The sin and the expulsion from Paradise

http://www.vinonuovo.it/index.php?l=it&art=1332
«PERCHÉ ABBIAMO FIDUCIA NELL’UOMO»
DI PAOLO VI | 21 GIUGNO 2013
NEL GIORNO IN CUI RICORRONO I 50 ANNI DALL’ELEZIONE DI PAOLO VI LO RICORDIAMO CON UN BRANO DAL DISCORSO CHE TENNE A CONCLUSIONE DEL CONCILIO
Il 21 giugno 1963 – esattamente cinquant’anni fa – veniva eletto Paolo VI. Oggi vogliamo ricordare questa figura della Chiesa del Novecento riprendendo un brano dell’allocuzione che tenne il 7 dicembre 1965 durante l’ultima seduta pubblica del Concilio Vaticano II. Sono parole che ci sembrano particolarmente belle da rileggere nella stagione ecclesiale di oggi.
—————–
Si dirà che il Concilio più che delle divine verità si è occupato principalmente della Chiesa, della sua natura, della sua composizione, della sua vocazione ecumenica, della sua attività apostolica e missionaria. Questa secolare società religiosa, che è la Chiesa, ha cercato di compiere un atto riflesso su se stessa, per conoscersi meglio, per meglio definirsi, e per disporre di conseguenza i suoi sentimenti ed i suoi precetti. È vero. Ma questa introspezione non è stata fine a se stessa, non è stata atto di pura sapienza umana, di sola cultura terrena; la Chiesa si è raccolta nella sua intima coscienza spirituale, non per compiacersi di erudite analisi di psicologia religiosa o di storia delle sue esperienze, ovvero per dedicarsi a riaffermare i suoi diritti e a descrivere le sue leggi, ma per ritrovare in se stessa vivente ed operante, nello Spirito Santo, la parola di Cristo, e per scrutare più a fondo il mistero, cioè il disegno e la presenza di Dio sopra e dentro di sé, e per ravvivare in sé quella fede, ch’è il segreto della sua sicurezza e della sapienza, e quell’amore che la obbliga a cantare senza posa le lodi di Dio: cantare amantis est, dice S. Agostino (Serm. 336; P.L. 38, 1472). I documenti conciliari principalmente quelli sulla divina Rivelazione, sulla Liturgia, sulla Chiesa, sui Sacerdoti, sui Religiosi, sui Laici, lasciano chiaramente trasparire questa diretta e primaria intenzione religiosa, e dimostrano quanto sia limpida e fresca e ricca la vena spirituale, che il vivo contatto col Dio vivo fa erompere nel seno della Chiesa, e da lei effondere sulle aride zolle della nostra terra.
La carità
Ma non possiamo trascurare un’osservazione capitale nell’esame del significato religioso di questo Concilio: esso è stato vivamente interessato dallo studio del mondo moderno. Non mai forse come in questa occasione la Chiesa ha sentito il bisogno di conoscere, di avvicinare, di comprendere, di penetrare, di servire, di evangelizzare la società circostante, e di coglierla, quasi di rincorrerla nel suo rapido e continuo mutamento. Questo atteggiamento, determinato dalle distanze e dalle fratture verificatesi negli ultimi secoli, nel secolo scorso ed in questo specialmente fra la Chiesa e la civiltà profana, e sempre suggerito dalla missione salvatrice essenziale della Chiesa, è stato fortemente e continuamente operante nel Concilio, fino al punto da suggerire ad alcuni il sospetto che un tollerante e soverchio relativismo al mondo esteriore, alla storia fuggente, alla moda culturale, ai bisogni contingenti, al pensiero altrui, abbia dominato persone ed atti del Sinodo ecumenico, a scapito della fedeltà dovuta alla tradizione e a danno dell’orientamento religioso del Concilio medesimo. Noi non crediamo che questo malanno si debba ad esso imputare nelle sue vere e profonde intenzioni e nelle sue autentiche manifestazioni.
Vogliamo piuttosto notare come la religione del nostro Concilio sia stata principalmente la carità; e nessuno potrà rimproverarlo d’irreligiosità o d’infedeltà al Vangelo per tale precipuo orientamento, quando ricordiamo che è Cristo stesso ad insegnarci essere la dilezione ai fratelli il carattere distintivo dei suoi discepoli (cfr. Io. 13, 35), e quando lasciamo risuonare ai nostri animi le parole, apostoliche: «La religione pura e immacolata, agli occhi di Dio e del Padre, è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle loro tribolazioni e conservarsi puri da questo mondo» (Iac. 1, 27); e ancora: «chi non ama il proprio fratello, che egli vede, come può amare Dio, che egli non vede»? (1 Io. 4, 20).
La Chiesa del Concilio, sì, si è assai occupata, oltre che di se stessa e del rapporto che a Dio la unisce, dell’uomo, dell’uomo quale oggi in realtà si presenta: l’uomo vivo, l’uomo tutto occupato di sé, l’uomo che si fa soltanto centro d’ogni interesse, ma osa dirsi principio e ragione d’ogni realtà. Tutto l’uomo fenomenico, cioè rivestito degli abiti delle sue innumerevoli apparenze; si è quasi drizzato davanti al consesso dei Padri conciliari, essi pure uomini, tutti Pastori e fratelli, attenti perciò e amorosi: l’uomo tragico dei suoi propri drammi, l’uomo superuomo di ieri e di oggi e perciò sempre fragile e falso, egoista e feroce; poi l’uomo infelice di sé, che ride e che piange; l’uomo versatile pronto a recitare qualsiasi parte, e l’uomo rigido cultore della sola realtà scientifica, e l’uomo com’è, che pensa, che ama, che lavora, che sempre attende qualcosa il «filius accrescens» (Gen. 49, 22); e l’uomo sacro per l’innocenza della sua infanzia, per il mistero della sua povertà, per la pietà del suo dolore; l’uomo individualista e l’uomo sociale; l’uomo «laudator temporis acti» e l’uomo sognatore dell’avvenire; l’uomo peccatore e l’uomo santo; e così via.
L’umanesimo laico profano alla fine è apparso nella terribile statura ed ha, in un certo senso, sfidato il Concilio. La religione del Dio che si è fatto Uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? uno scontro, una lotta, un anatema? poteva essere; ma non è avvenuto. L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani (e tanto maggiori sono, quanto più grande si fa il figlio della terra) ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo. Dategli merito di questo almeno, voi umanisti moderni, rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme, e riconoscerete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo.
Fiducia nell’uomo . . .
E che cosa ha considerato questo augusto Senato nella umanità, che esso, sotto la luce della divinità, si è messo a studiare, ha considerato ancora l’eterno bifronte suo viso: la miseria e la grandezza dell’uomo, il suo male profondo, innegabile, da se stesso inguaribile, ed il suo bene superstite, sempre segnato di arcana bellezza e di invitta sovranità. Ma bisogna riconoscere che questo Concilio, postosi a giudizio dell’uomo, si è soffermato ben più a questa faccia felice dell’uomo, che non a quella infelice. Il suo atteggiamento è stato molto e volutamente ottimista. Una corrente di affetto e di ammirazione si è riversata dal Concilio sul mondo umano moderno. Riprovati gli errori, sì; perché ciò esige la carità, non meno che la verità; ma per le persone solo richiamo, rispetto ed amore. Invece di deprimenti diagnosi, incoraggianti rimedi; invece di funesti presagi, messaggi di fiducia sono partiti dal Concilio verso il mondo contemporaneo: i suoi valori sono stati non solo rispettati, ma onorati, i suoi sforzi sostenuti, le sue aspirazioni purificate e benedette.
Vedete, ad esempio: gli innumerevoli linguaggi delle genti oggi esistenti sono stati ammessi a esprimere liturgicamente la parola degli uomini a Dio e la Parola di Dio agli uomini, all’uomo in quanto tale è stata riconosciuta la vocazione fondamentale ad una pienezza di diritti e ad una trascendenza di destini; le sue supreme aspirazioni all’esistenza, alla dignità della persona, alla onesta libertà, alla cultura, al rinnovamento dell’ordine sociale, alla giustizia, alla pace, sono state purificate e incoraggiate; e a tutti gli uomini è stato rivolto l’invito pastorale e missionario alla luce evangelica. Troppo brevemente noi ora parliamo delle moltissime e amplissime questioni, relative al benessere umano, delle quali il Concilio s’è occupato; né esso ha inteso risolvere tutti i problemi urgenti della vita moderna; alcuni di questi sono stati riservati all’ulteriore studio che la Chiesa intende farne, molti di essi sono stati presentati in termini molto ristretti e generali, suscettibili perciò di successivi approfondimenti e di diverse applicazioni.
. . . e dialogo
Ma una cosa giova ora notare: il magistero della Chiesa, pur non volendo pronunciarsi con sentenze dogmatiche straordinarie, ha profuso il suo autorevole insegnamento sopra una quantità di questioni, che oggi impegnano la coscienza e l’attività dell’uomo; è sceso, per così dire, a dialogo con lui; e, pur sempre conservando la autorità e la virtù sue proprie, ha assunto la voce facile ed amica della carità pastorale; ha desiderato farsi ascoltare e comprendere da tutti; non si è rivolto soltanto all’intelligenza speculativa, ma ha cercato di esprimersi anche con lo stile della conversazione oggi ordinaria, alla quale il ricorso alla esperienza vissuta e l’impiego del sentimento cordiale dànno più attraente vivacità e maggiore forza persuasiva: ha parlato all’uomo d’oggi, qual è.
E un’altra cosa dovremo rilevare: tutta questa ricchezza dottrinale è rivolta in un’unica direzione: servire l’uomo. L’uomo, diciamo, in ogni sua condizione, in ogni sua infermità, in ogni sua necessità. La Chiesa si è quasi dichiarata l’ancella dell’umanità, proprio nel momento in cui maggiore splendore e maggiore vigore hanno assunto, mediante la solennità conciliare, sia il suo magistero ecclesiastico, sia il suo pastorale governo: l’idea di ministero ha occupato un posto centrale.
Tutto questo e tutto quello che potremmo dire sul valore umano del Concilio ha forse deviato la mente della Chiesa in Concilio verso la direzione antropocentrica della cultura moderna? Deviato no, rivolto sì.
Ma chi bene osserva questo prevalente interesse del Concilio per i valori umani e temporali non può negare che tale interesse è dovuto al carattere pastorale, che il Concilio ha scelto quasi programma, e dovrà riconoscere che quello stesso interesse non è mai disgiunto dall’interesse religioso più autentico, sia per la carità, che unicamente lo ispira (e dove è la carità, ivi è Dio!), e sia per il collegamento, dal Concilio sempre affermato e promosso, dei valori umani e temporali, con quelli propriamente spirituali, religiosi ed eterni: sull’uomo e sulla terra si piega, ma al regno di Dio si solleva.
Amare l’uomo per amare Dio
La mentalità moderna, abituata a giudicare ogni cosa sotto l’aspetto del valore, cioè della sua utilità, vorrà ammettere che il valore del Concilio è grande almeno per questo: che tutto è stato rivolto all’umana utilità; non si dica dunque mai inutile una religione come la cattolica, la quale, nella sua forma più cosciente e più efficace, qual è quella conciliare, tutta si dichiara in favore ed in servizio dell’uomo. La religione cattolica e la vita umana riaffermano così la loro alleanza, la loro convergenza in una sola umana realtà: la religione cattolica è per l’umanità; in un certo senso, essa è la vita dell’umanità. È la vita, per l’interpretazione, finalmente esatta e sublime, che la nostra religione dà all’uomo (non è l’uomo, da solo, mistero a se stesso?); e la dà precisamente in virtù della sua scienza di Dio: per conoscere l’uomo, l’uomo vero, l’uomo integrale, bisogna conoscere Dio; ci basti ora, a prova di ciò, ricordare la fiammante parola di S. Caterina da Siena: «nella tua natura, Deità eterna, conoscerò la natura mia» (Or. 24). È la vita, perché della vita descrive la natura ed il destino, le dà il suo vero significato. È la vita, perché della vita costituisce la legge suprema, e alla vita infonde la misteriosa energia che la fa, possiamo dire, divina.
Che se, venerati Fratelli e Figli tutti qui presenti, noi ricordiamo come nel volto d’ogni uomo, specialmente se reso trasparente dalle sue lacrime e dai suoi dolori, possiamo e dobbiamo ravvisare il volto di Cristo (cfr. Matth. 25, 40), il Figlio dell’uomo e se nel volto di Cristo possiamo e dobbiamo poi ravvisare il volto del Padre celeste: «chi vede me, disse Gesù, vede anche il Padre» (Io. 14, 9), il nostro umanesimo si fa cristianesimo, e il nostro cristianesimo si fa teocentrico; tanto che possiamo altresì enunciare: per conoscere Dio bisogna conoscere l’uomo. Sarebbe allora questo Concilio, che all’uomo principalmente ha dedicato la sua studiosa attenzione, destinato a riproporre al mondo moderno la scala delle liberatrici e consolatrici ascensioni? non sarebbe, in definitiva, un semplice, nuovo e solenne insegnamento ad amare l’uomo per amare Iddio? amare l’uomo, diciamo, non come strumento, ma come primo termine verso il supremo termine trascendente, principio e ragione d’ogni amore. E allora questo Concilio tutto si risolve nel suo conclusivo significato religioso, altro non essendo che un potente e amichevole invito all’umanità d’oggi a ritrovare, per via di fraterno amore, quel Dio «dal Quale allontanarsi è cadere, al Quale rivolgersi è risorgere, nel Quale rimanere è stare saldi, al Quale ritornare è rinascere, nel Quale abitare è vivere» (S. August., Solil. 1, 1, 3; P. L. 32, 870).
Così noi speriamo al termine di questo Concilio ecumenico vaticano secondo e all’inizio del rinnovamento umano e religioso, ch’esso s’è prefisso di studiare e di promuovere; così speriamo per noi, Fratelli e Padri del Concilio medesimo; così speriamo per l’umanità intera, che qui abbiamo imparato ad amare di più ed a meglio servire.
http://juanmert.altervista.org/blog/commento-di-mons-g-ravasi-a-corpo-damore-della-merini/
gen 24, 2013 - L’angolo della Riflessione
COMMENTO DI G. RAVASI A CORPO D’AMORE DELLA MERINI
«Guardate:/ sulla carta sono crocifisso/ coi chiodi delle parole.» Mi sono venuti in mente questi versi de Il flauto di vertebre di Majakovskij leggendo le pagine «cristologiche» di Alda Merini, pagine nelle quali – quasi come nella letteratura semitica che non conosce nette distinzioni di genere – la prosa trascolora in poesia e viceversa, in una costante armonia contrappuntistica. Sì, in questi canti è deposta l’ anima della poetessa che abbraccia il Cristo crocifisso come la Maddalena di certe raffigurazioni del Calvario, aggrappata al legno della croce che cola sangue divino. Alda, infatti, «diventata discepola», pronunzia nel suo poemetto una continua dichiarazione d’ amore, trasparente e pura, «da vera innamorata», risalendo idealmente il fiume della letteratura mistica, capace di intrecciare eros e agape, carne e anima, desiderio e fede. Non tema, perciò, il giudizio dei teologi, come sembra far balenare la sua umile e timida premessa: la sua professione d’ amore non «intacca minimamente i dogmi del cristianesimo». E a rassicurarla è un teologo di mestiere che ora segue la poetessa nel suo amore segreto e invisibile, incomprensibile agli altri che la «deridono perché/ non vedono niente/ loro non sanno che parlo di te», cioè di un amore altissimo e supremo. Il suo è un abbraccio unico ed esclusivo «dove viviamo solo io e te/ in compagnia di un amore» indistruttibile e indiscutibile, sbocciato fin dall’ infanzia, perché «mai bambina fu assetata di Dio più di me», e ora fiorito nelle nozze mistiche in cui la sposa è «diventata il monile più bello» dell’ Amato, come si proclama anche nel Cantico dei cantici. Certo, l’ amore non elide il dolore: «Mi hai fatta soffrire,/ talmente soffrire/ che non potevo fare a meno di te». È quindi, una sofferenza feconda, quasi implorata: «Io ti chiedo un dono,/ adesso,/ il dono di una lacrima», perché «dicono che le sorgenti d’ amore siano le lacrime». La sua, comunque, è la parabola dell’ esperienza di tutti i veri credenti, capaci di amare, perché «tutti gli innamorati sono in Cristo». Sono costoro a comprendere la vicenda vissuta dalla poetessa, sorella nell’ amore e nella fede: «Molti mi guardano negli occhi/ e rimangono estatici/ perché capiscono che io ti ho visto,/ che ti ho sentito,/ o che perlomeno qualche volta/ ti ho anche tradito». Alda Merini nella sua storia interiore d’ amore si sente simile alla Veronica: «(…) io ti percorro ad ogni ora/ e sono lì in un angolo di strada/ e aspetto che tu passi./ E ho un fazzoletto, amore,/ che nessuno ha mai toccato,/ per tergerti la faccia». Su quel velo, dunque, è impresso il volto di Cristo. Queste pagine diventano, allora, una piccola «cristologia» poetica. Come già aveva intuito Borges, quello di Gesù è un volto «duro, ebreo», che si configura anche sulle rive della disperazione e della passione, «che ti cerca per ogni dove/ anche quando tu ti nascondi/ per non farti vedere» (proprio come scriveva Paolo in Romani 10, 20: «Io, il Signore, mi sono fatto trovare anche da quelli che non mi cercavano, ho risposto anche a quelli che non mi invocavano»). Gesù ci sommuove perché ci costringe a uscire da noi stessi, a fissare gli occhi in quelli dell’ altro. Infatti «tu entri dalla porta dello sguardo». Gli occhi, anche se celati da «occhiali scuri», diventano trasparenti a lui. In questo senso egli è «catastrofe», cioè ribaltamento del nostro isolamento solitario. È per questo che anche Cristo è innanzitutto e soprattutto amore, «fiamma che sciolse tutti i ghiacciai dell’ universo». Quel volto ebreo, che sulla croce divenne – come dice l’ Apostolo (1 Corinzi 1,23) – «scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani», è in realtà «Figlio di Dio e in questa primogenitura ci volle tutti fratelli». L’ intera sua vita diventa segno di amore, «torcia umana/ (che) illumina il cammino di chi soffre». Scorre, così, nelle pagine di Alda, tutta l’ esistenza di Cristo, a partire dall’ annunzio della sua nascita, passando attraverso la sua parola di «grande poeta», «voce di Dio stesso», il tradimento di Giuda e di Pietro, il peccato umano che vorrebbe «distruggere i disegni del suo grande, inesauribile amore» e che si fa «sangue/ e grumo di sangue» sul legno della croce. Dio si lasciò travolgere dalla morte, Dio amò la sua morte, Dio si lasciò abbracciare dalla morte, morì sulle sue labbra, urlò sul suo cuore». La morte sul Golgota non è, però, l’ approdo dell’ esistenza di Cristo. Lo stesso silenzio del Padre («Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?») «era solo una nuvola di canto». L’ estuario della storia di Gesù non è nel sepolcro, ma nell’ alba di Pasqua. Proprio come insegnava la mamma di Alda, la morte di Cristo è «una fioritura primaverile,/ un mandorlo in fiore». «Oh sì, Dio, l’ uomo quando muore risorge in te e diventa una lunga gravidanza d’ amore». Infatti, «ecco che improvvisamente/ quella carne che assomigliava a tutti/ diventa unica e risorge,/ è l’ unica carne che abbia dato il senso/ della giovinezza eterna/ e quindi dell’ anima». La morte di Gesù è, dunque, un’ Epifania dell’ eterno. «La morte è il panico del suo amore, siamo pieni di panico di fronte all’ amore grande di Dio, abbiamo paura e desiderio insieme, abbiamo paura e ci scordiamo che un giorno Lui ci dirà: Deponi le tue bisacce e vieni, vieni a prendermi, per sempre». Ma già mentre camminiamo come pellegrini sulla terra, egli ci nutre di un cibo di immortalità: «Diede la sua carne agli altri, la diede ai suoi nemici, affinché se ne cibassero, affinché l’ uomo Dio diventasse cibo e sostanza per tutti i giorni». Gianfranco Contini nei suoi Esercizi di lettura affermava che «la poesia non tollera ipotesi, ma solo l’ evidenza dei miracoli». Non per nulla un unico termine designa l’ «ispirazione» del poeta e del profeta sacro. Nel prologo alla sua Obra poética Borges riconosceva che «ogni poesia è misteriosa; nessuno sa interamente ciò che gli è stato concesso di scrivere». È per questo che Scrittura Sacra e poesia spesso si intrecciano e la fede è sorella della poesia perché entrambe tendono all’ Altro e all’ Oltre. Alda Merini è certa di questa verità e il suo libro, che è poesia e professione di fede, canto e cristologia, ne è una vigorosa e cosciente testimonianza. Lo confessa lei stessa nelle ultime righe di queste pagine le cui parole sono come i chiodi della crocefissione e i pensieri come la luce della Pasqua: «Domandano tutti come si fa a scrivere un libro: si va vicino a Dio e gli si dice: Feconda la mia mente, mettiti nel mio cuore e portami via dagli altri, rapiscimi. Così nascono i libri, così nascono i poeti». Ma anche i profeti e gli apostoli.
Mons. GIANFRANCO RAVASI