Archive pour le 25 octobre, 2013

Il fariseo e il Pubblicano

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PAPA FRANCESCO, MEDITAZIONE MATTUTINA : LA FRETTA DEL CRISTIANO

http://www.vatican.va/holy_father/francesco/cotidie/2013/it/papa-francesco-cotidie_20130615_fretta-cristiana_it.html

PAPA FRANCESCO: MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

LA FRETTA DEL CRISTIANO

SABATO, 15 GIUGNO 2013

(DA: L’OSSERVATORE ROMANO, ED. QUOTIDIANA, ANNO CLIII, N. 137, DOM.16/06/2013)

La vita cristiana deve essere sempre inquieta e mai tranquillizzante e certo non è «una terapia terminale per farci stare in pace fino al cielo». Allora bisogna fare come san Paolo e testimoniare «il messaggio della vera riconciliazione», senza preoccuparsi troppo delle statistiche o di fare proseliti: è «da pazzi ma è bello», perché «è lo scandalo della croce». Il Papa è tornato a parlare di riconciliazione e di ardore apostolico nell’omelia della messa celebrata questa mattina, sabato 15 giugno, nella cappella della Domus Sanctae Marthae.
Base della riflessione del Pontefice sono state, come di consueto, le letture del giorno, in particolare la seconda lettera di san Paolo ai Corinzi (5, 14-21), «brano — ha detto — un po’ speciale perché sembra che Paolo parta in quarta. È accelerato, va proprio con una certa velocità. L’amore di Cristo ci possiede, ci spinge, ci preme. È proprio questa la velocità che ha Paolo: quando vede l’amore di Cristo non può rimanere fermo». Così san Paolo è davvero un uomo che ha fretta, con «l’affanno per dirci qualcosa d’importante: parla del sì di Gesù, dell’opera di riconciliazione che ha fatto Gesù e anche dell’opera di riconciliazione» di Cristo e dell’apostolo.
Papa Francesco ha fatto anche notare come nella pagina paolina «per cinque volte si ripeta la parola riconciliazione. Cinque volte: è come un ritornello». Per dire con chiarezza che «Dio ci ha riconciliati con lui in Cristo». San Paolo «parla anche con forza e con tenerezza quando dice: io sono un ambasciatore in nome di Cristo». Poi Paolo, nel proseguire il suo scritto, sembra quasi inginocchiarsi per implorare: «Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» ed è come se dicesse «abbassate la guardia» per lasciarvi riconciliare con lui.
«La fretta, la premura di Paolo — ha affermato ancora il Pontefice — mi fa pensare a Maria quando, dopo aver ricevuto l’annuncio dell’angelo, parte in fretta per aiutare sua cugina. È la fretta del messaggio cristiano. E qui il messaggio è proprio quello della riconciliazione». Il senso della riconciliazione non sta semplicemente nel mettere insieme parti diverse e lontane tra loro. «La vera riconciliazione è che Dio in Cristo ha preso i nostri peccati e si è fatto peccato per noi. E quando noi andiamo a confessarci, per esempio, non è che diciamo il peccato e Dio ci perdona. Noi troviamo Gesù Cristo e gli diciamo: questo è tuo e io ti faccio peccato un’altra volta. E a lui piace, perché è stata la sua missione: farsi peccato per noi, per liberarci».
È questo «il mistero che faceva andare avanti Paolo con zelo apostolico, perché è una cosa tanto meravigliosa: l’amore di Dio che ha consegnato suo figlio alla morte per me. Quando Paolo si trova davanti a questa verità dice: ma lui mi ha amato, è andato alla morte per me. È questo il mistero della riconciliazione». La vita cristiana — ha spiegato ancora il Pontefice — «cresce su questo pilastro e noi un po’ la svalutiamo» quando la riduciamo al fatto che «il cristiano deve fare questo e poi deve credere in quello». Si tratta invece di arrivare «a questa verità che ci muove, a questo amore che è dentro la vita cristiana: l’amore del Padre che in Cristo riconcilia il mondo. È Dio infatti che riconcilia a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola di riconciliazione. Cristo ci ha riconciliato. E questo è l’atteggiamento del cristiano, questa è la pace del cristiano».
I filosofi «dicono che la pace è una certa tranquillità nell’ordine. Tutto ordinato, tranquillo. Quella non è la pace cristiana. La pace cristiana — ha insistito Papa Francesco — è una pace inquieta, non è una pace tranquilla. È una pace inquieta che va avanti per portare questo messaggio di riconciliazione. La pace cristiana ci spinge ad andare avanti e questo è l’inizio, la radice dello zelo apostolico».
E secondo Papa Francesco «lo zelo apostolico non è andare avanti per fare proseliti e fare statistiche: quest’anno sono cresciuti i cristiani in tal Paese, i movimenti. Le statistiche sono buone, aiutano, ma fare proseliti non è quello che Dio più vuole da noi. Quello che il Signore vuole da noi — ha precisato — è proprio l’annuncio della riconciliazione, che è il nucleo del suo messaggio: Cristo si è fatto peccato per me e i peccati sono là, nel suo corpo, nel suo animo. Questo è da pazzi, ma è bello: è la verità. Questo è lo scandalo della croce».
Il Papa ha concluso la sua omelia chiedendo la grazia che il «Signore ci dia questa premura per annunciare Gesù; ci dia la saggezza cristiana, che nacque proprio dal suo fianco trafitto per amore». E «ci convinca anche che la vita cristiana non è una terapia terminale per stare in pace fino al cielo. La vita cristiana è sulla strada, sulla vita, con questa premura di Paolo. L’amore di Cristo ci possiede, ci spinge, ci preme. Con questa emozione che si sente quando uno vede che Dio ci ama».

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SIRACIDE 35,12-14.16-18

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SIRACIDE 35,12-14.16-18

12 Il Signore è giudice
e non v’è presso di lui preferenza di persone.
13 Non è parziale con nessuno contro il povero,
anzi ascolta proprio la preghiera dell’oppresso.

14 Non trascura la supplica dell’orfano
né della vedova, quando si sfoga nel lamento.
16 Chi venera Dio sarà accolto con benevolenza,
la sua preghiera giungerà fino alle nubi.

17 La preghiera dell’umile penetra le nubi,
finché non sia arrivata, non si contenta;
18 non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto,
rendendo soddisfazione ai giusti e ristabilendo l’equità.

COMMENTO
 Siracide 35,15b-17.20-22a
Dio giudice giusto

Il libro del Siracide si divide in due parti, la prima delle quali raccoglie gli insegnamenti della sapienza (1,1 – 42,14) e la seconda descrive gli interventi della sapienza nella natura e nella storia (42,15 – 43,33). La prima di queste due parti si divide a sua volta in due sezioni: a) sapienza e coscienza umana (1,1 – 23,27); b) sapienza e legge (24,1 – 42,14). Il brano liturgico si situa verso la fine della seconda di queste due sezioni. Nella prima parte (vv. 15-17) viene descritta l’attività giudiziale svolta da jhwh; nella seconda invece (vv. 21-22) si sottolinea l’efficacia della preghiera dei poveri. Sono omessi due versetti (vv. 19-20) che interrompono il flusso delle idee.
La prima massima riguarda il potere giudiziale di Dio: «Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone» (v. 15b). Molte volte nella Bibbia Dio è presentato come giudice (cfr. Gn 18,25; Rm 3,6). In quanto giudice Dio si caratterizza per il fatto di non fare preferenza di persone. Per definizione il giudice deve essere imparziale, cioè al di sopra delle parti. Questa imparzialità si manifesta soprattutto nel rapporto con le categorie più disagiate, verso le quali è facile commettere soprusi: «Non è parziale a danno del povero e ascolta la preghiera dell’oppresso. Non trascura la supplica dell’orfano, né la vedova, quando si sfoga nel lamento» (vv. 16-17). In campo sociale coloro che sono più facilmente oggetto di soprusi sono i poveri che non hanno i mezzi per opporsi all’oppressione e allo sfruttamento. Fra costoro si situano in primo piano la vedova e l’orfano, i quali sono privi di una famiglia dalla quale nell’antichità derivava soprattutto la sicurezza e la stabilità di una persona. Nei loro confronti è facile che i giudici umani commettano ingiustizie. Ma Dio è dalla loro parte e li difende nei confronti di coloro che li opprimono.
Dopo le massime riguardanti Dio come giudice, viene ora presentata l’efficacia della preghiera a lui rivolta: «La preghiera del povero attraversa le nubi né si quieta finché non sia arrivata; non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l’equità» (vv. 21-22). È soprattutto la preghiera di coloro che sono discriminati e oppressi che giunge direttamente a Dio. Essa è talmente insistente da provocare il suo intervento. Il povero è qui identificato con il giusto, cioè la persona innocente, quello che non si è macchiato di soprusi e ingiustizie. Dio non lo abbandona a se stesso, ma interviene per fargli giustizia.

Linee interpretative
La presentazione di Dio come giudice giusto è molto rassicurante, ma porta con sé il rischio di considerare Dio come il garante dell’ordine pubblico, che subentra a riparare i danni causati dall’ingiustizia umana. Dio invece deve essere considerato come l’energia positiva che opera in questo mondo, conducendolo verso un fine di salvezza. La sua azione il più delle volte resta nascosta e sconosciuta. È proprio della fede riscoprire al di sotto delle cose che capitano in questo mondo una forza di bene che guida gli eventi umani verso un fine di pace e di amore. È proprio questa visione ottimistica della realtà che dà la forza per combattere contro il male, dovunque si manifesti, senza lasciarsi travolgere da esso o scoraggiare dai fallimenti che si sperimentano.
Non è evidente a prima vista che le preghiere dei poveri e degli oppressi siano esaudite da Dio. I fatti che capitano ogni giorno sembrano smentire questa ingenua affermazione. Tuttavia bisogna riconoscere che, pur credendo che Dio agisce potentemente nelle vicende di questo mondo,  noi non sappiamo nulla delle modalità del suo intervento. Solo in base alla fede si può affermare che Dio è dalla parte degli ultimi e lo si può dimostrare nella misura in cui si è disponibili a impegnarsi fino in fondo in loro favore. L’amore di Dio verso gli ultimi si manifesta soprattutto nel comportamento concreto di quanti credono in lui.

27 OTTOBRE 2013 – 30A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C : LECTIO DIVINA SU: LC 18,9-14

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/03-annoC/annoC/12-13/05-Ordinario/Omelie/30-Domenica-2013-C/30-Domenica-2013_C-JB.html

27 OTTOBRE 2013  | 30A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C  |  PROPOSTA DI LECTIO DIVINA

LECTIO DIVINA SU: LC 18,9-14

Con la parabola del fariseo e del pubblicano Gesù continuava l’insegnamento sulla preghiera che aveva iniziato narrando ai discepoli la parabola della vedova bisognosa e del giudice ingiusto (Lc 18,1-8). Gesù voleva, sicuramente, che i suoi pregassero sempre, senza cessare, ma li ha avvertiti che non avrebbero dovuto credersi migliori degli altri solo perché pregavano più spesso. Secondo quanto ci ricorda l’evangelista, Gesù ha raccontato la parabola perché aveva visto che, attorno a lui, alcuni si ritenevano buoni, tanto da disprezzare coloro che non erano come loro. Egli era consapevole che gli uomini pii cadono di solito nella tentazione di usare la loro vita di preghiera come motivo per rimanere soddisfatti di se stessi, di quello che hanno raggiunto con essa o che si aspettano di ottenere, dal momento che già lo hanno chiesto …, anche a costo di disprezzare il loro prossimo e non prendere sul serio Dio.

In quel tempo, 9ad alcuni che, credendosi giusti, si sentivano sicuri e disprezzavano gli altri, Gesù disse questa parabola:
10 « Due uomini salirono al tempio a pregare. Uno era fariseo e l’altro pubblicano.
11 Il fariseo, in piedi, pregava così tra sé: « O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano 12 Digiuno due volte la settimana e pago le decime di tutto quello che ho ».
13 Il pubblicano, invece, rimase indietro e non aveva nemmeno il coraggio di alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: « O Dio, abbi pietà di me peccatore ».
14 Vi dico, quest’ultimo tornò a casa giustificato, non il primo. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato ».
 1. LEGGERE: capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice

Anche se potrebbe sembrare che il brano evangelico si riferisce al modo di pregare, o meglio a due modelli di oranti, in realtà non è questa l’intenzione del narratore. Prima di narrarci la parabola, Luca ha indicato quando -e perché- Gesù l’ha raccontata: essendosi incontrato con persone che ritenevano buoni se stessi e non sufficientemente buoni gli altri, Gesù ha fatto ricorso ad una narrazione « inventata ». Non bisogna, allora, trascurare due cose: primo, il fatto è immaginato, non è reale; secondo, è raccontato per criticare coloro che hanno talmente alta stima di sé da non aver tempo né desiderio, di valorizzare gli altri.
Che il fatto narrato sia inventato non gli toglie valore, al contrario; Gesù ha immaginato alcuni fatti -quello dei due oranti- con una precisa intenzione: criticare l’atteggiamento profondamente cattivo di coloro che disprezzano gli altri (Lc 18,9). Per questo, risulta sorprendente che Gesù si serva di una parabola sui due modi di pregare per censurare il comportamento di coloro che, ricolmi di autostima, disprezzano il loro prossimo.
Il come si dialoga con Dio ha qualcosa a che vedere con il come ci si comporta con gli altri? Per Gesù certamente sì; altrimenti non avrebbe « inventato » questo episodio. Ambedue i personaggi vanno nello stesso luogo, il tempio, a fare la stessa cosa, pregare. Però lo fanno in modo diverso. Il ‘buono’, il fariseo, è cosciente della sua bontà e ne dà un buon resoconto; inoltre ringrazia Dio perché è buono. Il ‘cattivo’, un pubblicano, non fa altro che riconoscersi peccatore; nemmeno osa volgere lo sguardo a Dio. Nessuno dei due si sbaglia, né cerca di ingannare Dio: pregano la loro vita, dicono a Dio quello che Lui sa già. Perché, allora, solo colui che si è accusato è stato giustificato? Non per essere più umile, ma per essere più sincero: il pubblicano guardava se stesso come Dio lo vedeva, con mancanza di grazia, bisognoso di perdono; il fariseo, invece, si contemplava come lui si piaceva, osservante della legge, soddisfatto di se stesso.
La parabola finisce con un’applicazione che universalizza il suo senso (Lc 8,14). L’umiliazione alla quale esorta Gesù non consiste nel vederci come vogliamo, ma nel contemplarci come Dio ci vuole. Esaltato sarà, allora, chi accetta la sua realtà e, sapendosi alla presenza di Dio (nel tempio, in preghiera), accetta il giudizio di Dio su di lui, rinunciando a giudicare gli altri. Non si lascia trasportare dai suoi pregiudizi chi in preghiera si riconosce sotto il giudizio di Dio. Senza preghiera sincera è impossibile trattare bene il prossimo.

 2. MEDITARE: APPLICARE ALLA VITA QUELLO CHE DICE IL TESTO!
Gesù, che aveva insistito con i suoi discepoli sull’importanza di pregare senza sosta, raccomandò loro senza indugio che non dovevano usare la loro pietà verso Dio per diventare poco misericordiosi verso il prossimo. Una vita di preghiera che esige la comprensione di Dio non può poi negarla al prossimo, anche se non è tanto buono come noi riusciamo ad essere. Sperare le attenzioni di Dio senza soccorrere i bisogni del prossimo, -bisogni che dovremmo considerare più urgenti quanto meno buoni ci sembrano-, non è degno del discepolo di Gesù. Pregare senza interruzione, come ci vorrebbe vedere Gesù, non deve alimentare il nostro autocompiacimento: non prega di più chi è migliore, ma chi ne ha più bisogno. La parabola, allora, pretende disautorare l’autocompiacimento di colui il quale si crede sufficientemente buono dinanzi a Dio, disprezzando chi non lo uguaglia.
Prima di passare al suo contenuto, bisognerebbe considerare quanto risulta insolito che Gesù giudichi un comportamento tra gli uomini con una parabola che racconta il nostro modo di presentarci a Dio. Qualcosa non va, allora, nella nostra relazione personale con Dio, nella nostra « collocazione » dinanzi a Lui, nel nostro modo di vederci alla sua presenza, quando non apprezziamo il prossimo, quando lo disprezziamo e lo giudichiamo, se ci crediamo superiori e migliori. Nessuno che sminuisce il suo prossimo, anche con ogni ragione (il pubblicano non era buono, e tutti lo sapevano), si presenta bene dinanzi a Dio: una vita di preghiera che non porti l’apprezzamento del prossimo più debole o meno buono non è accetta a Dio. Né più, né meno.
Il che significa che senza vita di preghiera, senza una relazione sincera con Dio, nella quale si assume -perché sia onesta, umile- il punto di vista di Dio su noi stessi, il nostro prossimo non sarà da noi rispettato né apprezzato come merita. E se lo merita, non perché sia buono, ma perché Dio lo ama molto. Chi prega bene, senza alzare gli occhi al cielo né rigonfiarsi di superbia dinanzi alla propria bontà, tratta bene non solo Dio, ma anche il suo prossimo. Per non disprezzare gli altri dobbiamo apprezzare noi stessi come Dio ci vede e ci stima. La preghiera sincera, anche se fatta da un peccatore confesso, rispetta Dio e rispetta il prossimo. Molte, se non tutte, le difficoltà che incontriamo nella nostra relazione con gli altri nascono, allora, da una vita di preghiera poco « umile ».
Nessuno dei due oranti, nella parabola, ha mancato alla verità quando pregava. Non bisogna dimenticarlo: il fariseo poteva mostrare a Dio il suo ben operare: il pubblicano non ha potuto menzionare altro che il suo peccato. In ambedue, la preghiera che hanno fatto, rifletteva la vita che conducevano. Cosa mancava allora nella preghiera del fariseo?
Il buon fariseo non voleva nulla da Dio. Non lo voleva, anche se Lui avrebbe potuto darglielo; era lui che gli stava dando una buona relazione su se stesso. Senza chiedere nulla di speciale a Dio, senza desiderare da Lui nient’altro che la sua approvazione, lo ringraziava per essere diverso e migliore. La sua superiorità era reale, era basata sulla sua vita, ma era offensiva per il suo prossimo; si riconosceva sufficientemente fedele a Dio tanto da sentirsi grato, però per ringraziare Dio ha dovuto condannare il prossimo. E andò via condannato dalla presenza di Dio. Colui che è soddisfatto di se stesso crede di soddisfare le esigenze che Dio gli impone, e quando prega alla sua presenza riesce solo a sentire se stesso; per vedersi con i suoi occhi, compiaciuto di come è riuscito ad essere, non riesce a vedersi come lo vede Dio.
Il buono, senza mentire a Dio né ingannare se stesso, si è manifestato come era; non ha pensato di guardarsi come Dio lo voleva. Ha misurato la sua relazione con Dio partendo da se stesso; gli interessava che fosse chiaro ciò che era capace di fare: la sua bontà era sua, come suo è stato il suo ringraziamento. Dio gli serviva per autoaffermarsi, per compiacersi di se stesso. Oranti così non rispettano il prossimo, né escono dalla preghiera giustificati da Dio. Non ne hanno bisogno, in realtà, per essere buoni. E sono sempre migliori degli altri. Hanno verso se stessi tanto apprezzamento, che non gliene resta per il loro prossimo, né per il loro Dio. Come sono buoni! Ma per quanto buoni siano, non riescono ad essere giusti.
La preghiera che facciamo noi discepoli di Gesù non ci può fare sentire migliori di coloro che non la fanno. La vita cristiana che cerchiamo di vivere quotidianamente, fatta di fedeltà alla volontà di Dio e trasformando in preghiera i nostri problemi quotidiani, non ci dà la sicurezza di ottenere il favore di Dio, se viviamo paragonandoci con coloro che non sono come noi;
Con troppa frequenza, purtroppo, utilizziamo la nostra pietà per migliorare la nostra immagine dinanzi a Dio a costo di mettere in ombra il nostro prossimo. La preghiera non è un esercizio di autostima, è l’occasione per saperci stimati da Dio; scopriremo ciò che valiamo, se percepiamo quanto valiamo per Dio. Come il fariseo della parabola, sembra che, quando ci mettiamo alla presenza di Dio, abbiamo bisogno di apparire migliori facendo diventare cattivi quelli che ci circondano; pensando, come il fariseo, che Dio accetta solo i buoni, finiamo col perdere tutto quello che abbiamo ottenuto con sforzo e fedeltà. Per quanto sia sincera la nostra vita di preghiera, se fomenta sentimenti di superiorità nei confronti del prossimo, non potrà contare sul beneplacito di Dio. Con troppa frequenza ci accostiamo a Dio per dirgli quanto siamo riusciti ad essere buoni e come Lui dovrebbe essere buono verso di noi, per compensare il nostro sforzo. E per ottenere l’approvazione di Dio, non ci sottraiamo a mettere in ridicolo coloro che non sono buoni come noi. Come il fariseo. Gesù, invece, ci avverte che dovremmo imitare il peccatore, se vogliamo uscire con profitto dalla nostra preghiera; così facile ce lo propone; perché, certamente, ci deve essere più semplice andare a Dio per chiedergli perdono che per convincerlo dei nostri meriti. Nella preghiera che facciamo, ci insegna Gesù con la parabola, non dovremmo ricordare a Dio quello che abbiamo fatto ma, come il pubblicano, ciò che ancora ci resta da fare; non dovremmo più dire quanto sono cattivi gli altri, e dovremmo smettere di dirgli quanto buoni siamo stati noi. Saperci in debito, tutte le volte che ci presentiamo davanti al Signore, sapere quanto ci manca la sua grazia, farà sì che Lui non ce la faccia mancare. E questo sarà per noi molto semplice e, come peccatori, rinunceremo a paragonarci con gli altri; per sentirci graditi a Dio non è necessario sentirsi migliori degli altri, basterebbe saperci peggiori di come Dio ci vorrebbe. L’errore del fariseo non è consistito nel fatto che non pregava, né dovette mentire quando pregava; il suo errore è consistito nel vedersi buono perché migliore degli altri e non vedersi come Dio lo vedeva; poté vedersi buono perché si paragonava con i cattivi, non perché si confrontava con la bontà di Dio; per questo, giusto e pietoso, ha disprezzato quelli che non lo erano tanto. E per questo non tornò a casa giustificato. Invece il peccatore, che è tornato a casa in pace con Dio, non dovette fare altro sforzo che quello di riconoscere che la sua vita non era all’altezza di ciò che Dio chiedeva; non poté dirgli altro se non che non era degno di Lui e che gli dispiaceva veramente.
Ridurre l’insegnamento di Gesù a semplice esortazione ad essere umili sarebbe disconoscere la sua intenzione profonda; non per nulla sono due modi di pregare che ha contrapposto, due modi di relazionarsi con Dio. Gesù scredita solo quello di chi, pregando, si sente bene perché non sa come si sente Dio vedendo lui. Quando utilizziamo la vita di preghiera, esercizio cosciente di relazione con Dio, per riconciliarci con noi stessi, perdiamo Dio e la sua grazia. Per quanto buoni siamo stati, non riusciamo ad essere giusti.
Gesù ci ha reso facile il pregare, se per fare una preghiera che ottenga il favore di Dio non dobbiamo presentare la nostra vita come una lista di servizi compiuti, se possiamo pregare a partire dalla nostra impotenza e dai nostri errori. Se non bisogna essere migliori degli altri per fare buona la nostra preghiera e ottenere che, per essa, Dio ci faccia buoni, non è difficile pregare. Basterebbe non disprezzare chi non è come noi, basterebbe che non ci sentissimo sicuri dei nostri meriti, per assicurarci il favore di Dio e le sue attenzioni.

  JUAN JOSE BARTOLOME sdb

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