Archive pour septembre, 2013

The Garden of Eden

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PAPA FRANCESCO: LA CHIESA MADRE DEI CRISTIANI

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PAPA FRANCESCO

UDIENZA GENERALE

PIAZZA SAN PIETRO

MERCOLEDÌ, 11 SETTEMBRE 2013

LA CHIESA MADRE DEI CRISTIANI

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

riprendiamo oggi le catechesi sulla Chiesa in questo « Anno della fede ». Tra le immagini che il Concilio Vaticano II ha scelto per farci capire meglio la natura della Chiesa, c’è quella della « madre »: la Chiesa è nostra madre nella fede, nella vita soprannaturale (cfr. Cost. dogm. Lumen gentium, 6.14.15.41.42). E’ una delle immagini più usate dai Padri della Chiesa nei primi secoli e penso possa essere utile anche per noi. Per me è una delle immagini più belle della Chiesa: la Chiesa madre! In che senso e in che modo la Chiesa è madre? Partiamo dalla realtà umana della maternità: che cosa fa una mamma?
1. Anzitutto una mamma genera alla vita, porta nel suo grembo per nove mesi il proprio figlio e poi lo apre alla vita, generandolo. Così è la Chiesa: ci genera nella fede, per opera dello Spirito Santo che la rende feconda, come la Vergine Maria. La Chiesa e la Vergine Maria sono mamme, ambedue; quello che si dice della Chiesa si può dire anche della Madonna e quello che si dice della Madonna si può dire anche della Chiesa! Certo la fede è un atto personale: «io credo», io personalmente rispondo a Dio che si fa conoscere e vuole entrare in amicizia con me (cfr Enc. Lumen fidei, n. 39). Ma la fede io la ricevo da altri, in una famiglia, in una comunità che mi insegna a dire «io credo», «noi crediamo». Un cristiano non è un’isola! Noi non diventiamo cristiani in laboratorio, noi non diventiamo cristiani da soli e con le nostre forze, ma la fede è un regalo, è un dono di Dio che ci viene dato nella Chiesa e attraverso la Chiesa. E la Chiesa ci dona la vita di fede nel Battesimo: quello è il momento in cui ci fa nascere come figli di Dio, il momento in cui ci dona la vita di Dio, ci genera come madre. Se andate al Battistero di San Giovanni in Laterano, presso la cattedrale del Papa, all’interno c’è un’iscrizione latina che dice più o meno così: « Qui nasce un popolo di stirpe divina, generato dallo Spirito Santo che feconda queste acque; la Madre Chiesa partorisce i suoi figli in queste onde ». Questo ci fa capire una cosa importante: il nostro far parte della Chiesa non è un fatto esteriore e formale, non è compilare una carta che ci danno, ma è un atto interiore e vitale; non si appartiene alla Chiesa come si appartiene ad una società, ad un partito o ad una qualsiasi altra organizzazione. Il legame è vitale, come quello che si ha con la propria mamma, perché, come afferma sant’Agostino, « la Chiesa è realmente madre dei cristiani » (De moribus Ecclesiae, I,30,62-63:PL32,1336). Chiediamoci: come vedo io la Chiesa? Se sono riconoscente anche ai miei genitori perché mi hanno dato la vita, sono riconoscente alla Chiesa perché mi ha generato nella fede attraverso il Battesimo? Quanti cristiani ricordano la data del proprio Battesimo? Io vorrei fare questa domanda qui a voi, ma ognuno risponda nel suo cuore: quanti di voi ricordano la data del proprio Battesimo? Alcuni alzano le mani, ma quanti non ricordano! Ma la data del Battesimo è la data della nostra nascita alla Chiesa, la data nella quale la nostra mamma Chiesa ci ha partorito! E adesso vi lascio un compito da fare a casa. Quando oggi tornate a casa, andate a cercare bene qual è la data del vostro Battesimo, e questo per festeggiarla, per ringraziare il Signore di questo dono. Lo farete? Amiamo la Chiesa come si ama la propria mamma, sapendo anche comprendere i suoi difetti? Tutte le mamme hanno difetti, tutti abbiamo difetti, ma quando si parla dei difetti della mamma noi li copriamo, li amiamo così. E la Chiesa ha pure i suoi difetti: la amiamo così come la mamma, la aiutiamo ad essere più bella, più autentica, più secondo il Signore? Vi lascio queste domande, ma non dimenticate i compiti: cercare la data del vostro Battesimo per averla nel cuore e festeggiarla.
2. Una mamma non si limita a dare la vita, ma con grande cura aiuta i suoi figli a crescere, dà loro il latte, li nutre, insegna il cammino della vita, li accompagna sempre con le sue attenzioni, con il suo affetto, con il suo amore, anche quando sono grandi. E in questo sa anche correggere, perdonare, comprendere, sa essere vicina nella malattia, nella sofferenza. In una parola, una buona mamma aiuta i figli a uscire da se stessi, a non rimanere comodamente sotto le ali materne, come una covata di pulcini sta sotto le ali della chioccia. La Chiesa come buona madre fa la stessa cosa: accompagna la nostra crescita trasmettendo la Parola di Dio, che è una luce che ci indica il cammino della vita cristiana; amministrando i Sacramenti. Ci nutre con l’Eucaristia, ci porta il perdono di Dio attraverso il Sacramento della Penitenza, ci sostiene nel momento della malattia con l’Unzione degli infermi. La Chiesa ci accompagna in tutta la nostra vita di fede, in tutta la nostra vita cristiana. Possiamo farci allora delle altre domande: che rapporto ho io con la Chiesa? La sento come madre che mi aiuta a crescere da cristiano? Partecipo alla vita della Chiesa, mi sento parte di essa? Il mio rapporto è un rapporto formale o è vitale?
3. Un terzo breve pensiero. Nei primi secoli della Chiesa, era ben chiara una realtà: la Chiesa, mentre è madre dei cristiani, mentre « fa » i cristiani, è anche « fatta » da essi. La Chiesa non è qualcosa di diverso da noi stessi, ma va vista come la totalità dei credenti, come il «noi» dei cristiani: io, tu, tutti noi siamo parte della Chiesa. San Girolamo scriveva: «La Chiesa di Cristo altra cosa non è se non le anime di coloro che credono in Cristo» (Tract. Ps 86: PL26,1084). Allora la maternità della Chiesa la viviamo tutti, pastori e fedeli. A volte sento: « Io credo in Dio ma non nella Chiesa…Ho sentito che la Chiesa dice…i preti dicono… ». Ma una cosa sono i preti, ma la Chiesa non è formata solo dai preti, la Chiesa siamo tutti! E se tu dici che credi in Dio e non credi nella Chiesa, stai dicendo che non credi in te stesso; e questo è una contraddizione. La Chiesa siamo tutti: dal bambino recentemente battezzato fino ai Vescovi, al Papa; tutti siamo Chiesa e tutti siamo uguali agli occhi di Dio! Tutti siamo chiamati a collaborare alla nascita alla fede di nuovi cristiani, tutti siamo chiamati ad essere educatori nella fede, ad annunciare il Vangelo. Ciascuno di noi si chieda: che cosa faccio io perché altri possano condividere la fede cristiana? Sono fecondo nella mia fede o sono chiuso? Quando ripeto che amo una Chiesa non chiusa nel suo recinto, ma capace di uscire, di muoversi, anche con qualche rischio, per portare Cristo a tutti, penso a tutti, a me, a te, a ogni cristiano. Tutti partecipiamo della maternità della Chiesa, affinché la luce di Cristo raggiunga gli estremi confini della terra. Evviva la santa madre Chiesa!

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SAN GIOVANNI BOSCO ACCOLTO SOLENNEMENTE A GERUSALEMME

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SAN GIOVANNI BOSCO ACCOLTO SOLENNEMENTE A GERUSALEMME

Il 10 settembre 2013, alle ore 18, il reliquiario del fondatore della Famiglia Salesiana ha iniziato un viaggio di dieci giorni per la Terra Santa

Gerusalemme, 12 Settembre 2013 (Patriarcato latino Gerusalemme)

San Giovanni Bosco, grande santo dell’Italia settentrionale, è arrivato il 10 settembre 2013 all’aeroporto Ben Gurion dove è stato accolto da Mons. Marcuzzo, Vicario patriarcale a Nazareth, da Don Pier Giorgio e dal Sig. Sizar Marjeh, responsabile per i cristiani presso le Autorità israeliane, e da una delegazione di membri della comunità salesiana e della comunità delle Figlie di Maria Ausiliatrice, due comunità fondate dal santo educatore. In vita egli non aveva mai visitato la Terra Santa.
La cassa di vetro contenente le reliquie del santo è poi arrivata al convento di Ratisbonne, la casa dei Salesiani a Gerusalemme, prima di raggiungere la porta di Giaffa nelle prime ore della sera, sotto lo sguardo attento e felice di numerosi fedeli riuniti, al suono dei tamburi e delle cornamuse degli scouts ed in presenza di Mons. Shomali, Vicario patriarcale a Gerusalemme, di S.B. Mons. Sabbah, Patriarca emerito, di Mons. Marcuzzo, Vicario patriarcale a Nazareth, di Mons. Giuseppe Lazzarotto, Nunzio e Delegato Apostolico e dei rappresentanti o capi delle altre Chiese cristiane di Gerusalemme. Rapidamente il corteo è partito in processione dietro ai Kawas fino al Patriarcato dove il cortile era stato decorato per l’occasione con numerose bandiere del Vaticano. Dopo essere entrata con un concerto di campane che suonavano a festa, la cassa è stata deposta di fronte all’altare per la preghiera dei Vespri presieduta da Mons. Shomali, in una concattedrale colma.
In una breve omelia Mons. Shomali ha ricordato qualche elemento della vita di Don Bosco, insistendo soprattutto su tutto ciò che il santo italiano aveva fatto per i giovani attraverso l’educazione e che oggi viene ripreso dalla comunità salesiana. Attraverso l’accoglienza di un santo educatore, Mons. Shomali ha voluto ricordare quanto l’educazione dei giovani sia importante. Essa è una delle preoccupazioni principali del Patriarca di Gerusalemme, S.B. Mos. Fouad Twal, che ricorda regolarmente che l’educazione è “la chiave di volta per un rinnovamento del futuro”. Sull’esempio di Don Bosco tutti i sacerdoti, i professori delle scuole e coloro che si dedicano alla crescita morale e spirituale dei giovani, sono chiamati ad essere dei buoni educatori, attenti, in primo luogo, a promuovere la pace nei luoghi della vita quotidiana e nel mondo intero.
Oggi, mercoledì 11 settembre 2013, la messa è stata celebrata al Patriarcato alla presenza delle reliquie con il gruppo delle “Madri cristiane”, un’associazione fondata nel 1857 che riunisce le madri di famiglia tutti i mercoledì per pregare il rosario nella Concattedrale. Tre madri si sono aggiunte all’associazione ricevendo una medaglia e la benedizione di Mons. Shomali. Le reliquie hanno poi lasciato Gerusalemme per Betlemme dove l’itinerario prosegue lungo tutta la giornata.
E’ la terza volta che il Patriarcato accoglie le reliquie di un santo: dopo Mar Saba in marzo 1965 e Santa Teresina del Bambin Gesù nel 2011. Dopo un fondatore del monachesimo ed una giovane carmelitana, patrona dei missionari, è stato il turno di un educatore di venire a visitare la Terra Santa. Che egli possa con il suo esempio incoraggiare i giovani e coloro che li educano a promuovere la pace.

Pierre Loup de Raucourt

(Fonte: Patriarcato latino di Gerusalemme,11/09/2013)

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Twelve Years Later – Remembering 9/11

Twelve Years Later – Remembering 9/11 dans immagini 911-SouthTowerImpact

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IL VESTITO – LA NUDITÀ COME TRASPARENZA

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1997-1998 – LA POVERTA’

IL VESTITO – LA NUDITÀ COME TRASPARENZA

Il tema della povertà interseca il cammino della rivelazione biblica in ogni sua tappa. Si può cominciare ad affrontarlo analizzando un aspetto che può apparentemente risultare periferico o addirittura estraneo al tema che abbiamo individuato: il vestito.

Il secondo racconto della creazione (Gen. 2) descrive come il Signore Dio plasma l’uomo dal fango della terra e poi soffia su di lui. L’uomo è un essere vivente e la donna viene presentata all’uomo dopo essere stata plasmata dalla costola estratta dal suo fianco. «Allora l’uomo disse: « Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa. La si chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta ». Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne. Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna» (Gen. 2,23-25). Questo testo costituisce una introduzione essenziale alla nostra ricerca; quanto andremo scrutando attraverso diversi altri testi biblici ci ricondurrà puntualmente a Gen. 2,25. C’è la nudità dei progenitori. « Tutti e due erano nudi ». Così si chiude il racconto della creazione. Questa nudità non è soltanto l’ultima notizia presente nel testo biblico sulla creazione dell’uomo; è anche una ricapitolazione di tutto il racconto. E’ come se la creazione dei progenitori raggiungesse qui la sua visibilità più matura: sono nudi. Non è un dettaglio, ma una definizione della condizione creaturale che caratterizza i progenitori: creature, nudi in quanto creature, nudi in quanto interlocutori di Dio. L’Onnipotente ha preso l’iniziativa di intrattenere un dialogo con tutte le realtà create, un dialogo che assume una consistenza specialissima nell’incontro diretto a tu per tu e che assume un rilievo sacramentale là dove la creatura umana diventa essa stessa dialogo interpersonale: l’uomo e la donna, l’uomo e l’altra persona. Tutti e due erano nudi.
Questa nudità ricapitola l’essenziale dell’essere l’uomo creatura di Dio, ma anche tutto quel che riguarda l’essere uomo in relazione con il mondo. E’ una relazione trasparente, che conferma quella piena integrazione a cui allude il racconto. La nudità dell’uomo costituisce la promessa di un impegno, vale come premonizione di un contatto che consentirà alla creatura umana, nella sua nudità, di realizzarsi in continuità con tutte le altre creature di questo mondo. L’uomo è nudo.
Garanzia luminosa e benefica di una relazione senza intralci, senza scompensi, senza fraintendimenti. Erano nudi, non ne provavano vergogna.
Questa nudità è un valore, non è una menomazione, o un motivo di disagio e di fallimento. E’ il valore della creatura umana aperta al dialogo con il creatore.

la nudità come vergogna
Questo dato viene posto all’inizio di tutto. Il racconto che segue in Gen. 3 ci costringe ad un passo in avanti nella nostra ricerca. In Gen. 3 leggiamo il racconto della caduta, del peccato, della ribellione. La misura che il creatore ha assegnato alla sua creatura è infranta. «Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi. Intrecciarono foglie di fico e sene fecero cinture». Il peccato fa tutt’uno qui con l’apertura degli occhi di entrambi i progenitori: si accorgono di essere nudi, di avere vergogna. « Intrecciarono foglie di fico e se fecero cintura ». La nudità deve essere nascosta. Quella nudità che era prospettata come ricapitolazione di ogni valore adesso diviene un motivo di disagio, di tribolazione, di turbamento.
La vergogna allude a una disarticolazione di tutto l’equilibrio della creazione. Quell’equilibrio è drammaticamente infranto. E’ la relazione della creatura umana con il creatore che viene adesso avvertita come problematica, faticosa, angosciante. La relazione con il mondo perde la trasparenza originaria, ma è soprattutto la relazione interpersonale che è compromessa. E’ come se la creatura ripiombasse nello stato di solitudine in cui si trovava, quella solitudine di cui il creatore si era preso cura. «Non è bene che l’uomo sia solo. Gli voglio fare un aiuto che gli sia simile» (Gen.2,18). Adesso la creatura umana ritorna allo stato di solitudine, ma in modo ben più sconvolgente. Si può dire che soltanto adesso si determina l’esperienza della solitudine, nel senso di un fallimento che scava amarezza, risentimento, cattiveria nel cuore. L’uomo è solo. Non è un dato semplicemente di ordine empirico. Quella solitudine di cui si era preso cura il creatore, di modo che l’uomo non fosse più solo, ma uomo e donna, adesso gli si è incisa nell’intimo. E’ uno scompenso che condiziona tutto il suo essere, il suo vivere, il suo relazionarsi con Dio, con il mondo e con l’altra persona umana.
Si accorsero di essere nudi. Questa nudità è ora disgustosa; costringe l’uomo a constatare la sua realtà di creatura fallita, di creatura che non ha risposto alla propria vocazione. E’ una nudità che dev’essere nascosta. Per questo « intrecciarono foglie di fico e ne fecero cinture ». Si vestono. Il vestito è il modo inventato dagli uomini per fuggire dalla vergogna. E’ un modo per mettere riparo a quel disastro di cui fanno esperienza in maniera ineludibile; esperienza che deve essere coperta, ignorata. Lo strumento è piuttosto artigianale: una cintura confezionata con le foglie del fico. E tuttavia questa è soltanto la prima testimonianza di un tentativo che avrà ben altri riscontri, provocherà ben altri effetti, si esprimerà con un linguaggio tecnologico ben più geniale, fino a esprimere la capacità più raffinata di inventare soluzioni che dovrebbero sottrarre l’uomo alla vergogna. Il vestito che l’uomo si fabbrica ha questo scopo. Tutta la storia umana potremmo leggerla come evoluzione dell’abbigliamento: l’uomo si veste, si copre, si nasconde, nasconde quella nudità, fa la storia perché deve venire a capo di quel problema, ignorandolo, nascondendolo, rimuovendolo.
Tutta la rivelazione biblica è questa faticosa ricerca di un vestito. Il peccato deve essere risanato ignorandolo: il vestito, il cibo, la casa. C’è soprattutto tra il vestito e la casa dell’uomo una relazione interiore. Il vestito è una casa ridotta a misura del corpo e la casa è un vestito che assume la fisionomia di un modo di vivere, di interagire con gli equilibri dell’universo e della società umana. Il vestito, la casa, il cibo. Anche Gesù nel suo insegnamento, in alcune occasioni, fa riferimento a queste realtà: vi preoccupate di come mangiate? vi preoccupate di come vestite (cfr. Mt 6,25-34)? vi preoccupate della casa in cui abitate (cfr. Gv 14,2.23)? E’ un unico grappolo di situazioni, di strutture esistenziali: il mio vestito e la mia casa; il cibo che mangio, con cui mi alimento e mi sostengo; il mio modo di relazionarmi, il mio modo di essere nel mondo e di essere coinvolto nella società umana, il mio modo di stare nella storia. Tutta la storia umana è organizzata per fabbricare quel vestito, quella casa, quel cibo.
Il linguaggio biblico non parla di povertà e di ricchezza in termini astratti, ma ci aiuta a entrare direttamente nel cuore della questione, partendo dalla concretezza di una situazione: il mio vestito.

la nudità come dominio
Questa pretesa di nascondere la nudità che accompagna fin dall’inizio l’esperienza del peccato allude a un atteggiamento che nel corso della storia umana assumerà ben altra fisionomia, quella di conquistare il mondo, gli altri. Se Adamo ed Eva si rivestono è proprio per evitare le conseguenze desolanti che sono proprie della solitudine nel rapporto interpersonale. Chi rimane nudo soccombe, dunque bisogna vestirsi per conquistare il mondo, per conquistare gli altri. Il vestito è lo strumento primigenio di cui l’umanità si dota per reagire alla propria nudità vergognosa: la si esclude coprendola. Il modo di coprire la nudità diventa il modo di ristabilire relazioni, non più secondo l’equilibrio originario, ma come strumento di conquista. Il vestito che l’uomo nel peccato si fabbrica diventa espressione di un atteggiamento di conflitto nei confronti del creatore. Non si può ancora dire che sia direttamente espressione di un rifiuto di Dio, ma la prospettiva si lascia delineare all’orizzonte. Quando il Signore Dio si presenta nel giardino alla brezza del giorno, l’uomo e la donna si nascondono in mezzo agli alberi del giardino. Ciò comporta la strumentalizzazione di tutti gli alberi del giardino che non sono stati piantati e dati all’uomo per nasconderlo. E’ un vestito, un modo, cioè, di cercare nelle situazioni di questo mondo l’artificio che renda impossibile a Dio avvicinarsi. La nudità dev’essere nascosta.
In queste pagine di Gen. 3 è davvero impostata tutta la problematica della nostra condizione umana: l’uomo si veste, attraverso il vestito esercita il potere di dominio sull’universo che lo circonda, in forza del vestito vanta diritti padronali nei confronti di chi è nudo e dunque dev’essere sottoposto. E’ la distinzione tra chi comanda e impone il proprio potere e lo schiavo, che è invece nudo e nudo deve rimanere.

il Dio che riveste
Alla fine di Gen. 3, dopo che il Signore Dio ha chiamato l’uomo e l’uomo ha risposto è scritto: v. 21 del cap. 3 : «Il Signore Dio fece all’uomo e alla donna tuniche di pelle e li vesti». Il racconto del peccato si chiude in modo sorprendente: adesso c’è un altro vestito; veniamo a sapere che c’è qualcuno che si prende cura della nudità umana, che constata come l’uomo non possa più farcela senza vestito, perché l’equilibrio predisposto inizialmente è stato sconvolto. Tutte le relazioni sono inquinate, l’uomo ha bisogno di un vestito. Adesso è il Signore Dio, proprio lui, che interviene per preparare un vestito che sia adatto a coprire la sua nudità. Non è un vestito rozzo, di poco conto, come la cintura fabbricata con le foglie di fico, sono tuniche di pelle. E così li riveste. Il v. 21 del cap. 3 è anch’esso programmatico. E’ come se questo versetto anticipasse quello che sarà lo svolgimento di tutta la storia successiva, che è la storia di questo rivestimento. Dio si rivela come colui che è preoccupato di rivestire la nudità umana, quella nudità che gli uomini da parte loro vogliono nascondere, di cui non vogliono tenere conto. In realtà sono trascinati, proprio dalle conseguenze di quello che è avvenuto, nell’esperienza sempre più tragica di una nudità. Essa dev’essere ricoperta con fatica, ma costantemente rispunta in forme sempre più scandalose e vergognose. Il Signore Dio si rivela come colui che vuole vestire la nudità della creatura che porta in sé le conseguenze del peccato: la storia della salvezza è la storia di questo rivestimento. Nel nostro fallimento un altro vestito ci viene donato: dentro la storia umana la storia della salvezza; dentro la storia del vestito umano la storia di questo rivestimento ad opera di Dio.

il banchetto di Lazzaro
Il dinamismo dell’uomo ci aiuta a considerare come procede nella sua pretesa di fabbricarsi un vestito per nascondere la sua nudità. La rivelazione biblica dimostra che questo risultato è impossibile. Il risultato è denunciato in modo sempre più preciso e travolgente nel corso delle pagine bibliche: più l’uomo si dà da fare nel fabbricarsi il vestito, più si riduce in stato di nudità. La ricchezza dell’uomo lo rende miserabile. Non c’è una definizione di ricchezza in termini quantitativi o qualitativi, c’è l’invito a cogliere un dinamismo: la ricchezza è quel modo di stare al mondo per cui là dove ci si vuol vestire ci si scopre sempre più nudi.
C’è un testo famoso nel vangelo secondo Luca che chiarisce bene questa situazione: «C’era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente» (16,19-31). Nella parabola è importante il vestito: « vestiva di porpora e di bisso ». «Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe». Il ricco è vestito e non si accorge di quel che gli succede accanto; non si accorge di Lazzaro, che pure giace alla sua porta. Anche Lazzaro è vestito, vestito di piaghe, coperto di piaghe. Un vestito ! Succede una cosa strana: la ricchezza del ricco che banchetta lautamente è inutile, è dimostrazione della sua vergognosa inconcludenza; viceversa quel mendicante di nome Lazzaro, coperto di piaghe, offre le sue piaghe e i cani gliele leccano. E’ una immagine che ritorna spesso nella tradizione agiografica cristiana: un uomo ferito offre le piaghe al cane; almeno un cane può ricavare da quella situazione terribile un beneficio: qualche umore, qualche secrezione, un segno di solidarietà. Mentre là dove il ricco banchettava lautamente non c’era una briciola di pane, il mendicante Lazzaro, rivestito di piaghe, dà qualcosa di suo ad un cane.
Nel corso della rivelazione biblica questa contrapposizione dei due dinamismi, ricchezza e povertà, che nella parabola di Luca appare in modo così limpido, viene evidenziandosi man mano. Nel libro di Ezechiele, cap. 16, viene formulato una specie di spaccato riassuntivo di tutta la storia della salvezza. Il rapporto tra Dio e il suo popolo è rappresentato attraverso l’immagine di una giovane, prima bambina, poi adolescente, poi donna adulta. E’ il popolo di Dio. Il Signore si prende cura di questa creatura fino al momento in cui, malgrado tutte le testimonianze di affetto (è stata rivestita, ingioiellata), si denuda per prostituirsi. Più si impossessa di quanto le è stato donato e più si ritrova squallida nella nudità. (Ez 16).

il mantello dello sposo
Più gli uomini si arrogano il diritto di vestirsi – ossia di dominare il mondo e di fare anche di Dio un oggetto di conquista – tanto più irreparabilmente scivolano in uno stato di squallore vergognoso: sono nudi. Al dinamismo della ricchezza – la ricerca di un vestito che riduce in nudità – si contrappone un altro dinamismo. Si è detto che potremmo leggere la storia della salvezza come la storia del rivestimento donato da Dio; dove il soggetto è proprio lui, il Signore onnipotente, che si prende cura della nudità umana per vestirla. Il Signore sa bene che l’uomo è nudo e che ha bisogno di essere vestito, perché segnato dalle conseguenze del proprio peccato. Tutta la storia della salvezza porta con sé una pedagogia che esprime la premurosa attenzione di Dio per fornire la creatura umana di un vestito adatto. Adatto alla nudità. Il Signore onnipotente guarda la nudità della creatura umana e non arretra, non rimane sgomento, non distoglie lo sguardo, quale che sia il disgusto vergognoso che quella nudità porta in sé. In Dt 8,4 dice il Signore al popolo d’Israele : « Vedi ti ho guidato attraverso il deserto ». Il tuo vestito non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi 40 anni. Sono io che mi sono preso cura del tuo vestito, perché non disprezzo la tua nudità, anzi sono io che mi preoccupo della tua nudità; la conosco. La tua nudità è il mio assillo.
E’ un atteggiamento che ritroviamo anche in Gesù: perché vi preoccupate di quello che dovete mangiare e di come vi dovete vestire ? Guardate i gigli del campo, guardate gli uccelli del cielo. Sono io che mi preoccupo della vostra nudità.
La rivelazione biblica offre una messe davvero straordinaria di riferimenti al vestito: il vestito del profeta, il vestito del sacerdote, il vestito del re. In ciascuno di questi casi il vestito assume una particolare valenza pedagogica che riguarda il vestito, il modo di coprire la nudità, il modo di intervenire di Dio che si prende cura della nudità umana. Per questo il profeta è vestito, il sacerdote è vestito, il re è vestito, con specificazioni che non rispondono a criteri estrinseci ma al linguaggio della misericordia di Dio che vuole guarire la malattia che affligge il cuore dell’uomo. Questa malattia è la vergogna, la vergogna dell’uomo che è nudo e non vuole essere nudo.
Nella rivelazione biblica c’è il vestito dell’uomo e il vestito della donna, il vestito per il lavoro e il vestito per la festa, il vestito dello sposo e il vestito della sposa. Quanti richiami nell’AT e nel NT all »incontro tra lo sposo e la sposa! C’è un testo esemplare a questo riguardo, nel libro di Rut: l’incontro nuziale tra Booz e Rut è siglato dal gesto di avvolgere con il mantello la sposa. Sotto lo stesso manto! Il vestito non è più espressione di una volontà di conquista, non è più strumento di dominio, non è più predisposto a modo di un confine che segna le distanze per difendersi o per aggredire. Il vestito diventa lo strumento che realizza un gesto di accoglienza, uno spazio accogliente. Il vestito diventa figura dell’ospitalità. E’ l’invocazione a Gerusalemme: allarga la tenda, allarga lo spazio, un altro lembo del mantello, e ancora di più! Il vestito si amplia, non serve a definire se stessi; realizza una rapporto che non conquista, non inchioda, non artiglia, ma avvolge, contiene nella consapevolezza di una sorte comune.

la nudità del Figlio
Dio si rivela attraverso la storia della salvezza fino all’incarnazione del Figlio. Esiste un altro vestito: la nudità del Figlio. Il vestito è proprio la nudità del Figlio. E’ quell’altro vestito che il Signore onnipotente, fin dall’inizio aveva progettato per noi, fin da quando donò ai progenitori un abito di pelle. E’ l’abito rivestito da Giovanni Battista, abito programmatico per Giovanni sulla soglia del NT, sulla soglia del giardino. Il Figlio è nudo. Nella pienezza dei tempi Dio si rivela a noi attraverso la nudità del Figlio: le sue vesti sono distribuite, giocate ai dadi, lui è nudo, pende dalla croce ed è nudo. La vergogna della nostra nudità umana è vergogna che egli fa sua dinanzi al Padre.
E’ proprio in questo modo che la nudità del Figlio diventa vestito per noi: tra la sua nudità e la nostra nudità finalmente scoperta, dichiarata, manifestata, tra la sua nudità e la nostra nudità, si delinea la realtà nuova di un incontro di comunione. Il vestito è la nudità del Figlio che realizza un evento di comunione con la nostra nudità; è la nostra nudità che viene svelata e coperta, che viene sbugiardata e rivestita. Alla nostra nudità di creature svergognate è attribuita la dignità del Figlio.
Nel Vangelo secondo Marco c’è il personaggio di Bartimeo, il mendicante cieco, che sulla strada di Gerico invoca il nome di Gesù e poi butta via il mantello e rimane nudo e corre dietro a Gesù. Gesù si ferma appositamente: tra Gesù che non procede nel suo viaggio e quel mendicante cieco si realizza un rapporto di solidarietà, di una intimità definitiva. Quel mendicante è nudo, getta via il mantello, va incontro a Gesù e lo accompagna, ed è al suo seguito. Il Figlio si è fatto servo, è esposto nella nudità della vergogna umana che assume come sua. La nostra nudità vale come sacramento di comunione con lui; la nostra povertà è segno della nostra definitiva partecipazione alla sua figliolanza divina.
Quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo, dice Paolo in Gal 3,25. E’ un versetto su cui la tradizione orientale ritorna con una insistenza martellante, incessantemente: quanti siete stati battezzati in Cristo siete stati rivestiti di Cristo. Ormai nulla e nessuno più ci separerà dall’amore di Dio che si è manifestato a noi nella carne gloriosa del Figlio fatto servo e ora per sempre vittorioso. Nella lettera ai Romani 8,35: « Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo ? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità ? » Niente affatto. Ormai è proprio la nudità che realizza in modo definitivo ed efficace, per ogni uomo nudo, la comunione con la Pasqua gloriosa del Figlio di Dio.

La nostra ricchezza fa di noi degli sventurati, la nostra nudità è divenuta sacramento di beatitudine.

Publié dans:meditazioni |on 11 septembre, 2013 |Pas de commentaires »

NOME AMATO DAL CIELO E INVOCATO SULLA TERRA – LA DISARMANTE FORZA DELLA PREGHIERA

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NOME AMATO DAL CIELO E INVOCATO SULLA TERRA

LA DISARMANTE FORZA DELLA PREGHIERA

Roma, 10 Settembre 2013 (Zenit.org) Mario Piatti, ICMS

Lungo la prima metà del corrente mese di settembre si susseguono, nella Liturgia, riferimenti espliciti a Maria Santissima: festeggiata, in particolare, nel giorno della sua Natività (l’8) e celebrata nella memoria del suo Santo Nome (il 12). Il popolo di Dio, da secoli, eleva il cuore alla Vergine, quasi a voler associare, nel breve arco di una settimana, il ricordo affettuoso del “compleanno” e dell’“onomastico” della sua dolcissima Madre.
Ella compare, sullo scenario della Storia – prima di Gesù – quale fecondo terreno di Grazia, disposto dalla sapiente mano di Dio per accogliere il suo Figlio prediletto. Nulla della “vita nascosta” di Maria, condivisa con i suoi cari nella intimità della sua dimora, sembra interessare il mondo, che segue altre vie e continua, in ogni epoca, a perseguire i suoi idoli e le sue illusioni.
Nel silenzio e nella umiltà di quel “piccolo mondo”, benedetto dal Cielo, apre gli occhi alla vita Colei che – unica tra le creature umane – non conobbe il contagio della colpa e attraversò indenne i nostri stessi sentieri. La sua presenza, tenerissima e casta, illuminò l’esistenza di Gioacchino e Anna, per abbracciare poi, di generazione in generazione, la vicenda e la storia di ogni uomo. Un angelo – secondo la narrazione degli Apocrifi – annunziò profeticamente a sua madre: “Anna, Anna, il Signore ha esaudito la tua supplica: concepirai e genererai; della tua prole si parlerà su tutta la terra” (Protovangelo di Giacomo, IV).
Il mistero di quella vita immacolata sorprende, per la sua disarmante semplicità, che la renderà gradita e facilmente accessibile a chiunque; e, al tempo stesso, stupisce per la sua impenetrabile profondità, che la riveste di una luce soprannaturale, di inarrivabile grandezza.
La Chiesa si manifesta, nello scorrere dei secoli, in quella medesima luminosità, discreta e solenne, propria della Vergine, riflesso vivo della limpida bellezza delle “cose di Dio”, che affascinano e invitano alla imitazione e alla contemplazione.
Umiltà, fervore, custodia incessante della presenza di Dio e della sua Santa Volontà scandiscono i giorni di Maria che – come ancora riportano gli Apocrifi – sarebbe stata accolta nel Tempio, seppur bambina, a tutela del suo candore. Il racconto della sua infanzia, redatto con tratti ingenui e con finissima delicatezza, parla della sua permanenza nella Casa del Signore, nutrita dalle mani di un angelo (cfr. Protovangelo di Giacomo, VIII).
In realtà, come sappiamo, i quattro Vangeli “canonici” nulla ci attestano dei primi anni di Maria, lasciando spazio alla nostra devota immaginazione e alla penna di molti autori, dai primi secoli fino alle “visioni” e alle intuizioni di mistici e di Santi.
Il mistero, che si realizza tra quelle mura, ha il sapore famigliare delle cose comuni, di tutti i giorni: del vociare domestico, del lavoro, dell’aria che rinfresca le nostre stanze, ogni mattino. Ma trasmette anche il riverbero della onnipotenza di Dio, che si compiace del cuore degli umili, perché in loro ritrova se stesso, come in uno specchio vivo e santo.
La salvezza del mondo sarebbe passata attraverso il Cuore di una sconosciuta fanciulla di Nazareth, aperta alla Grazia, colma dello Spirito del Signore. I pensieri di Dio, come sempre, non coincidono con le prospettive troppo anguste dell’uomo.
Anche la pace, sempre minacciata e sempre tanto invocata da tutti, passa attraverso canali inattesi e spesso disprezzati dalla “sapienza” mondana ed è impetrata e favorita dalla nostra supplica, dalle nostre ginocchia piegate, dalle mani congiunte per ottenere luce e propositi, finalmente retti, ai cosiddetti “grandi” della terra.
Là, dove imperano l’incomprensione e la violenza, Dio parla il linguaggio del perdono, del dialogo, dell’ascolto e del reciproco rispetto e cancella il crepitio delle armi per la disarmante forza della preghiera.
Ancora una volta il Papa – come i suoi predecessori – ha convocato le sue “divisioni”, ha passato in rassegna le “truppe scelte” di un esercito che non ha velleità di potere e di conquista, che non sia quello della carità e dell’amore. Ancora una volta Pietro ha testimoniato al mondo, incredulo, la onnipotenza della Grazia che, sola, può risanare alla radice la fonte ultima del male, purificando il cuore dalla lebbra dell’egoismo, della cattiveria e del peccato.
A Fatima la Madre di Cristo interpellò la generosità di tre bambini, nel 1917, chiedendo loro di pregare perché finisse la guerra – la prima grande Guerra Mondiale – e di lì a pochi mesi la pace tornò a regnare tra i popoli, seppure quale possesso precario e mai definitivo, almeno quaggiù in terra.
Oggi si rivolge a noi, con lo stesso assillo e con la medesima materna preoccupazione, perché apriamo il cuore alla supplica fiduciosa e con la nostra stessa vita ci rendiamo autentici “operatori di pace”. Guardando a Lei, impariamo, ancora una volta, le “strategie del Cielo” e anche noi ci rendiamo disponibili a collaborare per il vero bene dell’Uomo, nel tempo e nella Eternità.

Padre Mario Piatti icms è direttore del mensile “Maria di Fatima

Publié dans:Maria Vergine, preghiera (sulla) |on 11 septembre, 2013 |Pas de commentaires »

Le tre virtù teologali: fede, speranza e carità

Le tre virtù teologali: fede, speranza e carità dans immagini sacre Teologali

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GESU’ A MENSA

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Meditazioni/2000-2001/Ges%F9_a_casa_del_fariseo.html

GESU’ A MENSA

Certamente anche Gesù a volte si è seduto da solo a mensa. Questo però non interessa agli evangelisti. A loro interessa Gesù che sa rendersi commensale o che invita alla sua mensa. Osservando infatti Gesù a mensa con altri, i primi discepoli hanno imparato che per imitarlo debbono essere costruttori di comunità, cioè vivere in pienezza la fraternità. Tale è l’insegnamento che sgorga dal capitolo 14 di Luca, e anche dal capitolo 15 che mediteremo nel prossimo articolo.
La liturgia legge il capitolo 14 in due diverse domeniche, ma lo fa saltando i vv. 2-6 e 15-24. Se però vogliamo capire bene l’insegnamento di Gesù, conviene leggersi prima l’intero capitolo. Questo ci permette di valutare le nostre prime impressioni di fronte al testo e, poi, di passare a una più approfondita meditazione.
L’inizio è significativo: “Un sabato Gesù fu invitato a pranzo in casa di un capo dei farisei ed essi stavano a osservarlo” (v. 1). Segue la guarigione di un ammalato (vv. 2-6), poi si parla di Gesù che insegna agli invitati un po’ di buone maniere (vv. 7-14), quindi si narra la Parabola del grande Banchetto (vv. 15-24); infine Gesù parla delle condizioni per essere suo discepolo (vv. 25-35). Tutto il racconto, però, si sviluppa nell’ottica di un banchetto, che non si fa mai da soli. Ma, quando lo si fa con altri, ci si sente davvero fratelli? Questa la problematica che possiamo capire soltanto se prima ci chiediamo

Come si rivela Gesù?
Gesù accoglie l’invito a pranzo, ma appena giunge nella casa del fariseo si accorge che gli hanno teso un tranello: “davanti a lui vi era un uomo malato di idropisia e i farisei stavano a osservarlo”; si intende: per vedere se osava guarirlo in giorno di sabato (vedi 6,6-7). Ora, come reagisce Gesù? Come uno che cerca il bene di tutti, anche di chi gli ha teso un tranello. Innanzitutto guarda l’ammalato e lo vede come una persona bisognosa di aiuto. Perciò è logico che egli cerchi di rendersi prossimo1. Per gli altri invece quell’ammalato non è una persona, è solo una pedina che essi muovono a piacimento per incastrare Gesù. Gesù li guarda e come sempre cerca il dialogo (vedi caso simile in 6,6-11). Ciò significa che li ama e che cerca un possibile incontro. E lo fa chiedendo se “è lecito o no guarire in giorno di sabato. Ma essi tacquero”. Non accettano il dialogo. E Gesù reagisce guarendo l’ammalato e poi spiegando perché lo ha guarito in giorno di festa. Egli vuole semplicemente che trattino quell’uomo almeno come essi trattano i loro animali. Gesù non vuole che si strumentalizzi una persona umana. Caso storicamente chiuso, ma non per chi ascolta oggi la “Parola”.
Ci si mette a tavola (v. 7), e qui Gesù si accorge che gli invitati non agiscono da fratelli: c’è la corsa ai primi posti. Perciò denuncia l’arrivismo, il carrierismo, la scalata ai primi posti della società e prospetta una comunità in cui ognuno si preoccupa degli altri (vedi Fil 2,3-4), in cui tutti si sentano di casa e trattati alla pari.
Poi osserva gli invitati: appartengono tutti a una certa categoria di persone. Egli, che si sedeva a mensa anche con gli esattori delle tasse (detti “pubblicani” o “peccatori”; vedi 5,27-32), non proibisce di banchettare con gli amici, però dice a chi lo ha invitato: “Quando offri un banchetto non invitare solo i tuoi amici, i tuoi fratelli, i tuoi parenti, i ricchi, ma invita anche i poveri, gli storpi, gli zoppi, i ciechi e sarai beato” (v. 13-14). Appena udì ciò un invitato capì che Gesù stava parlando del regno di Dio e disse: “Beato chi prenderà cibo nel regno di Dio” (v. 15).
L’immagine di Gesù ora è perfetta. Gesù vive sempre in pieno la sua missione: affratellare tutti e finirla di dare peso a ciò che ci divide nella società, perché ogni persona si senta di casa, parte della stessa famiglia, della “sua famiglia”; con parole nostre: della “sua Chiesa”. E noi già sappiamo come si forma questa sua famiglia. Gesù infatti ha detto: “Mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (8,21). E per spiegarsi meglio, racconta la Parabola del grande Banchetto (vv. 16-24); ce n’è a sufficienza per confrontarsi con Gesù.
Prima, però, osserviamo come in questo racconto si rivela Gesù. È lui “il servo” che porta a tutti l’invito a entrare nella sala del banchetto e la sua parola continua a riecheggiare nel mondo come un invito alla salvezza. Tutti sono invitati, però ognuno deve personalmente scegliere se accettare o no. La predicazione del Vangelo è uno sforzo per “convincere tutti a entrare”, senza costrizione alcuna2. E si aggiunge: “Perché la mia casa si riempia”. L’affermazione dice che Gesù vive la certezza della speranza. Sa che riuscirà a portare a termine la sua missione. Solo chi non si ricrede e rifiuta sino alla fine “non entrerà”.

Gesù e noi comunità cristiana
Tutti sono invitati a sedersi alla stessa mensa, a fare comunione, a esprimere nei loro gesti l’universale fraternità. Ma la parola di colui che invita a mensa non è accolta da tutti. Ci sono coloro che ascoltano la “Parola” che annuncia la salvezza, ma questa parola, seminata nel loro cuore, è come il seme caduto tra le spine; e le spine (solo Gesù poteva inventare questo, perché urta la perenne cultura umana) rappresentano le preoccupazioni, le ricchezze e i piaceri della vita (vedi 8,14) che soffocano la parola seminata nel cuore. È per motivi di interessi materiali che alcuni non accettano (vv. 18-19), ma forse c’è anche un altro motivo: accettare di formare parte della famiglia di Gesù significa sedersi a mensa con i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi, cioè con coloro, che secondo il parlare comune, non contano nella società. Ebbene, essi non vogliono accogliere quel principio che guida la vita della “famiglia di Gesù”, cioè di coloro che ascoltano la sua parola e la mettono in pratica. Gesù ha detto: “Nessuno di voi si faccia chiamare «Rabbì» o «Padre» o «Maestro», perché voi siete tutti fratelli. E chi tra voi è più grande sarà vostro servo” (vedi Mt 23,8-11). Ora, quando si fa forza su ciò che ci distingue dagli altri, è impossibile fare comunità, è impossibile vivere da veri fratelli. Ognuno ha il suo compito nella comunità cristiana, ma nessuno ha il diritto di guardare gli altri dall’alto in basso. Per noi cristiani tutti sono “fratelli e sorelle”, perché la vita cristiana è imitazione di Gesù, che non si vergogna di chiamarsi “fratello” e che si è fatto “servo” in mezzo a noi (Lc 22,27). Lui, il Signore si è fatto “servo”; ha “lavato i piedi” dei suoi discepoli (vedi Gv 13,14-15).
Gesù insegna che nella “sua famiglia” tutti debbono sentirsi parte viva della comunità, partecipi della vita della famiglia di Dio. Per questo è necessario essere “testimoni dell’Amore”. L’ultima espressione è il titolo del IV capitolo della Lettera Apostolica “Novo Millennio Ineunte” di Giovanni Paolo II (giorno dell’Epifania 2000). È un capitolo in cui dalla contemplazione del volto di Cristo si passa a contemplare il suo volto in ogni persona umana; “per fare – dice il Papa – della Chiesa la casa e la scuola della comunione”. E continua dicendo: “Questa è la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e alle attese profonde del mondo” (n. 43).
Ora, “fare comunione” – dice sempre il Papa – significa “saper «fare spazio» al fratello portando «i pesi gli uni degli altri» (Gal 6,2), respingendo le tentazioni egoistiche che continuamente ci insidiano e generano competizione, carrierismo, diffidenza e gelosie. Non ci facciamo illusioni: senza questo cammino spirituale, a ben poco servirebbero gli strumenti esteriori della comunione. Diventerebbero apparati senz’anima, maschere di comunione più che sue vie di espressione e di crescita” (n. 43). “Fare comunione” significa instaurare a ogni livello della comunità ecclesiale un senso di dialogo e di ascolto tra tutti; soprattutto tra pastori e fedeli. A questo proposito Giovanni Paolo II dice: “Significativo ciò che San Benedetto ricorda all’Abate del monastero, nell’invitarlo a consultare anche i giovani: «Spesso ad uno più giovane il Signore ispira un parere migliore». E San Paolino da Nola esorta: «Pendiamo dalla bocca di tutti i fedeli, perché in ogni fedele soffia lo Spirito di Dio»” (n. 45).
Siamo di fronte a una dolce realtà: la Chiesa oggi – e per “Chiesa” intendiamo l’intera comunità dei credenti in Cristo – è in attento ascolto della pagina evangelica che abbiamo scelto come meditazone e c’è in essa un desiderio di viverla sino in fondo, un desiderio di fare fruttificare la “Parola” che è stata seminata in noi, un desiderio di “purificare la memoria” da un passato di vita ecclesiale non sempre conforme al Vangelo e di tentare finalmente la vera via evangelica, l’unica che davvero ci mette in grado di costruire un mondo di pace. Di qui la scelta a cui ci chiama Gesù.
Dopo il racconto della parabola, come dopo il primo annuncio di passione (9,23-24) e sulla linea di quanto ha detto a chi voleva seguirlo o a chi egli invitava a seguirlo sulla strada di Gerusalemme (9,57-62), Gesù dice: “Chi non mi ama più di3 suo padre, di sua madre… chi non porta la sua croce… chi non è disposto a perdere tutti i suoi beni… non può essere mio discepolo”. Non c’è bisogno di dilungarsi nella spiegazione. Il contesto della comunità di Luca è un contesto di persecuzione. Ebbene, il discepolo, se vuole continuare a seguire Gesù dev’essere disposto a mettere la fedeltà a Gesù al di sopra di ogni vincolo di sangue, disposto anche a “perdere” la propria vita e anche tutto ciò che possiede, perché la fedeltà a Gesù e al Vangelo è per lui il bene supremo. Il Papa commenta così il “portare la croce”: “Il cristiano non ricerca la sofferenza, ma l’amore. E la croce accolta diviene il segno dell’amore e del dono totale. Portarla dietro a Cristo vuol dire unirsi a lui nell’offrire la prova massima dell’amore”4.

Pregando il testo
Signore Gesù, è la terza volta che ci metti di fronte a scelte ben precise (vedi 9,23-24.57-62), e la seconda volta (prima volta in 9,57ss) che ci inviti a ponderare bene se vale la pena o no. Ci hai pure già parlato delle relazioni con le persone più care e ci hai detto senza mezzi termini che il seguirti fino in fondo può a volte comportare duri contrasti con i propri familiari (vedi 12,51-53). E tu ne hai avuto l’esperienza quando ti fecero sapere che “tua madre e i tuoi fratelli volevano vederti”. Ebbene, tu, prendendo le distanze dai vincoli di sangue, hai risposto: “Mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (8,19-21). Quel giorno anche tua madre ha dovuto fare la scelta di diventare sempre di più “discepola della Parola” per essere partecipe della tua nuova famiglia. Tu hai saputo “perdere la tua vita” e hai vissuto il totale distacco da ogni ricchezza per compiere la tua missione sino in fondo.
E oggi è a me e ai miei fratelli nella fede che esigi una scelta chiara e definitiva per te; tu ci vuoi come te, “pietra angolare” della tua Chiesa, costruttori di comunità, di fraternità, perché vuoi, come ce lo ha ricordato il tuo Vicario sulla terra che la tua Chiesa sia “casa e scuola di comunione”. Ci offri ideali immensi, Gesù! Ideali che impegnano l’intera nostra esistenza; ci chiami ad abbattere ogni frontiera, perché il mondo intero diventi una famiglia e si sieda alla stessa mensa, come il tuo profeta Isaia lo aveva preannunciato (Is 2,2-5).
Signore Gesù non oso dirti che non ho le forze, perché so che mi rispondi: “Mettiti accanto a me e in sintonia con me osserva ogni persona che incontri; solo così sentirai che, come me, devi farti dono a tutti sino all’effusione del sangue. E non aver paura, perché io sarò con te con la potenza del mio Spirito. Guarda i «testimoni della fede» che ti hanno preceduto nei secoli, e sentirai che anche tu ce la puoi fare”.
Signore Gesù, è bello essere cristiano! Solo così sono sicuro di realizzarmi pienamente co-
me persona umana, ma soprattutto come “figlio di Dio”. Grazie, Signore Gesù! Donami ogni giorno il coraggio della fedeltà. Amen!

Mario Galizzi

STORIA DELLA PREGHIERA LITANICA – LE LITANIE NELLA STORIA E NELLA SCRITTURA

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STORIA DELLA PREGHIERA LITANICA

Data: Venerdi 6 Maggio 2011,

dal libro di Concetta Sinopoli, Meditare le Litanie, EDB, Bologna 1992, pp. 7-23

LE LITANIE NELLA STORIA E NELLA SCRITTURA

Il vocabolo greco litaneia (preghiera, supplica), viene tradotto nel plurale latino litaniae ed assume il significato generale di preghiera che si esprime con la supplica e l’intercessione. Bisogna, però, ricordare che nel Registrum Epistolarum di Papa Gregorio I, alla fine del 500, il medesimo termine indica la processione di fedeli che ogni anno, il 25 aprile, si recava da san Lorenzo in Lucina alla basilica di san Pietro, intonando preci titaniche. Nel Messale Romano che ha preceduto il Messale « postconciliare » di Paolo VI del 1969, il giorno 25 aprile e i tre giorni di preparazione alla festa dell’Ascensione erano, rispettivamente, appellati con le espressioni in litaniis maioribus e in litaniis minoribus: giorni, cioè, di litanie maggiori e di rogazioni o litanie minori. Da questi accenni emerge la presenza remota e costante della preghiera titanica nella Tradizione cristiana: litanie di supplica si ritrovano negli scritti di san Clemente Romano ai Corinti, in Giustino, nei Padri apostolici; litanie d’invocazione appaiono in testi giudaici e, persino, pagani. Le litanie dei Santi, che gli studiosi ritengono concordemente alle origini di quelle della Vergine, sono state scoperte in un testo greco dell’Asia Minore, del 400 circa, come invocazione collettiva degli abitanti del paradiso. La struttura fondamentale delle litanie dei Santi sembra fissata nel VII secolo. Esse non costituiscono una serie di lodi, ma piuttosto due grandi parti: la prima riservata ad una sequela d’invocazioni a Dio, alla Madonna ed ai Santi; la seconda formata da una precisa serie di richieste rivolte al Signore, in parte motivate, dette deprecazioni. Queste formule di preghiera avevano un carattere popolare e venivano usate nelle processioni, durante la veglia pasquale, per le ordinazioni, nelle rogazioni, nelle preghiere per i malati e i moribondi, in occasione di feste diverse. Alla loro diffusione contribuirono in particolare i monaci irlandesi che ne promossero la pratica in tutta l’Europa. Ancor prima d’essere devozione, però, l’invocazione titanica è preghiera biblica. La Sacra Scrittura documenta l’incontro, nella verità, tra il Creatore e la creatura: il Signore della misericordia e il povero che grida, esulta, ripete senza stancarsi la sua bontà, la sua grandezza, lo esalta e lo benedice. Come non ritrovare negli attributi di eternità. potenza, grandezza, gloria…dei Salmi e dei cantici biblici, i segni dell’indicibile per chi sperimenta la vicinanza dell’Assoluto e la sacralità dell’ospite..? Egli parla perché è, mentre Mosè si copre la faccia protestando la propria indegnità, cercando d rispondere con tutto l’amore del proprio essere tutte le forze, tutta la mente. Gli studiosi sottolineano in particolare i salmi dai ritornelli titanici quali il Salmo 117 (118) ed il Salmo 135 (136): simili, in parte, quanto ad espressioni di lode, ringraziamento e versetto titanico. Il Salmo 117 (118) introduce la storia della salvezza con la celebrazione del « Dio d’Israele e di coloro che lo temono »:
Celebrate il Signore, perché è buono;
perché eterna è la sua misericordia.
Dica Israele che egli è buono:
eterna è la sua misericordia.
Lo dica chi teme Dio:
eterna è la sua misericordia. (vv. 1-2.4)
Il Salmo 135 (136), detto esplicitamente Grande litania di ringraziamento, s’apre con la lode per continuare nella recita storica degli interventi divini a favore del popolo:
Lodate il Signore perché è buono:
perché eterna è la sua misericordia.
Lodate il Signore dei signori:
perché eterna è la sua misericordia.
Egli solo ha compiuto meraviglie:
perché eterna è la sua misericordia. (vv. 1 .3-4)
Anche il Cantico dei tre giovani nella fornace, del libro di Daniele (Dn 3,52-90), possiede struttura e andamento litanici: all’invito di benedizione segue il ritornello « lodatelo ed esaltatelo nei secoli » per una serie innumerevole di volte, finché storia e bontà di Dio diventano movimenti della preghiera e ragione di essa. Episodi di preghiera litanica si ritrovano nei canoni islamici come lode ed antifone, oltre alla ripetizione degli attributi divini. E, dunque, costitutivo essenziale di ogni litania e forma litanica il legame profondo, l’unità e l’accordo d’anima, cuore e mente che nella brevità, nell’esemplificazione verbale, rivelano l’evento spirituale, accolgono la Presenza ed implorano l’azione della grazia.
Ti preghiamo, Signore, per la tua santa Chiesa,
che si estende dall’uno all’altro capo del mondo;
Tu l’hai conquistata col sangue prezioso del tuo Cristo:
conservala incrollabile, al riparo dalle tempeste,
fino alla consumazione dei tempi.
Ti preghiamo per l’episcopato universale,
che trasmette fedelmente la parola di verità.
Ti preghiamo per la pochezza del tuo celebrante
e per tutti i presbiteri, per i diaconi e per il clero,
affinché tutti siano pieni della sapienza del tuo Spirito.
Ti preghiamo per quelli che detengono l’autorità,
conservaci nella pace,
in modo che passiamo tutto il tempo della vita
nella tranquillità e nella concordia,
a glorificarti, per Gesù Cristo, speranza nostra.1

PREGHIERA LITANICA: LITURGIA E TRADIZIONE
Se nei Vangeli ricercassimo i brani relativi agli incontri di Gesù con gli « ultimi » facendo attenzione all’atteggiamento di supplica nella richiesta e all’insistenza umile di tanti bisogni, potremmo apprendere dal cieco di Gerico, dai lebbrosi e dai piccoli d’ogni sorta, la forza dell’invocazione accorata. La preghiera incessante necessita di strutture lineari, non complicate dal ragionamento. L’apostolo Paolo, rivolgendosi a Timoteo, esorta: «Ti raccomando dunque, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità. Questa è una cosa bella e gradita al cospetto di Dio»(lTm 2,1-2).
La preghiera comunitaria trova in queste espressioni l’incoraggiamento a far presenti al Signore i vari momenti della vita sociale, le difficoltà e le necessità storiche. Nella Liturgia, ambito privilegiato del culto comunitario, si sviluppano, sin dai primi testi patristici, vere e proprie formulazioni tecniche che si differenziarono, più tardi, in termini occidentali ed orientali ben definiti. Dalla Didaché agli scritti di Giustino, da Clemente di Roma, intorno all’anno 100, fino ad Ambrogio di Milano, ad Agostino di Ippona (†431) e Prospero d’Aquitania, morto nel 455, formule di supplica in tal senso compaiono nella celebrazione dell’eucaristia ed in altri momenti liturgici. In Oriente, la liturgia Eucaristica si apre col canto intercalato da preghiere litaniche per continuare a sviluppare, assumendo i caratteri del dramma sacro, un dialogo intenso tra il celebrante e il popolo, di cui Dio è l’interlocutore. In questo dialogo un ruolo particolare spetta al diacono che funge da intermediario, ponendosi davanti alla porta santa, tra il santuario e l’assemblea, come per dirigere la preghiera collettiva dei fedeli in unione a quella del sacerdote. Dopo uno scambio di benedizioni e l’Amen cantato dal coro, il sacerdote ed il diacono si coprono con il Kalimafkion (paramento sacro) e, mentre, dietro il velo dell’iconostasi, il prete prega silenziosamente per l’assemblea, tra i fedeli e il diacono si svolge il dialogo titanico. Esso ha lo scopo d’accordare tutte le anime alla supplica del celebrante ed è detto grande synaptê che equivale alla preghiera latina collecta. La preghiera diaconale, cioè guidata dal diacono, prende anche il nome di ectenia perché « estesa » a tutte le necessità della comunità cristiana e a tutte le persone; si ritrova di frequente nelle liturgie e conclude la prima parte della celebrazione dell’eucaristia. Il diacono inizia: in pace preghiamo il Signore!, il coro risponde: Kyrie eleison, Signore abbiate pietà! e la litania prosegue, toccante per semplicità ed altezza spirituale, con un numero di appelli che corrispondono alle invocazioni delle intenzioni generali e locali. La preghiera volge al termine con invocazioni di soccorso e salvezza per terminare nel ricordo della potente intercessione di Maria, nella comunione dei santi: «Facendo memoria della tutta santa, tutta pura, benedetta al di sopra di tutto e gloriosa nostra signora, Madre di Dio e sempre Vergine, Maria, e di tutti i santi, raccomandiamo noi stessi, gli uni gli altri e tutta la nostra vita a Cristo, nostro Dio». Il coro conclude: A voi, Signore.
Nella liturgia Ambrosiana si possono riscontrare elementi tipici di questa litania nella serie d’invocazioni in uso durante la preghiera dei fedeli delle domeniche di Quaresima, intercalate dalla risposta: Domine miserere. Ma la oratio universalis o oratio fidelium, in occidente, conoscerà sviluppi e formulari diversi e famosi, differenziandosi dall’Oriente per consuetudini e per il ruolo stesso del diacono, a cui non è vincolata.
La preghiera dei fedeli romana assume una collocazione diversa nella liturgia latina: in origine non può essere ritenuta, a dire degli studiosi, parte integrante della liturgia della Parola o sua conclusione. Essa era collegata ad altre due azioni sacerdotali: lo scambio del bacio di pace e la presentazione delle offerte, come appare nella descrizione del rito dell’eucaristia di Giustino (+165). Inoltre, i fedeli, che con il battesimo ricevono lo Spirito di Cristo, innalzano la loro preghiera anche spontaneamente o tramite un semplice lettore.
Comune ai cristiani d’Oriente ed Occidente, l’anelito spirituale ed il carattere d’invocazione e supplica della preghiera litanica che nella risposta ripetuta si delinea, non si può dimenticare, al di là delle forme e delle caratteristiche proprie di ognuno, il germe liturgico che s’esprimerà, attraverso aspetti formali e contenuti essenziali, nelle litanie mariane.
Ti presentiamo l’offerta per tutti i santi
che fin dalle origini ti hanno allietato,
per i patriarchi, i profeti, i giusti, i martiri,
i confessori, i vescovi, i sacerdoti, i diaconi,
i lettori, i cantori, le vergini, le vedove,
i laici e tutti coloro di cui conosci il nome.
Ti presentiamo l’offerta per questo popolo,
perché esso diventi la lode del Cristo,
un sacerdozio regale, una nazione santa
per i più piccoli del tuo popolo,
affinché tu non respinga nessuno di noi.
Ti preghiamo per questa città e per tutti i suoi abitanti,
per gli ammalati, gli esiliati, i viaggiatori.
Ti preghiamo per coloro che ci odiano
e ci fanno soffrire persecuzione a causa del tuo nome;
per quelli che si smarriscono.
Ti preghiamo per i catecumeni della Chiesa
per i nostri fratelli che fanno penitenza.2

INNI, TITOLI E LODI ALLA VERGINE
Alle fonti delle litanie alla Vergine gli studiosi distinguono la derivazione strutturale dall’aspetto contenutistico. La tipologia delle litanie mariane non è assimilabile alle Laudes Virginis, né ha assunto i caratteri dell’innografia. La struttura delle litanie mariane trae invece origine dalle Litanie dei Santi in cui Maria ha sempre un posto particolare già dalla loro comparsa, essendo precedente ad esse la diffusione del culto alla Vergine, sia in Oriente che in Occidente. Per quanto riguarda i contenuti è, invece, evidente una trasposizione di invocazioni, titoli ed espressioni significative che prima di diventare lodi popolari, sono stati coniati ed approfonditi per simbologia e contenuto teologico dagli esegeti e dai padri della Chiesa d’Oriente e d’Occidente, soprattutto nell’omiletica, in occasione di feste liturgiche e di controversie dottrinali. L’esigenza di chiarimento di alcuni presupposti cristologici attaccati dalle eresie più diverse, portò alle definizioni di Efeso sulla Madre di Dio e diede impulso alla ricca produzione d’invocazioni mariane presente in Oriente a partire dal V secolo. In Occidente, dal secolo X al Rinascimento, si sviluppa il genere delle Laudes marianae che, in forma ritmica e vagamente poetica, intrecciano supplica e giaculatoria con attributi alla Vergine. Influenza notevole ebbe l’inno per eccellenza della tradizione orientale, l’Akathistos. Tradotto in latino da Cristoforo, vescovo di Venezia, intorno al IX secolo, ispirò la parigina Salutatio sanctae Mariae del secolo XI ed altre produzioni innografiche occidentali. Le litanie si nutrirono di questi dati, ma in modo vario ed originale, fondando i loro titoli nell’autenticità della Scrittura e sviluppando i temi evangelici alla luce di simboli ed immagini individuate dai Padri nei testi biblici, applicate a Maria in relazione a Cristo. Con il diffondersi della predicazione, delle congregazioni religiose e delle spiritualità, si moltiplicarono anche i testi delle litanie che, in origine, appartennero a formulari propri di cattedrali o abbazie. Tali formulari si presentavano ordinariamente in prosa, ma non mancano gli esempi in rima. Una di queste litanie è attribuita a Sant’Anselmo di Canterbury: in essa, alla Madonna è riservata una nutrita serie d’invocazioni.
Un dato costante e specifico dell’invocazione litanica è la necessità di rendere la preghiera semplice ed immediata, mai superficiale o studiata per eludere l’impegno dell’orazione. La preghiera delle litanie sgorga da vene profonde di contemplazione in cui l’esperienza d’insufficienza delle parole umane è confortata dal dono di Dio, dalla rivelazione della sua presenza. L’uomo, incapace di parlare al Creatore, di chiedergli secondo le esigenze della sua miseria, sillaba, con l’aiuto dello Spirito, le meraviglie di Dio, ciò che di esse riesce a percepire, e, poveramente, invoca. Sintesi di verità e di slanci poetici, di dottrina e di fede, l’espressione litanica richiama l’opera della grazia in Maria per farne movimento di lode, a cui segue l’umile percezione di se stessi e della propria miseria. L’alternarsi degli sguardi, del saluto e della supplica, stabilisce il ritmo della preghiera profonda, nella quiete e nell’abbandono del cuore. Le litanie non possono essere pregate come recita distratta ed affrettata, specie a conclusione di altre pratiche devozionali, qual è il rosario. Esse ne sottolineano piuttosto l’attenzione ai misteri della vita di Gesù, attraverso il dialogo essenziale e fiducioso con la Madre. In Maria trovo, ammiro e cerco per l’oggi della mia vita cristiana, il punto di vista, I’inquadratura e le linee del progetto di Dio accolto e realizzato negli aspetti concreti. L’azione dello Spirito nella sua creaturalità e nella sua santità m’incoraggia a seguire vie di semplicità e di contemplazione. Nel silenzio di pause appropriate, il tono della voce e il significato delle parole coinvolgono la mente e gli affetti, in un clima di raccoglimento, che prepara l’incontro.
«Le litanie devono essere anche recitate correttamente. Come vengono dette talvolta non hanno alcun valore. Quanto sia bella e benefica la preghiera delle litanie lo si nota solo quando ogni invocazione è pronunciata chiaramente e dopo la risposta si fa una piccola pausa, esattamente sufficiente perché il contenuto acquisti risonanza e l’invocazione seguente non succeda con precipitazione meccanica. Allora viene da se che anche la risposta a sua volta non suoni meccanica, ma lasci essa pure una piccola pausa sì che una pace divina si diffonda su tutta la preghiera».3
La Vergine Maria ci conduce all’incipit trinitario e battesimale all’explicit della salvezza, all’incontro con l’Agnello immolato e nella semplicità dei piccoli, che totalmente si affidano e si lasciano portare, apriamo gli occhi per vedere la grandezza dell’amore di Dio.

FORMULARI LITANICI E ORIENTAMENTI DEL MAGISTERO
Un manoscritto della fine del XII secolo attesta quarantadue litanie a Sancta Maria del formulario di Aquileia, dette anche Veneziane perché, dopo la decadenza del patriarcato di Aquileia, si mantennero in uso nelle rubriche veneziane fino agli inizi del 1800. Chiamate Litaniae de Domina, venivano recitate specialmente in occasione di gravi calamità. Allo stesso periodo storico risalgono litanie mariane che prenderanno, in seguito, il nome di lauretane, dal santuario della santa casa di Loreto, in cui si cantavano agli inizi del XVI secolo. Le settantatrè invocazioni riportate dal manoscritto parigino in questione, hanno già l’armonica struttura di quelle lauretane e sono disposte in modo organico, similmente a quelle del formulario di Loreto, se si eccettua l’appellativo di Magistra, che in quest’ultimo non compare. In entrambi, Maria è invocata come Mater, Virgo, con una serie di titoli simbolici e biblici, e come Regina. Le litanie lauretane vanno distinte in « antiche » e « nuove ». Le prime, testimoniate e diffuse dal Manuale di Pietro Canisio alla fine del XVI secolo, attualmente in uso; le seconde derivate da un testo differente che nel 1575 fu musicato da Costanzo Porta, direttore di cappella del santuario di Loreto. Ben presto, però, questo formulario moderno non verrà più usato, mentre il formulario antico trova collocazione stabile nella devozione, anche per l’intervento di Sisto V. Il papa, con una Bolla indirizzata ai soli Carmelitani Scalzi, concedeva indulgenza di duecento giorni ai fedeli che recitassero le Litanie della beatissimo Vergine Maria, in uso presso la santa casa. Nel periodo di rinnovamento della Chiesa che il Concilio di Trento aveva inaugurato, non mancano gli eccessi. Clemente VIII, nel 1601, stabilisce, allora, l’approvazione delle litanie della santa casa e la loro importanza, con il decreto Quoniam multi. Le quarantaquattro invocazioni pubblicate dopo il 1572, nella Nuova dichiarazione della santa casa di Loreto, hanno oggi raggiunto il numero di cinquanta per le aggiunte che dogmi ed occasioni particolari hanno determinato.Ricordiamo, per il momento, l’invocazione Mater Ecclesiae, del 21 novembre 1964, quando Paolo VI, a conclusione della III Sessione del Vaticano II, proclamò Maria « Madre della Chiesa », perché il popolo cristiano la onorasse ancor più con tale titolo. Molti altri formulari hanno arricchito la devozione mariana in sedi e contesti diversi; sono da menzionare le Litanie di Magonza, le Litanie di Alcobaça, le litanie deprecatorie, le litanie del libro di Ore della Regina Eleonora, quelle «del Rosario» e i formulari litanici dell’Ordine dei Servi di Maria. Litanie ibride e recenti s’ispirano a forme miste, alla Scrittura e alle definizioni conciliari, al rito d’incoronazione della Vergine e all’antica venerazione di titoli iconografici della tradizione.
Il Magistero, dopo aver affrontato gli aspetti fondamentali del rapporto della Beata Vergine con Cristo e con la Chiesa, nel capitolo VIII della Lumen gentium, si sofferma, nell’ambito del medesimo capitolo (nn. 66-67) ad esaminare la natura e le linee fondamentali del culto mariano. Esso, specifica già nel titolo, al n. 67: deve essere alieno da esagerazioni e grettezze. Il 2 febbraio 1974, Paolo VI presenta l’Esortazione Apostolica Marialis cultus che indica quattro orientamenti essenziali per il culto della Vergine: biblico, liturgico, ecumenico e antropologico. A conclusione del documento il Papa insegna: «La venerazione che la Chiesa ha reso alla Madre del Signore in ogni luogo e in ogni tempo dal saluto benedicente di Elisabetta (cf. Lc 1,42-45) alle espressioni di lode e di supplica della nostra epoca – costituisce una validissima testimonianza della « sua norma di preghiera » ed invito a ravvivare nelle coscienze la « sua norma di fede ». E, viceversa, la « norma di fede della Chiesa » richiede che, dappertutto, si sviluppi rigogliosa la preghiera nei confronti della Madre di Cristo».4
In continuità d’intenti e d’insegnamento, Giovanni Paolo II ha approfondito tali principi nella sua Lettera Enciclica Redemptoris Mater promulgata il 25 marzo 1987 e seguita dalla Lettera di orientamenti e proposte per l’Anno mariano della Congregazione per il culto divino. L’Enciclica auspica una lettura conciliare che tenga presente non solo la »dottrina della fede » ma anche »la vita di fede dell’autentica spiritualità mariana » che come la « devozione » corrispondente – dice il Papa - »trova una ricchissima fonte nell’esperienza storica delle persone e delle varie comunità cristiane viventi tra i diversi popoli e nazioni su tutta la terra ».5 Ricordando san Luigi Maria Grignion de Montfort e la sua proposta di Consacrazione a Cristo per le mani di Maria, come mezzo efficace per vivere fedelmente gli impegni battesimali il Santo Padre annuncia l’Anno Mariano. Tra gli Orientamenti relativi a quest’ultimo, si ritrovano alcune precise indicazioni riguardanti le litanie. Le litanie lauretane sono inserite nel Rituale romano e stimate dalla Sede Apostolica. I pastori dovranno riconsiderare la natura e le funzioni delle litanie come preghiera a se stante, provvedere a traduzioni e melodie adeguate, far conoscere ai fedeli il Rito per l’incoronazione dell’immagine della B.Vergine Maria, prendere in considerazione formulari antichi e moderni o propri della Chiesa locale.6 Queste indicazioni contengono il segreto di una prassi equilibrata, conforme alla spiritualità ed alla dottrina cristiana, per attingere alle fonti della supplica e della lode.
Fermati anima mia e ascolta,
lascia fuori di te ogni cosa.
Entra e inebriati di colori, di luce,
respira purezza e sublimità per lunghi attimi,
senza muoverti,
Riprendi forza e spera in Dio.
Lui solo cerca nella sua meraviglia,
nello stupore rendi grazie
per tutto ciò che ti è concesso di comprendere.
———————–
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Publié dans:liturgia: Litanie, preghiere |on 10 septembre, 2013 |Pas de commentaires »

Murillo, Nascita di Maria

Murillo, Nascita di Maria dans immagini sacre

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Publié dans:immagini sacre |on 9 septembre, 2013 |Pas de commentaires »
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