The creation of cosmos, The 12th Century New Roman Mosaics of the Cathedral of the Nativity of the Most Holy Mother of God in Monreale, Italy

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GESU’ E LA PREGHIERA
Con Gesù, il tema della preghiera viene declinato in maniera diversa e, se vogliamo, innovativa. Egli si colloca del tutto nel giudaismo, anche se spalanca la porta al Cristianesimo. Parlando di lui, affronteremo essenzialmente cinque temi diversi:
1) La preghiera in Gesù (ossia il modo e le forme in cui egli pregava);
2) L’insegnamento che egli ci ha lasciato a proposito della preghiera;
3) Il testo della principale preghiera di Gesù, vale a dire il “Padre nostro” (riportato da Luca e da Matteo);
4) La preghiera che con Gesù i discepoli rivolgevano a Dio;
5) La preghiera rivolta a Gesù stesso.
1) Sappiamo che Gesù partecipava alle preghiere che si svolgevano al suo tempo, vale a dire le preghiere giudaiche. Sappiamo inoltre che, da adolescente, egli fece viaggi a Gerusalemme in occasione della Pasqua, che frequentava la sinagoga e che addirittura fu chiamato a fare la lettura (in particolare, lesse Isaia). Dai testi sacri, apprendiamo inoltre che Gesù, prima della Passione, se la prese coi mercanti del tempio e coi cambiavalute, nel tentativo di riportare il culto a una più alta dimensione spirituale. Ancora, sappiamo che egli condivise la cena pasquale coi suoi discepoli e pregò con loro. Insomma, si può dire che Gesù si comportò come un pio giudeo del suo tempo, prendendo parte a tutte le forme di preghiere. In altri passi dei testi sacri, affiorano aspetti più intimi che fanno riferimento alla sua preghiera personale: ad esempio, Luca mostra più volte Gesù nell’atto di isolarsi per poter pregare da solo. Altre volte, egli è raffigurato nell’atto di combattere il demonio e le sue tentazioni, invocando il Padre. Particolarmente significativo è l’aspetto che potremmo dire “filiale” della preghiera di Gesù, alludendo con quest’espressione alla sua familiarità con Dio, da lui iteratamente definito “Padre”, con la confidenza e la fiducia tipica del bambino nei confronti del genitore. Anche sulla Croce, Gesù si rivolge a Dio invocandoLo e chiamandoLo “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Il Vangelo di Giovanni sviluppa poi i discorsi che Gesù tenne al cospetto dei suoi discepoli: in particolare, il capitolo 17 si presenta come una lunga preghiera.
2) Nei “Sinottici”, vi sono sezioni sugli insegnamenti di Gesù a proposito della preghiera, i quali costituiscono il contesto del “Padre nostro”. Nella prospettiva di Gesù, la preghiera non deve moltiplicare le parole, come fanno indebitamente i Pagani (è difficile stabilire a quali pagani si alluda, visto che le preghiere pagane erano generalmente piuttosto stringate). Inoltre, la preghiera non dev’essere ipocrita, dev’essere non esibita, bensì sentita, personale, silenziosa, in opposizione ai farisei. Nella preghiera, la richiesta di beni materiali dev’essere subordinata alla richiesta della venuta del Regno di Dio, l’interiorità deve prevalere sull’esteriorità.
Addentriamoci ora nella preghiera “Padre nostro”, che sarà ereditato dai Cristiani: esso è tramandato in due maniere differenti da Luca e da Matteo; la versione del secondo, è più ricca, è quella che si è “imposta” nella tradizione cristiana e con buona probabilità è il frutto di un rimaneggiamento della preghiera di Gesù. Come prima cosa, si può rilevare come, nel “Padre nostro”, Dio venga dapprima elogiato ed esaltato e, in seconda battuta, gli si rivolgano delle richieste. L’esaltazione di Dio avviene in tre momenti: a) “sia santificato il tuo nome”, b) “venga il tuo regno”, c) “sia fatta la tua volontà” (quest’ultima esaltazione è assente in Luca). L’esordio della preghiera quale si ha in Matteo – “Padre nostro” – è la tipica invocazione che si ritrova nelle “Diciotto benedizioni” e nella “Preghiera per i defunti”, preghiere che la tradizione ebraica rivolgeva già prima a Dio: si tratta, dunque, di una formula stereotipa. Dal canto suo, Luca esordisce soltanto con “Padre”, invocazione che si ritrova in quasi tutte le religioni (ma non nell’Islam), dagli Egizi ai Greci, e che dev’essere posta in relazione al fatto che, tradizionalmente, Israele è “figlio primogenito” di Dio. Lo stesso tema dell’avvento del regno di Dio era già diffuso nella religiosità ebraica anteriore e dev’essere inteso, oltre che nel più scontato senso materiale, in quello astratto di regalità divina che, per un verso, vige già ora e, per un altro verso, si attuerà solo in un futuro a cui si tende escatologicamente. La seconda parte del “Padre nostro” è dedicata alle richieste umane, proprio come nei Salmi: la prima richiesta è quella del “pane quotidiano”, che dev’essere inteso nel senso più materiale e anche in riferimento al passo biblico della manna piovuta dal cielo con cui può sfamarsi il popolo nel deserto. In secondo luogo, si avanza una richiesta concernente i debiti: “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Con quest’espressione, Gesù adombra l’idea secondo cui, nella misura in cui noi perdoniamo gli altri, Dio perdona noi. Come terza richiesta, si chiede a Dio di liberare dalle tentazioni: “non indurci in tentazione”. Questa traduzione è ingannevole, perché fa parere che Dio tenti l’uomo: in realtà, dev’essere intesa in questo significato: “non lasciarci in balia della tentazione”. L’ultima richiesta avanzata nel “Padre nostro” è quella di affrancare l’uomo dal male: “liberaci dal male”.
4) I Vangeli riportano episodi nei quali Gesù prega insieme coi suoi discepoli: pensiamo all’episodio della “trasfigurazione”, nel quale i discepoli vivono un’esperienza estatica, o a quando Gesù si raccoglie insieme ad alcuni discepoli per pregare sul monte. L’episodio forse più famoso è quello dell’“ultima cena”, in cui Gesù celebra un pasto di ringraziamento che i Vangeli presentano come cena pasquale, benché manchino i tratti tipici della Pasqua (ad esempio l’agnello).
5) Sono anche attestati episodi in cui vengono rivolte preghiere a Gesù: tali preghiere, tuttavia, non presentano i tratti del culto, giacché Gesù non è ancora diventato un oggetto di culto. Sono piuttosto preghiere con le quali si richiede a Gesù di sanare lebbrosi, di guarire disabili, di far camminare paralitici: sono piuttosto ambigue per il fatto che, pur non essendo ancora diventato oggetto di culto, Gesù è visto come una persona a cui abbandonarsi con piena fiducia. Sullo sfondo, sono già presenti i futuri atteggiamenti con cui ci si rivolgerà a Gesù quando diverrà oggetto di culto. In altri episodi, egli si presenta come intermediario che, nel sanare i malati, esegue la volontà di Dio.
Possiamo notare come il messaggio di Gesù, in origine, non fosse universale, bensì rivolto ai “figli perduti” di Israele: eppure nel suo agire erano implicite le basi per quell’universalizzazione del Cristianesimo che sarà successivamente operata da Paolo di Tarso. Com’è noto, Gesù opera in Galilea, terra in cui i pagani erano numerosi ma disposti, per così dire, a macchia di leopardo, con la conseguenza che v’erano zone in cui essi erano del tutto assenti. In particolare, i pagani risiedevano nelle città, mentre i Giudei prediligevano i villaggi e la loro refrattarietà alla penetrazione della cultura greca. Sappiamo però di una città, Sefforis, popolosa e sviluppata che stranamente non è mai menzionata nei Sinottici, benché fosse vicinissima alle altre città (Cafarnao) che vengono invece citate: forse Gesù non s’è mai voluto recare a Sefforis? E perché? Probabilmente perché in quella città c’erano i pagani, i quali esulavano dai suoi interessi e cadevano al di fuori del suo messaggio, il quale abbiamo visto essere rivolto soltanto agli Ebrei. Come dicevamo, è con Paolo di Tarso che il verbo cristiano si universalizza e, con esso, lo stesso messaggio di salvezza diventa universale.
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CONFESSARSI, PERCHÈ? (BRUNO FORTE)
LA RICONCILIAZIONE E LA BELLEZZA DI DIO
01/10/2009
Proviamo a capire insieme che cos’è la confessione:
se lo capisci veramente, con la mente e col cuore,
sentirai il bisogno e la gioia di fare esperienza di questo incontro,
in cui Dio, donandoti il Suo perdono attraverso il ministro della Chiesa,
crea in Te un cuore nuovo, mette in te uno Spirito nuovo,
perché Tu possa vivere un’esistenza riconciliata con Lui, con Te stesso e con gli altri,
divenendo a tua volta capace di perdono e di amore
al di là di ogni tentazione di sfiducia e di ogni misura di stanchezza
1. Perché confessarsi? Fra le domande che vengono poste al mio cuore di Vescovo, ne scelgo una che mi è stata fatta spesso: perché bisogna confessarsi? È una domanda che ritorna in molteplici forme: perché si deve andare da un sacerdote a dire i propri peccati e non lo si può fare direttamente con Dio, che ci conosce e comprende molto meglio di qualunque interlocutore umano? E, ancora più radicalmente: perché parlare delle mie cose, specie di quelle di cui ho vergogna perfino con me stesso, a qualcuno che è peccatore come me, e che forse valuta in modo completamente diverso dal mio ciò di cui ho fatto esperienza o non lo capisce affatto? Che ne sa lui di che cosa è veramente peccato per me? Qualcuno aggiunge: e poi, esiste veramente il peccato, o è solo un’invenzione dei preti per tenerci buoni? A quest’ultima domanda sento di poter rispondere subito e senza timore di smentita: il peccato c’è, e non solo è male, ma fa male. Basta guardare la scena quotidiana del mondo, dove violenze, guerre, ingiustizie, sopraffazioni, egoismi, gelosie e vendette si sprecano (un esempio di questo “bollettino di guerra” ce lo danno ogni giorno le notizie su giornali, radio, televisione e internet!). Chi crede nell’amore di Dio, poi, percepisce come il peccato sia amore ripiegato su se stesso (“amor curvus”, “amore curvo”, dicevano i Medioevali), ingratitudine di chi risponde all’amore con l’indifferenza e il rifiuto. Questo rifiuto ha conseguenze non solo su chi lo vive, ma anche sulla società tutta intera, fino a produrre dei condizionamenti e degli intrecci di egoismi e di violenze che costituiscono delle vere e proprie “strutture di peccato” (si pensi alle ingiustizie sociali, alla sperequazione fra paesi ricchi e paesi poveri, allo scandalo della fame nel mondo…). Proprio per questo non si deve esitare a sottolineare quanto sia grande la tragedia del peccato e quanto la perdita del senso del peccato – ben diverso da quella malattia dell’anima che chiamiamo “senso di colpa” – indebolisca il cuore davanti allo spettacolo del male e alle seduzioni di Satana, l’Avversario che cerca di separarci da Dio.
2. L’esperienza del perdono Nonostante tutto, però, non mi sento di dire che il mondo è cattivo e che fare il bene è inutile. Sono, anzi, convinto che il bene c’è ed è molto più grande del male, che la vita è bella e che vivere rettamente, per amore e con amore, vale veramente la pena. La ragione profonda che mi fa pensare così è l’esperienza della misericordia di Dio, che faccio in me stesso e che vedo risplendere in tante persone umili: è un’esperienza che ho vissuto tante volte, sia dando il perdono come ministro della Chiesa, sia ricevendolo. Sono anni che mi confesso regolarmente, più volte al mese e con la gioia di farlo. La gioia nasce dal sentirmi amato in modo nuovo da Dio ogni volta che il Suo perdono mi raggiunge attraverso il sacerdote che me lo dà in Suo nome. È la gioia che ho visto tanto spesso sul volto di chi veniva a confessarsi: non il futile senso di leggerezza di chi “ha vuotato il sacco” (la confessione non è uno sfogo psicologico né un incontro consolatorio, o non lo è principalmente), ma la pace di sentirsi bene “dentro”, toccati nel cuore da un amore che sana, che viene dall’alto e ci trasforma. Chiedere con convinzione, ricevere con gratitudine e dare con generosità il perdono è sorgente di una pace impagabile: perciò, è giusto ed è bello confessarsi. Vorrei far partecipi delle ragioni di questa gioia tutti coloro che riuscirò a raggiungere con questa lettera.
3. Confessarsi da un sacerdote? Mi chiedi dunque: perché bisogna confessare a un sacerdote i propri peccati e non lo si può fare direttamente a Dio? Certamente, è sempre a Dio che ci si rivolge quando si confessano i propri peccati. Che sia, però, necessario farlo anche davanti a un sacerdote ce lo fa capire Dio stesso: scegliendo di inviare Suo Figlio nella nostra carne, egli dimostra di volerci incontrare mediante un contatto diretto, che passa attraverso i segni e i linguaggi della nostra condizione umana. Come Lui è uscito da sé per amore nostro ed è venuto a “toccarci” con la sua carne, così noi siamo chiamati ad uscire da noi stessi per amore Suo e andare con umiltà e fede da chi può darci il perdono in nome Suo con la parola e col gesto. Solo l’assoluzione dei peccati che il sacerdote ti dà nel sacramento può comunicarti la certezza interiore di essere stato veramente perdonato e accolto dal Padre che è nei cieli, perché Cristo ha affidato al ministero della Chiesa il potere di legare e sciogliere, di escludere e di ammettere nella comunità dell’alleanza (cf. Mt 18,17). È Lui che, risorto dalla morte, ha detto agli Apostoli: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi” (Gv 20,22s). Perciò, confessarsi da un sacerdote è tutt’altra cosa che farlo nel segreto del cuore, esposto alle tante insicurezze e ambiguità che riempiono la vita e la storia. Da solo non saprai mai veramente se a toccarti è stata la grazia di Dio o la tua emozione, se a perdonarti sei stato tu o è stato Lui per la via che Lui ha scelto. Assolto da chi il Signore ha scelto e inviato come ministro del perdono, potrai sperimentare la libertà che solo Dio dona e capirai perché confessarsi è fonte di pace.
4. Un Dio vicino alla nostra debolezza La confessione è dunque l’incontro col perdono divino, offertoci in Gesù e trasmessoci mediante il ministero della Chiesa. In questo segno efficace della grazia, appuntamento con la misericordia senza fine, ci viene offerto il volto di un Dio che conosce come nessuno la nostra condizione umana e le si fa vicino con tenerissimo amore. Ce lo dimostrano innumerevoli episodi della vita di Gesù, dall’incontro con la Samaritana alla guarigione del paralitico, dal perdono all’adultera alle lacrime di fronte alla morte dell’amico Lazzaro… Di questa vicinanza tenera e compassionevole di Dio abbiamo immenso bisogno, come dimostra anche un semplice sguardo alla nostra esistenza: ognuno di noi convive con la propria debolezza, attraversa l’infermità, si affaccia alla morte, avverte la sfida delle domande che tutto questo accende nel cuore. Per quanto, poi, possiamo desiderare di fare il bene, la fragilità che ci caratterizza tutti ci espone continuamente al rischio di cadere nella tentazione. L’Apostolo Paolo ha descritto con precisione questa esperienza: “C’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio” (Rom 7,18s). È il conflitto interiore da cui nasce l’invocazione: “Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?” (Rom 7, 24). Ad essa risponde in modo particolare il sacramento del perdono, che viene a soccorrerci sempre di nuovo nella nostra condizione di peccato, raggiungendoci con la potenza sanante della grazia divina e trasformando il nostro cuore e i comportamenti in cui ci esprimiamo. Perciò, la Chiesa non si stanca di proporci la grazia di questo sacramento durante l’intero cammino della nostra vita: attraverso di essa è Gesù, vero medico celeste, che viene a farsi carico dei nostri peccati e ad accompagnarci, continuando la sua opera di guarigione e di salvezza. Come accade per ogni storia d’amore, anche l’alleanza col Signore va rinnovata senza sosta: la fedeltà è l’impegno sempre nuovo del cuore che si dona e accoglie l’amore che gli viene donato, fino al giorno in cui Dio sarà tutto in tutti.
5. Le tappe dell’incontro col perdono Proprio perché desiderato da un Dio profondamente “umano”, l’incontro con la misericordia offertaci da Gesù avviene attraverso varie tappe, che rispettano i tempi della vita e del cuore. All’inizio c’è l’ascolto della buona novella, in cui ti raggiunge l’appello dell’Amato: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15). Attraverso questa voce è lo Spirito Santo ad agire in te, dandoti dolcezza nel consentire e credere alla Verità. Quando ti rendi docile a questa voce e decidi di rispondere con tutto il cuore a Colui che ti chiama, intraprendi il cammino che ti porta al dono più grande, quel dono tanto prezioso da far dire a Paolo: “Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio” (2 Cor 5,20). La riconciliazione è appunto il sacramento dell’incontro con Cristo, che attraverso il ministero della Chiesa viene a soccorrere la debolezza di chi ha tradito o rifiutato l’alleanza con Dio, lo riconcilia col Padre e con la Chiesa, lo ricrea come creatura nuova nella forza dello Spirito Santo. Questo sacramento è chiamato anche della penitenza, perché in esso si esprime la conversione dell’uomo, il cammino del cuore che si pente e viene ad invocare il perdono di Dio. Il termine confessione – usato comunemente – si riferisce invece all’atto di confessare le proprie colpe davanti al sacerdote, ma richiama anche la triplice confessione da fare per vivere in pienezza la celebrazione della riconciliazione: la confessione di lode (“confessio laudis”), con cui facciamo memoria dell’amore divino che ci precede e ci accompagna, riconoscendone i segni nella nostra vita e comprendendo meglio in tal modo la gravità della nostra colpa; la confessione del peccato, con la quale presentiamo al Padre il nostro cuore umile e pentito riconoscendo i nostri peccati (“confessio peccati”); la confessione di fede, infine, con cui ci apriamo al perdono che libera e salva, offertoci con l’assoluzione (“confessio fidei”). A loro volta, i gesti e le parole in cui esprimeremo il dono che abbiamo ricevuto confesseranno nella vita le meraviglie operate in noi dalla misericordia di Dio.
6. La festa dell’incontro Nella storia della Chiesa la penitenza è stata vissuta in una grande varietà di forme, comunitarie e individuali, che hanno però tutte mantenuto la struttura fondamentale dell’incontro personale fra il peccatore pentito e il Dio vivente attraverso la mediazione del ministero del vescovo o del sacerdote. Attraverso le parole dell’assoluzione, pronunciate da un uomo peccatore, che però è stato scelto e consacrato per il ministero, è Cristo stesso che accoglie il peccatore pentito e lo riconcilia col Padre e nel dono dello Spirito Santo lo rinnova come membro vivo della Chiesa. Riconciliati con Dio, veniamo accolti nella comunione vivificante della Trinità e riceviamo in noi la vita nuova della grazia, l’amore che solo Dio può effondere nei nostri cuori: il sacramento del perdono rinnova, così, il nostro rapporto col Padre, col Figlio e con lo Spirito Santo, nel cui nome ci è data l’assoluzione delle colpe. Come mostra la parabola del Padre e dei due figli, l’incontro della riconciliazione culmina in un banchetto di vivande saporite, cui si partecipa col vestito nuovo, l’anello e i calzari ai piedi (cf. Lc 15,22s): immagini che esprimono tutte la gioia e la bellezza del dono offerto e ricevuto. Veramente, per usare le parole del Padre della parabola, “bisogna far festa e rallegrarsi, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Lc 15,24). Come è bello pensare che quel figlio può essere ognuno di noi!
7. Il ritorno alla casa del Padre In rapporto a Dio Padre la penitenza si presenta come un “ritorno a casa” (questo è propriamente il senso della parola “teshuvà”, che l’ebraico usa per dire “conversione”). Attraverso la presa di coscienza delle tue colpe, ti accorgi di essere in esilio, lontano dalla patria dell’amore: avverti disagio, dolore, perché capisci che la colpa è una rottura dell’alleanza col Signore, un rifiuto del Suo amore, è “amore non amato”, e proprio così è anche sorgente di alienazione, perché il peccato ci sradica dalla nostra vera dimora, il cuore del Padre. È allora che occorre ricordarci della casa dove siamo attesi: senza questa memoria dell’amore non potremmo mai avere la fiducia e la speranza necessarie a prendere la decisione di tornare a Dio. Con l’umiltà di chi sa di non essere degno di venir chiamato “figlio”, possiamo deciderci di andare a bussare alla porta della casa del Padre: quale sorpresa scoprire che lui è alla finestra a scrutare l’orizzonte, perché aspetta da tanto il nostro ritorno! Alle nostre mani aperte, al cuore umile e pentito risponde la gratuita offerta del perdono, con cui il Padre ci riconcilia con sé, “convertendosi” in qualche modo a noi: “Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò” (Lc 15,20). Con straordinaria tenerezza Dio ci introduce in modo rinnovato nella condizione di figli, offerta dall’alleanza stabilita in Gesù.
8. L’incontro con Cristo, morto e risorto per noi In rapporto al Figlio il sacramento della riconciliazione ci offre la gioia dell’incontro con Lui, il Signore crocifisso e risorto, che attraverso la Sua Pasqua ci dona la vita nuova infondendo il Suo Spirito nei nostri cuori. Questo incontro si compie attraverso l’itinerario che porta ognuno di noi a confessare le nostre colpe con umiltà e dolore dei peccati e a ricevere con gratitudine piena di stupore il perdono. Uniti a Gesù nella Sua morte di Croce, moriamo al peccato e all’uomo vecchio che in esso ha trionfato. Il Suo sangue sparso per noi ci riconcilia con Dio e con gli altri, abbattendo il muro dell’inimicizia che ci teneva prigionieri della nostra solitudine senza speranza e senza amore. La forza della Sua resurrezione ci raggiunge e trasforma: il Risorto ci tocca il cuore, lo fa ardere in noi di una fede nuova, che schiude i nostri occhi e ci rende capaci di riconoscere Lui accanto a noi e la Sua voce in chi ha bisogno di noi. Tutta la nostra esistenza di peccatori, unita a Cristo crocifisso e risorto, si offre alla misericordia di Dio per essere sanata dall’angoscia, liberata dal peso della colpa, confermata nei doni di Dio e rinnovata nella potenza del Suo amore vittorioso. Liberati dal Signore Gesù, siamo chiamati a vivere come Lui nella libertà dalla paura, dalla colpa e dalle seduzioni del male, per compiere opere di verità, di giustizia e di pace.
9. La vita nuova nello Spirito Grazie al dono dello Spirito che effonde in noi l’amore di Dio (cf. Rm 5,5), il sacramento della riconciliazione è sorgente di vita nuova, comunione rinnovata con Dio e con la Chiesa, di cui proprio lo Spirito è l’anima e la forza di coesione. È lo Spirito a spingere il peccatore perdonato a esprimere nella vita la pace ricevuta, accettando anzitutto le conseguenze della colpa commessa, e cioè la cosiddetta “pena”, che è come l’effetto della malattia rappresentata dal peccato e va considerata come una ferita da sanare con l’olio della grazia e la pazienza dell’amore da avere verso noi stessi. Lo Spirito, poi, ci aiuta a maturare il proposito fermo di vivere un cammino di conversione fatto di impegni concreti di carità e di preghiera: il segno penitenziale richiesto dal confessore serve appunto ad esprimere questa scelta. La vita nuova, a cui così rinasciamo, può dimostrare più di ogni altra cosa la bellezza e la forza del perdono sempre di nuovo invocato e ricevuto (“perdono” vuol dire appunto dono rinnovato: perdonare è donare all’infinito!). Ti chiedo, allora: perché fare a meno di un dono così grande? Accostati alla confessione con cuore umile e contrito e vivila con fede: ti cambierà la vita e darà pace al tuo cuore. Allora, i tuoi occhi si apriranno per riconoscere i segni della bellezza di Dio presenti nel creato e nella storia e ti sgorgherà dall’anima il canto della lode. Ed anche a te, sacerdote che mi leggi e come me sei ministro del perdono, vorrei rivolgere un invito che mi nasce dal cuore: sii sempre pronto – a tempo e fuori tempo – ad annunciare a tutti la misericordia e a dare a chi te lo chiede il perdono di cui ha bisogno per vivere e per morire. Per quella persona potrebbe trattarsi dell’ora di Dio nella sua vita!
10. Lasciamoci riconciliare con Dio! L’invito dell’Apostolo Paolo diventa, così, anche il mio: lo esprimo servendomi di due voci diverse. La prima è quella di Friedrich Nietzsche, che negli anni della giovinezza scrive queste parole appassionate, segno del bisogno della misericordia divina che tutti ci portiamo dentro: “Ancora una volta, prima di partire e volgere i miei sguardi verso l’alto, rimasto solo, levo le mie mani a Te, presso cui mi rifugio, cui dal profondo del cuore ho consacrato altari, affinché ogni ora la voce Tua mi torni a chiamare… ConoscerTi io voglio, Te, l’Ignoto, che a fondo mi penetri nell’anima e come tempesta squassi la mia vita, inafferrabile eppure a me affine! ConoscerTi, io voglio, e anche servirTi” (Scritti giovanili, I, 1, Milano 1998, 388). L’altra voce è quella attribuita a Francesco d’Assisi, che esprime la verità di una vita rinnovata dalla grazia del perdono: “Signore, fa’ di me uno strumento della Tua pace. Dove è odio, che io porti l’amore. Dov’è offesa, che io porti il perdono. Dov’è discordia, che io porti l’unione. Dov’è errore, che io porti la verità. Dov’è dubbio, che io porti la fede. Dov’è disperazione, che io porti la speranza. Dove sono tenebre, che io porti la luce. Dov’è tristezza, che io porti la gioia. Maestro, fa’ che io non cerchi tanto di essere consolato quanto di consolare, di essere compreso quanto di comprendere, di essere amato quanto di amare”. Sono questi i frutti della riconciliazione, invocata ed accolta da Dio, che auguro a tutti Voi che mi leggete. Con questo augurio, che diventa preghiera, Vi abbraccio e benedico uno per uno
+ Bruno, Vostro Padre nella fede
Per l’esame di coscienza
http://www.ucei.it/?cat=3&pag=18&subpag=34
LE FESTE EBRAICHE – 18-27 SETTEMBRE
LA FESTA DELLE CAPANNE
La festa di Sukkoth inizia il 15 del mese di Tishrì. Sukkoth in ebraico significa « capanne » e sono appunto le capanne a caratterizzare questa festa gioiosa che ricorda la permanenza degli ebrei nel deserto dopo la liberazione dalla schiavitù dall’Egitto: quaranta anni in cui abitarono in dimore precarie, accompagnati però, secondo la tradizione, da « nubi di gloria ».
Nella Torà (Levitico, 23, 41-43) infatti troviamo scritto: « E celebrerete questa ricorrenza come festa in onore del Signore per sette giorni all’anno; legge per tutti i tempi, per tutte le vostre generazioni: la festeggerete nel settimo mese. Nelle capanne risiederete per sette giorni; ogni cittadino in Israele risieda nelle capanne, affinché sappiano le vostre generazioni che in capanne ho fatto stare i figli di Israele quando li ho tratti dalla terra d’Egitto ».
La festa delle capanne è una delle tre feste di pellegrinaggio prescritte nella Torà, feste durante le quali gli ebrei dovevano recarsi al Santuario a Gerusalemme, fino a quando esso non fu distrutto dalle armate di Tito nel II secolo e.v. Altri nomi della festa sono « Festa del raccolto » e anche « Festa della nostra gioia », poiché cade proprio in coincidenza con la fine del raccolto quando si svolgevano grandi manifestazioni di gioia. Questa festa è detta anche « festa dei tabernacoli » e il precetto che la caratterizza è proprio quello di abitare in capanne durante tutti i giorni della festa. Se a causa del clima o di altri motivi non si può dimorare nelle capanne, vi si devono almeno consumare i pasti principali. Altri nomi della festa sono « Festa del raccolto » e anche « Festa della nostra gioia », poiché cade proprio in coincidenza con la fine del raccolto quando si svolgevano grandi manifestazioni di gioia.
La capanna deve avere delle dimensioni particolari e deve avere come tetto del fogliame piuttosto rado, in modo che ci sia più ombra che luce, ma dal quale si possano comunque vedere le stelle. E’ uso adornare la sukkà, la capanna, con frutta, fiori, disegni e così via.
La sukkà non è valida se non è sotto il cielo: l’uomo deve avere la mente e lo spirito rivolti verso l’alto.
Un altro precetto fondamentale della festa è il lulàv: un fascio di vegetali composto da un ramo di palma, due di salice, tre di mirto e da un cedro che va agitato durante le preghiere. Forte è il significato simbolico del lulàv: la palma è senza profumo, ma il suo frutto è saporito; il salice non ha né sapore né profumo; il mirto ha profumo, ma non sapore ed infine il cedro ha sapore e profumo. Sono simbolicamente rappresentati tutti i tipi di uomo: tutti insieme sotto la sukkà. Secondo un’altra interpretazione simbolica la palma sarebbe la colonna vertebrale dell’uomo, il salice la bocca, il mirto l’occhio ed infine il cedro il cuore. L’uomo rende grazie a Dio con tutte le parti del suo essere.
L’uomo è disposto a mettersi al servizio di Dio anche nel momento in cui sente che massima è la potenza che ha raggiunto: ha appena raccolto i frutti del suo raccolto, ma confida nella provvidenza divina e abbandona, anche se solo per pochi giorni, la sua dimora abituale per abitare in una capanna. Capanna che è insieme simbolo di protezione, ma anche di pace fra gli uomini. « E poni su di noi una sukkà di pace » riecheggiano infatti i testi di numerose preghiere; ci sono dettagliate regole che stabiliscono l’altezza massima e minima che deve avere una sukkà, ma per quanto concerne la larghezza viene stabilita solo la dimensione minima: nei tempi messianici infatti la tradizione vuole che verrà costruita una enorme unica sukkà nella quale possa risiedere tutta l’umanità intera.
http://www.parrocchie.it/villasangiovanni/parrocchiaimmacolata/movimenti/rdsk/yom.htm
(per il 2013 era il 13 e 14 settembre, si sono sovrapposte alla Festa della Santa Croce, il 14 ed alla domenica, quindi metto qualcosa oggi, articolo del 2008)
YOM KIPPUR
Testi biblici correlati: ES 29,36sES 30,1-10LV 4LV 23EB 13,10ss1GV 4,10
Le feste
Le feste, per il popolo ebraico, sono prevalentemente di carattere liturgico. Nulla, per il popolo eletto, è separato da Dio. Le feste spezzano il tempo ordinario, ed immergono l’uomo nella memoria del passato, perché non si deve dimenticare mai l’opera che Dio ha fatto e che continua a fare con il Suo popolo, la festa è un memoriale, non una semplice rievocazione di un evento, ma un ripetersi, un riattualizzarsi dell’evento, un nuovo passaggio di Dio. Le feste sono anche un ringraziamento a Dio creatore, per aver fatto l’uomo e il mondo come cosa buona (cfr. GN 1), in quanto sostenuti entrambi dal sacro, dal Qadosh, da Dio stesso. Ogni festa ha, implicitamente, 3 punti cardinali:
Rifiuto della morte. La fine dell’uomo non è in questo mondo austero, la realtà ultima non è il demonio e il male. La festa indica questa lotta.
Affermazione della vita. (cfr. DT 16,14). La felicità non è una cosa egoistica, ma si gioisce quando tutti stanno bene, grazie al reciproco aiuto. La festa ricostruisce in un certo senso, l’Eden originario, in cui Adamo ed Eva vivevano riconciliati col cosmo e con Dio perché il peccato non era entrato in loro.
Dio è fondamento di tutto. Si può vincere il demonio e godere in terra della felicità perché l’uomo non è solo nel suo combattimento, ma il suo fondamento ontologico sta in Dio stesso che crea l’uomo “a Sua immagine e somiglianza”. L’uomo è chiamato a rientrare, tramite la festa, in quel piano divino che Dio ha con lui.
Le feste d’Israele hanno origini agricole. Si vuol esprimere a Dio la gratitudine per i doni fatti durante l’anno, offrendo le primizie dei raccolti e del bestiame. Il popolo riconosce che nulla gli appartiene ma che tutto è dono di Dio. Poiché i dono vengono da Dio, nessuno se ne può impadronire ma tutti devino usufruirne secondo le proprie necessità. Proprio delle feste infatti è il provvedere ai bisognosi, in modo che tutti possano lodare Dio e far festa secondo le leggi prescritte. Le feste ricordano inoltre al popolo la stretta connessione che c’è tra l’abbondanza dei frutti e il rispetto della Torà ricevuta sul Sinai. (LV 26,3-6).
Yom Kippur
Introduzione
La festa di Kippur cade 9 giorni dopo il Rosh Ha Shanà (capo d’anno).La parola Kippur vuol dire espiazione, ed indica appunto il carattere penitenziale di tale festa. Il popolo di Israele, sentendosi peccatore, ha bisogno di essere perdonato da Dio. La caratteristica fondamentale di tale espiazione consiste nel fatto che vengono perdonati soltanto i peccati fatti contro Dio, per i peccati fatti contro un’ altra persona è necessario chiedere perdono direttamente al diretto interessato (cfr. MT 6,12-15). E’ un giorno di penitenza e digiuno. La Bibbia (LV 16) fa risalire questa festa alla lite tra i figli di Aronne, come necessità di riconciliazione. Lo Y. Kippur si celebrava al Tempio, ma dopo la sua distruzione avvenutanel 70 d.C., la liturgia della festa ha subito di conseguenza molte variazioni. Dobbiamo quindi distinguere il periodo pre e post tempio.
Problemi di datazione
Sebbene il testo del LV 16 metta l’origine dello Yom Kippur al tempo di Mosè e di Aronne. Dagli ultimi studi sappiamo che il testo del Levitico è di tradizione sacerdotale, quindi postesilico (dopo il VI sec. A.C.). Facendo l’analisi del testo di LV 16 possiamo distinguere 3 srati cronologici:
litigio tra i figli di Aronne, necessità di perdono (pre esilio)
purificazione del Tempio (post.esilio)
datazione e carattere penitenziale della festa (post.esilio)
Inoltre in nessun testo preesilico è menzionata tale festa. Ezechiele (Ez 45,18-25) parla di una festa con sacrifici per purificare il Tempio e per i peccati del popolo, che forse è un primordio dello Yom Kippur, infatti mancano molti elementi. Esdra e Neemia non ne fanno alcuna menzione. La situazione è complessa e richiederebbe una trattazione molto più lunga e dettagliata della mia, ho solo fatto qualche cenno.
Descrizione generale
Lo Yom Kippur è preceduto da un tempo di 10 giorni, detti anche “giorni tremendi », nei quali ognuno ha la possibilità di fare un esame di coscienza e riconciliarsi col prossimo. Qualora una persona non si riconcili col fratello, il giudizio di Dio su di lui sarà tremendo. Il giorno di Yom Kippur è di assoluta penitenza, assenza di lavoro e digiuno.
Prima del 70 d.C. Il Sommo Sacerdote offre un toro in olocausto per i propri peccati. Poi vengono presi due arieti, uno viene offerto in sacrificio per Dio. Col sangue del toro e dell’ariete immolati il S. Sacerdote asperge il propiziatorio, dopo aver offerto l’incenso nel S. dei Santi. Poi si asperge l’altare. A questo punto il Santuario del Tempio è purificato. L’altro ariete allora, dopo che il S. Sacerdote confessa i peccati sulla sua testa,viene portato nel deserto spinto giù da un dirupo. Il S. Sacerdote offre poi un olocausto per se stesso e per il popolo. Giunto il momento di chiudere le porte del tempio si recitava la Ne’ila, preghiera che sigillava i decreti di Dio.
Dopo la distruzione del Tempio. La sera prima dello Yom Kippur Tutti vanno in Sinagoga e si canta il Col Nidrè (preghiera che riguarda i voti fatti durante l’anno) e poi si fa la triplice confessione dei peccati (per sé, per la famiglia, per il popolo). Inoltre sempre la stessa sera, vengono uccisi un gallo ed una gallina. Il capofamiglia fa girare questi animali per 3 volte sulla testa di ognuno per prendere i loro peccati, durante questo rito (forse precedente al medioevo) si leggono alcuni brani della scrittura. Al giorno d’oggi lo Yom Kippur è una delle feste più importanti per Israele, la Mishnà lo chiama infatti “il giorno fra i giorni”, e viene celebrato il 10 di Tishri.
Il rituale del tempio
Il giorno di Yom Kippur, come già detto, è di non lavoro, penitenza e digiuno. Valgono tutte le prescrizioni in vigore del sabato. L’assemblea si reca al Tempio dove vengono effettuati i vari sacrifici. In questo giorno solo il S. Sacerdote può officiare. Un rituale è tipicamente levitico: il S. Sacerdote offre un toro per i suoi peccati e per quelli della sua casa (casta sacerdotale). Solo in questa festa egli può entrare nel S.dei Santi per incensare il propiziatorio (kapporet, cfr. ES 25,17-22; ES 37,6-9) dopo averlo asperso col sangue del toro. Lo stesso fa poi col sangue del capro immolato per i peccati del popolo. Queste espiazioni sono legate all’espiazione per l’altare e per il santuario (v 33).
Il capro per Azael
Oltre al capro offerto in sacrificio c’è un altro capro che fa parte del rito che viene tirato a sorte (uno per Dio, l’altro per Azael). Questo capo viene portato dinnanzi alla presenza di Dio, il S. Sacerdote gli impone le mani riversando su di lui tutti i peccati degli Israeliti. Un inserviente porta il capro nel deserto (forse vicino alla valle del Kedron, Bet Haddu o Bet Hardun, l’attuale Khirbet Khareidan, a 6 Km circa da Gerusalemme). Quest’uomo, resosi impuro, poteva rientrare in comunità solo dopo essersi purificato. Alcuni studiosi accostano un rito babilonese che si svolgeva il 5 di Nisan per la festa dell’anno nuovo. Un uomo purificava i templi di Bel e Nabu con acqua e aromi, poi un altro uomo uccideva un montone e fregava la carcassa sulle mura del tempio di Nabu per cancellare sue impurità. Poi la carcassa veniva gettata nell’Eufrate dai 2 uomini che non potevano rientrare prima della fine della festa cioè il 12 di Nisan. Non si sa bene cosa sia “Azael”, alcuni vedono semplicemente la parola “precipizio”, quindi solo la destinazione del capro. Ma è incongruente col testo che dice “destinato a”. E’ più plausibile che tale nome indichi un antico demone relegato nel deserto, come testimoniano anche il Targum, la versione siriaca e il Libro di Enoch. Dio stesso trasferisce i peccati sul capro, quando viene portato alla Sua presenza, il quale essendo impuro non serve come vittima sacrificale.
Preparazione allo Yom Kippur
Lo Yom Kippur, insieme al Rosh Ha Shanà, fa parte delle cosidette “feste austere”. Infatti sono di carattere penitenziale e non hanno origini agricole ne sono legate ad un evento storico particolare. Queste due feste entrano nell’ottica della Teshuvà (lett. Ritorno), cioè il popolo è cosciente di aver tradito la Torà e vuole rientrare in essa. Quando l’uomo pecca si allontana automaticamente da Dio, ed è chiamato ogni volta a rialzarsi, a rientrare nell’alleanza fatta con Dio.La Teshuvà è la speranza, per gli ebrei, che Dio non abbia chiuso totalmente le porte dell’Eden, ma che l’uomo possa rientrarvi. Queste porte per noi sono state aperte da Cristo quando è salito al Padre vincendo la morte, precedendoci in Galilea, inviandoci il Suo Spirito e restando con noi tutti i giorni. Lo Yom Kippur è il punto di arrivo, il culmine di una serie di eventi che preparano il popolo a riconciliarsi con Dio. Già dal 1 giorno del mese di Elul, che precede Tishri, inizia la preparazione di ogni uomo per ricevere il perdono, tramite preghiere aggiuntive chiamate Seliot. Secondo una tradizione Mosè salì sul Sinai il primo giorno di Elul per ricevere la Torà e tornò proprio nel giorno di K. Per questo si fa iniziare la Teshuvà col primo di Elul. Il popolo dichiarò dunque di abbandonare l’idolatria e ritornare a Dio (ES 34,6.9). I rabbini dicono infatti che il ritorno alla Torà apre le porte del perdono. Col Rosh Ha Shanà iniziano i “giorni tremendi” (yamim nora’im) perchè inzia il giudizio di Dio (EZ 33,11). In questo giorno, dicono gli ebrei, ogni uomo passa davanti a Dio, vengono aperti 3 libri in cui si legge la sorte del buono, delmalvagio e del tiepido. I giusti vengono scritti sul libro della Vita, i malvagi vengono cancellati, ai tiepidi si danno 10 giorni di tempo fino a Yom KippurQuindi in questi 10 giorni si decide il destino di tutta l’umanità. Già a R.H.S., che richiama l’inzio della creazione (bereshit) e l’inizio degli eventi salvifici (generazione di Isacco e Samuele), si suona lo Shofar, che richiama la voce di Dio sul Sinai. Il popolo si sente così chiamato a rinnovare l’alleanza, infatti quasi tutte le preghiere di questa festa sono di ringraziamento e di richiesta di perdono a Dio. Trascorsi 8 giorni, ai vespri del nono giorno inizia lo Yom Kippur, momento culmine dei giorni tremendi poichè è il giorno del giudizio divino. Per coloro che si rinnovano attraverso la teshuvà e il pentimento (EZ 18,21s), questo giorno diventa il “giorno del Grande Perdono” o il “Sabato dei Sabati”, perchè il popolo si sente purificato (IS 1,18). Il popolo è cosciente che tale perdono non è umano ma viene da Dio, il quale riprende la sua sposa che è stata infedele. Dio rinnova la promessa di creazione e di alleanza senza tener conto del male causato dall’uomo. Tale perdono è legato al perdono dei fratelli, ma non in un rapporto consequenziale. Se si perdona il fratello vuol dire che già si è entrati nel perdono di Dio. Col perdono Dio ridona l’Eden all’uomo, perchè il perdono ricrea, dona la vita.
Liturgia dello Yom Kippur
Gli elementi principali della festa sono:
“Kol Nidrè” cioè la confessione dei peccati,
le letture bibliche, Musaf
il rito di conclusione“Ne’ilah”.
Il Kol Nidrè (tutti i voti) è di origine sconosciuta. Tutti gli ebrei, prima dell’alba, vanno in sinagoga e confessano di annullare tutti i voti fatti. Tale professione viene cantata 3 volte. Per voti si intende solo quelli fatti con Dio (digiuno, astensione da qualcosa ecc.). Sciogliere i voti indica la gratuità del perdono che viene da Dio, il quale non si lega a vincoli e promesse umane. Il cuore dello Yom Kippur è la confessione dei peccati inserita nella Tefillà, che viene ripetuta 5 volte durante il giorno. Questa preghiera è composta da 2 parti: la prima parte ripete sempre “abbiamo peccato” e la seconda “per il peccato commesso…”. Tale supplica enumera 44 tipi di peccati che vengono confessati battendosi il petto, si parla sempre al prurale. Dopo la distruzione del tempio, la preghiera è divenuta sempre di pù la più alta espressione del legame tra uomo e Dio. Con la diaspora degli ebrei, la Tefillà sostituì il sacrificio del Tempio, divenendo il modo più idoneo per parlare con Dio. Altra caratteristica è la Tefillà di Musaf, che ricorda il rito della confessione pubblica fatta dal S. Sacerdote al Tempio. Tutt’oggi nelle sinagoge si legge LV 16 per ricordare la purificazione antica. Inoltre in questo giorno si legge anche il testo di IS 57,14-58, il popolo si ricorda che la purificazione ha le radici nel cuore, nell’intenzione del pentimento, non è solo un mero rito da compiere moralisticamente.Solo così si può digiunare veramente, anzi è così importante che è l’unica volta che si digiuna rigorosamente per 24 ore, da un vespro all’altro.ù Un altro testo che si legge è il libro di Giona, perchè ricorda che Dio ama tutte le nazioni, e che ogni popolo a modo poprio, ha la possibilità di pentirsi e convertirsi a Dio. L’ultimo elemento è la Ne’ilà, liturgia che ricorda la preghiera fatta al Tempio quando venivano chiuse le porte. Adesso tale chiusura è simbolica, poichè il Tempio non c’è. Questo rito ricorda al popolo che c’è un’urgenza nel rispondere a Dio, non si può rinviare la conversione. Tale rito viene fatto di sera, al tramonto del sole. Tutto finisce col suono dello Shoffar, che simboleggia il perdono di Dio grazie al quale il popolo è rinnovato per il nuovo anno. misna’ –ordine secondo (feste), yom hakippurim
CP1: 7 giorni prima dello Yom Kippur il S. Sacerdote veniva separato dalla famiglia e portato nella “camera dei consiglieri” per evitare che contraesse qualche impurità, non potendo così officiare nello Yom Kippur Per sicurezza viene designato un altro sacerdote che possa officiare al suo posto. In questi 7 giornideve preparare alcune cose del santuario e offrire sacrifici. Inoltre gli vengono affiancati 2 anziani che ogni giorno gli ripetono il rituale dello Yom Kippur affinchè lo impari. Siccome il S.Sacedote doveva perfettamente il sacrificio, alla vigilia di Yom Kippur gli portavano tori, arieti e agnelli per fargli fare pratica. In questi giorni i suoi pasti erano molto frugali, specialmente alla vigilia, affinchè egli non si addormentasse. Infatti nel sonno poteva venire una polluzione e renderlo impuro. In seguito gli anziani della classe sacerdotale incontrano il S. S. per ricordargli di non offrire l’incenso sulla paletta d’oro prima di entrare nel S. dei Santi, secondo l’opinione sadducea:
“mio signore, Sommo Sacerdote, siamo i delegati del tribunale e tu sei nostro emissario e delegato del tribunale. Ti supplichiamo (lett. Congiuriamo) per Colui del quale il nome abita in questa casa, che non muti nulla di ciò che ti abbiamo detto” (Mishnà, Yomà 1,5).
A questo punto si separano e ognuno va in luogo a piangere.Inoltre per evitare il sonno, se egli è istruito legge o commenta la Scrittura, altrimenti lo fa qualche saggio in sua presenza; se si addormenta va subito svegliato. Tutto questo dura fino all’ora del sacrificio. Nel giorno di Yom Kippur, si tolgono le ceneri dall’altare a mezzanotte, mentre normalmente nelle altre occasioni si fa di mattina al canto del gallo.
CP2: precisazioni liturgiche sui vari sacrifici dell’anno.
CP3: Non si può entrare nello spazio del Tempio per fare i riti, senza aver fatto il bagno rituale (migvè) anche se già si è puri. In Yom Kippur il S. Sacerdote fa cinque immersioni e 10 santificazioni (LV 16,4b) in una parte del santuario, la Parvà (stanza adibita per salare le pelli degli animali sacrificati. Nel tetto c’era la migvà usata in Yom Kippur per il S.Sacerdote). Infatti viene posto tra lui e i presenti un lenzuolo di lino. Il S. Sacerdote si purifica e poi gli vengono portate le vesti d’oro, dopo essersi vestito santifica mani e piedi (GV 13,8-10). Dopodichè fa il sacrificio e i vari riti quotidiani. Finiti questi riti tornava alla Parvà, si spogliava, si purificava e si metteva le vesti di lino bianco. A questo punto viene portato il toro del sacrificio addizionale e collocato tra il portico e l’altare con la faccia volta a oriente. Il S. Sacerdote stava sull’altare, (accanto a lui stavano il prefetto e il capo della casa di suo padre) rivolto verso occidente, poggiava le mani sul toro e faceva la confessione:
“Oh Dio, ho offeso, trasgredito, ho peccato innanzi a Te, io e la mia famiglia; Oh Dio, perdona le colpe, le trasgressioni e i peccati coi quali ti ho offeso, che ho commesso, coi quali ho peccato innanzi a Te, io e la mia famiglia, come sta scritto nella legge di Mosè tuo sevo. Perchè in questo giorno si fa l’espiazione per voi (LV 16,30)”.
Tutti rispondono benedicendo il nome di Dio. Poi si andava al lato nord dell’altare, dove c’erano i 2 capri e la cassa con le due sorti.
CP4: Vengono tirate le sorti dalla cassa, una “per Dio” e l’altra “per Azael”. Allora il S. Sacerdote pone la sorte “per Dio” sopra la testa del capro e dice “per il Signore, come sacrificio per il peccato” e qui appunto si pronuncia il nome di Dio secondo il tetragramma sacro. Poi lega un filo di lana color poropora sulle corna dell’altro capro “per Azael”. Ogni capro viene in seguito posto verso la direzione a cui è destinato. Il S. Sacerdote si riavvicina al toro e imponendogli le mani fa un’altra confessione dei suoi peccati e di tutti i sacerdoti. Sacrifica l’animale e raccoglie il sangue in un calice. Un uomo si occupa di mescolare questo sangue per non farlo coagulare. Il S. Sacerdote prende il braciere sale sull’altare, rimuove le ceneri più consumate, poi sale sulla quarta terrazza dell’atrio e pone li il braciere.
CP5: portano la pala d’oro e il braciere al Sacerdote, che riempie la pala d’incenso. Col braciere nella mano destra e la pala nella sinistra va davanti alla tenda S. dei Santi. Arrivando davanti all’Arca, pone il bracere tra i due cherubini e gli mette l’incenso in modo che tutto il SS. sia pieno di fumo. Quando non c’era più l’arca il braciere veniva posto su una pietra “fondamento” che si staccava di 3 dita dal suolo. Esce facendo una preghiera e rientra nel SS. Dopo l’orazione riesce e torna sulla terrazza bagnandosi le mani col sangue e torna al SS e asperge una volta verso l’alto e 7 volte verso il basso. Esce, sacrifica il capro “per Dio” e ne raccoglie il sangue, ritorna nel SS. e rifà le 8 aspersioni allo stesso modo di prima. Poi riprende il sangue del toro e asperge 8 volte dall’esterno la tenda davanti all’Arca, poi fa lo stesso col sangue del capro. Poi mescola il sangue dei due animali in un solo recipiente, va nell’altare del Signore (quello interno d’oro, dove si bruciava l’incenso ES 30,1ss) e lo purifica aspergendo tale sangue, iniziando dal lato nord orientale in senso orario.
CP6: i due capri scelti per Yom Kippur devono essere preferibilmente uguali d’aspetto e di peso, vanno comprati insieme. Se uno dei 2 capri muore dopo aver tirato le sorti, bisogna portare un altra coppia di capri e ritirare le sorti. Il S.Sacerdote si avvicina al capro espiatorio, gli impone le mani e recita la confessione:
“Oh Dio, ti ha offeso, ha trasgredito, peccò innanzi a Te il Tuo popolo, Israele. Oh Dio, perdona le colpe, le trasgressioni, i peccati coi quali ti ha offeso, commise azioni illecite, peccò il Tuo popolo, Israele, come sta scritto nella Legge di Mosè tuo servo. Perchè in questo giorno vi perdonerà purificandovi da tutti i vostri peccati, davanti al Signore sarete purificati.”.
I sacerdoti e il popolo stavano nell’atrio del Tempio e quando ascoltavano il nome di Dio (si pronuncia il nome di Dio secondo il tetragramma sacro per la seconda volta) si inginocchiavano, si prostravano e dicevano con la faccia a terra “benedetto il nome della gloria del Suo regno per sempre”. Il capro veniva consegnato dunque all’addetto per condurlo al deserto (poteva essere chiunque sebbene si preferisse un sacerdote). Lungo il tragitto c’erano delle postazioni in cui l’addetto si fermava per far rifocillare il capro affinchè non morisse prima di arrivare al deserto. Inoltre alcuni accompagnavano l’addetto e il capro fino all’ultimo punto di ristoro. Giunto al punto stabilito, l’addetto legava una parte del filo rosso ad una roccia e l’altra parte tra le corna del capro, poi lo spingeva indietro e cadeva rotolando. L’addetto si rendeva impuro appena usciva dalle mura della città. Il S. Sacerdote sventrava il toro e il capro, ne prelevava le parti sacrificali e le bruciava sull’altare. Anche egli appena usciva dall’atrio del Santo era considerato impuro. Il S.Sacerdote sapeva che il capro era giunto al deserto perchè lungo il percorso venivano collocate alcune torrette che facevano dei segnali con la tela. Da Gerusalemme a Bet Horon ci sono 3 miglia di distanza. Alcuni Rabbi dicono che c’era un altro modo per saperlo. Un altro filo di porpora veniva collocato nell’entrata del Tempio e quando il capro arrivava al deserto il filo iniziava ad impallidire (IS 1,18).
CP7: Dunque il S.Sacerdote va all’atrio delle donne per fare la lettura. Un inserviente gli porta il libro della Torà, legge LV 16 e LV 23,26-32 e recita a memoria NM 29,7-11.Poi chiude il rotolo, lo avvicina al petto e dice “molte altre cose di quelle che vi ho letto sono scritte quì”.Poi pronuncia otto benedizioni:
per la Torà
per il culto
per l’azione di grazie
per il perdono dei peccati
per il Tempio
per Israele
per i sacerdoti
per le altre necessità (fa una preghiera)
Mentre il S. Sacerdote legge, vengono bruciate le parti del toro e del capro, quindi o si vede il Sacerdote o il sacrificio. Poi torna a rifarsi la migvè, si mette le vesti d’oro, si purifica mani e piedi e offre un giovenco per lui, un giovenco per il popolo e 7 agnelli senza macchia di un anno. Dopo questo si ripurifica tutto e si veste di bianco, entra nel SS per togliere il braciere e la pala . Poi si purifica totalmente un’altra volta, si riveste d’oro, ritorna al SS per bruciare l’incenso vespertino (ES 30,8) e per alimentare le lampade. Si ripurifica, si mette i suoi abiti e viena accompagnato a casa dove fa una festa coi suoi familiari.
CP8: nello Yom Kippur è proibito mangiare, bere, lavarsi, ungersi, calzare sandali e avere rapporti sessuali. Alcuni Rabbi concedono delle eccezioni. I bambini non hanno l’obbligo del digiuno ma vanno educati ai comandamenti già 2 anni prima di entrare a far parte della comunità. Le donne gravide e i malati possono mangiare, secondo giudizio dei medici o proprio. In caso di morte si può lavorare per salvare un uomo. I peccati e le trasgressioni commesse possono essere espiate coi sacrifici prestabiliti (LV 4,27-35; LV 5,15; LV 6,6). Ma in Yom Kippur e in stato di morte basta il sincero pentimento per espiare. Infatti i peccati più gravi vengono perdonati solo in Yom Kippur
Lo Yom Kippur non perdona i peccati contro il prossimo.
http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/commenti/2009/212q01b1.html
14 SETTEMBRE: LA FESTA DELL’ESALTAZIONE DELLA CROCE NELLA TRADIZIONE BIZANTINA
OGGI HA PORTATO L’ALTISSIMO COME GRAPPOLO PIENO DI VITA
DI MANUEL NIN
La festa dell’Esaltazione della Croce – Universale esaltazione della Croce preziosa e vivificante è il suo titolo nei libri liturgici di tradizione bizantina – ha un’origine gerosolimitana collegata alla dedicazione della basilica della Risurrezione, edificata sulla tomba del Signore nel 335, e anche alla celebrazione del ritrovamento della reliquia della Croce da parte dell’imperatrice Elena e del vescovo Macario, rappresentati nell’icona della festa. La Croce ha un posto rilevante nella liturgia bizantina: viene commemorata tutti i mercoledì e venerdì dell’anno col canto di un tropario, la terza domenica di Quaresima, il 7 maggio e il 1° agosto, sempre presentata come luogo di vittoria di Cristo sulla morte, della vita sulla morte, luogo di morte della morte. La celebrazione del 14 settembre è preceduta da una prefesta il 13, che celebra appunto la dedicazione della basilica della Risurrezione, e si prolunga con un’ottava fino al giorno 21.
I testi dell’ufficiatura mettono ripetutamente in parallelo l’albero del paradiso e quello della Croce: « Croce venerabilissima che le schiere angeliche circondano gioiose, oggi, nella tua esaltazione, per divino volere risollevi tutti coloro che, per l’inganno di quel frutto, erano stati scacciati ed erano precipitati nella morte »; « nel paradiso un tempo un albero mi ha spogliato, perché facendomene gustare il frutto, il nemico ha introdotto la morte; ma l’albero della Croce, che porta agli uomini l’abito della vita, è stato piantato sulla terra, e tutto il mondo si è riempito di ogni gioia »; « la Croce che ha portato l’Altissimo, quale grappolo pieno di vita, si mostra oggi elevata da terra: per essa siamo stati tutti attratti a Dio, e la morte è stata del tutto inghiottita. O albero immacolato, per il quale gustiamo il cibo immortale dell’Eden, dando gloria a Cristo! ».
Uno dei tropari dell’ufficiatura vespertina, con delle immagini toccanti e profonde, riassume tutto il mistero della salvezza: « Venite, genti tutte, adoriamo il legno benedetto per il quale si è realizzata l’eterna giustizia: poiché colui che con l’albero ha ingannato il progenitore Adamo, viene adescato dalla Croce, e cade travolto in una funesta caduta. Col sangue di Dio viene lavato il veleno del serpente, ed è annullata la maledizione della giusta condanna per l’ingiusta condanna inflitta al giusto: poiché con un albero bisognava risanare l’albero, e con la passione dell’impassibile distruggere nell’albero le passioni del condannato ». In un altro tropario, l’incarnazione di Cristo, Dio nella carne, è presentata come l’esca che nella Croce attira e vince il nemico: « Per te è caduto colui che con un albero aveva ingannato, è stato adescato da Dio che nella carne in te è stato confitto, e che dona la pace alle anime nostre ».
Diversi testi fanno una lettura cristologica dei tanti passi dell’Antico Testamento che la tradizione patristica e liturgica ha letto e interpretato come prefigurazioni del mistero della Croce del Signore: « Ciò che Mosè prefigurò un tempo nella sua persona, mettendo così in rotta Amalek e abbattendolo, ciò che Davide cantore ordinò di venerare come sgabello dei tuoi piedi, la tua Croce preziosa, o Cristo Dio »; « tracciando una croce, Mosè, col bastone verticale, divise il Mar Rosso per Israele che lo passò a piedi asciutti, poi lo riunì su se stesso volgendolo contro i carri del faraone, disegnando, orizzontalmente, l’arma invincibile »; « nelle viscere del mostro marino, Giona stendendo le palme a forma di croce, chiaramente prefigurava la salvifica passione: perciò uscendo il terzo giorno, rappresentò la risurrezione del Cristo Dio crocifisso nella carne che con la sua risurrezione il terzo giorno ha illuminato il mondo ».
Alla fine del mattutino si svolge il rito dell’esaltazione e della venerazione della santa Croce. Il sacerdote prende dall’altare il vassoio che contiene la Croce preziosa collocata in mezzo a foglie di basilico – l’erba profumata che, secondo la tradizione, era l’unica a crescere sul Calvario e che attorniava la Croce quando fu ritrovata – e in processione lo porta tenendo il vassoio sulla sua testa fino alla porta centrale dell’iconostasi e in mezzo alla chiesa. Lì depone il vassoio su un tavolino, fa tre prostrazioni fino a terra e, prendendo in mano la Croce con le foglie di basilico, guardando a oriente, la innalza sopra il proprio capo, poi l’abbassa fino a terra e infine traccia il segno di croce, mentre i fedeli cantano per cento volte « Kyrie eleison ». Ripetendo questa grande benedizione verso i quattro punti cardinali e di nuovo verso oriente, il sacerdote invoca la misericordia e la benedizione del Signore sulla Chiesa e sul mondo intero. Al termine, il sacerdote innalza la Croce e con essa benedice il popolo che poi passa a venerarla e riceve delle foglie di basilico, per ricordare il buon profumo del Cristo risorto che tutti i cristiani sono chiamati a testimoniare nel mondo.
(©L’Osservatore Romano 14-15 settembre 2009)
14 SETTEMBRE: S. GIOVANNI CRISOSTOMO
Giovanni nacque ad Antiochia da una distinta famiglia attorno all’anno 350. Come consuetudine in quel tempo, Giovanni, educato alla fede dalla pia madre Antusa, rimasta vedova all’età di appena 20 anni, ricevette il battesimo in età adulta, nel 372. Era stato istruito nella Sacra Dottrina insieme a Teodoro, poi vescovo di Mopsuestia. Dapprima condusse in casa della stessa madre una vita di austero ascetismo, che proseguì poi per quattro anni sotto la direzione di un vecchio anacoreta, e per altri due da solo in una regione montuosa nei pressi della città. Costretto dalla salute malferma a ritornare in città, vi venne consacrato diacono nel 381 e sacerdote nel 386. Per 12 anni, fino al 387, ebbe l’incarico della predicazione nella cattedrale conquistandosi fama di magnifico oratore.
Nel 397, alla morte di Nettario, vescovo di Costantinopoli, Giovanni venne eletto suo successore. Di fronte alla ritrosia dell’interessato, l’imperatore lo fece condurre nella capitale con l’astuzia e vi fu consacrato arcivescovo il 26 febbraio 398.
Il nuovo presule diede subito esempio di grande semplicità e modestia di vita, destinando le sue ricchezza alla fondazione di ospedali e all’aiuto dei poveri. Il suo desiderio di eliminare una quantità di abusi nella vita del clero gli meritò presto l’ostilità di alcuni. Quando in un Sinodo ad Efeso fece deporre alcuni vescovi simoniaci e si attirò, per il suo rigore morale, l’ostilità dell’imperatrice Eudossia, i malcontenti incominciarono ad agitarsi contro di lui, sotto la guida dell’ambizioso Teofilo di Alessandria, la cui Chiesa si trovava in contesa con quella di Costantinopoli. Chiamato nel 402 a Costantinopoli per giustificarsi di varie accuse che gli venivano mosse, il vescovo Teofilo passò al contrattacco gettando tutte le colpe su Giovanni Crisostomo, che fu chiamato in tribunale e quindi dichiarato deposto ed esiliato dall’imperatore. Già all’indomani, però, Giovanni venne richiamato, ma i tumulti e gli intrighi resero difficile la sua vita a Costantinopoli.
La tensione tra amici ed avversari del vescovo divenne sempre più forte. Fallito il tentativo di farlo deporre da un altro Sinodo, i suoi avversari ottennero dall’imperatore un nuovo decreto di esilio il 9 giugno 404. Giovanni Crisostomo morì il 14 settembre del 407 in una lontana regione del Ponto.
Il Crisostomo fu anzitutto pastore di anime e predicatore. I suoi contemporanei, e al pari di essi anche le generazioni posteriori, non si stancarono mai di proclamarlo il più grande dei predicatori della Chiesa greca. Pio X lo proclamò patrono dei predicatori cristiani. La sua produzione letteraria oltrepassa quella di tutti gli altri scrittori orientali a noi pervenuta. In Occidente solo Agostino può essergli paragonato. I suoi scritti sono un’inesauribile miniera non solo per i teologi, ma anche per gli archeologi e gli storici della cultura. Quello che conquista nei discorsi del Crisostomo è il loro contenuto e l’efficace esposizione oratoria, che unisce insieme lo spirito cristiano e la venustà ellenica della forma. I suoi sermoni, che duravano a volte anche due ore, non stancano, poiché sono magistralmente ravvivati da immagini e paragoni, si riallacciano negli esordi e nelle conclusioni con eventi contemporanei, e talora sono corredati di digressioni intorno ad argomenti di grande interesse.
15 SETTEMBRE 2013 | 24A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C | PROPOSTA DI LECTIO DIVINA
LECTIO DIVINA SU: LC 15,1-32
Risultava incomprensibile per i benpensanti del suo tempo che Gesù frequentasse peccatori e mangiasse con i pubblicani. E non mancavano loro dei motivi. Coloro che, a causa della professione o della vita disordinata, vivevano situazioni « impure », lontani da Dio, non erano una compagnia adeguata per un uomo di Dio. Per scandalo dei « buoni », Gesù non solo non evitava i cattivi, ma, inoltre, gli piaceva convivere con loro. Doveva avere forti ragioni per osare trasgredire le regole sociali imperanti e ferire così la sensibilità dei più pii. E veramente le aveva. Le espose, in lungo e in largo, in uno dei discorsi più riusciti di tutto il NT. In esso legittima il suo strano procedere facendosi scudo dietro la volontà di Dio. Difendendosi dal rimprovero, sconcerta ancor più i suoi già sorpresi accusatori, aggiungendo che, in realtà, non sta facendo niente di diverso di ciò che lo stesso Dio vuole. Il suo comportamento è copia del comportamento di Dio; convive con coloro con i quali Dio vuole convivere, frequenta coloro ai quali Dio vorrebbe avvicinarsi. La ragione, l’ispirazione, del suo agire con i peccatori è lo stesso Dio.
In quel tempo, solevano avvicinarsi a Gesù i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2I farisei e gli scribi mormoravano, dicendo:
« Costui riceve i peccatori e mangia con loro ».
3Gesù disse loro questa parabola:
4″Se uno di voi ha cento pecore e ne perde una, non lascerà le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? 5E quando la trova, se la mette sulle spalle, molto felice, 6e, al suo arrivo a casa, chiama gli amici e i vicini di casa per dire loro: « Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta ».
7Così vi dico che ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione.
8E se una donna ha dieci monete e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa e cerca attentamente finché non la ritrova? 9E quando la trova, chiama i suoi amici e i vicini di casa per dire loro: « Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduta ».
10Vi dico che c’è gioia grande davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte ».
11Disse anche:
« Un uomo aveva due figli.
12Il più giovane disse al padre: « Padre, dammi la mia parte del patrimonio ». E il padre divise la proprietà. 13Non molti giorni dopo il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose andò in un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. 14E quando ebbe speso tutto, in quella terra venne una terribile carestia, ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15Chiese lavoro ad un abitante di quel paese, che lo mandò nei campi come guardiano dei maiali. 16Voleva riempire lo stomaco con le carrube che mangiavano i porci, ma nessuno gliene dava. 17Rientrando in sé allora, disse: « Quanti servi di mio padre hanno pane, e io qui muoio di fame. 18Mi alzerò e andrò da mio padre e gli dirò:. Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te 19non sono degno di essere chiamato tuo figlio: trattami come uno dei tuoi servi ». 20Partì dove era suo padre; quando era ancora lontano, suo padre lo vide e ne ebbe compassione, e, correndogli incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21Suo figlio gli disse: « Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te non sono più degno di essere chiamato tuo figlio’. 22Ma il padre disse ai suoi servi: « Portate qui la veste più bella e vestitelo, mettetegli un anello al dito e dei calzari ai piedi; 23prendete il vitello grasso, ammazzatelo e facciamo festa, 24Perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita; era perduto ed è stato ritrovato ». E cominciarono il banchetto.
25Suo figlio maggiore si trovava nei campi.
Quando fu vicino a casa, udì la musica e la danza, 26Chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse successo. 27Questi rispose: ‘È tornato tuo fratello e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha avuto indietro in salute ». 28Lui era arrabbiato e non voleva entrare, ma suo padre uscì e cercò di convincerlo. 29Ma egli rispose a suo padre: ‘Ecco: da molti anni io ti servo, senza mai disobbedire a un tuo comando, ma non mi hai mai dato un capretto, per fare festa con i miei amici 30ma quando questo tuo figlio che ha sperperato la vostra proprietà con le prostitute, è tornato, avete ucciso il vitello grasso ». 31Il padre gli disse: « Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo: 32ma dovevamo gioire, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato’ ».
1. LEGGERE: CAPIRE QUELLO CHE DICE IL TESTO FACENDO ATTENZIONE A COME LO DICE
Luca ha creato uno scenario in cui collocare tre parabole raggruppate intorno ad un unico tema. L’insieme è un testo di notevole fattura letteraria, che narra avvenimenti della vita dei suoi uditori, pieno di particolari e con un messaggio unico: la gioia che Dio prova quando perdona.
Il contesto narrativo è breve (Lc 15,1-2). In esso si eleva a comportamento abituale di Gesù ciò che era un episodio, qualcosa di frequente questo sí, del suo ministero. Gesù si faceva ascoltare e si lasciava accompagnare da persone di scarsa, se non cattiva, reputazione. Una condotta che, logicamente, scandalizzava ‘i buoni’: « dimmi con chi vai e ti dirò chi sei ».
La risposta di Gesù non è, a rigore, una replica diretta. E’ tutto un discorso, costruito con parabole. Da’ ragione del suo agire narrando tre storie. A Gesù interessa spiegarsi. Però non giustifica se stesso. Parla, piuttosto, in modo velato, di Dio e delle sue preferenze. Implicitamente viene detto che Gesù, convivendo con i peccatori, non fa altro che ciò che Dio vuole, avvicinarsi a loro e, se gli è possibile – nel terzo esempio non lo è stato – darsi una gioia perdonandoli. Le prime due parabole, simmetriche, presentano rapidamente due casi, colti dalla vita reale, di smarrimento: quello di un pastore che perde una delle sue (cento) pecore (Lc 15,3-7), la donna che smarrisce una delle sue (dieci) monete (Lc 15,8-10). La perdita provoca l’ansiosa ricerca. Il ritrovamento non solo restituisce ciò che era stato perduto, ma riempie anche di gioia chi ritrova ciò che pensava di aver perduto. Come questa gioia, tanto umana, sarà la gioia di Dio e di quanto lo accompagna (nel cielo, i suoi angeli).
La terza parabola, molto più sviluppata, ha come protagonista un padre che aveva due figli, molto diversi, sicuramente (Lc 15,11-32). Il primo impoverisce il padre privandolo del suo patrimonio e della sua vicinanza; lontano dal padre sperpera i suoi averi e la sua vita. Affamato e temendo la morte, rientra in se stesso e recupera, pur nella lontananza, suo padre. E dice a se stesso ciò che andrà a dire a suo padre, quando si incontrerà con lui. Il padre non lo lascerà neppure parlare; gli basta riavere di nuovo il figlio perduto e ordina di fare una grande festa (Lc 15,11-24). Il figlio maggiore, che è rimasto sempre in casa, lavorando per suo padre e mai si è sentito libero, né figlio, in quanto lavorava come un servo, non ha potuto sopportare la festa per il fratello, né comprendere le ragioni di suo padre (Lc 15,25-32). Non sappiamo – non lo dice il narratore – se entrò alla festa, se accettò il grande malfattore appena arrivato come fratello, se ha condiviso con il padre la sua gioia e suo fratello. Non è stato il figlio minore che ha abbandonato il padre, ma colui che lo aveva sempre servito, perché alla fine ha messo in discussione la vita di famiglia e il desiderio del padre di fare festa.
2. MEDITARE: APPLICARE ALLA VITA QUELLO CHE DICE IL TESTO!
Con parabole, non con nette affermazioni, Gesù spiega il suo comportamento: non evita le cattive compagnie perché vuole il bene del peccatore, il suo perdono e, la sua gioia. Il pastore, la donna e il padre sentono la perdita di ciò che appartiene a loro e la gioia quando lo recuperano. Non sarà minore la gioia di Dio: curioso questo Dio di Gesù che può sentire la perdita di qualcosa che gli appartiene, che patisce l’ansia mentre lo cerca e che si rallegra quando ritrova ciò che aveva perduto. Nel peccatore che torna a Lui, Dio non solo recupera il figlio che si era allontanato da lui, ma riacquista la gioia che non aveva dal momento in cui aveva perduto ciò che gli apparteneva. Chi ritorna a casa restituisce la gioia al suo focolare, come il figlio che andava alla ricerca di un padrone e si è trovato con un padre pronto all’affetto e alla festa.
Bella – stupenda – maniera di gioire che ha Dio! Chi ha abbandonato Dio, o semplicemente lo ha perduto di vista, ritornando a Lui può ritrovare la gioia. Inoltre, chi, come Gesù, si impegna affinché Dio torni ad avere tutti coloro che si sono smarriti, contribuisce a far sì che Dio si mantenga gioioso. Conoscere come egli è, obbliga a vivere come Dio vuole, anche se questo dovrà causare cattiva impressione sui benpensanti: la gioia di Dio vale più di ogni critica.
Difficilmente capiremo la risposta di Gesù, se non condividiamo, anche noi oggi, la stranezza che hanno sentito i buoni del suo tempo dinanzi a simile comportamento. Vederlo in cattiva compagnia non era uno spettacolo molto edificante, certamente; anzi, è logico che non è del tutto comprensibile perché ha lasciato che gente così poco raccomandabile lo accompagnasse in pubblico e in privato, per le strade e attorno a una mensa comune. Come ai buoni del suo tempo, ci irrita che Gesù preferisca coloro che non riescono ad essere buoni come lo siamo noi, e che non vivono secondo i nostri costumi. Come coloro che hanno criticato Gesù, ci risulta penoso vedere e dover verificare che persone di dubbia reputazione ottengono più facilmente i suoi favori di coloro che tanto fatichiamo per essere davvero buoni. Come è possibile che Dio continua a comportarsi meglio, a quanto pare, con i cattivi che con i buoni da sempre?
Gesù risponde raccontando alcune parabole. Il pastore che ha perso una pecora su cento, la donna che smarrisce una moneta delle dieci che aveva, il padre che vede allontanarsi da casa il figlio più giovane, sono figure di Dio. Si comportano come lui, nella ricerca e nel ritrovamento, con la stessa angoscia per la perdita, con la stessa gioia dopo il ritrovamento. Chi non vede logico che quando perdiamo qualcosa di valore, ci mettiamo immediatamente alla sua ricerca? Ma è normale che, come il pastore, la donna e il padre, diamo più importanza a quello che abbiamo perso che a ciò che abbiamo ancora? È così che si comporta in realtà Dio? Il pastore lasciò il gregge in un luogo piuttosto insicuro, un comportamento un po’ imprudente; la donna smise di prendersi cura della casa, un atteggiamento poco intelligente; il padre viveva come se avesse solo il figlio che aveva lasciato la casa, una posizione poco giusta nei confronti di colui che era rimasto con lui.
Ebbene, per quanto ci dispiaccia e con il rischio di non comprenderlo bene, il nostro Dio è così, ci dice Gesù. E’ più interessato a recuperare ciò che ha perduto che a conservare ciò che non si perderà, gli dispiace poco abbandonare i suoi per cercare ciò che, di sua proprietà, ha perduto; meno preoccupato per quello che ha che per quanto ancora gli manca, fatica di più per recuperare ciò che è suo che per conservarlo in suo possesso. Non avremmo osato immaginare un simile comportamento – così insolito come irrazionale – in Dio, se Gesù stesso non ce lo avesse rivelato. Se Gesù non ha impedito ai cattivi di accompagnarlo, non è stato perché non era a conoscenza della loro malizia, perché la negasse o la scusasse, ma perché ha voluto dare loro la possibilità di diventare buoni.
Gesù sapeva bene che la più grande gioia per Dio è la conversione del peccatore. Come il pastore che, trovata la pecora, ritrova la sua gioia e va a condividerla con i suoi amici; come la donna che non può tacere la gioia che le dà trovare la moneta perduta e festeggia con le sue vicine; come il padre che, al ritorno del figliol prodigo a casa, riempie la sua abitazione di festa e di musica; Dio gioisce per il ritorno a Lui di qualsiasi peccatore. E per quanto ingiustificato possa sembrarci, la fedeltà di tutti coloro che non lo hanno mai lasciato non gli produce tanta gioia come il ritorno di chi un giorno lo ha lasciato. Recuperando il perduto, Dio recupera ciò che è suo e la gioia; chi ritorna a Dio, oltre a restituirgli ciò che gli era dovuto, gli causa una felicità così grande che non può tenerla solo per sé. E’ Dio, come il pastore o la donna di casa, che ne esce vincitore, quando trova ciò che aveva perduto: recupera i suoi beni e la gioia.
Può sembrare un’esagerazione, ma è la verità. Se diamo fede alle parole di Gesù, Dio è felice, come il padre che accoglie il figlio perduto, quando è in grado di offrire di nuovo casa e beni a chi, per averlo abbandonato e aver sperperato i suoi averi, si riconosce indegno di Lui. La pecora che è andata fuori strada non ha ricevuto alcun maltrattamento dal pastore, dopo essere stata trovata; e una volta ritrovata, la moneta perduta è tornata di nuovo a far parte del capitale della donna; tornato a casa, il figliol prodigo ha incontrato l’amore del Padre e il suo impegno a tenere un banchetto. Ancora più sorprendente di questa voglia di festa che ha Dio, è che sia la conversione di un solo peccatore che la produce; risulta più sorprendente che molti giusti, che non hanno bisogno di ritornare a Dio perché erano sempre con Lui, non gli causano tanta gioia, come un peccatore che ritorna a Lui.
Sembra che Dio ricompensi la fedeltà con la tristezza e il peccato con la gioia. Non è così, in realtà; chi non si è mai perduto, non gli ha mai dato pena né preoccupazione; e per questo non gli daranno nemmeno la gioia di recuperarli. Ma non si può evitare la conclusione che, secondo Gesù, la gioia che Dio sente quando torna a Lui un solo peccatore è sempre più grande del dolore che ha provato quando l’ha perso. I giusti non causano tanta gioia; o meglio, non danno alcuna gioia a Dio, perché prima non gli hanno causato alcun dolore. Ma il peccatore, come il figlio che ha spezzato il cuore del padre che impoverì quando lo ha abbandonato, è capace di rallegrare Dio. Non c’è peccato abbastanza grave né mancanza troppo vergognosa che possa impedirci di tornare a Dio per restituirgli la gioia; se tornando a Dio, qualunque siano state le cause del nostro abbandono, gli restituiamo la gioia, perché non siamo già di ritorno a Lui? Non ci ringrazierà Dio quando gli daremo un momento di felicità? Potremmo mai noi, che abbiamo peccato, sognare una cosa simile all’essere causa della felicità di Dio? Sembri giusto o no, chi non è mai andato via non può restituire la gioia a chi non l’ha mai perso. Il Dio di Gesù, come il pastore, la donna, il padre dei due figli, riscopre la gioia di vivere quando trova quello che gli è mancato. Non è questa una buona, stupenda ragione per dedicare tutta la vita a promuovere la gioia di Dio riportando a lui i suoi figli perduti?
Gesù, che conosceva il modo d’essere di Dio e di come farlo contento, andava ad incontrare tutti coloro che avevano perduto Dio e così farlo felice. La gioia che Dio sente nel recuperare quello che gli appartiene, spinge chi lo sa, a cercare la compagnia di coloro che Dio si rammarica di non aver ancora con sé; sentendo la loro mancanza, Dio non li dà mai per perduti; soffrendo per la loro assenza, non li dimentica mai. E’ Dio che recupera quando perdona il peccato: recupera i suoi beni e la gioia perduta. Proprio perché Gesù conosceva la gioia che un peccatore provoca al cuore di Dio, si dedicò a promuovere le conversioni. Se qualcuno di noi si considera già buono, e non può dare a Dio la gioia del rincontro perché non l’ha abbandonato, potrebbe impegnarsi, come ha fatto Gesù, ad incoraggiare i peccatori del proprio ambiente a tornare al loro Dio e ridargli la gioia che sente dando il perdono. Sarebbe un’occupazione che meriterebbe la pena esercitare, anche se dovesse causare scandalo.
E un’ultima, breve e importante, annotazione. Il discorso di Gesù non finisce bene. Non sapremo mai se il figlio maggiore entrò a casa e se ha partecipato della gioia del Padre. Non sappiamo, quindi, se il padre, alla fine, ha perso il figlio che non era mai andato via. Coloro che si credono ‘buoni’ corrono questo pericolo: servire sempre Dio come servitori fedeli, non conoscere la gioia di essere con lui a casa, non riconoscere come fratello il figlio del proprio padre… E se non accettano la gioia di recuperare il fratello, finiscono per « rubare » a Dio la sua gioia e la sua paternità. Alla fine dipende dal ‘buono’ che il padre continui ad avere due figli ….
JUAN JOSE BARTOLOME sdb