesa… una chiesa più di note che di mattoni, come sembra ricordarci la copertina del libretto dei canti disegnata da Alessandro.
Da dove nasce allora un augurio così, da dove viene tanta voglia di cantare? È quello che si è chiesto Francesco d’Assisi: « Fino ad allora la sua gaiezza poteva sembrare il riflesso di una gioventù dorata. Ma ecco che questo umore si mantiene e si rafforza nel buio di una prigione. Era dunque un’altra l’origine di questa gioia, veniva da più lontano che da una semplice ebbrezza del mondo. Nessun chiarore gli arriva e allora canta e trova nel canto la sua vera casa e la sua vera natura. Non è che la prima intuizione, Francesco indovina d’istinto che la verità è più in basso che in alto, più nella mancanza che nella pienezza … lo sa , lo sente. Ma vi è ancora un’ombra fra lui e la sua gioia, fra il mondo che trova luce in Dio e il mondo che gli brucia nel cuore. Un’intima reticenza che esprime con la precisione del muratore » (L’infinitamente Piccolo, C. Bobin):

Il Signore dette a me frate Francesco, d’incominciare a fare penitenza così:
quando ero nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi;
e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia.
E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo.

Per Francesco questo è il punto di non ritorno… esce di là con la febbre nel cuore, o piuttosto non ne uscirà più. Ha trovato la casa del suo Signore, ora sa dove abita l’Infinitamente Piccolo: ai margini delle luci di quel secolo, la dove la vita manca di tutto. La è il luogo dove Francesco tornerà tutta la vita… quando la vita s’incarta e ha bisogno di vedere con gli occhi del corpo quello che era diventato oscuro agli occhi del cuore. Per questo ammoniva sempre ai suoi frati, lasciandolo come il tesoro più prezioso del suo testamento: di tornare ai lebbrosi la dove la vita prende origine.
Da questa prospettiva la festa della Dedicazione della nostra chiesa acquista una luce diversa, fioca come le candele sulle colonne portanti dove sono affisse le croci della consacrazione, tenera come lo sguardo di una madre (e ce n’erano tante, dalle più anziane a quelle in attesa) flebile come la voce di un bambino. Anche perché il ricordo non si ferma al 1934 e nemmeno al 1208, quando Francesco cominciò quel viaggio continuato secoli dopo da Padre Leone e i suoi compagni nel nostro quartiere; ma risale come un rivotorto – il lebbrosario d’Assisi – fino a Gesù Cristo, la sorgente in cui siamo stati immersi per diventare figli di Dio.
Per questo siamo in festa: per la benedizione del nuovo Fonte Battesimale, dove nasce la Chiesa, questo pezzetto di Chiesa che è Sant’Ippolito, persone nuove che diventano « fonte d’acqua viva che zampilla per la vita eterna » . Quel Fonte sta li a ricordarci quale grande dono ci ha dato il Padre, di essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente. Quel Fonte da cui comincia la Vita c’invita – stavolta suona bene – a prendere il giogo del Signore Gesù, perché è leggero, perché per un Dio così vale la pena vivere. E quel Fonte è là per gli affaticati e gli oppressi che hanno perduto il senso e la sete della vita, perché meglio che si prosciughi la sete che la fonte, perché quando la sete tornerà la fonte sarà sempre li a dissetarti.
E’ un mistero… davvero tutto questo in una goccia d’acqua… cioè H2O, una sostanza inodore, incolore insapore? Ma sono immagini del Vangelo di questa Festa, proprio quello in cui Gesù ringrazia il Padre perché ha rivelato queste cose ai piccoli e le ha tenute nascoste ai dotti e ai sapienti. E’ una scelta di campo questa che Francesco con la sua Preghiera Semplice e Maria con il Magnificat hanno tradotto nella loro vita. Maria infatti « non è come certe madri, che per amore di quieto vivere, danno ragione a tutti, e pur di non creare problemi finiscono con l’assecondare i soprusi dei figli più discoli. Lei prende posizione senza ambiguità e senza mezze misure. La parte su cui sceglie di attestarsi non è però il fortilizio delle rivendicazioni di classe, ma il terreno l’unico, dove Lei spera che un giorno ricomposti i conflitti, tutti i suoi figli, ex oppressi ed ex oppressori, ridiventati fratelli possano trovare la loro liberazione » (Don Tonino Bello).
 Quasi a sottolineare questo passaggio ci pensa una preghiera dei fedeli scritta di corsa in sagrestia che finiva così: ti preghiamo di cominciare questo nuovo anno a servizio dei piccoli e dei grandi… in realtà era i poveri ma l’abbiamo copiata male in bella copia, però forse ci aiuta a comprendere che questo Vangelo non esclude coloro che non sono piccoli perché in realtà siamo tutti piccoli e poveri di fronte a Dio, il grande Elemosiniere. Prenderne atto è un’autentica esperienza di liberazione, un’alternativa alla mentalità che regola l’economia del mondo, una profezia che annuncia l’incarnazione di Gesù nella nostra vita: il lupo dimorerà insieme con l’agnello (Isaia 11).
Allora il sole, riflesso sulle vetrate, non si rattrista se è la fiammella di una candela ad indicare dove è custodito il Corpo del Signore, né l’oro s’incupisce perché una mollica di pane è divenuta così preziosa da doverla contenere, ma si compiace di avere lo stesso colore del grano da cui quella proviene. Allora anche il Figlio maggiore può incamminarsi verso casa e prendere parte alla Festa.
Mentre continua la Messa me li sono immaginati così: s’incensano le colonne della Chiesa dove sono affisse le dodici croci della consacrazione della Chiesa e Francesco sembra dire a Maria « Ave Signora, Santa Regina, Santa Madre di Dio, Maria, che sei vergine fatta Chiesa » e dopo la Comunione, quando il Corpo di Gesù viene riposto nel nuovo tabernacolo – una teca dorata con l’effige di un agnello, racchiuso da un’ogiva di marmo metafora di una donna in cinta – continua ancora « Ave suo palazzo, ave suo tabernacolo, ave sua casa » come in una serenata.
Giusto il tempo di un fugace sorriso, poi Lei, Donna di servizio, Donna del Pane, va giù con Rossella, Stefania, Rita e tutte le altre a cucinare, e lui, l’uomo fraterno, si sofferma sull’uscio della chiesa a chiacchierare con Petra, Marco e gli altri fratelli randagi che ci salutano ogni volta e ogni volta c’interrogano. Giù nel salone corrono su un muro le immagini di questo anno (del resto è un metodo che si è inventata santa Chiara) per sentirsi presenti al cammino e al servizio della comunità perché anche se poi non siamo andati a piedi ad Assisi o in traghetto in Albania abbiamo fatto comunque tutto tutti insieme. Ecco perché alla fine dobbiamo ringraziarci tutti, l’uno con l’altro ringraziando Dio di avere tanti fratelli e pregare che avvenga per noi come Francesco:

…dopo che il Signore mi ebbe dato dei frati,
nessuno mi diceva cosa dovessi fare
ma lo stesso Altissimo mi rivelò…
…che dovevo vivere secondo il Santo Vangelo.

…e vivere il Vangelo nella vita di ogni giorno anche quando non pensiamo a Dio, imbottigliati nel traffico o in un laboratorio di chimica (salutando Stefano, con la sua chitarra, mi viene questa immagine) perché ogni cosa che avremo fatto ad uno solo dei suoi fratelli più piccoli, l’avremo fatto a Lui.

Emilio C.

Publié dans:San Francesco d'Assisi, Santi |on 8 octobre, 2013 |Pas de commentaires »
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