Barocci, Federico Fiori (1528 – 1612) – Madonna and child with St Simon and St Jude

http://www.vivienna.it/2013/10/27/28-ottobre-ss-simone-e-giuda/
28 OTTOBRE: SS. SIMONE E GIUDA
Simone: per distinguerlo da Simon Pietro, fu soprannominato il “Cananeo” dagli evangelisti Matteo e Marco: « I nomi dei dodici apostoli sono: primo, Simone, chiamato Pietro, e Andrea, suo fratello; Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo fratello, Filippo e Bartolomeo, Tommaso e Matteo il pubblicano, Giacomo di Alfeo e Taddeo, Simone il Cananeo e Giuda l’Iscariota, che poi lo tradì.» (Mt 10,1-4) – «Costituì dunque i Dodici: Simone, al quale impose il nome di Pietro; poi Giacomo di Zebedèo e Giovanni fratello di Giacomo, ai quali diede il nome di Boanèrghes, cioè figli del tuono; e Andrea, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso, Giacomo di Alfeo, Taddeo, Simone il Cananeo e Giuda Iscariota, quello che poi lo tradì. » (Mc 3,16-18) e Zelòta da Luca: «Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede il nome di apostoli: Simone, che chiamò anche Pietro, Andrea suo fratello, Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso, Giacomo d’Alfeo, Simone soprannominato Zelòta, Giuda di Giacomo e Giuda Iscariota, che fu il traditore». (Lc 6,13-16). Giuda: l’apostolo che ha il soprannome di Taddeo (vedi sopra Mt e Mc) e che Luca chiama “Giuda di Giacomo”, è quello che nell’ultima Cena: «Gli disse Giuda, non l’Iscariota: “Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi e non al mondo? ” Gli rispose Gesù: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama non osserva le mie parole; la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato”». (Gv 14,22-24). È, questa, una lezione dell’amore mistico che Giuda Taddeo provoca con la sua domanda. L’amore di Dio unisce, mentre l’amore di se stessi divide. Simone e Giuda si ritrovano ancora negli Atti (1,13) e poi più nulla. S. Fortunato, vescovo di Poitiers, dice che, Simone il Cananeo insieme a Giuda Taddeo, furono sepolti in Persia, dove, secondo le storie apocrife degli Apostoli, sarebbero stati martirizzati a Suanir. Un monaco del IX secolo affermava che una tomba di Simone esisteva a Nicopsis (Caucaso) dove c’era anche una chiesa a lui dedicata, fondata dai Greci nel secolo VII. Altri ancora affermano che Simone visitò l’Egitto e insieme a Giuda Taddeo, la Mesopotamia, dove entrambi subirono il martirio, segati in due parti; da qui il loro patrocinio su quanti lavorano al taglio della legna, del marmo e della pietra in genere. Ma al di là di tutte le incertezze, Simone e Giuda, come tutti gli apostoli, presero il bastone e percorsero a piedi regioni vicine e lontane, per portare la luce della Verità e propagare la nuova religione fra i pagani. Si possono, senz’altro, paragonare ai tanti discepoli di Cristo, che in ogni tempo e luogo hanno lavorato e lavorano nel silenzio e nascondimento per il trionfo del Regno di Dio, senza riconoscimenti eclatanti e ufficiali, in piena umiltà, perseveranza e sacrificio anche cruento della vita.
Significato dei nomi Simone: «Dio ha esaudito» – Taddeo: «colui che confessa o loda» (ebraico).
http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/commenti/2013/095q01b1.html
IL MERCOLEDÌ DI MEZZA PENTECOSTE NELLA TRADIZIONE BIZANTINA
DISSETA LA NOSTRA SETE
CON LE ONDE DELLA PIETÀ
DI MANUEL NIN
« Nel mezzo della festa, disseta con le onde della pietà, o Salvatore, l’anima mia assetata. Poiché tu stesso hai detto a tutti: Chi ha sete venga a me e beva. Tu sei la fonte della vita, o Cristo, gloria a te ». La liturgia del periodo pasquale è carica di temi importanti per la vita cristiana: per tre domeniche, Pasqua, domenica di Tommaso e domenica delle Mirofore, la liturgia ci confronta con la realtà e la verità del risorto; per altre tre domeniche, quella del Paralitico, quella della Samaritana e quella del Cieco nato, ci mette di fronte alla centralità del battesimale nella vita cristiana; infine seguono l’Ascensione, la domenica dei Padri di Nicea, e la Pentecoste.
Inoltre, nel mercoledì della quarta settimana si trova la festa detta di mezza Pentecoste. È una celebrazione che non ha un collegamento né con una apparizione del Risorto, né con il battesimo, né con un altro fatto storico concreto; l’unico testo evangelico a cui si può collegare, letto nella festa, è quello di Giovanni (7, 14): « Quando ormai si era a metà della festa, Gesù salì al tempio e vi insegnava ». La mezza Pentecoste è già testimoniata da Anfilochio di Iconio, vescovo nel IV secolo, che ne fa una festa ponte tra la Risurrezione, l’Ascensione e la Pentecoste; in qualche modo rimette al centro del periodo di Pasqua e della vita di ogni cristiano, la presenza, la vita di Cristo.
Il vespro e il mattutino della festa sono di san Giovanni Damasceno e di sant’Andrea di Creta, due dei grandi innografi bizantini, e sottolineano il collegamento che questa celebrazione stabilisce tra la Pasqua e la Pentecoste: « Eccoci giunti alla metà dei giorni che iniziano con la salvifica risurrezione e ricevono il loro sigillo con la divina Pentecoste. Questo giorno risplende dei fulgori che riceve da entrambe, congiunge le due feste ed è venerabile perché annuncia la gloria dell’Ascensione del Signore. Si avvicina la ricca effusione su tutti dello Spirito divino, come sta scritto: la annuncia il giorno presente, che si pone a metà tra la verace promessa di Cristo ai discepoli, fatta dopo la sua morte, sepoltura e risurrezione, e la manifestazione dello Spirito che essa annunciava ».
Il tropario della festa citato all’inizio ne offre la chiave di lettura. Come tutti i testi della liturgia, il tropario ha un retroterra biblico. In primo luogo il testo di Giovanni già citato (« Quando ormai si era a metà della festa, Gesù salì al tempio e vi insegnava ») inquadra la festa e ne diventa il retroterra. Allo stesso modo che Gesù sale a Gerusalemme non per l’inizio o la fine della festa, ma a metà, anche qui lui si presenta nella vita della Chiesa a metà del suo cammino pasquale.
Il testo del tropario prosegue con la frase: « Disseta con le onde della pietà, o Salvatore, l’anima mia assetata », che è un riferimento al testo evangelico di Giovanni (7, 37) poi citato: « Se qualcuno ha sete, venga a me e beva ». Il retroterra è quello di alcuni testi veterotestamentari, specialmente dei salmi, in modo particolare quelli in cui il desiderio dell’uomo verso Dio viene presentato con l’immagine della sete: « L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente » (41, 2); « Dio, Dio mio, te cerco fin dall’aurora; di te ha sete l’anima mia; verso di te anela la mia carne, come una terra deserta, arida, senz’acqua » (62, 2). Il tropario, di seguito, cita il testo giovanneo (« Se qualcuno ha sete, venga a me e beva ») e si conclude con la ripresa di un tema che ricorre nell’Antico e nel Nuovo Testamento, quello del Signore come fonte della vita: « Tu sei la fonte della vita, o Cristo, gloria a te ».
Il tropario ci mette poi di fronte ad alcuni aspetti importanti della vita cristiana. Il Signore infatti si fa presente nella vita della Chiesa e nella vita di ognuno di noi nel mezzo, cioè come qualcuno che ne assume la centralità e l’importanza. La mezza Pentecoste ricorda questa centralità di Gesù nella vita di ogni cristiano: nel battesimo siamo stati immersi nella vita di Cristo, nella sua morte e nella sua risurrezione, e siamo anche immersi nella vita in Cristo, cioè in una vita in cui il nostro rapporto con Dio, con gli altri e con noi stessi ci viene dato da Cristo, dal suo Vangelo.
« Disseta con le onde della pietà, o Salvatore, l’anima mia assetata » canta ancora il tropario. Il testo liturgico richiama alla nostra situazione di uomini assetati; assetati di vita, di verità, di Dio. La nostra sete viene dunque dissetata dalle « onde della pietà » (eusebèìas nàmata) dice letteralmente il testo, utilizzando un termine greco che può essere tradotta come « pietà », « devozione », « rispetto », « amore verso ». L’uso che i Padri, soprattutto i Padri Apostolici, fanno di questa parola è appunto nel senso della « pietà », « devozione », « amore » di Cristo verso il Padre, sottolineando proprio la eusèbeia di Cristo verso il Padre. Il tropario si conclude con una dossologia (« Tu sei la fonte della vita, o Cristo, gloria a te ») che riporta alla centralità di Cristo: è lui infatti che si fa presente nel mezzo della nostra vita. È vero che noi andiamo incontro a lui, ma è soprattutto vero che lui viene verso di noi. La liturgia pasquale, il Pentecostarion, e la nostra vita hanno un loro ritmo, ma Cristo lo spezza e si fa presente nel mezzo di questo cammino. Lui che « disseta con le onde della pietà l’anima nostra assetata, lui che è « la fonte della vita.
(L’Osservatore Romano 24-25 aprile 2013)
PAPA FRANCESCO: MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE
LA FRETTA DEL CRISTIANO
SABATO, 15 GIUGNO 2013
(DA: L’OSSERVATORE ROMANO, ED. QUOTIDIANA, ANNO CLIII, N. 137, DOM.16/06/2013)
La vita cristiana deve essere sempre inquieta e mai tranquillizzante e certo non è «una terapia terminale per farci stare in pace fino al cielo». Allora bisogna fare come san Paolo e testimoniare «il messaggio della vera riconciliazione», senza preoccuparsi troppo delle statistiche o di fare proseliti: è «da pazzi ma è bello», perché «è lo scandalo della croce». Il Papa è tornato a parlare di riconciliazione e di ardore apostolico nell’omelia della messa celebrata questa mattina, sabato 15 giugno, nella cappella della Domus Sanctae Marthae.
Base della riflessione del Pontefice sono state, come di consueto, le letture del giorno, in particolare la seconda lettera di san Paolo ai Corinzi (5, 14-21), «brano — ha detto — un po’ speciale perché sembra che Paolo parta in quarta. È accelerato, va proprio con una certa velocità. L’amore di Cristo ci possiede, ci spinge, ci preme. È proprio questa la velocità che ha Paolo: quando vede l’amore di Cristo non può rimanere fermo». Così san Paolo è davvero un uomo che ha fretta, con «l’affanno per dirci qualcosa d’importante: parla del sì di Gesù, dell’opera di riconciliazione che ha fatto Gesù e anche dell’opera di riconciliazione» di Cristo e dell’apostolo.
Papa Francesco ha fatto anche notare come nella pagina paolina «per cinque volte si ripeta la parola riconciliazione. Cinque volte: è come un ritornello». Per dire con chiarezza che «Dio ci ha riconciliati con lui in Cristo». San Paolo «parla anche con forza e con tenerezza quando dice: io sono un ambasciatore in nome di Cristo». Poi Paolo, nel proseguire il suo scritto, sembra quasi inginocchiarsi per implorare: «Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» ed è come se dicesse «abbassate la guardia» per lasciarvi riconciliare con lui.
«La fretta, la premura di Paolo — ha affermato ancora il Pontefice — mi fa pensare a Maria quando, dopo aver ricevuto l’annuncio dell’angelo, parte in fretta per aiutare sua cugina. È la fretta del messaggio cristiano. E qui il messaggio è proprio quello della riconciliazione». Il senso della riconciliazione non sta semplicemente nel mettere insieme parti diverse e lontane tra loro. «La vera riconciliazione è che Dio in Cristo ha preso i nostri peccati e si è fatto peccato per noi. E quando noi andiamo a confessarci, per esempio, non è che diciamo il peccato e Dio ci perdona. Noi troviamo Gesù Cristo e gli diciamo: questo è tuo e io ti faccio peccato un’altra volta. E a lui piace, perché è stata la sua missione: farsi peccato per noi, per liberarci».
È questo «il mistero che faceva andare avanti Paolo con zelo apostolico, perché è una cosa tanto meravigliosa: l’amore di Dio che ha consegnato suo figlio alla morte per me. Quando Paolo si trova davanti a questa verità dice: ma lui mi ha amato, è andato alla morte per me. È questo il mistero della riconciliazione». La vita cristiana — ha spiegato ancora il Pontefice — «cresce su questo pilastro e noi un po’ la svalutiamo» quando la riduciamo al fatto che «il cristiano deve fare questo e poi deve credere in quello». Si tratta invece di arrivare «a questa verità che ci muove, a questo amore che è dentro la vita cristiana: l’amore del Padre che in Cristo riconcilia il mondo. È Dio infatti che riconcilia a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola di riconciliazione. Cristo ci ha riconciliato. E questo è l’atteggiamento del cristiano, questa è la pace del cristiano».
I filosofi «dicono che la pace è una certa tranquillità nell’ordine. Tutto ordinato, tranquillo. Quella non è la pace cristiana. La pace cristiana — ha insistito Papa Francesco — è una pace inquieta, non è una pace tranquilla. È una pace inquieta che va avanti per portare questo messaggio di riconciliazione. La pace cristiana ci spinge ad andare avanti e questo è l’inizio, la radice dello zelo apostolico».
E secondo Papa Francesco «lo zelo apostolico non è andare avanti per fare proseliti e fare statistiche: quest’anno sono cresciuti i cristiani in tal Paese, i movimenti. Le statistiche sono buone, aiutano, ma fare proseliti non è quello che Dio più vuole da noi. Quello che il Signore vuole da noi — ha precisato — è proprio l’annuncio della riconciliazione, che è il nucleo del suo messaggio: Cristo si è fatto peccato per me e i peccati sono là, nel suo corpo, nel suo animo. Questo è da pazzi, ma è bello: è la verità. Questo è lo scandalo della croce».
Il Papa ha concluso la sua omelia chiedendo la grazia che il «Signore ci dia questa premura per annunciare Gesù; ci dia la saggezza cristiana, che nacque proprio dal suo fianco trafitto per amore». E «ci convinca anche che la vita cristiana non è una terapia terminale per stare in pace fino al cielo. La vita cristiana è sulla strada, sulla vita, con questa premura di Paolo. L’amore di Cristo ci possiede, ci spinge, ci preme. Con questa emozione che si sente quando uno vede che Dio ci ama».
http://www.nicodemo.net/NN/ms_pop_vedi1.asp?ID_festa=251
SIRACIDE 35,12-14.16-18
12 Il Signore è giudice
e non v’è presso di lui preferenza di persone.
13 Non è parziale con nessuno contro il povero,
anzi ascolta proprio la preghiera dell’oppresso.
14 Non trascura la supplica dell’orfano
né della vedova, quando si sfoga nel lamento.
16 Chi venera Dio sarà accolto con benevolenza,
la sua preghiera giungerà fino alle nubi.
17 La preghiera dell’umile penetra le nubi,
finché non sia arrivata, non si contenta;
18 non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto,
rendendo soddisfazione ai giusti e ristabilendo l’equità.
COMMENTO
Siracide 35,15b-17.20-22a
Dio giudice giusto
Il libro del Siracide si divide in due parti, la prima delle quali raccoglie gli insegnamenti della sapienza (1,1 – 42,14) e la seconda descrive gli interventi della sapienza nella natura e nella storia (42,15 – 43,33). La prima di queste due parti si divide a sua volta in due sezioni: a) sapienza e coscienza umana (1,1 – 23,27); b) sapienza e legge (24,1 – 42,14). Il brano liturgico si situa verso la fine della seconda di queste due sezioni. Nella prima parte (vv. 15-17) viene descritta l’attività giudiziale svolta da jhwh; nella seconda invece (vv. 21-22) si sottolinea l’efficacia della preghiera dei poveri. Sono omessi due versetti (vv. 19-20) che interrompono il flusso delle idee.
La prima massima riguarda il potere giudiziale di Dio: «Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone» (v. 15b). Molte volte nella Bibbia Dio è presentato come giudice (cfr. Gn 18,25; Rm 3,6). In quanto giudice Dio si caratterizza per il fatto di non fare preferenza di persone. Per definizione il giudice deve essere imparziale, cioè al di sopra delle parti. Questa imparzialità si manifesta soprattutto nel rapporto con le categorie più disagiate, verso le quali è facile commettere soprusi: «Non è parziale a danno del povero e ascolta la preghiera dell’oppresso. Non trascura la supplica dell’orfano, né la vedova, quando si sfoga nel lamento» (vv. 16-17). In campo sociale coloro che sono più facilmente oggetto di soprusi sono i poveri che non hanno i mezzi per opporsi all’oppressione e allo sfruttamento. Fra costoro si situano in primo piano la vedova e l’orfano, i quali sono privi di una famiglia dalla quale nell’antichità derivava soprattutto la sicurezza e la stabilità di una persona. Nei loro confronti è facile che i giudici umani commettano ingiustizie. Ma Dio è dalla loro parte e li difende nei confronti di coloro che li opprimono.
Dopo le massime riguardanti Dio come giudice, viene ora presentata l’efficacia della preghiera a lui rivolta: «La preghiera del povero attraversa le nubi né si quieta finché non sia arrivata; non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l’equità» (vv. 21-22). È soprattutto la preghiera di coloro che sono discriminati e oppressi che giunge direttamente a Dio. Essa è talmente insistente da provocare il suo intervento. Il povero è qui identificato con il giusto, cioè la persona innocente, quello che non si è macchiato di soprusi e ingiustizie. Dio non lo abbandona a se stesso, ma interviene per fargli giustizia.
Linee interpretative
La presentazione di Dio come giudice giusto è molto rassicurante, ma porta con sé il rischio di considerare Dio come il garante dell’ordine pubblico, che subentra a riparare i danni causati dall’ingiustizia umana. Dio invece deve essere considerato come l’energia positiva che opera in questo mondo, conducendolo verso un fine di salvezza. La sua azione il più delle volte resta nascosta e sconosciuta. È proprio della fede riscoprire al di sotto delle cose che capitano in questo mondo una forza di bene che guida gli eventi umani verso un fine di pace e di amore. È proprio questa visione ottimistica della realtà che dà la forza per combattere contro il male, dovunque si manifesti, senza lasciarsi travolgere da esso o scoraggiare dai fallimenti che si sperimentano.
Non è evidente a prima vista che le preghiere dei poveri e degli oppressi siano esaudite da Dio. I fatti che capitano ogni giorno sembrano smentire questa ingenua affermazione. Tuttavia bisogna riconoscere che, pur credendo che Dio agisce potentemente nelle vicende di questo mondo, noi non sappiamo nulla delle modalità del suo intervento. Solo in base alla fede si può affermare che Dio è dalla parte degli ultimi e lo si può dimostrare nella misura in cui si è disponibili a impegnarsi fino in fondo in loro favore. L’amore di Dio verso gli ultimi si manifesta soprattutto nel comportamento concreto di quanti credono in lui.
27 OTTOBRE 2013 | 30A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C | PROPOSTA DI LECTIO DIVINA
LECTIO DIVINA SU: LC 18,9-14
Con la parabola del fariseo e del pubblicano Gesù continuava l’insegnamento sulla preghiera che aveva iniziato narrando ai discepoli la parabola della vedova bisognosa e del giudice ingiusto (Lc 18,1-8). Gesù voleva, sicuramente, che i suoi pregassero sempre, senza cessare, ma li ha avvertiti che non avrebbero dovuto credersi migliori degli altri solo perché pregavano più spesso. Secondo quanto ci ricorda l’evangelista, Gesù ha raccontato la parabola perché aveva visto che, attorno a lui, alcuni si ritenevano buoni, tanto da disprezzare coloro che non erano come loro. Egli era consapevole che gli uomini pii cadono di solito nella tentazione di usare la loro vita di preghiera come motivo per rimanere soddisfatti di se stessi, di quello che hanno raggiunto con essa o che si aspettano di ottenere, dal momento che già lo hanno chiesto …, anche a costo di disprezzare il loro prossimo e non prendere sul serio Dio.
In quel tempo, 9ad alcuni che, credendosi giusti, si sentivano sicuri e disprezzavano gli altri, Gesù disse questa parabola:
10 « Due uomini salirono al tempio a pregare. Uno era fariseo e l’altro pubblicano.
11 Il fariseo, in piedi, pregava così tra sé: « O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano 12 Digiuno due volte la settimana e pago le decime di tutto quello che ho ».
13 Il pubblicano, invece, rimase indietro e non aveva nemmeno il coraggio di alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: « O Dio, abbi pietà di me peccatore ».
14 Vi dico, quest’ultimo tornò a casa giustificato, non il primo. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato ».
1. LEGGERE: capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice
Anche se potrebbe sembrare che il brano evangelico si riferisce al modo di pregare, o meglio a due modelli di oranti, in realtà non è questa l’intenzione del narratore. Prima di narrarci la parabola, Luca ha indicato quando -e perché- Gesù l’ha raccontata: essendosi incontrato con persone che ritenevano buoni se stessi e non sufficientemente buoni gli altri, Gesù ha fatto ricorso ad una narrazione « inventata ». Non bisogna, allora, trascurare due cose: primo, il fatto è immaginato, non è reale; secondo, è raccontato per criticare coloro che hanno talmente alta stima di sé da non aver tempo né desiderio, di valorizzare gli altri.
Che il fatto narrato sia inventato non gli toglie valore, al contrario; Gesù ha immaginato alcuni fatti -quello dei due oranti- con una precisa intenzione: criticare l’atteggiamento profondamente cattivo di coloro che disprezzano gli altri (Lc 18,9). Per questo, risulta sorprendente che Gesù si serva di una parabola sui due modi di pregare per censurare il comportamento di coloro che, ricolmi di autostima, disprezzano il loro prossimo.
Il come si dialoga con Dio ha qualcosa a che vedere con il come ci si comporta con gli altri? Per Gesù certamente sì; altrimenti non avrebbe « inventato » questo episodio. Ambedue i personaggi vanno nello stesso luogo, il tempio, a fare la stessa cosa, pregare. Però lo fanno in modo diverso. Il ‘buono’, il fariseo, è cosciente della sua bontà e ne dà un buon resoconto; inoltre ringrazia Dio perché è buono. Il ‘cattivo’, un pubblicano, non fa altro che riconoscersi peccatore; nemmeno osa volgere lo sguardo a Dio. Nessuno dei due si sbaglia, né cerca di ingannare Dio: pregano la loro vita, dicono a Dio quello che Lui sa già. Perché, allora, solo colui che si è accusato è stato giustificato? Non per essere più umile, ma per essere più sincero: il pubblicano guardava se stesso come Dio lo vedeva, con mancanza di grazia, bisognoso di perdono; il fariseo, invece, si contemplava come lui si piaceva, osservante della legge, soddisfatto di se stesso.
La parabola finisce con un’applicazione che universalizza il suo senso (Lc 8,14). L’umiliazione alla quale esorta Gesù non consiste nel vederci come vogliamo, ma nel contemplarci come Dio ci vuole. Esaltato sarà, allora, chi accetta la sua realtà e, sapendosi alla presenza di Dio (nel tempio, in preghiera), accetta il giudizio di Dio su di lui, rinunciando a giudicare gli altri. Non si lascia trasportare dai suoi pregiudizi chi in preghiera si riconosce sotto il giudizio di Dio. Senza preghiera sincera è impossibile trattare bene il prossimo.
2. MEDITARE: APPLICARE ALLA VITA QUELLO CHE DICE IL TESTO!
Gesù, che aveva insistito con i suoi discepoli sull’importanza di pregare senza sosta, raccomandò loro senza indugio che non dovevano usare la loro pietà verso Dio per diventare poco misericordiosi verso il prossimo. Una vita di preghiera che esige la comprensione di Dio non può poi negarla al prossimo, anche se non è tanto buono come noi riusciamo ad essere. Sperare le attenzioni di Dio senza soccorrere i bisogni del prossimo, -bisogni che dovremmo considerare più urgenti quanto meno buoni ci sembrano-, non è degno del discepolo di Gesù. Pregare senza interruzione, come ci vorrebbe vedere Gesù, non deve alimentare il nostro autocompiacimento: non prega di più chi è migliore, ma chi ne ha più bisogno. La parabola, allora, pretende disautorare l’autocompiacimento di colui il quale si crede sufficientemente buono dinanzi a Dio, disprezzando chi non lo uguaglia.
Prima di passare al suo contenuto, bisognerebbe considerare quanto risulta insolito che Gesù giudichi un comportamento tra gli uomini con una parabola che racconta il nostro modo di presentarci a Dio. Qualcosa non va, allora, nella nostra relazione personale con Dio, nella nostra « collocazione » dinanzi a Lui, nel nostro modo di vederci alla sua presenza, quando non apprezziamo il prossimo, quando lo disprezziamo e lo giudichiamo, se ci crediamo superiori e migliori. Nessuno che sminuisce il suo prossimo, anche con ogni ragione (il pubblicano non era buono, e tutti lo sapevano), si presenta bene dinanzi a Dio: una vita di preghiera che non porti l’apprezzamento del prossimo più debole o meno buono non è accetta a Dio. Né più, né meno.
Il che significa che senza vita di preghiera, senza una relazione sincera con Dio, nella quale si assume -perché sia onesta, umile- il punto di vista di Dio su noi stessi, il nostro prossimo non sarà da noi rispettato né apprezzato come merita. E se lo merita, non perché sia buono, ma perché Dio lo ama molto. Chi prega bene, senza alzare gli occhi al cielo né rigonfiarsi di superbia dinanzi alla propria bontà, tratta bene non solo Dio, ma anche il suo prossimo. Per non disprezzare gli altri dobbiamo apprezzare noi stessi come Dio ci vede e ci stima. La preghiera sincera, anche se fatta da un peccatore confesso, rispetta Dio e rispetta il prossimo. Molte, se non tutte, le difficoltà che incontriamo nella nostra relazione con gli altri nascono, allora, da una vita di preghiera poco « umile ».
Nessuno dei due oranti, nella parabola, ha mancato alla verità quando pregava. Non bisogna dimenticarlo: il fariseo poteva mostrare a Dio il suo ben operare: il pubblicano non ha potuto menzionare altro che il suo peccato. In ambedue, la preghiera che hanno fatto, rifletteva la vita che conducevano. Cosa mancava allora nella preghiera del fariseo?
Il buon fariseo non voleva nulla da Dio. Non lo voleva, anche se Lui avrebbe potuto darglielo; era lui che gli stava dando una buona relazione su se stesso. Senza chiedere nulla di speciale a Dio, senza desiderare da Lui nient’altro che la sua approvazione, lo ringraziava per essere diverso e migliore. La sua superiorità era reale, era basata sulla sua vita, ma era offensiva per il suo prossimo; si riconosceva sufficientemente fedele a Dio tanto da sentirsi grato, però per ringraziare Dio ha dovuto condannare il prossimo. E andò via condannato dalla presenza di Dio. Colui che è soddisfatto di se stesso crede di soddisfare le esigenze che Dio gli impone, e quando prega alla sua presenza riesce solo a sentire se stesso; per vedersi con i suoi occhi, compiaciuto di come è riuscito ad essere, non riesce a vedersi come lo vede Dio.
Il buono, senza mentire a Dio né ingannare se stesso, si è manifestato come era; non ha pensato di guardarsi come Dio lo voleva. Ha misurato la sua relazione con Dio partendo da se stesso; gli interessava che fosse chiaro ciò che era capace di fare: la sua bontà era sua, come suo è stato il suo ringraziamento. Dio gli serviva per autoaffermarsi, per compiacersi di se stesso. Oranti così non rispettano il prossimo, né escono dalla preghiera giustificati da Dio. Non ne hanno bisogno, in realtà, per essere buoni. E sono sempre migliori degli altri. Hanno verso se stessi tanto apprezzamento, che non gliene resta per il loro prossimo, né per il loro Dio. Come sono buoni! Ma per quanto buoni siano, non riescono ad essere giusti.
La preghiera che facciamo noi discepoli di Gesù non ci può fare sentire migliori di coloro che non la fanno. La vita cristiana che cerchiamo di vivere quotidianamente, fatta di fedeltà alla volontà di Dio e trasformando in preghiera i nostri problemi quotidiani, non ci dà la sicurezza di ottenere il favore di Dio, se viviamo paragonandoci con coloro che non sono come noi;
Con troppa frequenza, purtroppo, utilizziamo la nostra pietà per migliorare la nostra immagine dinanzi a Dio a costo di mettere in ombra il nostro prossimo. La preghiera non è un esercizio di autostima, è l’occasione per saperci stimati da Dio; scopriremo ciò che valiamo, se percepiamo quanto valiamo per Dio. Come il fariseo della parabola, sembra che, quando ci mettiamo alla presenza di Dio, abbiamo bisogno di apparire migliori facendo diventare cattivi quelli che ci circondano; pensando, come il fariseo, che Dio accetta solo i buoni, finiamo col perdere tutto quello che abbiamo ottenuto con sforzo e fedeltà. Per quanto sia sincera la nostra vita di preghiera, se fomenta sentimenti di superiorità nei confronti del prossimo, non potrà contare sul beneplacito di Dio. Con troppa frequenza ci accostiamo a Dio per dirgli quanto siamo riusciti ad essere buoni e come Lui dovrebbe essere buono verso di noi, per compensare il nostro sforzo. E per ottenere l’approvazione di Dio, non ci sottraiamo a mettere in ridicolo coloro che non sono buoni come noi. Come il fariseo. Gesù, invece, ci avverte che dovremmo imitare il peccatore, se vogliamo uscire con profitto dalla nostra preghiera; così facile ce lo propone; perché, certamente, ci deve essere più semplice andare a Dio per chiedergli perdono che per convincerlo dei nostri meriti. Nella preghiera che facciamo, ci insegna Gesù con la parabola, non dovremmo ricordare a Dio quello che abbiamo fatto ma, come il pubblicano, ciò che ancora ci resta da fare; non dovremmo più dire quanto sono cattivi gli altri, e dovremmo smettere di dirgli quanto buoni siamo stati noi. Saperci in debito, tutte le volte che ci presentiamo davanti al Signore, sapere quanto ci manca la sua grazia, farà sì che Lui non ce la faccia mancare. E questo sarà per noi molto semplice e, come peccatori, rinunceremo a paragonarci con gli altri; per sentirci graditi a Dio non è necessario sentirsi migliori degli altri, basterebbe saperci peggiori di come Dio ci vorrebbe. L’errore del fariseo non è consistito nel fatto che non pregava, né dovette mentire quando pregava; il suo errore è consistito nel vedersi buono perché migliore degli altri e non vedersi come Dio lo vedeva; poté vedersi buono perché si paragonava con i cattivi, non perché si confrontava con la bontà di Dio; per questo, giusto e pietoso, ha disprezzato quelli che non lo erano tanto. E per questo non tornò a casa giustificato. Invece il peccatore, che è tornato a casa in pace con Dio, non dovette fare altro sforzo che quello di riconoscere che la sua vita non era all’altezza di ciò che Dio chiedeva; non poté dirgli altro se non che non era degno di Lui e che gli dispiaceva veramente.
Ridurre l’insegnamento di Gesù a semplice esortazione ad essere umili sarebbe disconoscere la sua intenzione profonda; non per nulla sono due modi di pregare che ha contrapposto, due modi di relazionarsi con Dio. Gesù scredita solo quello di chi, pregando, si sente bene perché non sa come si sente Dio vedendo lui. Quando utilizziamo la vita di preghiera, esercizio cosciente di relazione con Dio, per riconciliarci con noi stessi, perdiamo Dio e la sua grazia. Per quanto buoni siamo stati, non riusciamo ad essere giusti.
Gesù ci ha reso facile il pregare, se per fare una preghiera che ottenga il favore di Dio non dobbiamo presentare la nostra vita come una lista di servizi compiuti, se possiamo pregare a partire dalla nostra impotenza e dai nostri errori. Se non bisogna essere migliori degli altri per fare buona la nostra preghiera e ottenere che, per essa, Dio ci faccia buoni, non è difficile pregare. Basterebbe non disprezzare chi non è come noi, basterebbe che non ci sentissimo sicuri dei nostri meriti, per assicurarci il favore di Dio e le sue attenzioni.
JUAN JOSE BARTOLOME sdb
http://www.vinonuovo.it/index.php?l=it&art=1332
«PERCHÉ ABBIAMO FIDUCIA NELL’UOMO»
DI PAOLO VI | 21 GIUGNO 2013
NEL GIORNO IN CUI RICORRONO I 50 ANNI DALL’ELEZIONE DI PAOLO VI LO RICORDIAMO CON UN BRANO DAL DISCORSO CHE TENNE A CONCLUSIONE DEL CONCILIO
Il 21 giugno 1963 – esattamente cinquant’anni fa – veniva eletto Paolo VI. Oggi vogliamo ricordare questa figura della Chiesa del Novecento riprendendo un brano dell’allocuzione che tenne il 7 dicembre 1965 durante l’ultima seduta pubblica del Concilio Vaticano II. Sono parole che ci sembrano particolarmente belle da rileggere nella stagione ecclesiale di oggi.
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Si dirà che il Concilio più che delle divine verità si è occupato principalmente della Chiesa, della sua natura, della sua composizione, della sua vocazione ecumenica, della sua attività apostolica e missionaria. Questa secolare società religiosa, che è la Chiesa, ha cercato di compiere un atto riflesso su se stessa, per conoscersi meglio, per meglio definirsi, e per disporre di conseguenza i suoi sentimenti ed i suoi precetti. È vero. Ma questa introspezione non è stata fine a se stessa, non è stata atto di pura sapienza umana, di sola cultura terrena; la Chiesa si è raccolta nella sua intima coscienza spirituale, non per compiacersi di erudite analisi di psicologia religiosa o di storia delle sue esperienze, ovvero per dedicarsi a riaffermare i suoi diritti e a descrivere le sue leggi, ma per ritrovare in se stessa vivente ed operante, nello Spirito Santo, la parola di Cristo, e per scrutare più a fondo il mistero, cioè il disegno e la presenza di Dio sopra e dentro di sé, e per ravvivare in sé quella fede, ch’è il segreto della sua sicurezza e della sapienza, e quell’amore che la obbliga a cantare senza posa le lodi di Dio: cantare amantis est, dice S. Agostino (Serm. 336; P.L. 38, 1472). I documenti conciliari principalmente quelli sulla divina Rivelazione, sulla Liturgia, sulla Chiesa, sui Sacerdoti, sui Religiosi, sui Laici, lasciano chiaramente trasparire questa diretta e primaria intenzione religiosa, e dimostrano quanto sia limpida e fresca e ricca la vena spirituale, che il vivo contatto col Dio vivo fa erompere nel seno della Chiesa, e da lei effondere sulle aride zolle della nostra terra.
La carità
Ma non possiamo trascurare un’osservazione capitale nell’esame del significato religioso di questo Concilio: esso è stato vivamente interessato dallo studio del mondo moderno. Non mai forse come in questa occasione la Chiesa ha sentito il bisogno di conoscere, di avvicinare, di comprendere, di penetrare, di servire, di evangelizzare la società circostante, e di coglierla, quasi di rincorrerla nel suo rapido e continuo mutamento. Questo atteggiamento, determinato dalle distanze e dalle fratture verificatesi negli ultimi secoli, nel secolo scorso ed in questo specialmente fra la Chiesa e la civiltà profana, e sempre suggerito dalla missione salvatrice essenziale della Chiesa, è stato fortemente e continuamente operante nel Concilio, fino al punto da suggerire ad alcuni il sospetto che un tollerante e soverchio relativismo al mondo esteriore, alla storia fuggente, alla moda culturale, ai bisogni contingenti, al pensiero altrui, abbia dominato persone ed atti del Sinodo ecumenico, a scapito della fedeltà dovuta alla tradizione e a danno dell’orientamento religioso del Concilio medesimo. Noi non crediamo che questo malanno si debba ad esso imputare nelle sue vere e profonde intenzioni e nelle sue autentiche manifestazioni.
Vogliamo piuttosto notare come la religione del nostro Concilio sia stata principalmente la carità; e nessuno potrà rimproverarlo d’irreligiosità o d’infedeltà al Vangelo per tale precipuo orientamento, quando ricordiamo che è Cristo stesso ad insegnarci essere la dilezione ai fratelli il carattere distintivo dei suoi discepoli (cfr. Io. 13, 35), e quando lasciamo risuonare ai nostri animi le parole, apostoliche: «La religione pura e immacolata, agli occhi di Dio e del Padre, è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle loro tribolazioni e conservarsi puri da questo mondo» (Iac. 1, 27); e ancora: «chi non ama il proprio fratello, che egli vede, come può amare Dio, che egli non vede»? (1 Io. 4, 20).
La Chiesa del Concilio, sì, si è assai occupata, oltre che di se stessa e del rapporto che a Dio la unisce, dell’uomo, dell’uomo quale oggi in realtà si presenta: l’uomo vivo, l’uomo tutto occupato di sé, l’uomo che si fa soltanto centro d’ogni interesse, ma osa dirsi principio e ragione d’ogni realtà. Tutto l’uomo fenomenico, cioè rivestito degli abiti delle sue innumerevoli apparenze; si è quasi drizzato davanti al consesso dei Padri conciliari, essi pure uomini, tutti Pastori e fratelli, attenti perciò e amorosi: l’uomo tragico dei suoi propri drammi, l’uomo superuomo di ieri e di oggi e perciò sempre fragile e falso, egoista e feroce; poi l’uomo infelice di sé, che ride e che piange; l’uomo versatile pronto a recitare qualsiasi parte, e l’uomo rigido cultore della sola realtà scientifica, e l’uomo com’è, che pensa, che ama, che lavora, che sempre attende qualcosa il «filius accrescens» (Gen. 49, 22); e l’uomo sacro per l’innocenza della sua infanzia, per il mistero della sua povertà, per la pietà del suo dolore; l’uomo individualista e l’uomo sociale; l’uomo «laudator temporis acti» e l’uomo sognatore dell’avvenire; l’uomo peccatore e l’uomo santo; e così via.
L’umanesimo laico profano alla fine è apparso nella terribile statura ed ha, in un certo senso, sfidato il Concilio. La religione del Dio che si è fatto Uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? uno scontro, una lotta, un anatema? poteva essere; ma non è avvenuto. L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani (e tanto maggiori sono, quanto più grande si fa il figlio della terra) ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo. Dategli merito di questo almeno, voi umanisti moderni, rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme, e riconoscerete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo.
Fiducia nell’uomo . . .
E che cosa ha considerato questo augusto Senato nella umanità, che esso, sotto la luce della divinità, si è messo a studiare, ha considerato ancora l’eterno bifronte suo viso: la miseria e la grandezza dell’uomo, il suo male profondo, innegabile, da se stesso inguaribile, ed il suo bene superstite, sempre segnato di arcana bellezza e di invitta sovranità. Ma bisogna riconoscere che questo Concilio, postosi a giudizio dell’uomo, si è soffermato ben più a questa faccia felice dell’uomo, che non a quella infelice. Il suo atteggiamento è stato molto e volutamente ottimista. Una corrente di affetto e di ammirazione si è riversata dal Concilio sul mondo umano moderno. Riprovati gli errori, sì; perché ciò esige la carità, non meno che la verità; ma per le persone solo richiamo, rispetto ed amore. Invece di deprimenti diagnosi, incoraggianti rimedi; invece di funesti presagi, messaggi di fiducia sono partiti dal Concilio verso il mondo contemporaneo: i suoi valori sono stati non solo rispettati, ma onorati, i suoi sforzi sostenuti, le sue aspirazioni purificate e benedette.
Vedete, ad esempio: gli innumerevoli linguaggi delle genti oggi esistenti sono stati ammessi a esprimere liturgicamente la parola degli uomini a Dio e la Parola di Dio agli uomini, all’uomo in quanto tale è stata riconosciuta la vocazione fondamentale ad una pienezza di diritti e ad una trascendenza di destini; le sue supreme aspirazioni all’esistenza, alla dignità della persona, alla onesta libertà, alla cultura, al rinnovamento dell’ordine sociale, alla giustizia, alla pace, sono state purificate e incoraggiate; e a tutti gli uomini è stato rivolto l’invito pastorale e missionario alla luce evangelica. Troppo brevemente noi ora parliamo delle moltissime e amplissime questioni, relative al benessere umano, delle quali il Concilio s’è occupato; né esso ha inteso risolvere tutti i problemi urgenti della vita moderna; alcuni di questi sono stati riservati all’ulteriore studio che la Chiesa intende farne, molti di essi sono stati presentati in termini molto ristretti e generali, suscettibili perciò di successivi approfondimenti e di diverse applicazioni.
. . . e dialogo
Ma una cosa giova ora notare: il magistero della Chiesa, pur non volendo pronunciarsi con sentenze dogmatiche straordinarie, ha profuso il suo autorevole insegnamento sopra una quantità di questioni, che oggi impegnano la coscienza e l’attività dell’uomo; è sceso, per così dire, a dialogo con lui; e, pur sempre conservando la autorità e la virtù sue proprie, ha assunto la voce facile ed amica della carità pastorale; ha desiderato farsi ascoltare e comprendere da tutti; non si è rivolto soltanto all’intelligenza speculativa, ma ha cercato di esprimersi anche con lo stile della conversazione oggi ordinaria, alla quale il ricorso alla esperienza vissuta e l’impiego del sentimento cordiale dànno più attraente vivacità e maggiore forza persuasiva: ha parlato all’uomo d’oggi, qual è.
E un’altra cosa dovremo rilevare: tutta questa ricchezza dottrinale è rivolta in un’unica direzione: servire l’uomo. L’uomo, diciamo, in ogni sua condizione, in ogni sua infermità, in ogni sua necessità. La Chiesa si è quasi dichiarata l’ancella dell’umanità, proprio nel momento in cui maggiore splendore e maggiore vigore hanno assunto, mediante la solennità conciliare, sia il suo magistero ecclesiastico, sia il suo pastorale governo: l’idea di ministero ha occupato un posto centrale.
Tutto questo e tutto quello che potremmo dire sul valore umano del Concilio ha forse deviato la mente della Chiesa in Concilio verso la direzione antropocentrica della cultura moderna? Deviato no, rivolto sì.
Ma chi bene osserva questo prevalente interesse del Concilio per i valori umani e temporali non può negare che tale interesse è dovuto al carattere pastorale, che il Concilio ha scelto quasi programma, e dovrà riconoscere che quello stesso interesse non è mai disgiunto dall’interesse religioso più autentico, sia per la carità, che unicamente lo ispira (e dove è la carità, ivi è Dio!), e sia per il collegamento, dal Concilio sempre affermato e promosso, dei valori umani e temporali, con quelli propriamente spirituali, religiosi ed eterni: sull’uomo e sulla terra si piega, ma al regno di Dio si solleva.
Amare l’uomo per amare Dio
La mentalità moderna, abituata a giudicare ogni cosa sotto l’aspetto del valore, cioè della sua utilità, vorrà ammettere che il valore del Concilio è grande almeno per questo: che tutto è stato rivolto all’umana utilità; non si dica dunque mai inutile una religione come la cattolica, la quale, nella sua forma più cosciente e più efficace, qual è quella conciliare, tutta si dichiara in favore ed in servizio dell’uomo. La religione cattolica e la vita umana riaffermano così la loro alleanza, la loro convergenza in una sola umana realtà: la religione cattolica è per l’umanità; in un certo senso, essa è la vita dell’umanità. È la vita, per l’interpretazione, finalmente esatta e sublime, che la nostra religione dà all’uomo (non è l’uomo, da solo, mistero a se stesso?); e la dà precisamente in virtù della sua scienza di Dio: per conoscere l’uomo, l’uomo vero, l’uomo integrale, bisogna conoscere Dio; ci basti ora, a prova di ciò, ricordare la fiammante parola di S. Caterina da Siena: «nella tua natura, Deità eterna, conoscerò la natura mia» (Or. 24). È la vita, perché della vita descrive la natura ed il destino, le dà il suo vero significato. È la vita, perché della vita costituisce la legge suprema, e alla vita infonde la misteriosa energia che la fa, possiamo dire, divina.
Che se, venerati Fratelli e Figli tutti qui presenti, noi ricordiamo come nel volto d’ogni uomo, specialmente se reso trasparente dalle sue lacrime e dai suoi dolori, possiamo e dobbiamo ravvisare il volto di Cristo (cfr. Matth. 25, 40), il Figlio dell’uomo e se nel volto di Cristo possiamo e dobbiamo poi ravvisare il volto del Padre celeste: «chi vede me, disse Gesù, vede anche il Padre» (Io. 14, 9), il nostro umanesimo si fa cristianesimo, e il nostro cristianesimo si fa teocentrico; tanto che possiamo altresì enunciare: per conoscere Dio bisogna conoscere l’uomo. Sarebbe allora questo Concilio, che all’uomo principalmente ha dedicato la sua studiosa attenzione, destinato a riproporre al mondo moderno la scala delle liberatrici e consolatrici ascensioni? non sarebbe, in definitiva, un semplice, nuovo e solenne insegnamento ad amare l’uomo per amare Iddio? amare l’uomo, diciamo, non come strumento, ma come primo termine verso il supremo termine trascendente, principio e ragione d’ogni amore. E allora questo Concilio tutto si risolve nel suo conclusivo significato religioso, altro non essendo che un potente e amichevole invito all’umanità d’oggi a ritrovare, per via di fraterno amore, quel Dio «dal Quale allontanarsi è cadere, al Quale rivolgersi è risorgere, nel Quale rimanere è stare saldi, al Quale ritornare è rinascere, nel Quale abitare è vivere» (S. August., Solil. 1, 1, 3; P. L. 32, 870).
Così noi speriamo al termine di questo Concilio ecumenico vaticano secondo e all’inizio del rinnovamento umano e religioso, ch’esso s’è prefisso di studiare e di promuovere; così speriamo per noi, Fratelli e Padri del Concilio medesimo; così speriamo per l’umanità intera, che qui abbiamo imparato ad amare di più ed a meglio servire.
http://juanmert.altervista.org/blog/commento-di-mons-g-ravasi-a-corpo-damore-della-merini/
gen 24, 2013 - L’angolo della Riflessione
COMMENTO DI G. RAVASI A CORPO D’AMORE DELLA MERINI
«Guardate:/ sulla carta sono crocifisso/ coi chiodi delle parole.» Mi sono venuti in mente questi versi de Il flauto di vertebre di Majakovskij leggendo le pagine «cristologiche» di Alda Merini, pagine nelle quali – quasi come nella letteratura semitica che non conosce nette distinzioni di genere – la prosa trascolora in poesia e viceversa, in una costante armonia contrappuntistica. Sì, in questi canti è deposta l’ anima della poetessa che abbraccia il Cristo crocifisso come la Maddalena di certe raffigurazioni del Calvario, aggrappata al legno della croce che cola sangue divino. Alda, infatti, «diventata discepola», pronunzia nel suo poemetto una continua dichiarazione d’ amore, trasparente e pura, «da vera innamorata», risalendo idealmente il fiume della letteratura mistica, capace di intrecciare eros e agape, carne e anima, desiderio e fede. Non tema, perciò, il giudizio dei teologi, come sembra far balenare la sua umile e timida premessa: la sua professione d’ amore non «intacca minimamente i dogmi del cristianesimo». E a rassicurarla è un teologo di mestiere che ora segue la poetessa nel suo amore segreto e invisibile, incomprensibile agli altri che la «deridono perché/ non vedono niente/ loro non sanno che parlo di te», cioè di un amore altissimo e supremo. Il suo è un abbraccio unico ed esclusivo «dove viviamo solo io e te/ in compagnia di un amore» indistruttibile e indiscutibile, sbocciato fin dall’ infanzia, perché «mai bambina fu assetata di Dio più di me», e ora fiorito nelle nozze mistiche in cui la sposa è «diventata il monile più bello» dell’ Amato, come si proclama anche nel Cantico dei cantici. Certo, l’ amore non elide il dolore: «Mi hai fatta soffrire,/ talmente soffrire/ che non potevo fare a meno di te». È quindi, una sofferenza feconda, quasi implorata: «Io ti chiedo un dono,/ adesso,/ il dono di una lacrima», perché «dicono che le sorgenti d’ amore siano le lacrime». La sua, comunque, è la parabola dell’ esperienza di tutti i veri credenti, capaci di amare, perché «tutti gli innamorati sono in Cristo». Sono costoro a comprendere la vicenda vissuta dalla poetessa, sorella nell’ amore e nella fede: «Molti mi guardano negli occhi/ e rimangono estatici/ perché capiscono che io ti ho visto,/ che ti ho sentito,/ o che perlomeno qualche volta/ ti ho anche tradito». Alda Merini nella sua storia interiore d’ amore si sente simile alla Veronica: «(…) io ti percorro ad ogni ora/ e sono lì in un angolo di strada/ e aspetto che tu passi./ E ho un fazzoletto, amore,/ che nessuno ha mai toccato,/ per tergerti la faccia». Su quel velo, dunque, è impresso il volto di Cristo. Queste pagine diventano, allora, una piccola «cristologia» poetica. Come già aveva intuito Borges, quello di Gesù è un volto «duro, ebreo», che si configura anche sulle rive della disperazione e della passione, «che ti cerca per ogni dove/ anche quando tu ti nascondi/ per non farti vedere» (proprio come scriveva Paolo in Romani 10, 20: «Io, il Signore, mi sono fatto trovare anche da quelli che non mi cercavano, ho risposto anche a quelli che non mi invocavano»). Gesù ci sommuove perché ci costringe a uscire da noi stessi, a fissare gli occhi in quelli dell’ altro. Infatti «tu entri dalla porta dello sguardo». Gli occhi, anche se celati da «occhiali scuri», diventano trasparenti a lui. In questo senso egli è «catastrofe», cioè ribaltamento del nostro isolamento solitario. È per questo che anche Cristo è innanzitutto e soprattutto amore, «fiamma che sciolse tutti i ghiacciai dell’ universo». Quel volto ebreo, che sulla croce divenne – come dice l’ Apostolo (1 Corinzi 1,23) – «scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani», è in realtà «Figlio di Dio e in questa primogenitura ci volle tutti fratelli». L’ intera sua vita diventa segno di amore, «torcia umana/ (che) illumina il cammino di chi soffre». Scorre, così, nelle pagine di Alda, tutta l’ esistenza di Cristo, a partire dall’ annunzio della sua nascita, passando attraverso la sua parola di «grande poeta», «voce di Dio stesso», il tradimento di Giuda e di Pietro, il peccato umano che vorrebbe «distruggere i disegni del suo grande, inesauribile amore» e che si fa «sangue/ e grumo di sangue» sul legno della croce. Dio si lasciò travolgere dalla morte, Dio amò la sua morte, Dio si lasciò abbracciare dalla morte, morì sulle sue labbra, urlò sul suo cuore». La morte sul Golgota non è, però, l’ approdo dell’ esistenza di Cristo. Lo stesso silenzio del Padre («Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?») «era solo una nuvola di canto». L’ estuario della storia di Gesù non è nel sepolcro, ma nell’ alba di Pasqua. Proprio come insegnava la mamma di Alda, la morte di Cristo è «una fioritura primaverile,/ un mandorlo in fiore». «Oh sì, Dio, l’ uomo quando muore risorge in te e diventa una lunga gravidanza d’ amore». Infatti, «ecco che improvvisamente/ quella carne che assomigliava a tutti/ diventa unica e risorge,/ è l’ unica carne che abbia dato il senso/ della giovinezza eterna/ e quindi dell’ anima». La morte di Gesù è, dunque, un’ Epifania dell’ eterno. «La morte è il panico del suo amore, siamo pieni di panico di fronte all’ amore grande di Dio, abbiamo paura e desiderio insieme, abbiamo paura e ci scordiamo che un giorno Lui ci dirà: Deponi le tue bisacce e vieni, vieni a prendermi, per sempre». Ma già mentre camminiamo come pellegrini sulla terra, egli ci nutre di un cibo di immortalità: «Diede la sua carne agli altri, la diede ai suoi nemici, affinché se ne cibassero, affinché l’ uomo Dio diventasse cibo e sostanza per tutti i giorni». Gianfranco Contini nei suoi Esercizi di lettura affermava che «la poesia non tollera ipotesi, ma solo l’ evidenza dei miracoli». Non per nulla un unico termine designa l’ «ispirazione» del poeta e del profeta sacro. Nel prologo alla sua Obra poética Borges riconosceva che «ogni poesia è misteriosa; nessuno sa interamente ciò che gli è stato concesso di scrivere». È per questo che Scrittura Sacra e poesia spesso si intrecciano e la fede è sorella della poesia perché entrambe tendono all’ Altro e all’ Oltre. Alda Merini è certa di questa verità e il suo libro, che è poesia e professione di fede, canto e cristologia, ne è una vigorosa e cosciente testimonianza. Lo confessa lei stessa nelle ultime righe di queste pagine le cui parole sono come i chiodi della crocefissione e i pensieri come la luce della Pasqua: «Domandano tutti come si fa a scrivere un libro: si va vicino a Dio e gli si dice: Feconda la mia mente, mettiti nel mio cuore e portami via dagli altri, rapiscimi. Così nascono i libri, così nascono i poeti». Ma anche i profeti e gli apostoli.
Mons. GIANFRANCO RAVASI