Archive pour septembre, 2013

E SE DIO NON RISPONDE? – TESTO: SALMO 22

http://web.tiscali.it/alleluia/sediononrisponde.htm

MISSIONE CRISTIANA EVANGELICA

E SE DIO NON RISPONDE?

TESTO: SALMO 22

Penso che una delle cose più difficoltose per l’uomo, sia quella di accettare i momenti critici, e le prove che inevitabilmente tutti dobbiamo affrontare lungo il corso della vita, e quando dico accettare intendo viverli senza cadere in profonde depressioni, oppure in un vittimismo angosciante o in una forma di fastidiosa autocommiserazione, difficile, vero?
Difficile anche per coloro che come si dice in gergo « sono nella fede », anzi per i figlioli di Dio a volte sorgono ulteriori problemi.
Se non abbiamo ben compreso il fine della nostra fede si rischia la depressione spirituale, i dubbi assillano la mente: « Dio perché non rispondi? Forse il Signore mi ha abbandonato, forse sono troppo peccatore, a che serve conoscere un Dio che nel momento del bisogno mi abbandona? » Questi possono essere solo alcuni dei pensieri che assillano la mente di un credente quando attraversa momenti di prova, e la sua fede non è ancora profondamente radicata in Cristo.
Un’esperienza che ci sconcerta.
Leggendo le parole di questo Salmo restiamo sconcertati: « Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato… perché te ne stai lontano senza soccorrermi… perché non mi rispondi? » Certamente tutti conoscono queste parole, sono le stesse che Gesù pronunciò, circa mille anni dopo, alla croce nel momento della sua estrema sofferenza, nel momento in cui Lui, « Dio benedetto in eterno », fu fatto peccato al nostro posto.
Conosciamo la portata profetica di tutto questo salmo, ma non dimentichiamoci che la persona che le stava pronunciando in quel momento era il re Davide in preda ad una reale e profonda angoscia, accerchiato da crudeli nemici, vittima degli scherni, e per di più con il dubbio di essere abbandonato dal suo Dio nel quale aveva riposto tutta la sua fiducia.
Sono parole che ci sgomentano, noi non siamo abituati a questo tenore di preghiera, siamo più propensi ad afferrare le esclamazioni di lode e di giubilo per l’esaudimento immediato, cogliamo al volo, e facciamo subito nostre espressioni del tipo: « Dio è un aiuto sempre pronto nella distretta…e avverrà che prima ancora che essi parlino Io li esaudirò… tutto quello che chiedete in preghiera credete di averlo già ottenuto… », ma sentire queste parole così negative ci sgomenta, eppure sono scritte, fanno parte di un’esperienza vissuta.
Domanda: ma veramente Dio può permettere una simile prova nella vita dei suoi figlioli? Perché Dio non si affretta a rispondere quando soffro così tanto e sono angosciato? Perché devo continuare a camminare nel buio, senza vedere la fine della mia sofferenza? Perché, se sono un figliolo di Dio sono ridotto in uno stato così misero, e tutte le circostanze negative sembrano prendere il sopravvento? Perché il nemico si beffa di me, Signore dove sono le tue promesse?

E’ lecito dubitare dell’amore di Dio?
Quando Dio ritarda nel rispondere alle nostre preghiere per essere liberati dalle circostanze avverse, malgrado tutte le esperienze di liberazione e provvidenza divina vissute nel passato, riusciamo lo stesso a dubitare del suo amore, eppure non dovrebbe essere così, se veramente abbiamo realizzato, non con l’intelligenza, ma nel nostro cuore la realtà di Romani 8:35-39, un passo dove non si parla di liberazioni, di guarigioni, di debiti annullati o di ogni sorta di problemi risolti in dimostrazione dell’amore di Dio, al contrario ci dice che malgrado tutte queste cose ci possano capitare, possiamo avere ancora piena fiducia che Dio ci ama, e niente e nessuno potrà separarci dal suo amore, ed Egli ce ne da la conferma assoluta avendoci donato il suo unigenito Figliolo, nel quale abbiamo la redenzione e la remissione di tutti i nostri peccati e la vita eterna in dono. Davanti alla grandezza del dono universale e gratuito di Dio potremmo ancora dubitare?
Motivazioni sbagliate per le quali credere che Dio non ci possa esaudire.
Vi sono quattro errori fondamentali che impediscono al credente di affrontare le svariate prove senza cadere vittima della depressione e dello scoraggiamento, venendo quasi meno nella fede, e tutti e quattro gli errori hanno la stessa radice: un concetto errato della fede.
Quando le difficoltà ci assillano, le prove della vita ci tagliano le gambe, e Dio sembra non si curi di noi, e non ci risponde, non solo cominciamo a dubitare del suo amore, ma s’innesca un perverso e pericoloso meccanismo nella nostra mente, e ahimè a volte anche nella mente di coloro che ci dovrebbero essere di aiuto e sostegno.
Credere che Dio sia obbligato a rispondere a tutte le nostre richieste.
« Io v’ho scritto queste cose affinché sappiate che avete la vita eterna, voi che credete nel nome del Figliuol di Dio. E questa è la confidanza che abbiamo in lui: che se domandiamo qualcosa secondo la sua volontà, Egli ci esaudisce; e se sappiamo ch’Egli ci esaudisce in quel che gli chiediamo, noi sappiamo di aver le cose che gli abbiamo domandate ». I Giov.5:13-15.
Alcuni credenti pensano che Dio sia obbligato a rispondere a tutte le nostre richieste, sempre e subito, e quando questo non avviene cadono in depressione, sono terrorizzati, si sentono abbandonati da Dio. Soffrono realmente, ma non per causa di una prova particolare, ma a causa della loro immaturità. Spiritualmente parlando sono come un bambino capriccioso, che non vedendo raccolte le proprie richieste e realizzato il proprio sogno, piange urla e strepita.
Dio non ci darà cose inutili, superflue o peggio ancora, dannose al nostro benessere spirituale, e non esaudirà le richieste che non sono conformi alla sua volontà, a meno che anche noi come il popolo d’Israele nel deserto non vogliamo nauseare il Signore con la nostra ribellione e ingratitudine, allora il Signore ci esaudirà, e otterremo secondo le nostre voglie carnali, ma conosciamo il risultato: Dio mandò quaglie perché il popolo voleva carne era stanco della manna, ma l’abbondanza di carne a causa della loro concupiscenza sfrenata divenne anche la loro rovina.
Credere che Dio non risponde perché abbiamo poca fede.
Noi non dobbiamo riposare e confidare sulla quantità della nostra fede, ma dobbiamo confidare nell’amore di Dio, nella sua fedeltà. Egli c’esaudisce perché è fedele.
La vera motivazione per la quale ci soccorre, è perché ci ama ed ha compassione. Se per esempio un padre dovesse vedere il proprio figlio nella sofferenza, ferito e impaurito, non tarderebbe a prestargli soccorso, senza soffermarsi ad analizzare la qualità e la quantità della sua fiducia di essere soccorso, corre in suo aiuto per amore, qualunque sia la sua condizione!
Provate a pensare all’episodio dei discepoli nella barca in mezzo alla tempesta. Gesù, non sgridò i discepoli perché non seppero calmare i venti o le onde con la forza della loro fede, e nemmeno gli lo avrebbe richiesto, ma li sgridò perché non avevano avuto fiducia in Lui. Pensate che Gesù li avrebbe lasciati morire? Avrebbero potuto continuare a navigare in mezzo alla tempesta, e non uno di loro sarebbe morto, perché Gesù era con loro, e d’altra parte non li lasciò affogare a causa della scarsa qualità della loro fede, ma al momento opportuno li soccorse.
Dio ha fatto delle promesse, ed una di queste è che nessuno dei suoi figlioli sarà abbandonato, e c’invita ad accostarci con « piena fiducia al trono della grazia con piena fiducia di essere soccorsi al momento opportuno ». Egli non verrà meno alle sue promesse « se tarda aspettala…ma il mio giusto vivrà per fede ».
Dio non desidera una fede enorme e perfetta, ma una fede semplice che crede nella sua bontà e nel suo amore, anche quando tutto sembra smentirlo. « Come un padre è pietoso verso i suoi figliuoli, così è pietoso l’Eterno verso quelli che lo temono. Poiché egli conosce la nostra natura; egli si ricorda che siam polvere ». Salmo 103:13-14.

Credere che le nostre dichiarazioni positive siano determinanti per l’esaudimento.
Forse qualcuno ti ha indotto a credere che devi sempre esprimerti in modo positivo quando ti rivolgi a Dio, guai ad esprimere qualche piccolo dubbio, e quando preghi devi confessare positivamente di avere già ottenuto quello che chiedi, in caso contrario Dio è pronto a trattenere tutte le sue benedizioni.
Vorrei portarvi l’esempio di Giobbe, diceva sua moglie: « Maledici Dio e poi muori », più negativa di così!! Giobbe non fa altro che lamentarsi durante tutto il periodo della sua terribile prova. Altro che ringraziare il Signore per fede della liberazione e della guarigione! Voleva morire, si ribellava, contendeva con Dio, di una cosa sola era certo: « Io so che il mio Redentore vive… ed un giorno lo vedrò a me favorevole ». Giobbe 19:25.
Nel tempo stabilito, dopo che Dio ebbe compiuto la sua opera nella vita di Giobbe, la sua fede era stata provata, e la sua relazione con Dio assume una giusta prospettiva, ecco che venne la liberazione dalla prova, ma di certo non possiamo imputarne il merito alle « dichiarazioni di fede » pronunciate da Giobbe, ma alla fedeltà di Dio, alla sua compassione!
Credere che il mancato esaudimento sia causato dalla nostra condizione di peccatori.
Non è corretto pensare che i nostri peccati siano la causa diretta delle prove, e del fatto che Dio ritardi la sua risposta. Se abbiamo sinceramente confessato i nostri peccati davanti a Dio, di sicuro non saranno un impedimento alle nostre preghiere, in ogni caso se Dio dovesse trattarci secondo le nostre trasgressioni, nessuno, dico nessuno potrebbe essere esaudito, « O Eterno, se tu poni mente alle iniquità, Signore, chi potrà reggere?  Ma presso te v’è perdono affinché tu sia temuto. Io aspetto l’Eterno, l’anima mia l’aspetta, ed io spero nella sua parola ». Salmo 130:3-4.
Se vi dovesse capitare di trovare un gioiello sporco e infangato, la raccogliereste lo stesso, perché riconoscete che ha ancora il suo valore, per Dio abbiamo sempre valore, malgrado la nostra condizione sia molto simile a quella di quel gioiello, Dio ci ascolta, ci accoglie e ci esaudisce secondo la sua volontà e in virtù della Sua grazia, non per i nostri meriti.
Questo non significa che possiamo trattare con leggerezza il peccato, ma nessuno potrà vantarsi di essere esaudito per la propria giustizia, poiché davanti a Dio siamo tutti peccatori e la nostra giustizia è come un abito sporco, ma per la giustizia che ci ha donato in Cristo, e solo nel suo nome siamo esauditi.
Validi motivi per continuare a confidare in Dio, anche se tarda a rispondere.
Esistono delle motivazioni valide per le quali Dio a volte ritarda dal liberarci dalle nostre distrette? Si! Ed è fondamentale conoscerle e capirne l’importanza, per riuscire a sopportare la prova, e fare in modo che le nostre sofferenze non siano fine a se stesse, ma che sotto la guida del divino Maestro possano diventare un motivo di crescita e maturazione spirituale.
Attenzione non sto affermando che le prove e le sofferenze ci possano fare acquistare dei meriti davanti a Dio, ma possono diventare nelle sue mani quello strumento di potatura per fare sì che spariscono i rami secchi dalla nostra vita spirituale, e che portiamo frutto… più frutto… molto frutto, ossia crescere alla statura di Cristo.
La disciplina di Dio.
Non ha nulla a che vedere con la vendetta o la ritorsione, ma è ha scopo pedagogico, e terapeutico, ed è dettata dall’amore, « Voi non avete ancora resistito fino al sangue, lottando contro il peccato; e avete dimenticata l’esortazione a voi rivolta come a figliuoli: Figliuol mio, non far poca stima della disciplina del Signore, e non ti perder d’animo quando sei da lui ripreso; perché il Signore corregge colui ch’Egli ama, e flagella ogni figliuolo ch’Egli gradisce. È a scopo di disciplina che avete a sopportar queste cose. Iddio vi tratta come figliuoli; poiché qual è il figliuolo che il padre non corregga?  Che se siete senza quella disciplina della quale tutti hanno avuto la loro parte, siete dunque bastardi, e non figliuoli. Inoltre, abbiamo avuto per correttori i padri della nostra carne, eppur li abbiamo riveriti; non ci sottoporremo noi molto più al Padre degli spiriti per aver vita? Quelli, infatti, per pochi giorni, come parea loro, ci correggevano; ma Egli lo fa per l’util nostro, affinché siamo partecipi della sua santità. Or ogni disciplina sembra, è vero, per il presente non esser causa d’allegrezza, ma di tristizia; però rende poi un pacifico frutto di giustizia a quelli che sono stati per essa esercitati ». Ebrei 12:5-8.
Dio per mezzo della disciplina che esercita nella nostra vita, ci guarisce dalla superficialità, dall’egoismo, dall’egocentrismo.
La scuola della sofferenza.
C’è qualche cosa nella Parola di Dio che ci fa pensare, molti parlano del benessere, delle guarigioni, Paolo fu uno strumento eletto da Dio per servirlo, ma avrebbe dovuto soffrire. « Ma il Signore gli disse: Va’, perché egli è uno strumento che ho eletto per portare il mio nome davanti ai Gentili, ed ai re, ed ai figliuoli d’Israele; poiché io gli mostrerò quante cose debba patire per il mio nome ». Atti 9:15.
Come credenti siamo predestinati a diventare ad immagine di Gesù Cristo, ma questa crescita, questo sviluppo avverrà per mezzo anche della sofferenza, delle prove, come del resto è stato per Gesù Cristo uomo.
La scuola della compassione.
Solo coloro che hanno passato la scuola della sofferenza possono capire chi soffre, ed esercitarsi nella compassione, solo coloro che sono stati consolati dall’amore di Cristo nel mezzo della prova possono a loro volta consolare efficacemente. « Benedetto sia Iddio, il Padre del nostro Signore Gesù Cristo, il Padre delle misericordie e l’Iddio d’ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra afflizione, affinché, mediante la consolazione onde noi stessi siam da Dio consolati, possiam consolare quelli che si trovano in qualunque afflizione ». II Cor.1:3-4.
Conclusione.
Ribellarti e contendere con Dio non ti sarà di aiuto, nei momenti di prova la vera forza e consolazione risiedono nella fiducia in Dio. Anche se ritarda aspettalo, sii fedele. Non lasciarti sedurre dal nemico della nostra anima, che tenterà di trascinarti nel dubbio, facendoti credere che Dio non ti ama, o ti trasporterà nel pantano di strane teologie umane.
Ricordati ci vuole molta più fede nel credere che l’uomo non vive solamente di pane, ma di ogni parola che procede dalla bocca dell’Eterno, piuttosto che adoperarsi per trasformare delle pietre in pane, non ascoltare la voce del diavolo che vuole scambiare la fede con il tentare Dio, non ti servirà salire su uno dei tanti pinnacoli umani per gettarti e provare la fedeltà di Dio.
Ricordati Dio ti ama così come sei e ti accoglie così come sei, ti esaudirà malgrado quello che sei, e se ti sta provando pensa che ti reputa prezioso e ha ritenuto opportuno migliorare la tua condizione, Dio ti ama troppo per lasciarti come sei, e vuole prepararti per la sua gloria « considerate come argomento di completa allegrezza le svariate prove in cui vi venite a trovare… ».

AMEN                                                                                  

Caravaggio, San Matteo

Caravaggio, San Matteo dans immagini sacre The_Inspiration_of_Saint_Matthew_by_Caravaggio

http://it.wikipedia.org/wiki/Matteo_apostolo_ed_evangelista

 

Publié dans:immagini sacre |on 20 septembre, 2013 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI: MATTEO – 21 SETTEMBRE SAN MATTEO APOSTOLO

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2006/documents/hf_ben-xvi_aud_20060830_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

AULA PAOLO VI

MERCOLEDÌ, 30 AGOSTO 2006

MATTEO – 21 SETTEMBRE SAN MATTEO APOSTOLO

Cari fratelli e sorelle,

proseguendo nella serie dei ritratti dei dodici Apostoli, che abbiamo cominciato alcune settimane fa, oggi ci soffermiamo su Matteo. Per la verità, delineare compiutamente la sua figura è quasi impossibile, perché le notizie che lo riguardano sono poche e frammentarie. Ciò che possiamo fare, però, è tratteggiare non tanto la sua biografia quanto piuttosto il profilo che ne trasmette il Vangelo.
Intanto, egli risulta sempre presente negli elenchi dei Dodici scelti da Gesù (cfr Mt 10,3; Mc 3,18; Lc 6,15; At 1,13). Il suo nome ebraico significa “dono di Dio”. Il primo Vangelo canonico, che va sotto il suo nome, ce lo presenta nell’elenco dei Dodici con una qualifica ben precisa: “il pubblicano” (Mt 10,3). In questo modo egli viene identificato con l’uomo seduto al banco delle imposte, che Gesù chiama alla propria sequela: “Andando via di là, Gesù vide un uomo seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: «Seguimi!». Ed egli si alzò e lo seguì” (Mt 9,9). Anche Marco (cfr 2,13-17) e Luca (cfr 5,27-30) raccontano la chiamata dell’uomo seduto al banco delle imposte, ma lo chiamano “Levi”. Per immaginare la scena descritta in Mt 9,9 è sufficiente ricordare la magnifica tela di Caravaggio, conservata qui a Roma nella chiesa di San Luigi dei Francesi. Dai Vangeli emerge un ulteriore particolare biografico: nel passo che precede immediatamente il racconto della chiamata viene riferito un miracolo compiuto da Gesù a Cafarnao (cfr Mt 9,1-8; Mc 2,1-12) e si accenna alla prossimità del Mare di Galilea, cioè del Lago di Tiberiade (cfr Mc 2,13-14). Si può da ciò dedurre che Matteo esercitasse la funzione di esattore a Cafarnao, posta appunto “presso il mare” (Mt 4,13), dove Gesù era ospite fisso nella casa di Pietro.
Sulla base di queste semplici constatazioni che risultano dal Vangelo possiamo avanzare un paio di riflessioni. La prima è che Gesù accoglie nel gruppo dei suoi intimi un uomo che, secondo le concezioni in voga nell’Israele del tempo, era considerato un pubblico peccatore. Matteo, infatti, non solo maneggiava denaro ritenuto impuro a motivo della sua provenienza da gente estranea al popolo di Dio, ma collaborava anche con un’autorità straniera odiosamente avida, i cui tributi potevano essere determinati anche in modo arbitrario. Per questi motivi, più di una volta i Vangeli parlano unitariamente di “pubblicani e peccatori” (Mt 9,10; Lc 15,1), di “pubblicani e prostitute” (Mt 21,31). Inoltre essi vedono nei pubblicani un esempio di grettezza (cfr Mt 5,46: amano solo coloro che li amano) e menzionano uno di loro, Zaccheo, come “capo dei pubblicani e ricco” (Lc 19,2), mentre l’opinione popolare li associava a “ladri, ingiusti, adulteri” (Lc 18, 11). Un primo dato salta all’occhio sulla base di questi accenni: Gesù non esclude nessuno dalla propria amicizia. Anzi, proprio mentre si trova a tavola in casa di Matteo-Levi, in risposta a chi esprimeva scandalo per il fatto che egli frequentava compagnie poco raccomandabili, pronuncia l’importante dichiarazione: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati: non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori” (Mc 2,17).
Il buon annuncio del Vangelo consiste proprio in questo: nell’offerta della grazia di Dio al peccatore! Altrove, con la celebre parabola del fariseo e del pubblicano saliti al Tempio per pregare, Gesù indica addirittura un anonimo pubblicano come esempio apprezzabile di umile fiducia nella misericordia divina: mentre il fariseo si vanta della propria perfezione morale, “il pubblicano … non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore»”. E Gesù commenta: “Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato, ma chi si umilia sarà esaltato” (Lc 18,13-14). Nella figura di Matteo, dunque, i Vangeli ci propongono un vero e proprio paradosso: chi è apparentemente più lontano dalla santità può diventare persino un modello di accoglienza della misericordia di Dio e lasciarne intravedere i meravigliosi effetti nella propria esistenza. A questo proposito, san Giovanni Crisostomo fa un’annotazione significativa: egli osserva che solo nel racconto di alcune chiamate si accenna al lavoro che gli interessati stavano svolgendo. Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni sono chiamati mentre stanno pescando, Matteo appunto mentre riscuote il tributo. Si tratta di lavori di poco conto – commenta il Crisostomo -  “poiché non c’è nulla di più detestabile del gabelliere e nulla di più comune della pesca” (In Matth. Hom.: PL 57, 363). La chiamata di Gesù giunge dunque anche a persone di basso rango sociale, mentre attendono al loro lavoro ordinario.
Un’altra riflessione, che proviene dal racconto evangelico, è che alla chiamata di Gesù, Matteo risponde all’istante: “egli si alzò e lo seguì”. La stringatezza della frase mette chiaramente in evidenza la prontezza di Matteo nel rispondere alla chiamata. Ciò significava per lui l’abbandono di ogni cosa, soprattutto di ciò che gli garantiva un cespite di guadagno sicuro, anche se spesso ingiusto e disonorevole. Evidentemente Matteo capì che la familiarità con Gesù non gli consentiva di perseverare in attività disapprovate da Dio. Facilmente intuibile l’applicazione al presente: anche oggi non è ammissibile l’attaccamento a cose incompatibili con la sequela di Gesù, come è il caso delle ricchezze disoneste. Una volta Egli ebbe a dire senza mezzi termini: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel regno dei cieli; poi vieni e seguimi” (Mt 19,21). E’ proprio ciò che fece Matteo: si alzò e lo seguì! In questo ‘alzarsi’ è legittimo leggere il distacco da una situazione di peccato ed insieme l’adesione consapevole a un’esistenza nuova, retta, nella comunione con Gesù.
Ricordiamo, infine, che la tradizione della Chiesa antica è concorde nell’attribuire a Matteo la paternità del primo Vangelo. Ciò avviene già a partire da Papia, Vescovo di Gerapoli in Frigia attorno all’anno 130. Egli scrive: “Matteo raccolse le parole (del Signore) in lingua ebraica, e ciascuno le interpretò come poteva” (in Eusebio di Cesarea, Hist. eccl. III,39,16). Lo storico Eusebio aggiunge questa notizia: “Matteo, che dapprima aveva predicato tra gli ebrei, quando decise di andare anche presso altri popoli scrisse nella sua lingua materna il Vangelo da lui annunciato; così cercò di sostituire con lo scritto, presso coloro dai quali si separava, quello che essi perdevano con la sua partenza” (ibid., III, 24,6). Non abbiamo più il Vangelo scritto da Matteo in ebraico o in aramaico, ma nel Vangelo greco che abbiamo continuiamo a udire ancora, in qualche modo, la voce persuasiva del pubblicano Matteo che, diventato Apostolo, séguita ad annunciarci la salvatrice misericordia di Dio e ascoltiamo questo messaggio di san Matteo, meditiamolo sempre di nuovo per imparare anche noi ad alzarci e a seguire Gesù con decisione.

22 SETTEMBRE 2013 – 25A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C : LECTIO DIVINA SU: LC 16,1-13

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/03-annoC/annoC/12-13/05-Ordinario/Omelie/25-Domenica-2913_C/25-Domenica-2013_C-JB.html

22 SETTEMBRE 2013  | 25A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C  |  PROPOSTA DI LECTIO DIVINA

LECTIO DIVINA SU: LC 16,1-13

Non concorda bene con l’immagine che ci facciamo di Gesù il fatto che un giorno osasse proporre ai suoi discepoli come esempio da seguire la condotta disonesta di un amministratore infedele: c’è poco da imparare da un uomo che ha sperperato i beni che gli erano stati affidati e che, prima di dar conto della sua gestione, ha sistemato il suo futuro personale a costo di impoverire il suo padrone. Il denaro del suo signore gli è servito per assicurarsi la benevolenza dei debitori del suo signore. Perdonare i debiti altrui è un buon modo di farseli amici. E’ comprensibile che una persona tanto ‘sveglia’ ci risulti simpatica; potremmo persino invidiare sotto sotto il suo modo di agire, però difficilmente oseremmo elogiarla in pubblico né, ancor meno, giungeremmo a presentarla come esempio da seguire. Cosa, allora, Gesù voleva esattamente insegnare ai suoi discepoli?

In quel tempo, 1disse Gesù ai suoi discepoli, »Un uomo ricco aveva un amministratore, ma fu accusato di aver sprecato i suoi beni. 2 Lo chiamò e gli disse: « Che cosa è che sento di te? Rendimi conto della tua gestione, perché sei licenziato ». L’amministratore 3 si mise a pensare dicendo fra se: « Che cosa devo fare ora che il mio padrone mi toglie il lavoro perché non ho le forze di lavorare e a mendicare mi vergogno? 4Faccio in modo che quando perdo l’amministrazione, trovo che mi accolga in casa ». 5 Chiamò uno per uno i debitori del padrone e disse al primo: ‘Quanto devi al mio padrone’? 6 Rispose: « Cento barili d’olio ». Egli disse: « Prendi la tua ricevuta, siediti e scrivi cinquanta ». 7 Poi disse a un altro, ‘E tu quanto devi’? Egli rispose: « Cento misure di grano ». Egli disse: « Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta ». 8E il padrone lodò il fattore infedele, per l’astuzia con cui aveva agito. Di certo, i figli di questo mondo sono più astuti nel trattare con la loro gente che i figli della luce.
9 E io vi dico: Fatevi degli amici con la disonesta ricchezza, perché quand’essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne. 10 Chi è fedele nel poco sarà fedele anche nel molto, e chi è disonesto nel poco sarà disonesto anche nel molto. 11 Se non siete degni di fiducia nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? 12 Se non sei degno di fiducia con ciò che appartiene a un altro, chi vi darà la vostra? 13 Nessun servo può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà al primo e ignorerà la seconda. Non potete servire Dio e il denaro ».

 1. LEGGERE: CAPIRE QUELLO CHE DICE IL TESTO FACENDO ATTENZIONE A COME LO DICE
L’insegnamento di Gesù, diretto esclusivamente ai suoi discepoli, non è motivato preventivamente. E’ composto da due parti: la parabola dell’amministratore ingiusto (Lc 16,1-8) e un commento che applica alla vita di chi lo ascoltava il messaggio della parabola (Lc 16,9-13).
La parabola, che loda espressamente l’astuzia di un gestore corrotto, il minimo che suscita è perplessità e stupore. Non c’è molto da elogiare in chi falsifica i bilanci con lo scopo di assicurarsi una buona vita. Ben compresa la storia, Gesù non considera buono un modo di fare senza dubbio disonesto, ma la prontezza e la sagacità con cui ha reagito l’amministratore dinanzi all’inevitabile disgrazia di vedersi presto licenziato. In realtà, l’amministratore non ha fatto altro che ciò che sempre faceva, dilapidare i beni del suo padrone. Però oltre a confermare il suo impudente comportamento, ha avuto prontezza di spirito e astuzia sufficienti per affrontare la disavventura che gli stava per sopraggiungere. Gesù non loda, allora, un comportamento svergognato e ingiusto, ma la rapida reazione e la inventiva soluzione che sa dare al suo problema. Gesù conclude, questo sì, con un certo pessimismo che deve darci da pensare: i figli di questo mondo sono più furbi dei figli della luce; sanno guadagnarsi amici e un avvenire con ciò che hanno in mano, anche se non appartiene loro.
Con alcune dichiarazioni, che non si combinano bene tra loro né rendono più comprensibile il messaggio della parabola, Gesù continua il suo insegnamento, allontanandosi poco a poco dal suo senso centrale. In contrapposizione con l’amministratore infedele, i suoi discepoli devono essere onorati, gestendo quel poco che hanno; non saranno affidabili né riceveranno doni più grandi, se non sono stati fedeli nelle piccole cose. E cosa ancor più sorprendente: per ricevere quello che ci è dovuto, che è nostro, bisogna essersi mostrati giusti con ciò che non ci apparteneva.
Gesù conclude la sua istruzione superando pienamente il tema del discorso. Non si tratta di amministrare bene o meno bene le risorse di altri, ma che tra i beni degli altri o miei, e Dio, c’è un’opposizione inconciliabile. Una cosa è la gestione dei beni altrui e un’altra, ben diversa, è lasciarsi gestire da Dio. Come un servo non può avere più di un signore, il discepolo non può servire altri che Dio. Anche se di passaggio, bisogna segnalare la capacità di ingannare, e incatenare l’uomo che ha il denaro, perché gli si oppone niente meno che Dio. I migliori beni sono il peggior nemico del Bene supremo.

 2. MEDITARE: APPLICARE ALLA VITA QUELLO CHE DICE IL TESTO!
La parabola di Gesù sorprende, solo se la si separa dalla sua intenzione di base: Gesù non loda i traffici dell’amministratore infedele, il suo inganno e lo sperpero. In realtà, disponendo per l’ultima volta di ciò che non è suo, egli non fa altro che confermare ciò che sempre aveva fatto e legittimare il castigo che riceve. L’astuzia del cattivo amministratore non è consistita nel riservare per sé beni altrui. E’ stato infedele fino alla fine, però previdente: ha fatto di tutto per procurarsi amici nel tempo della disgrazia. Però c’è qualcosa di esemplare nel suo comportamento, dal quale potremmo imparare noi cristiani: ad una comunità, troppo irretita nelle realtà terrene, è necessario ricordare le sue responsabilità. I cristiani dovranno dare conto di quanto è stato loro posto tra le mani e sarebbe meglio che imparassero a destreggiarsi con la stessa astuzia dell’amministratore infedele; non è proprio ciò che si ha, la vita è amministrazione di beni altrui; non si loda la sua ripetuta disonestà con i beni che non sono suoi, egli prevede la sistemazione del proprio futuro, proprio perché lo vede incerto e minaccioso. La prima cosa che Gesù ci vuole insegnare è che tutti gestiamo dei beni che non sono nostri, che non abbiamo prodotto noi e che non ci appartengono. L’uomo è amministratore, non signore, di quanto ha a disposizione. Deve, allora, considerare ciò che ha come prestato e sentirsi obbligato a rendere conto. Quando smettiamo di sentirci responsabili di quanto abbiamo, abbiamo iniziato a smettere di sentirci grati per quanto abbiamo ricevuto. Nella vita amministriamo beni di un Altro, che è, in realtà, il Bene che dà origine e mantiene bene ogni cosa.
Però una fedele amministrazione – e questo dovrebbe farci pensare molto – per essere lodati dal Signore, deve saper prevenire, con prontezza e immaginazione; deve saper rischiare il presente con ciò di cui si dispone per assicurarsi il futuro che non è nelle nostre mani. Astuzia e perspicacia vuole Gesù dai suoi: i figli della luce non devono dormire, solo perché amministrano bene i beni ricevuti dal loro Signore. Gesù non vuole infedeltà nei suoi – nella parabola, l’infedele, anche se lodato, è « condannato » -; esige, questo sì, discernimento e audacia, abilità e previsione. Non basta l’onestà, si richiede astuzia per essere figlio della luce!
Il commento alla parabola (Lc 16,9-13) aiuta la sua comprensione, anche se il suo senso scivola un po’: chi non ha saputo amministrare i beni fugaci, non sarà degno di ricevere quelli permanenti. Dio non pensa a dare maggiori beni a chi non ha saputo gestire i piccoli che ha avuto; non metterà i beni che gli appartengono nelle mani di chi ha dissipato i beni altrui. Non si tratta di amministrare, bene o male, ma di riuscire ad amministrare il piccolo, il poco. Dio sta pensando a dare di più a chi è riuscito ad amministrare poco; Dio si è impegnato a concederci il nostro, solo se siamo riusciti a gestire bene il suo, poco o molto. Consola sapere che abbiamo poco a disposizione e che, se ben amministrato, abbiamo già assicurato tutto il bene che Dio si è impegnato a darci. Non concorda bene con l’immagine che ci facciamo di Gesù il fatto che, come abbiamo appena ascoltato, un giorno si azzardasse a proporre ai suoi discepoli come esempio la condotta di un amministratore disonesto. C’è poco da imparare da un uomo che ha dilapidato i beni che gli erano stati affidati e che, prima di dar conto della sua amministrazione, costruì il suo futuro personale impoverendo il suo padrone; il denaro del suo signore gli servì per assicurarsi la benevolenza dei suoi debitori; perdonare debiti altrui è una buona maniera di farseli amici. E’ comprensibile che una persona tanto « sveglia » ci risulti simpatica; potremmo perfino segretamente invidiare il suo modo di fare, però difficilmente oseremmo elogiarla in pubblico né, tanto meno, giungeremmo a presentarla come esempio da seguire. Questo è, proprio, ciò che ha fatto Gesù: qualcosa di buono ha dovuto trovare nel comportamento di questo figlio di questo mondo per poterlo proporre ai suoi discepoli. E’ evidente che Gesù non elogiò l’irresponsabilità dell’amministratore, quando dilapidò i beni del suo padrone; né tantomeno la sua sfacciataggine, quando, una volta scoperto e licenziato, dimezzò i debiti del suo signore per ingraziarsi i suoi debitori: l’amministratore infedele è esempio per i figli della luce per la sua astuzia; ha saputo prepararsi per il momento della disgrazia per potersi accattivare la gratitudine dei debitori del suo padrone; se prima aveva amministrato male il denaro altrui senza pensare al suo futuro, ora che sapeva di restare sulla strada, avrebbe potuto, almeno, contare sull’ospitalità di tutti coloro ai quali aveva condonato il debito del suo signore; prima la cattiva amministrazione non gli aveva procurato amicizie, senza cambiare la sua pessima amministrazione decide di beneficare ora quelli dai quali spera ricevere dei benefici. Non è stato molto fedele, però nemmeno stupido, questo amministratore. Si è guadagnato amici con il denaro ingiusto: per la sua astuzia nel prepararsi un futuro, senza beni di cui disporre, però con amici a cui fare ricorso, l’amministratore infedele è stato considerato da Gesù come un esempio per i suoi discepoli. Senza dubbio, Gesù non voleva che i suoi discepoli copiassero dell’amministratore la sua ripetuta disonestà né la mancanza di scrupoli, quanto piuttosto la fantasia che ha avuto per cercare una soluzione alla sua situazione disperata e la velocità con la quale l’ha portata a compimento. Anche se disonesto, è stato, almeno, furbo. Oggi ci comportiamo come i discepoli di Gesù, da meno astuti della gente del mondo; continuiamo ad essere i figli della luce meno immaginativi, meno audaci, più timorosi, più pusillanimi dei figli delle tenebre. Dovrebbe sorprenderci che Gesù ci incalzi, come fece un giorno con i suoi primi discepoli, perché ci serviamo di quanto è alla nostra portata per assicurarci un avvenire senza problemi; dovrebbe meravigliarci che lui insista con noi affinché, dinanzi alla disgrazia prevedibile, visto il nostro modo infedele di vivere e amministrare i suoi doni, non perdiamo troppo tempo in lamenti inutili e approfittiamo di qualsiasi opportunità per prepararci una soluzione ai nostri mali: Gesù oggi ci raccomanda di cercare presto una soluzione ai nostri problemi con Dio; che il nostro passato di infedeltà non comprometta un futuro che possiamo ancora inventare ritrovando le amicizie perdute; che il nostro presente senza speranza non ci preoccupi tanto da non impegnarci a preparare un avvenire migliore; che non viviamo afflitti per quello che abbiamo fatto ieri tanto da non metterci a lavorare per evitare la disgrazia domani.
Mentre abbiamo qualcosa di cui disporre, mentre ci rimangono beni da amministrare, mentre viviamo, – la vita, non lo dimentichiamo, è il bene di Dio che amministriamo -, niente è totalmente perduto, ancora rimane qualche speranza: il Dio di Gesù sopporta meno l’omissione che l’infedeltà, preferisce l’astuzia all’inoperosità; valorizza l’inventiva più che la pigrizia e il disfattismo. Considera il non osare intraprendere nulla per timore di sbagliare qualcosa di più grave che lo sbagliarsi quando si stanno cercando soluzioni; il Dio di Gesù condanna prima coloro che non hanno fatto nulla piuttosto che coloro i quali, per costruirsi il futuro, non hanno evitato del tutto l’ingiustizia. E il padrone ha lodato l’amministratore ingiusto per l’astuzia con la quale aveva agito. Come il padrone della parabola, sapendo che non possiamo essere buoni amministratori, Dio ci vuole, per lo meno, pieni di immaginazione e di espedienti; se non riusciamo ad essergli fedeli del tutto, cerchiamo almeno di essere più furbi. Un Dio così, quello che Gesù predica, può risultarci un Dio insolito, un poco strano. Però, anche se ci sorprende un po’, perché non coincide con l’idea che abbiamo di Lui o con le nostre aspettative su di Lui, non per questo finisce di essere il Dio vero. Non dovremmo perdere molto tempo a superare la sorpresa che un simile Dio può causarci; sarebbe meglio che prendessimo sul serio ciò che Gesù vuole dire ai suoi discepoli: con il suo elogio dell’astuzia dell’amministratore infedele ci ha voluto liberare da quei complessi di colpa che ci impediscono di mettere a disposizione degli altri ciò che abbiamo; non essere buoni non ci deve portare a rifiutare di porre a disposizione degli altri i beni che abbiamo avuto da Dio; per non essere cattivi amministratori dei doni di Dio non dovremmo negarli al nostro prossimo; ancor più, ed è qui il paradosso, proprio perché siamo ingiusti nell’amministrazione, Dio non terrà conto della nostra ingiustizia quando serve al bene degli altri.
Come il sapersi infedele non trattenne l’amministratore della parabola dal dividere i beni che non gli appartenevano, e guadagnarsi così amici e accoglienza, così non dovremmo lasciarci bloccare né dalla coscienza dei nostri piccoli meriti né dinanzi l’esperienza della nostra grande debolezza; proprio perché non siamo sufficientemente buoni, possiamo permetterci il lusso di « sbagliarci » un po’ nell’amministrazione dei beni ricevuti, perdonando più del conto ed esigendo meno del dovuto a tutti. Su questo si basa l’astuzia dell’amministratore che merita le congratulazioni di Dio: dopo una vita di dubbia fedeltà, con alcuni beni mal amministrati oggi, possiamo guadagnarci la vita eterna e Dio. Non è poi tanto male, a pensarci bene. Così è il Dio di Gesù: è ciò che ha insegnato ai suoi discepoli. E ci faremo oggi discepoli di Gesù se accettiamo Dio così come Lui vuole essere per noi: se Dio non ci pone molte obiezioni, malgrado gli amministriamo male i beni, a condizione che li dividiamo a chi gli deve qualcosa, non dipenderà dalla nostra ingiustizia ma dalla nostra generosità – una generosità che non deve costarci troppo, poiché non sono nostri i doni -, la nostra salvezza. Chi potrà fare a meno di un simile Dio, se permette che defraudiamo Lui stesso a condizione che facciamo del bene agli altri?
Infine, e non è meno importante, Gesù vuole che il denaro, contante e suonante, non occupi in noi il luogo che dobbiamo riservare a Dio. Al contrario, non potremmo amministrare bene i pochi e scarsi beni che già abbiamo ricevuto. Solo chi ha Dio come Bene supremo sarà buon amministratore dei beni che possiede, siano molti o pochi; e per ottenerlo, si deve sapere che tutto ciò di cui uno dispone, si ha in prestito. Solo il buono di Dio è il nostro Bene; tutto il resto, è suo e viene da Lui e pertanto buono veramente. Se ci allontanasse da Lui, non sarebbe buono, sarebbe la nostra perdizione. Dovremmo renderci conto che ancora ci sono tante cose, persone o progetti, nella nostra esistenza che ci sembrano estremamente buone, ma che sono tanto cattive che ci separano dal buono di Dio o che, perfino, lo sostituiscono nel nostro cuore. In esso non entra altro che un Bene; fare posto ad altri supporrebbe allontanarlo oggi dalla nostra vita e perderlo per sempre.

JUAN JOSE BARTOLOME sdb

MARTIRI COREANI, ANDREA KIM TAEGON

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20 SETTTEMBRE: SANTI MARTIRI COREANI (ANDREA KIM TAEGON, PAOLO CHONG HASANG E 101 COMPAGNI)

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SANTI MARTIRI COREANI (ANDREA KIM TAEGON, PAOLO CHONG HASANG E 101 COMPAGNI)

20 settembre

L’azione dello Spirito, che soffia dove vuole, con l’apostolato di un generoso manipolo di laici è alla radice della santa Chiesa di Dio in terra coreana. Il primo germe della fede cattolica, portato da un laico coreano nel 1784 al suo ritorno in Patria da Pechino, fu fecondato sulla meta del secolo XIX dal martirio che vide associati 103 membri della giovane comunità. Fra essi si segnalano Andrea Kim Taegon, il primo presbitero coreano e l’apostolo laico Paolo Chong Hasang. Le persecuzioni che infuriarono in ondate successive dal 1839 al 1867, anziché soffocare la fede dei neofiti, suscitarono una primavera dello Spirito a immagine della Chiesa nascente. L’impronta apostolica di questa comunità dell’Estremo Oriente fu resa, con linguaggio semplice ed efficace, ispirato alla parabola del buon seminatore, del presbitero Andrea alla vigilia del martirio. Nel suo viaggio pastorale in quella terra lontana il Papa Giovanni Paolo II, il 6 maggio 1984, iscrisse i martiri coreani nel calendario dei santi. La loro memoria si celebra nella data odierna, perché un gruppo di essi subì il martirio in questo mese, alcuni il 20 e il 21 settembre. (Mess. Rom.)

Etimologia: Andrea = virile, gagliardo, dal greco

Emblema: Palma
Martirologio Romano: Memoria dei santi Andrea Kim Tae-gon, sacerdote, Paolo Chong Ha-sang e compagni, martiri in Corea. In questo giorno in un’unica celebrazione si venerano anche tutti i centotrè martiri, che testimoniarono coraggiosamente la fede cristiana, introdotta la prima volta con fervore in questo regno da alcuni laici e poi alimentata e consolidata dalla predicazione dei missionari e dalla celebrazione dei sacramenti. Tutti questi atleti di Cristo, di cui tre vescovi, otto sacerdoti e tutti gli altri laici, tra i quali alcuni coniugati altri no, vecchi, giovani e fanciulli, sottoposti al supplizio, consacrarono con il loro prezioso sangue gli inizi della Chiesa in Corea.
La Chiesa coreana ha la caratteristica forse unica, di essere stata fondata e sostenuta da laici; infatti agli inizi del 1600 la fede cristiana comparve in Corea tramite le delegazioni che ogni anno visitavano Pechino in Cina, per uno scambio culturale con questa Nazione, molto stimata in tutto l’Estremo Oriente.
E in Cina i coreani vennero in contatto con la fede cristiana, portando in patria il libro del grande padre Matteo Ricci “La vera dottrina di Dio”; e un laico, Lee Byeok grande pensatore, ispirandosi al libro del famoso missionario gesuita, fondò una prima comunità cristiana molto attiva.
Intorno al 1780, Lee Byeok pregò un suo amico Lee-sunghoon, che faceva parte della solita delegazione culturale in partenza per la Cina, di farsi battezzare e al ritorno portare con sé libri e scritti religiosi adatti ad approfondire la nuova fede.
Nella primavera del 1784 l’amico ritornò con il nome di Pietro, dando alla comunità un forte impulso; non conoscendo bene la natura della Chiesa, il gruppo si organizzò con una gerarchia propria celebrando il battesimo e non solo, ma anche la cresima e l’eucaristia.
Informati dal vescovo di Pechino che per avere una gerarchia occorreva una successione apostolica, lo pregarono di inviare al più presto dei sacerdoti; furono accontentati con l’invio di un prete Chu-mun-mo, così la comunità coreana crebbe in poco tempo a varie migliaia di fedeli.
Purtroppo anche in Corea si scatenò ben presto una persecuzione fin dal 1785, che si incrudeliva sempre più, finché nel 1801 anche l’unico prete venne ucciso, ma questo non bloccò affatto la crescita della comunità cristiana.
Il re nel 1802 emanò un editto di stato, in cui si ordinava addirittura lo sterminio dei cristiani, come unica soluzione per soffocare il germe di quella “follia”, ritenuta tale dal suo governo. Rimasti soli e senza guida spirituale, i cristiani coreani chiedevano continuamente al vescovo di Pechino e anche al papa di avere dei sacerdoti; ma le condizioni locali lo permisero solo nel 1837, quando furono inviati un vescovo e due sacerdoti delle Missioni Estere di Parigi; i quali penetrati clandestinamente in Corea furono martirizzati due anni dopo.
Un secondo tentativo operato da Andrea Kim Taegon, riuscì a fare entrare un vescovo e un sacerdote, da quel momento la presenza di una gerarchia cattolica in Corea non mancherà più, nonostante che nel 1866 si ebbe la persecuzione più accanita; nel 1882 il governo decretò la libertà religiosa.
Nelle persecuzioni coreane perirono, secondo fonti locali, più di 10.000 martiri, di questi 103 furono beatificati in due gruppi distinti nel 1925 e nel 1968 e poi canonizzati tutti insieme il 6 maggio 1984 a Seul in Corea da papa Giovanni Paolo II; di questi solo 10 sono stranieri, 3 vescovi e 7 sacerdoti, gli altri tutti coreani, catechisti e fedeli.
Di seguito diamo un breve tratto biografico dei due capoelenco liturgico del gruppo dei 103 santi martiri: Andrea Kim Taegon e Paolo Chong Hasang.
Andrea nato nel 1821 da una nobile famiglia cristiana, crebbe in un ambiente decisamente ispirato ai principi cristiani, il padre in particolare aveva trasformato la sua casa in una ‘chiesa domestica’, ove affluivano i cristiani ed i neofiti della nuova fede, per ricevere il battesimo, scoperto tenne con forza la sua fede, morendo a 44 anni martire.
Aveva 15 anni quando uno dei primi missionari francesi arrivati in Corea nel 1836, lo inviò a Macao per prepararlo al sacerdozio. Ritornò come diacono nel 1844 per preparare l’entrata del vescovo mons. Ferréol, organizzando una imbarcazione con marinai tutti cristiani, andando a prenderlo a Shanghai, qui fu ordinato sacerdote e insieme, di nascosto con un viaggio avventuroso, penetrarono in Corea, dove lavorarono insieme sempre in un clima di persecuzione.
Con la nobiltà del suo atteggiamento, con la capacità di comprendere la mentalità locale, riuscì ad ottenere ottimi risultati d’apostolato. Nel 1846 il vescovo Ferréol lo incaricò di far pervenire delle lettere in Europa, tramite il vescovo di Pechino, ma durante il suo incontro con le barche cinesi, fu casualmente scoperto ed arrestato.
Subì gli interrogatori e gli spostamenti di carcere prima con il mandarino, poi con il governatore e giacché era un nobile, alla fine con il re e a tutti manifestò la fedeltà al suo Dio, rifiutando i tentativi di farlo apostatare, nonostante le atroci torture; alla fine venne decapitato il 16 settembre del 1846 a Seul; primo sacerdote martire della nascente Chiesa coreana.
Paolo Chong Hasang. Eroico laico coreano, era nato nel 1795 a Mahyan, il padre Agostino e il fratello Carlo vennero martirizzati nel 1801, la sua famiglia composta da lui, la madre Cecilia e la sorella Elisabetta, venne imprigionata e privata di ogni bene, furono costretti ad andare ospiti di un parente, ma appena gli fu possibile si trasferì a Seul aggregandosi alla comunità cristiana; perlomeno quindici volte andò in Cina a Pechino in viaggi difficilissimi fatti a piedi, spinto dall’eroismo di una fede genuina, professata nonostante i gravi pericoli.
Collaborò alacremente affinché il primo sacerdote Yan arrivasse in Corea e poi dopo di lui i missionari francesi: il vescovo Imbert ed i sacerdoti Maubant e Chastan.
Fu accolto con la madre e la sorella dal vescovo Imbert, il quale desiderava farlo diventare sacerdote, ma la persecuzione infuriava e un apostata li tradì, facendoli imprigionare.
Paolo Chong Hasang venne interrogato e torturato per fargli abbandonare la religione straniera a cui si era associato, ma visto la sua grande fermezza, venne condannato e decapitato il 22 settembre 1839, insieme al suo caro amico Agostino Nyon, anche lui firmatario di una petizione al papa per l’invio di un vescovo in Corea. Anche la madre e la sorella vennero uccise dopo alcuni mesi.
Il vescovo e i due sacerdoti delle Missioni Estere di Parigi, vennero decapitati anche loro nel 1839.

Ecco l’elenco completo dei 103 martiri in Corea:

79110
Pietro Yi Ho-yong, laico
+ 25 novembre 1838 in una prigione di Seoul (Corea del Sud)

54185
Protasio Chong Kuk-bo, laico sposato
+ 20 maggio 1839 in una prigione di Seoul (Corea del Sud)

54610
Maddalena Kim Ob-i, laica sposata
Anna Pak A-gi, laica sposata
Agata Yi So-sa, laica sposata e sorella di Pietro Yi Ho-Yong
Agata Kim A-gi, laica sposata
Agostino Yi Kwang-hon, laico sposato e catechista
Barbara Han A-gi, laica sposata
Lucia Pak Hui-sun, laica
Damiano Nam Myong-hyok, laico sposato e catechista
Pietro Kwon Tug-in, laico sposato
+ 24 maggio 1839 presso la Piccola Porta Occidentale, Seoul (Corea del Sud)

54810
Giuseppe Chang Song-jib, laico sposato
+ 27 maggio 1839 in una prigione di Seoul (Corea del Sud)

54890
Barbara Kim, laica sposata
Barbara Yi, adolescente
+ 27 maggio 1839 a Seoul (Corea del Sud)

63720
Rosa Kim No-sa, laica sposata
Marta Kim Song-im, laica sposata
Teresa Yi Mae-im, laica
Anna Kim Chang-gum, laica sposata
Giovanni Battista Yi Kwang-hon, laico e catechista
Maddalena Yi Yong-hui, laica
Lucia Kim Nu-sia, giovane laica
Maria Won Kwi-im, giovane laica
+ 20 luglio 1839 a Seoul

68960
Maria Pak K’un-agi, laica
Barbara Kwon Hui, laica sposata
Giovanni Pak Hu-Jae, laico sposato
Barbara Yi Chong-Hui, laica sposata
Maria Yi Yon-Hui, laica sposata
Agnese Kim Hyo-Ch’u, giovane laica
+ 3 settembre 1839 a Seoul

70020
Francesco Ch’Oe Kyong-hwan, laico e catechista
+ 12 settembre 1839 a Seoul
93415
Lorenzo Maria Giuseppe Imbert, sacerdote della Società Parigina per le Missioni Esteree Vicario apostolico di Corea
Pietro Filiberto Maubant, sacerdote della Società Parigina per le Missioni Estere
Giacomo Onorato Chastan, sacerdote della Società Parigina per le Missioni Estere
+ 21 settembre 1839 a Sai-Nam-Hte

93403
Paolo Chong Ha-Sang, laico e catechista
Agostino Yu Chin-Kil, laico sposato
+ 22 settembre 1839 a Seoul

72090
Maddalena Ho Kye-Im, laica sposata
Sebastiano Nam I-Gwan, laico e catechista
Giulitta Kim, laica
Agata Chon Kyong-Hyob, laica
Carlo Cho Shin Ch’ol, laico
Ignazio Kim Che-Jun, laico sposato
Maddalena Pak Pong-Son, laica sposata
Perpetua Hong Kum-Ju, laica sposata
Colomba Kim Hyo-im, laica
+ 26 settembre 1839 a Seoul
Lucia Kim, laica sposata
+ un giorno ignoto di settembre 1839 a Seoul (ricordata con Sebastiano Nam-I-Gwan e compagni)
Caterina Yi, vedova laica
Maddalena Cho, laica, figlia di Caterina Yi
+ un giorno ignoto di settembre 1839 a Seoul (ricordate con Sebastiano Nam-I-Gwan e compagni)

92968
Pietro Yu Tae-Ch’ol, adolescente
+ 21 ottobre 1839 in una prigione di Seoul (Corea del Sud)

92974
Cecilia Yu So-sa, laica sposata
+ 23 novembre 1839, Seoul

83360
Barbara Cho Chung-i, laica sposata
Maddalena Han Yong-i, laica sposata
Pietro Ch’oe Ch’ang-hub, laico sposato e catechista
Benedetta Hyong Kyong-nyon, laica sposata e catechista
Elisabetta Chong Chong-hye, laica
Barbara Ko Sun-i, laica sposata
Maddalena Yi Yong-dok, laica
+ 29 dicembre 1839 a Seoul

36755
Teresa Kim, vedova laica
Agata Yi, giovane laica
+ 9 gennaio 1840 a Seoul

36755
Stefano Min Kuk-Ka, vedovo laico e catechista
+ 20 gennaio 1840 a Seoul

38560
Andrea Chong Hwa-Gyong, laico e catechista
+ 23 gennaio 1840 a Seoul

39130
Paolo Ho Hyob, laico
+ 30 gennaio 1840 a Seoul

39230
Agostino Pak Chong-won, laico sposato e catechista
Pietro Hong Pyong-ju, laico e catechista
Maddalena Son So-byok, laica sposata
Agata Yi Kyong-i, laica
Maria Yi In-dok, giovane laica
Agata Kwon Chin-i, giovane laica sposata
+ 31 gennaio 1840 a Dangkogae

39340
Paolo Hong Yong-ju, laico e catechista
Giovanni Yi Mun-u, laico sposato
Barbara Ch’oe Yong-i, giovane laica sposata
+ 01 febbraio 1840 a Seoul

51230
Antonio Kim Song-u, laico sposato e catechista
+ 29 aprile 1841 a Tangkogae

93402
Andrea Kim Tae-gon, sacerdote
+ 16 settembre 1846 a Sai-Nam-Hte

93408
Carlo Hyon Song-mun, laico e catechista
+ 19 settembre 1846 a Sai-Nam-Hte

70880
Pietro Nam Kyong-mun, laico sposato e catechista
Lorenzo Han I-hyong, laico sposato e catechista
Susanna U Sur-im, vedova laica
Giuseppe Im Ch’i-p’ek, laico sposato
Teresa Kim Im-i, laica
Agata Yi Kan-nan, vedova laica
Caterina Chong Ch’or-yom, laica sposata
+ 20 settembre 1846 a Seoul

41430
Pietro Yu Chong-Nyul, laico sposato
+ 17 febbraio 1866 a Pyongyang

92284
Simeone Francesco Berneux, sacerdote della Società Parigina per le Missioni Estere e Vicario apostolico di Corea
Simone Maria Giusto Ranfer de Bretenières, sacerdote della Società Parigina per le Missioni Estere
Pietro Enrico Dorie, sacerdote della Società Parigina per le Missioni Estere
Bernardo Luigi Beaulieu, sacerdote della Società Parigina per le Missioni Estere
+ 7 marzo 1866 a Sai-Nam-Hte

44210
Giovanni Battista Nam Chong-Sam, laico
+ 7 marzo 1866 a Seoul

44360
Giovanni Battista Chon Chang-Un, laico
Pietro Ch’oe Hyong, laico e catechista
+ 9 marzo 1866 a Nei-Ko-Ri

44610
Marco Chong Ui-Bae, laico, vedovo e catechista
Alessio U Se-Yong, giovane laico
+ 11 marzo 1866 a Seoul

47770
Antonio Daveluy, sacerdote della Società Parigina per le Missioni Estere e coadiutore del vicario apostolico di Corea
Martino Luca Huin, sacerdote della Società Parigina per le Missioni Estere
Pietro Aumaître, sacerdote della Società Parigina per le Missioni Estere
Giuseppe Chang Chu-Gi, laico e catechista
Luca Hwang Sok-Tu, laico sposato e catechista
Tommaso Son Cha-Son, laico
+ 30 marzo 1866 a Su-Ryong

81230
Bartolomeo Chong Mun-ho, laico
Pietro Cho Hwa-so, laico sposato, padre di Giuseppe Cho Yun-ho
Pietro Son Son-j, laico sposato e catechista
Pietro Yi Myong-so, laico sposato
Giuseppe Han Won-so, laico e catechista
Pietro Chong Won-ji, giovane laico sposato
+ 13 dicembre 1866 a Tiyen-Tiyon

82920
Giuseppe Cho Yun-ho, giovane laico e catechista, figlio di Pietro Cho Hwa-so
+ 23 dicembre 1866 a Tiyen-Tiyon

38425
Giovanni Yi Yun-Il, laico sposato
+ 21 gennaio 1867 a Daegu

Autore: Antonio Borrelli ed Emilia Flocchini

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Aggiunto il 2012-09-10

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SPIRITUALITA’ EUCARISTICHE

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SPIRITUALITA’ EUCARISTICHE

Il 18 ottobre, del 2009, ci siamo trovati a casa S. Paolo per il ritiro spirituale annuale della nostra Associazione L’Ora di Gesù, insieme al nostro assistente spirituale don Pasquale La Porta, con il nostro arcivescovo Mons. Benigno Luigi Papa, che ci ha offerto una meditazione per la nostra spiritualità. E’ stata una meditazione molto interessante che certamente rafforzerà il nostro spirito e darà nuovo respiro e nuova strada da percorrere alla nostra anima. Riportiamo integralmente la prima parte di queste riflessioni, non una sintesi, così da poterlo leggere e rivedere anche in futuro; non ci fidiamo molto della nostra memoria. E vogliamo offrire anche a chi non non è potuto venire la possibilità di essere messo al corrente del dono che ci ha fatto il nostro vescovo. Faremo tesoro delle sue parole. Lo ringraziamo per le tracce che ci ha lasciato e per i percorsi che ci ha suggerito, per meglio sviluppare la spiritualità eucaristica che è patrimonio e ricchezza della nostra associazione. Se non l’avevamo bene individuata, ora ciò è possibile.
Grazie per la vostra presenza e per la vostra adesione all’associazione L’Ora di Gesù, per la quale vorrei davvero che veramente ci fosse una partecipazione sempre più numerosa dei nostri fedeli. Mi è stato chiesto di tenere una meditazione in questa giornata di ritiro che voi fate a casa S. Paolo, sapendo che la meditazione insieme alla preghiera, alla lettura della sacra scrittura, alla liturgia, in modo particolare all’Eucarestia, sono le più urgenti della nostra vita spirituale. Per ravvivare la nostra vita secondo lo Spirito, abbiamo bisogno di meditare, di riflettere cioè, sulla richiesta della fede che noi possediamo. Ho scelto come tema di meditazione suggerirvi alcune indicazioni di spiritualità eucaristiche, dal momento che voi siete delle persone che vi riunite intorno all’Eucarestia, dal momento che fate dell’Eucarestia l’oggetto della vostra co-preghiera, a volte della stessa preghiera contemplativa, credo che sia congeniale alla vostra associazione denominata Ora di Gesù, di vivere una spiritualità che sia appunto segnata dalla dimensione eucaristica.
Ho scelto come meditazione l’offerta di alcune linee, di alcune indicazioni di spiritualità eucaristiche. Questa riflessione non soltanto è utile, ma ritengo che sia doverosa, perché come ci insegna la scrittura, come ci dicono i Santi Padri, come ci ha insegnato recentemente il Santo Padre Giovanni Paolo II, con una sua ultima enciclica Ecclesia de Eucharestia, l’Eucarestia edifica la Chiesa. L’Eucarestia costruisce la Chiesa; in altri termini il mistero della Chiesa è presente nel mistero dell’Eucarestia, tutto ciò che la Chiesa è, tutto ciò che la Chiesa è chiamata a fare può essere realizzato proprio per la grazia che ci viene dall’Eucarestia. Dunque, vogliamo alimentare una spiritualità eucaristica, un contatto continuo con la Santa Eucarestia. A questo proposito stasera voglio darvi 5 indicazioni di spiritualità, 5 motivi di spiritualità specificatamente eucaristiche.

SAPER RICONOSCERE I DONI
1) Cominciamo dalla prima indicazione. Sappiamo tutti cosa è l’Eucarestia. L’Eucarestia è il sacramento della presenza in mezzo a noi del Signore Gesù in corpo sangue e anima e divinità. E’ il segno dell’amore grande che Dio ha fatto all’umanità. E’ segno di un dono che viene a noi concesso: la presenza permanente di Dio tra noi. Prima di congedarsi da questo mondo Gesù ai suoi discepoli ha detto- Io sono tra voi tutti i giorni fino alla fine dei tempi-. Ci sono diverse presenze di Dio tra noi, quella eucaristica è la presenza, direi più eccelsa, la presenza per antonomasia, perché è la presenza reale del Verbo di Dio, vero Dio e vero Uomo. Questa presenza ci suggerisce una verità di fede molto importante , e cioè, che Dio che si rende presente fra noi nella persona di Gesù, sacramentalmente presente nell’Eucarestia, Dio è colui che si dona, è colui che non soltanto comunica con gli uomini, ma si dona si rende presente tra gli uomini, e si rende presente con tutta la sua identità. E la sua è una presenza di amore. Nessuno di noi avrebbe diritto ad avere un Dio così vicino, così oggetto della nostra contemplazione.
Questa presenza ci dice , che a Dio che si è manifestato nella persona di Gesù, ciò che gli sta particolarmente a cuore è donare. Se dunque il sacramento dell’Eucarestia, è il sacramento di un dono; il più grande dono che Dio abbia potuto fare agli uomini. Credo che sia giusto, che sia conveniente sviluppare in noi una spiritualità del dono, credo che sia utile cioè che noi, nelle impostazioni della nostra vita, nella modalità della nostra presenza, nel nostro modo di vedere, giudicare, agire, facciamo più attenzione ai doni che abbiamo ricevuto nella nostra vita, così come la vita viene da noi storicamente vissuta. Ai doni che abbiamo ricevuto dal Creato, ai doni che abbiamo ricevuto nella nostra vita umana, ai doni che abbiamo ricevuto nella nostra vita cristiana, familiare. Questa modalità di saper cogliere tutto ciò che ci viene donato, non è tanto diffusa, come dovrebbe essere, perché ho l’impressione che la nostra tendenza , il nostro modo abituale di vedere le cose è quella di vederlo sotto l’angolo dei diritti.
Siamo talmente abituati a vivere nella cultura delle rivendicazioni dei diritti che ci sembra che tutto sia dovuto, e tutto quello che noi abbiamo, non so perché, è a noi dovuto. E non sappiamo cogliere a sufficienza le manifestazioni di amore gratuito, le manifestazioni di dono che ci vengono offerte e che sono presenti nella vita. Proviamo a vedere le cose sotto l’ottica del dono e ci rendiamo conto che la nostra vita appare diversa.
Per noi cristiani, che sappiamo che il mondo è stato liberamente creato da Dio, che il mondo non è il risultato di una evoluzione meccanica che per caso è avvenuta in questo nostro pianeta, ma che il mondo è un dono, che il Signore ci ha fatto.
E’ un dono la capacità che gli uomini hanno con la loro scienza e tecnica di migliorare e trasformare le cose. E’ un dono la bellezza del creato. E’ un dono la vita. E’ un dono la parrocchia, è un dono avere nella parrocchia un sacerdote. E’ un dono la famiglia è un dono avere un coniuge che mi vuole bene. Sono un dono i figli. Non pensiamo sovente a questa cosa, siamo abituati, invece, a pensare a tutta questa nostra realtà umana, personale e sociale sotto l’angolo del dovuto.
Invece, come cristiani sappiamo che tutto è posto sotto la Provvidenza di Dio, e che molteplici sono le testimonianze del suo amore nel mondo. Dovremmo abituarci di più a sviluppare una cultura che sappia valorizzare i doni che noi riceviamo. C’è un bellissimo salmo,135,136 in cui il salmista invita tutti a lodare il Signore perché è buono perché eterna è la sua misericordia,
Egli che ha creato i Cieli,
perché eterna è la sua misericordia.
Anche la provvidenza quotidiana, tutto viene visto nella misericordia di Dio, nella bontà di Dio
Avere una anima eucaristica significa saper coglier i doni che sono presenti nella vita mia personale e familiare e di conseguenza, una volta che si è allenati a saper cogliere le espressioni molteplici di amore che ci sono offerte, di conseguenza essere capaci di dire grazie, Signore Ti rendo grazie, sono riconoscente nei tuoi confronti. Il verbo più diffuso nelle lettere di S. Paolo è questo: ringraziamo, ringraziamo Dio, per i molteplici doni che Egli ci ha concesso. Nei confronti di Dio non dobbiamo rivendicare diritti, come lo facciamo con gli uomini, nei confronti di Dio non possiamo avere un atteggiamento di rivendicazione perché Lui è la fonte della bontà.
Nella parabola dei vignaioli il Signore si comporta con liberalità, e distribuisce i meriti secondo la sua misericordia e la sua bontà. Dunque il primo elemento di spiritualità che io vorrei fosse diffuso fra di voi è quella tendenza, quell’atteggiamento a saper cogliere tanti ordinari segni di bontà che sono presenti nella nostra vita. Sia nella nostra vita naturale che nella vita soprannaturale, sia nella nostra vita umana che cristiana, sia nella vita cristiana personale che nella vita ecclesiale, sia nella famiglia che nella società.
Abituiamoci a saper cogliere nella vita i frammenti di bontà che sono presenti nel mondo. Non dobbiamo essere persone pessimiste che vedono tutto sotto l’aspetto negativo, che contestano sempre, che si lamentano sempre. Dobbiamo essere capaci di individuare nella nostra vita, e ci sono, tanti, tanti segni di bontà. La persona che mi è accanto non è un mio nemico, ma un dono che il Signore mi ha fatto, e così si può dire di tutti voi. Abituiamoci a saper cogliere questa prima e fondamentale dimensione.

FARE DELLA PROPRIA VITA UN’OFFERTA
2) Il secondo elemento di spiritualità eucaristica, è il seguente. Sapete che il sacramento dell’Eucarestia è il sacramento dove si verifica la trasformazione radicale del pane nel corpo di Gesù e del vino nel sangue di Gesù.
Il sacramento che opera una trasformazione profonda del pane e del vino nel corpo e sangue di Gesù.
Perché nel sacramento avviene una cosa del genere?
Avviene per magia?
Come avviene questa trasformazione profonda?
C’è una esperienza esistenziale di Gesù il quale proprio nel brano evangelico che la Chiesa ci fa leggere oggi, ci dice che il figlio dell’uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti; poi continua il racconto dicendo che il figlio dell’Uomo non è venuto per essere servito ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti. Offre la sua vita per la salvezza del mondo.
Gesù è diventato sommo sacerdote, Gesù è diventato Buon Pastore, perché è stato capace di trasformare una situazione passiva in una situazione attiva, è stato capace di trasformare il progetto di Dio nel quale era scritto che il Signore Gesù doveva morire per la salvezza del mondo. Nella storia di Gesù c’erano anche presenti degli episodi umani che andavano in quella direzione.
Perché Gesù è stato tradito da Giuda , è stato rinnegato da Pietro. Gesù è stato colui che ha subito nel corso della sua vita tante angherie: arrestato, processato, condannato, maltrattato.
Si è trovato davvero in una situazione passiva. Ma Lui con la forza dello Spirito Santo ha saputo trasformare questa situazione passiva in una situazione attiva, in un atto di amore, in un atto di donazione, fatta con libertà assoluta, fatta con amore straordinario. Nel vangelo viene detto che Gesù viene consegnato, ma Gesù liberamente si consegna. Gesù ha vinto la morte, perché è stato capace di fare della morte un atto di amore. Perciò è risorto, perciò ha comunicato lo Spirito alla Chiesa.
Dietro quello che avviene nell’Eucarestia, dove c’è la trasformazione del pane e del vino, c’è stato come fondamento il gesto di Gesù che ha trasformato la situazione storica della sua esistenza in una offerta, nel dono di sé, nel sacrificio della sua vita per amore. Questo fatto che l’Eucarestia ci testimonia ci porta a evidenziare una seconda indicazione di carattere spirituale: fare della nostra vita un’offerta a Dio, fare della nostra vita un dono, a Dio. Prima dicevo, come prima indicazione, di saper cogliere i diversi doni di Dio che sono fuori di noi come testimonianza della bontà di Dio.
Alleniamoci a fare di tutta la nostra vita un atto di amore, un dono al Signore. A questo siamo chiamati in realtà in forza del battesimo. S. Paolo scriveva, nella lettera ai romani cap.12:” Vi esorto fratelli per la misericordia di Dio a offrire i vostri corpi come ostia santa vivente gradita a Dio”. Per corpo, S. Paolo intende la persona nella sua globalità. E poiché i cristiani costituiscono un popolo sacerdotale , con questa espressione teologica, i teologi vogliono dirci proprio questo che noi abbiamo la possibilità di fare anche noi, in possesso dello spirito di Cristo che abbiamo ricevuto al battesimo, quello che ha fatto Gesù nel corso della sua vita.
Anche noi possiamo operare una trasformazione delle vicende nelle quali siamo implicate. Anche noi possiamo della nostra vita un dono. Fare della vita un dono è molto facile quando le cose vanno bene. Quando le cose sono serene, quando le cose son tranquille, quando tutto è pacifico, quando si cammina sull’onda del successo. Molto più difficile, più arduo, ma proprio molto più opportuno il saper trasformare in dono, proprio quelle situazioni di vita che Gesù ha trasformato in dono, quelle situazioni di vita che lo hanno visto sofferente, perché arrestato, perché maltrattato, perché coronato di spine e crocifisso, tante situazioni ingiuste che Egli ha sofferto, ma che non ha subito in maniera passiva, ma che ha trasformato in maniera attiva, facendo di tutte queste esperienze un atto di amore da offrire a Dio.
Anche la malattia può essere un atto di amore, anche uno sgarbo che ricevo da un mio amico, anche qualche sofferenza fisica morale che può essere presente nella mia vita e per la quale sono turbato, sono depresso , se riesco a trasformarla diventa un atto d’amore. Trasformare la vita giorno per giorno in un atto d’amore gradito a Dio; allora siamo davvero persone che hanno una spiritualità eucaristica. Persone che si lasciano plasmare dall’Eucarestia. Persone che attraverso la contemplazione dell’Eucarestia riescono a trasformare la propria vita.
Vedete, lo conoscete tutti quell’episodio che ci viene raccontato nei vangeli sinottici, dove si parla di Gesù che sul monte viene trasfigurato, cambia figura. Questa trasfigurazione che sul monte Tabor è il preludio della Pasqua è qualcosa che può avvenire anche nella nostra vita, perché anche la nostra vita gradualmente può cambiare figura. Questo si verifica attraverso la trasformazione di tutte quelle vicende che, a prima vista ci opprimono, ci colpiscono, ci fanno soffrire, bisogna trasformarle in un atto d’amore, in un’offerta. Allora partecipiamo veramente , quando riusciamo a fare quell’operazione, noi partecipiamo veramente al sacrificio di Cristo.
Durante la S. Messa , dopo l’offertorio, il sacerdote dice: “Pregate ,fratelli perché il mio e vostro sacrificio( il sacrificio del prete e dell’assemblea) sia gradito a Dio Onnipotente ». E quando il nostro sacrificio è gradito a Dio? Quando noi sappiamo fare quella operazione di trasformazione delle situazioni di vita in atto d’ amore che ha fatto Gesù.
Questo è il significato della parola sacrificio. Sacrificio è un termine che ci spaventa che ci fa pensare a qualcosa di negativo di opprimente, attraverso il quale noi veniamo privati di non so quali valori. No, il significato vero di sacrificio è proprio questo: offerta, dono. Compiere un sacrificio significa compiere una azione sacra. Sacrum facere. Fare una cosa sacra. Si fa una cosa sacra, santa, quando io sono capace di amare, e di trasformare in amore tutte le azioni della mia vita. Dunque, riassumendo le prime due indicazioni: cogliere i doni che sono presenti nella propria vita, fare della propria vita un dono.

LASCIARSI GUIDARE DALLO SPIRITO
3) Terza indicazione di spiritualità eucaristica , che è conseguente alla precedente. Perché Gesù è stato capace di trasformare tutte le vicende della sua passione dolorosa in un atto d’amore?
Perché Gesù si è lasciato guidare dalla potenza dello Spirito di Dio, che era presente nella sua umanità, sin dall’inizio della sua vita. Lo Spirito del Signore è sopra di me: perciò è stato docile all’azione dello Spirito. La sua umanità è stata resa capace di fare una cosa come quella che abbiamo illustrato prima, perché ha lasciato operare in Lui, in maniera libera la potenza dello Spirito di Dio.
Dobbiamo infatti , riconoscere che non è dell’uomo trasformare le vicende della vita in un dono, in un’offerta. Non è nella possibilità dell’uomo fare questa operazione; né il Signore Dio vuole da noi cristiani che siamo dei super uomini, siamo dei giganti dell’umanità.. Essere capaci di trasformare tutte le vicende personali della vita in un atto d’amore. E’ soltanto opera di Dio, frutto dell’azione del suo Spirito. D’altra parte l’Eucarestia è elemento dello Spirito, per eccellenza, il sacramento dove è presente lo Spirito. Le nuove anafore, cioè le nuove preghiere eucaristiche, che sono state composte dopo il Concilio Vaticano II , sottolineano in modo molto poco evidente la presenza dello Spirito, nella trasformazione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Gesù.
Allora se è così qual’è il terzo elemento di Spiritualità Eucaristiche?
E’ proprio questo, porre tutta la nostra esistenza sotto il segno dello Spirito, dello Spirito Santo. Essere convinti di quello che S. Paolo dice, scrivendo sempre ai cristiani di Roma, cap. 8 ,14, dove Paolo sembra quasi darci una definizione del cristiano , con queste parole:”Sono figli di Dio coloro che si lasciano guidare dallo Spirito di Dio”. Ecco una bella definizione del cristiano. Dunque per poter essere capaci di saper cogliere nella storia le diverse espressioni di Dio.
Per fare della nostra vita un dono, dobbiamo lasciarci guidare dallo Spirito Santo. Dobbiamo consentire che lo Spirito Santo sia la nostra guida. Non è facile, sapete. Allora dobbiamo allenarci, perché sono tanti gli elementi che vogliono entrare nella nostra vita e si propongono come leaders. C’è innanzitutto il nostro “ Io”, il nostro egoismo che vorrebbe avere la posizione principe e che vorrebbe dettare tutti i criteri di indirizzo, che vorrebbe essere alla base di tutte le decisioni che si prendono.
Poi c’è la cultura nella quale viviamo, la cultura diffusa , a cultura dei nostri paesi, la cultura dell’ambiente, da cui non è facile distaccarsi. Perché distaccarsi dal pensare comune può sembrare un atto di estraneità al mondo; a cui non siamo molte volte abituati. S. Paolo nelle sue lettere dice bene, che finché siamo su questa terra la vita secondo lo Spirito è sempre interetica con la vita secondo la carne, e per vita secondo la carne Paolo intendeva una vita vissuta in maniera umana, soggetta alle forze della nostra debolezza, a tutti quegli elementi che si oppongono a Dio, sempre, finché viviamo su questo mondo, fino all’ultimo istante della nostra vita dobbiamo ricordarci che c’è sempre in noi questa dialettica fra due forze che si contendono il primato della nostra vita: la forza che viene da Dio e la forza che si oppone a Dio, che ci trascina verso un’altra direzione.
Allora dice Paolo, ai cristiani della regione della Galazia:” Avete ricevuto lo Spirito Santo, lasciatevi guidare dallo Spirito Santo”.
Lasciatevi guidare dallo Spirito Santo, non ponete ostacoli, barriere alla sua luce, alla sua forza. Lo avevano capito molto bene S. Agostino, prima , e S. Tommaso poi, che parlando dello Spirito Santo, lo chiamavano il nostro maestro interiore, Colui che ci guarda dentro e che ci indica i sentieri di luce, i sentieri della vita che noi dobbiamo percorrere. Alimentare in noi una spiritualità eucaristica, significa quindi , alimentare in noi una vita secondo lo Spirito: una obbedienza costante allo Spirito Santo, che parla nella interiorità della nostra vita, ma parla anche a noi in tanti altri modi. Parla attraverso il vescovo, parla attraverso il Papa, parla attraverso la vita dei Santi, parla in tante maniere. Soltanto che dobbiamo avere l’antenna molto acuminata per saper cogliere la voce dello Spirito e lasciarci guidare da esso.

VIVERE PER L’UNITÀ
4) Quarta indicazione. L’Eucarestia è il Sacramento della unità. Nelle anafore eucaristiche si parla dello Spirito Santo che viene invocato per trasformare il pane e il vino nel corpo e sangue di Gesù, e poi subito dopo viene detto che quello Spirito che trasforma il pane e il vino , nel corpo e sangue di Gesù è lo stesso spirito che fa di noi un solo Corpo. Un solo Corpo Mistico.
Quello Spirito Santo che si rende presente e operante per trasformare il pane e il vino, nel corpo sacramentato di Gesù, è lo stesso Spirito che opera tra i credenti per fare di essi una sola Chiesa, un solo Corpo. L’Eucarestia, dunque, il sacramento della unità. Anche questa indicazione di spiritualità eucaristica è presente negli epistolari paolini. Stavolta faccio allusione alla lettera alla 1^ lettera ai Corinzi vers.17; dove troviamo una espressione del genere molto bella e incisiva.
Dice Paolo:” Poiché c’è un solo pane, noi pur essendo molti formiamo un corpo solo”. Dal momento che partecipiamo tutti dell’unico pane. Dal momento che tutti ci nutriamo della stessa Eucarestia, noi pur essendo molti formiamo un corpo solo.
La Chiesa è una realtà corporata, non è un aggregato di persone l’una accanto all’altra, ma la Chiesa è un corpo solo. A renderci un corpo solo è la partecipazione all’Eucarestia. L’Eucarestia è il segno, il Sacramento della unità della Chiesa. Vivere una spiritualità eucaristica significa dunque lavorare e cooperare per l’unità. Lavorare per l’unità, nel vostro caso , direi soprattutto lavorare per l’unità familiare, per l’unità coniugale. La contemplazione del mistero dell’Eucarestia, sacramento dell’unità, ci fa capire che l’unità da una parte è dono di Dio, dall’altra è oggetto del nostro impegno.
Con l’aiuto di Dio noi dobbiamo lavorare sempre per l’unità. Lavorare per l’unità non significa chiudere gli occhi e non vedere le diverse tensioni, le diverse conflittualità che sono presenti nella società e nella famiglia. Da che mondo è mondo la famiglia è sempre stata una realtà insieme unita e insieme conflittuale. Anche la famiglia è stata ed è una realtà conflittuale.
Pensate che il primo peccato, ce ne parla la Bibbia, che avviene in famiglia è il peccato tra Caino e Abele. Caino uccide Abele. Il primo peccato tra fratelli.
Il peccato è la forza disgregatrice della società. Laddove c’è il peccato, ivi non c’è solo la rottura verticale dell’uomo con Dio, ma si verifica anche la rottura di un rapporto orizzontale dell’uomo con l’uomo. Non appena Adamo ed Eva che sono la coppia che esprime simbolicamente l’umanità peccatrice, si rivela a Dio, come conseguenza deve rendersi conto che la ribellione contro Dio porta ad una lotta , ribellione verso i fratelli. Lavorare per l’unità non significa chiudere gli occhi, non vedere o far finta di non sapere che anche nelle buone famiglie ci sono dei conflitti. Ma proprio perché si riconosce che ci sono quelle conflittualità, che scaturiscono da motivi temperamentali, di carattere o da diverse visioni culturali della vita, proprio per queste ragioni, bisogna lavorare per l’unità, per la riconciliazione.
Non è possibile che tutte le tensioni che si verificano in famiglia debbano concludersi con le separazioni. Non è possibile poi che tutte le tensioni che si verificano in famiglia debbano poi trovare soluzione nel divorzio. Mi permetto di ricordare, a questo proposito nella mia prima lettera pastorale sulla famiglia aveva proprio come titolo: “Dalla Conflittualità alla Riconciliazione”. Venne scritta proprio in considerazione di questa convinzione: lavorare per l’unità familiare non significa chiudere gli occhi di fronte alle conflittualità, ma invece rendersi conto che esse possono e debbano essere superate con l’aiuto anche di consulenti e psicologi dei consultori familiari, ma direi soprattutto con l’aiuto di Dio, con la preghiera, con la grazia sacramentale, con il sacramento della riconciliazione.
Dal momento che siamo peccatori , l’unità passa sempre attraverso la riconciliazione. Non è possibile creare comunioni, non è possibile fare delle nostre parrocchie delle comunità animate dalla comunione, non è possibile fare delle nostre famiglie delle comunità di amore, se non sappiamo riconciliarci, se non sappiamo perdonarci, se non c’è il perdono. Lavorare per l’unità per fare della famiglia una comunità di amore, significa far sì che le tensioni si scarichino nella riconciliazione.

Vivere l’unione con Dio
5) L’ultima indicazione di spiritualità eucaristica che mi permetto di suggerivi, e che prende le mosse dalla considerazione di comunione del sacramento con Dio. Non è soltanto, l’Eucarestia sacramento della comunione fra di noi, noi pur essendo molti formiamo un corpo solo perché ci nutriamo tutti dello stesso pane, ma prima di essere l’Eucarestia sacramento della nostra unione reciproca, per il fatto di costituire insieme un solo corpo, l’Eucarestia è il sacramento della unione nostra con Dio.
Capite perché ho messo questo ultimo elemento, questa ultima indicazione alla fine, perché mi sembra la più importante. La fondamentale. Noi ci nutriamo della Santa Eucarestia per alimentare la nostra comunione con Dio. E a questo proposito giova ricordare il pensiero di Sant’Agostino, che fa una analogia fra quello che accade nella nostra abituale alimentazione naturale e quello che accade nel banchetto eucaristico.
Nella nostra normale alimentazione naturale, accade che noi quando ci nutriamo, il cibo metabolizzato e trasformato nel nostro corpo, nel nostro sangue, per formare il tessuto umano. Trasformiamo il cibo in quello che noi siamo, delle persone umane; quando ci nutriamo, invece nell’Eucarestia avviene il contrario. Avviene che la nostra vita viene resa sempre più simile a quella di Gesù. Siamo noi che gradualmente ci trasformiamo in Gesù.
Non che ci identifichiamo con Lui , ma la nostra vita diventa sempre più simile a quella di Gesù: in questo c’è la santità.
In fondo cosa significa essere santi? Seguire Gesù, comportarci come si è comportato Gesù. Assumere i suoi criteri di giudizio, come criteri delle nostre scelte, fare nostre le sue scelte. Avere una spiritualità eucaristica significa avere una spiritualità che coltiva una perenne comunione con il Signore Gesù, nella consapevolezza che nell’amore di Dio, che ci viene a noi dato da Gesù, c’è tutta la nostra gioia, c’è tutta la nostra pace.
Mi rendo conto, che quello che vi ho detto stasera sono solo brevi accenni che ciascuno di questi 5 elementi di spiritualità eucaristica, che erano degni di essere trattati con più ampiezza, però voi siete persone molto sensibili. Avete capito con questi brevi tratti che vi ho donato, che davvero è importante alimentare una spiritualità proprio alla luce di quel elemento che caratterizza la vostra associazione.
Dal momento che la vostra associazione si ritrova intorno all’Eucarestia, ho pensato di proporvi una meditazione che facesse perno sull’Eucarestia, e che dalla contemplazione dell’Eucarestia facesse derivare alcune linee di comportamento corrispondente al mistero che viene adorato.
Per concludere alimentare una spiritualità eucaristica significa:
- Saper cogliere nelle vicende della vita personale, sociale, familiare le tantissime manifestazioni dell’amore di Dio, ed essere capaci di dire: Grazie Signore
- Essere capaci di trasformare le vicende della vita personale in un’offerta, in un dono, in un’offerta come Gesù l’ha fatto della sua vita. Il mio e vostro sacrificio sia gradito a Dio
- Mettersi sotto la Signoria dello Spirito Santo, lasciarsi guidare dallo Spirito di Dio non dalla cultura del nostro tempo, non da quel signorotto di turno, non da ideologie. Lo Spirito Santo parla attraverso la Chiesa, ma parla anche attraverso la nostra coscienza.
- Essere promotori di Unità, lavorare per l’unità che è opera di Dio. La separazione è diabolica.
(In greco , diavolo significa colui che divide. Noi che vogliamo essere persone di Dio dobbiamo essere persone che uniscono . Nell’unità c’è la pace).
- Vivere una vita di intesa e comunione con Dio, nel tentativo permanente, anche se passa attraverso le incertezze, assimilare la propria vita a quella di Gesù. In questo sta la santità.

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SAN GENNARO

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19 SETTEMBRE: SAN GENNARO VESCOVO E MARTIRE

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SAN GENNARO VESCOVO E MARTIRE

19 SETTEMBRE – MEMORIA FACOLTATIVA

NAPOLI? III SEC. – POZZUOLI, 19 SETTEMBRE 305

Gennaro era nato a Napoli, nella seconda metà del III secolo, e fu eletto vescovo di Benevento, dove svolse il suo apostolato, amato dalla comunità cristiana e rispettato anche dai pagani. Nel contesto delle persecuzioni di Diocleziano si inserisce la storia del suo martirio. Egli conosceva il diacono Sosso (o Sossio) che guidava la comunità cristiana di Miseno e che fu incarcerato dal giudice Dragonio, proconsole della Campania. Gennaro saputo dell’arresto di Sosso, volle recarsi insieme a due compagni, Festo e Desiderio a portargli il suo conforto in carcere. Dragonio informato della sua presenza e intromissione, fece arrestare anche loro tre, provocando le proteste di Procolo, diacono di Pozzuoli e di due fedeli cristiani della stessa città, Eutiche ed Acuzio. Anche questi tre furono arrestati e condannati insieme agli altri a morire nell’anfiteatro, ancora oggi esistente, per essere sbranati dagli orsi. Ma durante i preparativi il proconsole Dragonio, si accorse che il popolo dimostrava simpatia verso i prigionieri e quindi prevedendo disordini durante i cosiddetti giochi, cambiò decisione e il 19 settembre del 305 fece decapitare i prigionieri. (Avvenire)

Patronato: Napoli
Etimologia: Gennaro = nato nel mese di gennaio, dal latino

Emblema: Bastone pastorale, Palma
Martirologio Romano: San Gennaro, vescovo di Benevento e martire, che in tempo di persecuzione contro la fede, a Pozzuoli vicino a Napoli subì il martirio per Cristo.

Fra i santi dell’antichità è certamente uno dei più venerati dai fedeli e se poi consideriamo che questi fedeli, sono primariamente napoletani, si può comprendere per la nota estemporaneità e focosa fede che li distingue, perché il suo culto, travalicando i secoli, sia giunto intatto fino a noi, accompagnato periodicamente dal misterioso prodigio della liquefazione del suo sangue, che tanto attira i napoletani.
Prima di tutto il suo nome diffuso in Campania e anche nel Sud Italia, risale al latino ‘Ianuarius’ derivato da ‘Ianus’ (Giano) il dio bifronte delle chiavi del cielo, dell’inizio dell’anno e del passaggio delle porte e delle case.
Il nome era in genere attribuito ai bambini nati nel mese di gennaio “Ianuarius”, undicesimo mese dell’anno secondo il calendario romano, ma il primo dopo la riforma del II secolo d.C.
Gennaro appartenne alla gens Ianuaria, perché Ianuarius che significa “consacrato al dio Ianus” non era il suo nome, che non ci è pervenuto, ma il gentilizio corrispondente al nostro cognome.
Vi sono ben sette antichi ‘Atti’, ‘Passio’, ‘Vitae’, che parlano di Gennaro, fra i più celebri gli “Atti Bolognesi” e gli “Atti Vaticani”. Da questi documenti si apprende che Gennaro nato a Napoli? nella seconda metà del III secolo, fu eletto vescovo di Benevento, dove svolse il suo apostolato, amato dalla comunità cristiana e rispettato anche dai pagani per la cura, che impiegava nelle opere di carità a tutti indistintamente; si era nel primo periodo dell’impero di Diocleziano (243-313), il quale permise ai cristiani di occupare anche posti di prestigio e una certa libertà di culto.
Nella sua vecchiaia però, sotto la pressione del suo cesare Galerio (293), firmò ben tre editti contro i cristiani, provocando una delle più feroci persecuzioni, colpendo la Chiesa nei suoi membri e nei suoi averi per impedirle di soccorrere i poveri e spezzare così il favore popolare.
E in questo contesto s’inserisce la storia del martirio di Gennaro; egli conosceva il diacono Sosso (o Sossio) che guidava la comunità cristiana di Miseno, importante porto romano sulla costa occidentale del litorale flegreo; Sosso fu incarcerato dal giudice Dragonio, proconsole della Campania, per le funzioni religiose che quotidianamente venivano celebrate nonostante i divieti.
In quel periodo il vescovo di Benevento Gennaro, accompagnato dal diacono Festo e dal lettore Desiderio, si trovavano a Pozzuoli in incognito, visto il gran numero di pagani che si recavano nella vicinissima Cuma ad ascoltare gli oracoli della Sibilla Cumana e aveva ricevuto di nascosto anche qualche visita del diacono di Miseno (località tutte vicinissime tra loro).
Gennaro saputo dell’arresto di Sosso, volle recarsi insieme ai suoi due compagni Festo e Desiderio a portargli il suo conforto in carcere e anche con alcuni scritti, per esortarlo insieme agli altri cristiani prigionieri a resistere nella fede.
Il giudice Dragonio informato della sua presenza e intromissione, fece arrestare anche loro tre, provocando le proteste di Procolo, diacono di Pozzuoli e di due fedeli cristiani della stessa città, Eutiche ed Acuzio.
Anche questi tre furono arrestati e condannati insieme agli altri a morire nell’anfiteatro, ancora oggi esistente, per essere sbranati dagli orsi, in un pubblico spettacolo. Ma durante i preparativi il proconsole Dragonio, si accorse che il popolo dimostrava simpatia verso i prigionieri e quindi prevedendo disordini durante i cosiddetti giochi, cambiò decisione e il 19 settembre del 305 fece decapitare i prigionieri cristiani nel Foro di Vulcano, presso la celebre Solfatara di Pozzuoli.
Si racconta che una donna di nome Eusebia riuscì a raccogliere in due ampolle (i cosiddetti lacrimatoi) parte del sangue del vescovo e conservarlo con molta venerazione; era usanza dei cristiani dell’epoca di cercare di raccogliere corpi o parte di corpi, abiti, ecc. per poter poi venerarli come reliquie dei loro martiri.
I cristiani di Pozzuoli, nottetempo seppellirono i corpi dei martiri nell’agro Marciano presso la Solfatara; si presume che s. Gennaro avesse sui 35 anni, come pure giovani, erano i suoi compagni di martirio. Oltre un secolo dopo, nel 431 (13 aprile) si trasportarono le reliquie del solo s. Gennaro da Pozzuoli nelle catacombe di Capodimonte a Napoli, dette poi “Catacombe di S. Gennaro”, per volontà dal vescovo di Napoli, s. Giovanni I e sistemate vicino a quelle di s. Agrippino vescovo.
Le reliquie degli altri sei martiri, hanno una storia a parte per le loro traslazioni, ma in maggioranza ebbero culto e spostamento nelle loro zone di origine.
Durante il trasporto delle reliquie di s. Gennaro a Napoli, la suddetta Eusebia o altra donna, alla quale le aveva affidate prima di morire, consegnò al vescovo le due ampolline contenenti il sangue del martire; a ricordo delle tappe della solenne traslazione vennero erette due cappelle: S. Gennariello al Vomero e San Gennaro ad Antignano.
Il culto per il santo vescovo si diffuse fortemente con il trascorrere del tempo, per cui fu necessario l’ampliamento della catacomba. Affreschi, iscrizioni, mosaici e dipinti, rinvenuti nel cimitero sotterraneo, dimostrano che il culto del martire era vivo sin dal V secolo, tanto è vero che molti cristiani volevano essere seppelliti accanto a lui e le loro tombe erano ornate di sue immagini.
Va notato che già nel V secolo il martire Gennaro era considerato ‘santo’ secondo l’antica usanza ecclesiastica, canonizzazione poi confermata da papa Sisto V nel 1586. La tomba divenne come già detto, meta di continui pellegrinaggi per i grandi prodigi che gli venivano attribuiti; nel 472 ad esempio, in occasione di una violenta eruzione del Vesuvio, i napoletani accorsero in massa nella catacomba per chiedere la sua intercessione, iniziando così l’abitudine ad invocarlo nei terremoti e nelle eruzioni, e mentre aumentava il culto per s. Gennaro, diminuiva man mano quello per s. Agrippino vescovo, fino allora patrono della città di Napoli; dal 472 s. Gennaro cominciò ad assumere il rango di patrono principale della città.
Durante un’altra eruzione nel 512, fu lo stesso vescovo di Napoli, s. Stefano I, ad iniziare le preghiere propiziatorie; dopo fece costruire in suo onore, accanto alla basilica costantiniana di S. Restituta (prima cattedrale di Napoli), una chiesa detta Stefania, sulla quale verso la fine del secolo XIII, venne eretto il Duomo; riponendo nella cripta il cranio e la teca con le ampolle del sangue.
Questa provvidenziale decisione, preservò le suddette reliquie, dal furto operato dal longobardo Sicone, che durante l’assedio di Napoli dell’831, penetrò nelle catacombe, allora fuori della cinta muraria della città, asportando le altre ossa del santo che furono portate a Benevento, sede del ducato longobardo.
Le ossa restarono in questa città fino al 1156, quando vennero traslate nel santuario di Montevergine (AV), dove rimasero per tre secoli, addirittura se ne perdettero le tracce, finché durante alcuni scavi effettuati nel 1480, casualmente furono ritrovate sotto l’altare maggiore, insieme a quelle di altri santi, ma ben individuate da una lamina di piombo con il nome.
Il 13 gennaio 1492, dopo interminabili discussioni e trattative con i monaci dell’abbazia verginiana, le ossa furono riportate a Napoli nel succorpo del Duomo ed unite al capo ed alle ampolle. Intanto le ossa del cranio erano state sistemate in un preziosissimo busto d’argento, opera di tre orafi provenzali, dono di Carlo II d’Angiò nel 1305, al Duomo di Napoli.
Successivamente nel 1646 il busto d’argento con il cranio e le ormai famose ampolline col sangue, furono poste nella nuova artistica Cappella del Tesoro, ricca di capolavori d’arte d’ogni genere. Le ampolle erano state incastonate in una teca preziosa fatta realizzare da Roberto d’Angiò, in un periodo imprecisato del suo lungo regno (1309-1343).
La teca assunse l’aspetto attuale nel XVII secolo, racchiuse fra due vetri circolari di circa dodici centimetri di diametro, vi sono le due ampolline, una più grande di forma ellittica schiacciata, ripiena per circa il 60% di sangue e quella più piccola cilindrica con solo alcune macchie rosso-brunastre sulle pareti; la liquefazione del sangue avviene solo in quella più grande.
Le altre reliquie poste in un’antica anfora, sono rimaste nella cripta del Duomo, su cui s’innalza l’abside e l’altare maggiore della grande Cattedrale. San Gennaro è conosciuto in tutto il mondo, grazie anche al culto esportato insieme ai tantissimi emigranti napoletani, suoi fedeli, non solo per i suoi prodigiosi interventi nel bloccare le calamità naturali, purtroppo ricorrenti che colpivano Napoli, come pestilenze, terremoti e le numerose eruzioni del vulcano Vesuvio, croce e vanto di tutto il Golfo di Napoli; ma anche per il famoso prodigio della liquefazione del sangue contenuto nelle antiche ampolle, completamente sigillate e custodite in una nicchia chiusa con porte d’argento, situata dietro l’altare principale, della già menzionata Cappella del Tesoro.
Il Tesoro è oggi custodito in un caveau di una banca, essendo ingente e preziosissimo, quale testimonianza dei doni fatti al santo patrono da sovrani, nobili e quanti altri abbiano ricevuto grazie per sua intercessione, o alla loro persona e famiglia o alla città stessa.
Le chiavi della nicchia, sono conservate dalla Deputazione del Tesoro di S. Gennaro, da secoli composta da nobili e illustri personaggi napoletani con a capo il sindaco della città. Il miracolo della liquefazione del sangue, che è opportuno dire non è un’esclusiva del santo vescovo, ma anche di altri santi e in altre città, ma che a Napoli ha assunto una valenza incredibile, secondo un antico documento, è avvenuto per la prima volta nel lontano 17 agosto 1389; non è escluso, perché non documentato, che sia avvenuto anche in precedenza.
Detto prodigio avviene da allora tre volte l’anno; nel primo sabato di maggio, in cui il busto ornato di preziosissimi paramenti vescovili e il reliquiario con la teca e le ampolle, vengono portati in processione, insieme ai busti d’argento dei numerosi santi compatroni di Napoli, anch’essi esposti nella suddetta Cappella del Tesoro, dal Duomo alla Basilica di S. Chiara, in ricordo della prima traslazione da Pozzuoli a Napoli, e qui dopo le rituali preghiere, avviene la liquefazione del sangue raggrumito; la seconda avviene il 19 settembre, ricorrenza della decapitazione, una volta avveniva nella Cappella del Tesoro, ma per il gran numero di fedeli, il busto e le reliquie sono oggi esposte sull’altare maggiore del Duomo, dove anche qui dopo ripetute preghiere, con la presenza del cardinale arcivescovo, autorità civili e fedeli, avviene il prodigio tra il tripudio generale.
Avvenuta la liquefazione la teca sorretta dall’arcivescovo, viene mostrata quasi capovolgendola ai fedeli e al bacio dei più vicini; il sangue rimane sciolto per tutta l’ottava successiva e i fedeli sono ammessi a vedere da vicini la teca e baciarla con un prelato che la muove per far constatare la liquidità, dopo gli otto giorni viene di nuovo riposta nella nicchia e chiusa a chiave.
Una terza liquefazione avviene il 16 dicembre “festa del patrocinio di s. Gennaro”, in memoria della disastrosa eruzione del Vesuvio nel 1631, bloccata dopo le invocazioni al santo. Il prodigio così puntuale, non è sempre avvenuto, esiste un diario dei Canonici del Duomo che riporta nei secoli, anche le volte che il sangue non si è sciolto, oppure con ore e giorni di ritardo, oppure a volte è stato trovato già liquefatto quando sono state aperte le porte argentee per prelevare le ampolle; il miracolo a volte è avvenuto al di fuori delle date solite, per eventi straordinari.
Il popolo napoletano nei secoli ha voluto vedere nella velocità del prodigio, un auspicio positivo per il futuro della città, mentre una sua assenza o un prolungato ritardo è visto come fatto negativo per possibili calamità da venire. La catechesi costante degli ultimi arcivescovi di Napoli, ha convinto la maggioranza dei fedeli, che anche la mancanza del prodigio o il ritardo vanno vissuti con serenità e intensificazione semmai di una vita più cristiana.
Del resto questo “miracolo ballerino”, imprevedibile, è stato oggetto di profondi studi scientifici, l’ultimo nel 1988, con i quali usando l’esame spettroscopico, non potendosi aprire le ampolline sigillate da tanti secoli, si è potuto stabilire la presenza nel liquido di emoglobina, dunque sangue.
La liquefazione del sangue è innegabile e spiegazioni scientifiche finora non se ne sono trovate, come tutte le ipotesi contrarie formulate nei secoli, non sono mai state provate. È singolare il fatto, che a Pozzuoli, contemporaneamente al miracolo che avviene a Napoli, la pietra conservata nella chiesa di S. Gennaro, vicino alla Solfatara e che si crede sia il ceppo su cui il martire poggiò la testa per essere decapitato, diventa più rossa.
Pur essendo venuti tanti papi a Napoli in devoto omaggio e personalmente baciarono la teca lasciando doni, la Chiesa è bene ricordarlo, non si è mai pronunciata ufficialmente sul miracolo di s. Gennaro.
Papa Paolo VI nel 1966, in un discorso ad un gruppo di pellegrini partenopei, richiamò chiaramente il prodigio: “…come questo sangue che ribolle ad ogni festa, così la fede del popolo di Napoli possa ribollire, rifiorire ed affermarsi”.

Autore: Antonio Borrelli

Publié dans:Santi, santi martiri |on 18 septembre, 2013 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO: « VEDIAMO NELLA CHIESA UNA BUONA MAMMA »

http://www.zenit.org/it/articles/vediamo-nella-chiesa-una-buona-mamma

« VEDIAMO NELLA CHIESA UNA BUONA MAMMA »

LA CATECHESI DI PAPA FRANCESCO DURANTE L’UDIENZA GENERALE DI OGGI

Citta’ del Vaticano, 18 Settembre 2013 (Zenit.org)

Riportiamo di seguito la catechesi tenuta questa mattina da papa Francesco durante la tradizionale Udienza Generale del mercoledì, svoltasi in piazza San Pietro.

Al termine dell’Udienza il Pontefice ha anche lanciato un nuovo appello per la pace.

***
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi ritorno ancora sull’immagine della Chiesa come madre. A me piace tanto questa immagine della Chiesa come madre. Per questo ho voluto ritornarvi, perché questa immagine mi sembra che ci dica non solo come è la Chiesa, ma anche quale volto dovrebbe avere sempre di più la Chiesa, questa nostra madre Chiesa.
Vorrei sottolineare tre cose, sempre guardando alle nostre mamme, a tutto quello che fanno, che vivono, che soffrono per i propri figli, continuando quello che ho detto mercoledì scorso. Io mi domando: che cosa fa una mamma?
1. Prima di tutto insegna a camminare nella vita, insegna ad andare bene nella vita, sa come orientare i figli, cerca sempre di indicare la strada giusta nella vita per crescere e diventare adulti. E lo fa con tenerezza, con affetto, con amore, sempre anche quando cerca di raddrizzare il nostro cammino perché sbandiamo un poco nella vita o prendiamo strade che portano verso un burrone. Una mamma sa che cosa è importante perché un figlio cammini bene nella vita, e non l’ha imparato dai libri, ma l’ha imparato dal proprio cuore. L’Università delle mamme è il loro cuore! Lì imparano come portare avanti i propri figli.
La Chiesa fa la stessa cosa: orienta la nostra vita, ci dà degli insegnamenti per camminare bene. Pensiamo ai dieci Comandamenti: ci indicano una strada da percorrere per maturare, per avere dei punti fermi nel nostro modo di comportarci. E sono frutto della tenerezza, dell’amore stesso di Dio che ce li ha donati. Voi potrete dirmi: ma sono dei comandi! Sono un insieme di « no »! Io vorrei invitarvi a leggerli – forse li avete un po’ dimenticati – e poi di pensarli in positivo. Vedrete che riguardano il nostro modo di comportarci verso Dio, verso noi stessi e verso gli altri, proprio quello che ci insegna una mamma per vivere bene. Ci invitano a non farci idoli materiali che poi ci rendono schiavi, a ricordarci di Dio, ad avere rispetto per i genitori, ad essere onesti, a rispettare l’altro… Provate a vederli così e a considerarli come se fossero le parole, gli insegnamenti che dà la mamma per andare bene nella vita. Una mamma non insegna mai ciò che è male, vuole solo il bene dei figli, e così fa la Chiesa.
2. Vorrei dirvi una seconda cosa: quando un figlio cresce, diventa adulto, prende la sua strada, si assume le sue responsabilità, cammina con le proprie gambe, fa quello che vuole, e, a volte, capita anche di uscire di strada, capita qualche incidente. La mamma sempre, in ogni situazione, ha la pazienza di continuare ad accompagnare i figli. Ciò che la spinge è la forza dell’amore; una mamma sa seguire con discrezione, con tenerezza il cammino dei figli e anche quando sbagliano trova sempre il modo per comprendere, per essere vicina, per aiutare. Noi – nella mia terra – diciamo che una mamma sa « dar la cara ». Cosa vuol dire questo? Vuol dire che una mamma sa « metterci la faccia » per i propri figli, cioè è spinta a difenderli, sempre. Penso alle mamme che soffrono per i figli in carcere o in situazioni difficili: non si domandano se siano colpevoli o no, continuano ad amarli e spesso subiscono umiliazioni, ma non hanno paura, non smettono di donarsi.
La Chiesa è così, è una mamma misericordiosa, che capisce, che cerca sempre di aiutare, di incoraggiare anche di fronte ai suoi figli che hanno sbagliato e che sbagliano, non chiude mai le porte della Casa; non giudica, ma offre il perdono di Dio, offre il suo amore che invita a riprendere il cammino anche a quei suoi figli che sono caduti in un baratro profondo, la Chiesa non ha paura di entrare nella loro notte per dare speranza; la Chiesa non ha paura di entrare nella nostra notte quando siamo nel buio dell’anima e della coscienza, per darci speranza! Perché la Chiesa è madre!
3. Un ultimo pensiero. Una mamma sa anche chiedere, bussare ad ogni porta per i propri figli, senza calcolare, lo fa con amore. E penso a come le mamme sanno bussare anche e soprattutto alla porta del cuore di Dio! Le mamme pregano tanto per i propri figli, specialmente per quelli più deboli, per quelli che hanno più bisogno, per quelli che nella vita hanno preso vie pericolose o sbagliate. Poche settimane fa ho celebrato nella chiesa di sant’Agostino, qui a Roma, dove sono conservate le reliquie della madre, santa Monica. Quante preghiere ha elevato a Dio quella santa mamma per il figlio, e quante lacrime ha versato! Penso a voi, care mamme: quanto pregate per i vostri figli, senza stancarvi! Continuate a pregare, ad affidare i vostri figli a Dio; Lui ha un cuore grande! Bussate alla porta del cuore di Dio con la preghiera per i figli.
E così fa anche la Chiesa: mette nelle mani del Signore, con la preghiera, tutte le situazioni dei suoi figli. Confidiamo nella forza della preghiera di Madre Chiesa: il Signore non rimane insensibile. Sa sempre stupirci quando non ce l’aspettiamo. La Madre Chiesa lo sa!
Ecco, questi erano i pensieri che volevo dirvi oggi: vediamo nella Chiesa una buona mamma che ci indica la strada da percorrere nella vita, che sa essere sempre paziente, misericordiosa, comprensiva, e che sa metterci nelle mani di Dio.

[ Copyright 2013 - Libreria Editrice Vaticana]

Publié dans:catechesi del mercoledì, PAPA FRANCESCO |on 18 septembre, 2013 |Pas de commentaires »
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