Archive pour septembre, 2013

26 SETTEMBRE: SANTI COSMA E DAMIANO, MARTIRI

http://it.wikipedia.org/wiki/Cosma_e_Damiano

COSMA E DAMIANO

26 SETTEMBRE: SANTI COSMA E DAMIANO, MARTIRI

NASCITA – III SECOLO

MORTE – 303

Venerato da Tutte le Chiese che ammettono il culto dei santi
Santuario principale Basilica dei Santi Cosma e Damiano, Roma
Ricorrenza 26 settembre
Attributi Palma, strumenti chirurgici
Patrono di Medici, chirurghi, farmacisti, parrucchieri, dentisti, Boemia
I santi Cosma (o Cosimo) e Damiano, noti anche come santi medici (… – Cirro, Siria, 303) sono ritenuti dalla tradizione due gemelli di origine araba, medici in Siria e martiri sotto l’impero di Diocleziano: sono venerati da tutte le Chiese cristiane che ammettono il culto dei santi.

La storia

Le fonti pervenuteci non sono pienamente concordanti tra loro, pur avendo molti aspetti comuni, ma riportano tre diverse tradizioni:
una tradizione « Asiatica » nella città di Costantinopoli, capitale dell’impero bizantino;
una tradizione « Romana » affermatasi in Siria;
una tradizione « Arabica » diffusa in Occidente, precisamente a Roma.
Tutte e tre le tradizioni fanno riferimento a « fratelli, gemelli e medici ». Questi erano in grado di operare prodigiose « guarigioni » e « miracoli » e la loro azione era completamente gratuita nei confronti di tutti, da qui l’appellativo « Anàrgiri » (dal greco anargyroi, senza denaro). Con questo termine si designavano nella Chiesa greca i santi che, secondo gli scritti agiografici, esercitavano la medicina senza alcuna retribuzione.
Secondo la tradizione agiografica che, sebbene non storicamente verificabile, è supportata dall’antichità del culto loro tributato, i due erano gemelli originari dell’Arabia, appartenenti ad una ricca famiglia. Il padre si convertì al Cristianesimo dopo la loro nascita, ma morì durante una persecuzione in Cilicia; mentre la madre, Teodota (o Teodora), da più tempo cristiana, si occupò della loro prima educazione.
Dopo aver appreso l’arte medica nella provincia romana di Siria, praticarono la loro professione nella città portuale di Ægea, in Cilicia, sul golfo di Alessandretta.
Prestavano la loro opera con assoluto disinteresse, senza mai chiedere retribuzione alcuna, né in denaro, né di altro genere, sia dai ricchi e sia dai poveri, in applicazione del precetto evangelico: « Gratis accepistis, gratis date ». Uno dei loro più celebri miracoli, tramandati dalla tradizione, fu quello di aver sostituito la gamba ulcerata di un loro paziente con quella di un etiope morto di recente.
Secondo la passio, tuttavia, in una sola occasione era stata elargita ai santi una ricompensa, di tre uova nelle mani del fratello minore Damiano, da parte di una contadina, Palladia, un’emorroissa, miracolosamente guarita. Cosma era rimasto tanto deluso e mortificato per quel gesto da esprimere la volontà che le sue spoglie fossero deposte, dopo la morte, lontane da quelle del fratello.
Durante le persecuzioni dei cristiani promosse da Diocleziano (284 – 305) furono fatti arrestare dal prefetto di Cilicia, Lisia.
Avrebbero subito un feroce martirio, così atroce che su alcuni martirologi è scritto che essi furono martiri cinque volte. I supplizi subiti da Cosma e Damiano differiscono secondo le fonti. Secondo alcune furono dapprima lapidati ma le pietre rimbalzarono contro i soldati, secondo altre furono crudelmente fustigati, crocefissi e bersagliati dai dardi, ma le lance rimbalzarono senza riuscire a fare loro del male; altre fonti ancora narrano che furono gettati in mare da un alto dirupo con un macigno appeso al collo, ma i legacci si sciolsero e i fratelli riuscirono a salvarsi, e ancora incatenati e messi in una fornace ardente, senza venire bruciati.
Cosma e Damiano infine vennero decapitati, assieme ai loro fratelli più giovani (o discepoli), Antimo, Leonzio ed Euprepio, nella città di Cirro, nei pressi di Antiochia.
Dopo il loro martirio coloro che avevano assistito al macabro spettacolo vollero dare degna sepoltura a coloro che tanto bene avevano elargito in vita, cercando anche di rispettare la volontà di Cosma circa la separata sepoltura: ciò fu loro impedito da un cammello che, secondo la leggenda, prese voce dicendo che Damiano aveva accettato quella ricompensa solo perché mosso da spirito di carità, onde evitare che quella povera donna potesse sentirsi umiliata dal rifiuto. I presenti diedero dunque sepoltura ai loro corpi deponendoli l’uno a fianco dell’altro.

Il culto
Le tre tradizioni della vita dei Santi Cosma e Damiano furono inoltre inserite nel contesto dei libri liturgici greci, e ad ogni tradizione fu indicato il giorno festivo specifico:
La tradizione « Asiatica » festeggiava i due santi il 1º novembre;
La tradizione « Romana » venerava i due santi il 1º luglio;
La tradizione « Arabica » lodava i santi Cosma e Damiano il 17 ottobre.
La Chiesa cattolica celebra la loro memoria liturgica il 27 settembre (probabilmente il giorno della dedicazione della basilica romana, secondo il calendario tradizionale utilizzato tuttora per la Messa Tridentina), nonostante papa Paolo VI abbia spostato la festa al 26 settembre e ne abbia reso il culto facoltativo: la Chiesa ortodossa fissa per la loro commemorazione il 1º luglio, il 17 ottobre e il 1º novembre.
Il culto dei santi Cosma e Damiano, invocati come potenti taumaturghi, iniziò subito dopo loro la morte. Il vescovo di Cirro, Teodoreto († 458), parla già della divisione delle loro reliquie, inviate alle numerose chiese già sorte in loro onore (a Gerusalemme, in Egitto, in Mesopotamia); l’imperatore Giustiniano I e il patriarca Proclo dedicarono ai santi una basilica di Costantinopoli che divenne meta di numerosi pellegrinaggi; anche a Roma papa Felice IV (526 – 530) edificò, sul sito dell’antico Templum Romuli e della Bibliotheca Pacis, nel Foro della Pace, una basilica a loro intitolata e ne favorì il culto in opposizione a quello per i pagani Castore e Polluce.
I crani dei santi vennero traslati da Roma nel X secolo e portati a Brema: nel 1581 Maria, figlia di Carlo V, li donò alla chiesa del convento delle clarisse di Madrid: le stesse reliquie sono però venerate anche nella chiesa di San Michele Arcangelo a Monaco di Baviera dove, in base all’iscrizione sul reliquiario, vennero poste nel XV secolo.
Il primo documento che attesta la presenza delle reliquie delle braccia dei Santi a Bitonto è del 1572, data di svolgimento della visita pastorale di monsignor Musso. Il culto dei taumaturghi, secondo quanto risulta da alcune testimonianze iconografiche, è però introdotto in Bitonto fin dal XIV secolo.
A Firenze i santi Cosma e Damiano erano patroni della famiglia Medici: la presenza dei due santi in Toscana simboleggia quasi sempre una commissione medicea. Tra gli artisti che raffigurarono i due fratelli per i Medici ci furono Beato Angelico e Donatello.

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INTRODUZIONE AI SALMI – ENZO BIANCHI

http://www.ora-et-labora.net/bibbia/bianchi.html

INTRODUZIONE AI SALMI

A CURA DI ENZO BIANCHI

IL CONTENUTO
 Il Salterio si presenta suddiviso in cinque libri scanditi da una dossologia finale; il Quinto libro è concluso da una piccola collezione di Salmi (dal 146 al 150), detti alleluyatici perché hanno come titolo l’espressione «Lodate il Signore» (halelûyah), che fungono da dossologia conclusiva non solo del Quinto libro ma dell’intero Salterio (dal greco psaltérion, lo strumento a corde che accompagnava i Salmi).
Questa antica suddivisione, risalente almeno al Il secolo a.C. ma probabilmente più antica, riproduce la suddivisione in cinque libri della Torah (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio) e sottolinea l’autorevolezza dei Salterio: anch’esso è una Torah! La dossologia finale di ciascun libro si accompagna a una beatitudine che troviamo all’interno di ognuno dei Salmi che chiudono i cinque libri: 41,2; 72,17; 89,16; 106,3; 146,5 (all’inizio della collezione alleluyatica conclusiva dei Salterio). Il doppio registro della «beatitudine dell’uomo» e della «lode di Dio» scandisce così ciascuno dei libri dei Salterio. Ma si può dire di più: visto che i Salmi 1 e 2 costituiscono il «prologo» dell’intero Salterio e sono racchiusi dal concetto della beatitudine dell’uomo (1,1; 2,12), e visto che i Salmi 146-150, che costituiscono l’epilogo laudativo del Salterio, sono interamente pervasi dalla lode di Dio, è l’intero libro dei Salterio a essere racchiuso – secondo un tipico procedimento stilistico della letteratura ebraica detto «inclusione» -dal doppio registro della beatitudine dell’uomo e della lode di Dio. li Salterio è cosi un libro dell’uomo e di Dio, un libro teandrico, che indica all’uomo la via della felicità affermando che questa si compie nella lode di Dio: nei Salmi 146-150 la radice hll, «lodare», ricorre ben 31 volte e il Salmo 145, che di fatto è l’ultimo del corpo del Salterio – essendo i Salmi 146-150 l’epilogo – è, come recita la sua soprascritta al versetto 1, una «lode», una tehillâ.

La testimonianza di un popolo che sapeva pregare. Il Salterio è forse il libro biblico più particolare. Si tratta di una raccolta di 150 componimenti poetico-religiosi, differenti per autore, data di composizione, ambiente di origine, tonalità letteraria, lunghezza, modalità di composizione. Accanto al brevissimo Salmo 117 con i suoi due soli versetti, vi è il maestoso Salmo 119 composto da ben 176 versetti. Vi sono Salmi «studiati a tavolino», redatti da capo a fondo con l’elaborato ricorso ad artifici letterari raffinati, come il già ricordato 119; altri, invece, mostrano le tracce e il peso della storia nella stratificazione letteraria di cui sono portatori, come il Salmo 68, costituito da un nucleo originario antichissimo che celebrava una vittoria militare all’epoca dei giudici, da una successiva «rilettura» che lo ha adattato al tempo della monarchia di Giuda, e infine dall’intervento con glosse e ampliamenti di una terza «mano» nell’epoca postesilica. Tutto ciò rende impossibile parlare di una teologia dei Salmi compatta e unitaria.
Tuttavia tali componimenti hanno in comune il fatto di essere preghiere, di essere le parole che hanno retto il dialogo fra Israele e il suo Dio. È con questa prospettiva particolare che essi si collocano all’interno della struttura teologica centrale con cui Israele ha letto il proprio rapporto con Jhwh: «l’alleanza». I Salmi costituiscono la risposta di Israele alla parola di Dio, al suo intervento nella storia: essi sono «preghiere», e la «teologia del Salterio», se cosi si può dire, è essenzialmente una teologia della preghiera biblica. Questa preghiera conosce una grande quantità di inflessioni e modulazioni, parallela all’estrema diversità delle situazioni esistenziali e storiche: il Salterio è preghiera nella vita e nella storia, anzi, è storia e vita messe in preghiera. Esso può dunque essere giustamente considerato la migliore «Scuola di preghiera» in quanto tende a unificare vita e preghiera, storia e preghiera: esso insegna che «la preghiera è vivere alla presenza di Dio». Anche in una prospettiva cristiana, la quale ha al suo centro l’incarnazione e individua la storia e il mondo come il luogo della risposta a Dio, essi restano la preghiera per eccellenza: la Liturgia delle ore, vale a dire la preghiera ufficiale della chiesa, è intessuta essenzialmente di Salmi e afferma la sostanziale irrinunciabilità dei Salmi per la chiesa. E non sarebbe difficile mostrare come le grandi tematiche che attraversano la preghiera salmica (la confessione del nome salvifico di Dio, il riconoscimento della fraternità che lega i credenti nel Signore, la preghiera per l’avvento dei suo Regno, la confessione di peccato e la richiesta di perdono ecc.) sfociano quasi come in un compendio nella preghiera che Gesù ha insegnato ai suoi discepoli, il Padre nostro (cf. E. Beaucamp, Israël en prière. Dès Psaumes au Notre Père, Cerf, Paris 1985). Né si deve dimenticare che i Salmi, essendo pregati in tutte le confessioni cristiane, sono preghiera «ecumenica» per eccellenza.
 I Salmi sono lode di Dio. I Salmi attestano che i due polmoni della preghiera biblica sono «la supplica» e «la lode». O forse, meglio, la lode e la supplica. Infatti, la lode costituisce l’orizzonte inglobante di tutta la preghiera di Israele. «La lode non è soltanto una « forma letteraria » all’interno del Salterio; la lode di Dio risuona in tutti i Salmi ed è pronunciata anche de profundis, dal profondo dell’angoscia. Lodare Dio: questa è la peculiarità di Israele, poiché nella lode è espresso il riconoscimento che il popolo di Dio è consapevole di essere « semplicemente dipendente » dal suo Dio e, al tempo stesso, che deve se stesso e tutto ciò che ha ricevuto e riceve alla bontà di Dio creatore. La lode è quindi la risposta tipica di Israele» (H. J. Kraus, Teologia dei Salmi, Paideia, Brescia 1989, p. 109). La supplica implica sempre la lode (perché la lode è anzitutto confessione di fede nel nome di Dio e questo è sempre presente nelle suppliche, anche le più disperate, come invocazione del volto e dei nome che solo può salvare) e la supplica tende sempre alla lode, com’è ben visibile nei Salmi di supplica che terminano con tonalità di lode (cf. le due parti dei Salmo 22, la prima sotto il segno dell’angoscia – versetti 2-22 – e la seconda impregnata di gioia e di esultanza – versetti 23-32; si veda anche l’espressione «ancora lo celebrerò! » dei levita esiliato che si esprime con tono di lamento in Salmi 42-43). Così, sebbene le suppliche siano il genere di preghiera più presente nel Salterio, si comprende il nome di «Lodi» (Tehillîm) che la tradizione ebraica ha attribuito all’insieme del libro. L’intersecarsi di questi diversi registri di preghiera e di atteggiamenti davanti a Dio (domanda e ringraziamento, lamento ed esultanza, grido angosciato e fiducia, lacrime e risa) dice l’intrinsecità del rapporto fra lode e supplica: « Quando ho levato il mio grido a lui, / la mia bocca già cantava la sua lode» (66,17).
 I Salmi sono preghiera personale e collettiva. L’interscambio colto a proposito della lode e della supplica riguarda anche la dimensione personale e collettiva della preghiera del Salterio. Spesso queste dimensioni sono compresenti ìn uno stesso Salmo (cf. 22; 51; 130): a volte forse perché l’orante è il re, dunque una personalità corporativa che abbraccia in sé il destino del popolo, altre volte forse perché un Salmo originariamente individuale è stato rimaneggiato in senso collettivo per meglio adattarlo alla preghiera comunitaria. In ogni caso, al di là delle spiegazioni di dettaglio, va rilevato che la dimensione teologica dell’alleanza implica una intrinsecità fra «io» e «noi». Nei Salmi di ringraziamento l’orante invita i presenti al tempio a unirsi alla sua lode nella piena coscienza che il beneficio che il Signore gli ha procurato gli è stato ottenuto non grazie ai propri meriti, ma alla propria appartenenza al popolo con cui Dio ha stretto alleanza (cf. 34,4); la supplica dell’orante che invoca il perdono dei proprio peccato in vista della propria restaurazione personale e della propria riammissione alla presenza di Dio è seguita dall’invocazione a Dio per la ricostruzione delle mura di Gerusalemme e la ripresa del culto al tempio (51,3-19 e 20-21). La stessa utilizzazione comunitaria e liturgica di Salmi composti da un individuo fa sì che « io » del singolo e «io» di Israele si collochino in situazione di circolarità e non di esclusione. In ogni caso, il fatto che le preghiere contenute nel Salterio siano destinate a essere cantate e musicate indica che esse trovavano nella liturgia il loro luogo di destinazione. La qual cosa non ha impedito che divenissero testi usati anche nella pietà personale. Il Salterio tuttavia lascia trasparire numerose situazioni liturgiche, rituali e cultuali in cui venivano utilizzati i Salmi: processioni (48,13-15; 68,25-26; 118,26-27), pellegrinaggi (84; la collezione dei 15 Canti delle salite, espressione presente nelle soprascritte dei Salmi 120-134), sacrifici (50,23; 66,13-15; 116,17 ecc.), liturgie di ingresso al tempio (15; 24), benedizioni sacerdotali (115,14-15; 118,26; 128,5; 134,3), oracoli (12,6; 60,8-10; 81,7-17).
 I Salmi sono musica e gestualità. Il riferimento a numerosi strumenti musicali (cf. 150,3-5) mostra l’estrema vivezza di queste liturgie: strumenti a corda (arpa, lira, cetra), fiati (flauti, liuti, oboe), corni (sia naturali che artificiali, cioè di bronzo o rame o argento), e poi cimbali, tamburi, campanelle… Ma lo strumento per eccellenza della preghiera salmica, e biblica in genere, è il corpo: «Il fragile strumento della preghiera, l’arpa più sensibile, il più esile ostacolo alla malvagità umana, tale è il corpo. Sembra che per il salmista tutto si giochi là, nel corpo. Non che sia indifferente all’anima, ma al contrario perché l’anima non si esprime e non traspare se non nel corpo. Il Salterio è la preghiera del corpo. Anche la meditazione vi si esteriorizza prendendo il nome di « mormorio », « sussurro ». Il corpo è il luogo dell’anima e dunque la preghiera traversa tutto ciò che si produce nel corpo. È il corpo stesso che prega: « Tutte le mie ossa diranno: Chi è come te, Signore? » » (P. Beauchamp, « La prière à l’école des Psaumes », in O. Odelain – R. Séguineau, Concordance de la Bible. Les Psaumes, Desclée de Brouwer, Paris 1980, P. XVII). Ecco dunque che il corpo si esprime nella preghiera inginocchiandosi (95,6), levando in alto le mani (141,2), protendendo in avanti le mani (143,6), sciogliendo le membra in danze (149,3), battendo le mani (47,2), prostrandosi faccia a terra (29,2), alzando gli occhi verso l’alto in segno di supplica (123) ecc. È cosi che i Salmi strappano la preghiera ai rischi di cerebralità e la presentano come linguaggio globale, di tutto l’uomo.
 I Salmi sono poesia. Questa totalità di espressione dell’uomo trova la sua più adeguata manifestazione nella forma poetica: non bisogna dimenticare che i Salmi sono poesia e che pertanto la musicalità e il ritmo, le assonanze e le allitterazioni, cosi come tutti gli altri elementi stilistici della poetica ebraica che compongono la trama dei Salmi, sono essenziali per penetrarli, o meglio, per lasciarsene penetrare. Senza addentrarsi nella grande ricchezza della poetica ebraica, basti qui ricordare che la regola fondamentale della poesia ebraica si basa sul fatto che la lingua ebraica è accentuale, regolata dall’accento tonico distribuito fra pause e cesure. Ogni parola ha un accento su cui cade il tono della voce nel canto o nella recitazione, e il ritmo si adatta al carattere proprio di ciascun Salmo: i Salmi sapienziali, meditativi, avranno più frequentemente un ritmo pacato e disteso di 3+3 accenti (per esempio 1); le suppliche hanno spesso il ritmo detto qinâ («lamento»), un ritmo strozzato di 3+2 accenti che riproduce il parlare sincopato di chi è preso da singhiozzi e pianto (42-43). Tuttavia molti Salmi non presentano affatto una regolare struttura ritmica o per la lunga e stratificata storia letteraria che li ha prodotti, o per le corruzioni e lacune che si possono essere prodotte nel corso della tradizione manoscritta.
Altra regola essenziale della poesia ebraica è quella del «parallelismo»: un concetto è ripetuto una o più volte con parole diverse, con espressioni variate, per ottenere lo scopo di una adeguata interiorizzazione. I Salmi delle salite (120-134), tutti databili all’epoca postesilica – eccetto il Salmo 132, di origine più antica – sono redatti facendo ricorso al procedimento della «ripetizione»: una stessa parola o espressione è ripetuta più volte per aiutare la memorizzazione del testo, tra l’altro sempre molto breve (tranne, ancora, il Salmo 132). Si trattava infatti di componimenti che dovevano essere recitati durante il pellegrinaggio a Sion (detto «la salita», poiché a Gerusalemme, data la sua collocazione geografica, «si sale»: cf. Vangelo secondo Marco 10,33), e dunque dovevano essere semplici, adatti a tutti i livelli della popolazione, e facilmente memorizzabili.
Al «parallelismo sinonimico» (6,2) si affianca il «parallelismo antitetico», in cui un’idea è rafforzata dal suo contrario: «Gli uni contano sui carri, gli altri sui cavalli; / noi invochiamo il nome di Jhwh nostro Dio; / quelli si piegano e cadono, / noi restiamo in piedi e siamo saldi» (20,8-9).
Il « parallelismo sintetico » si riferisce a un concetto che, espresso nel primo membro di un versetto, viene completato dal secondo: « La volontà del Signore è luminosa / dà trasparenza allo sguardo » (1 9,9cd).
Il «parallelismo ascendente» mostra il continuo e progressivo accrescimento dell’idea fondamentale espressa: «Riconoscete a Jhwh, figli di Dio, / riconoscete a Jhwh gloria e potenza / riconoscete a Jhwh la gloria del suo nome» (29,1-2a).
Preghiera di tutto l’uomo, i Salmi rivelano la grande quantità di linguaggi che può esprimere la relazione con il Signore. Il sussurro, il brusio sommesso della meditazione (1,2), i singhiozzi e le lacrime del pianto del supplice (6,7-8; 56,9), la protesta nei confronti di un agire di Dio che non si riesce a comprendere («Perché, Signore?», 88,15), il silenzio (65,2), il grido e l’urlo (22,6; 61,2; 69,4), l’invettiva (58; 83,10ss), il lamento (5,2), la riflessione e il dialogo interiore (4,5; 42,6.12; 43,5; 73,16), il riso incontenibile della gioia straripante (126,2). Ogni linguaggio rinvia a una situazione esistenziale e storica che l’orante cerca di leggere davanti a Dio.
La molteplicità di situazioni e di atteggiamenti espressa nei Salmi si riflette sulla variegata gamma di generi letterari presenti nel Salterio che di seguito analizzeremo. Occorre però dapprima premettere che in realtà molti Salmi presentano una tale mescolanza di generi al loro interno che risulta quasi impossibile rinchiuderli in una sola griglia. Così il 36 combina il registro sapienziale con quello della supplica; il 52 contiene elementi sapienziali, ma anche i toni dell’invettiva e della requisitoria, del lamento personale e del ringraziamento; il 75 può essere annoverato tra i ringraziamenti, benché vi emerga la tematica della regalità di Jhwh e presenta elementi liturgico-profetici; il 95 e il 115 sembrano tradire un’origine liturgica senza che sia possibile specificare il tipo di liturgia; il 125 unisce il tono della supplica a quello della fiducia; il 126 è un Salmo di ringraziamento che diviene lamentazione e supplica; il 129 vede coabitare in sé i toni della supplica, della fiducia e del ringraziamento… E questo, che potrebbe essere verificato su molti altri Salmi, da un lato dice la precarietà dell’attribuzione di un Salmo a un determinato genere (mentre spesso si tratta piuttosto di giudicare la preponderanza di un tono rispetto a un altro), dall’altro attesta che i Salmi riflettono anzitutto la complessità e la non linearità della vita e della storia più ancora che la regolarità ingessata di forme e moduli letterari rigidi.

 N.B.: Questo testo è solo una piccola parte dell’introduzione ai Salmi
 curata da Enzo Bianchi e riportata nel volume citato più sopra.
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The Priesthood of Mary, Mosaic in the Basilica of Parenzo, Croatia

The Priesthood of Mary,  Mosaic in the Basilica of Parenzo, Croatia dans immagini sacre mary-priest-1
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MARIA MADRE E MODELLO DEL SACERDOTE

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MARIA MADRE E MODELLO DEL SACERDOTE

(Padre Cantalamessa, 18 dicembre 2009, Terza Predica di Avvento)

Nella lettera a tutti i sacerdoti in occasione del Giovedì Santo del 1979, la prima della serie del suo pontificato, Giovanni Paolo II scriveva: “C’è, nel nostro sacerdozio, ministeriale la dimensione stupenda e penetrante della vicinanza della madre di Cristo”. In quest’ultima meditazione di Avvento, vorremmo riflettere proprio su questa vicinanza tra Maria e il sacerdote.
Di Maria non si parla molto spesso nel Nuovo Testamento. Tuttavia, se ci facciamo caso, notiamo che ella non è assente in nessuno dei tre momenti costitutivi del mistero cristiano che sono: l’Incarnazione, il Mistero pasquale, e la Pentecoste. Maria fu presente nell’Incarnazione perché essa è avvenuta in lei; fu presente nel Mistero pasquale, perché è scritto che: “ presso la croce di Gesù stava Maria sua madre” (cf Gv 19, 25); fu presente nella Pentecoste, perché è scritto che gli apostoli erano “ assidui e concordi nella preghiera con Maria, la madre di Gesù “ (cf At 1, 14).
Ognuna di queste tre presenze ci rivela qualcosa della misteriosa vicinanza tra Maria e il sacerdote, ma trovandoci nell’imminenza del Natale, vorrei limitarmi alla prima di esse, a quello che Maria dice del sacerdote e al sacerdote nel mistero dell’incarnazione.
1. Quale rapporto tra Maria e il sacerdote?
Vorrei anzitutto accennare alla questione del titolo di sacerdote attribuito alla Vergine nella tradizione. Uno scrittore della fine del V secolo chiama Maria “Vergine e allo stesso tempo sacerdote e altare che ci ha dato Cristo pane del cielo per la remissione dei peccati”[1]. Dopo di lui, sono frequenti i riferimenti al tema di Maria sacerdote che però divenne oggetto di sviluppi teologici solo nel secolo XVII, nella scuola francese di San Sulpizio. In essa il sacerdozio di Maria non viene messo tanto in rapporto con il sacerdozio ministeriale quanto con quello di Cristo.
Alla fine del secolo XIX si diffuse una vera e propria devozione alla Vergine – sacerdote e san Pio X accordò anche una indulgenza alla relativa pratica. Quando però si intravide il pericolo di confondere il sacerdozio di Maria con quello ministeriale, il magistero della Chiesa divenne reticente e due interventi del Santo Ufficio posero praticamente fine a tale devozione[2].
Dopo il concilio si continua a parlare del sacerdozio di Maria, collegandolo però non al sacerdozio ministeriale, e neppure a quello supremo di Cristo, ma al sacerdozio universale dei fedeli: ella possederebbe a titolo personale, come figura e primizia della Chiesa, quel “sacerdozio regale” (1 Pt 2,9) che tutti i battezzati posseggono a titolo collettivo.
Che possiamo ritenere di questa lunga tradizione che associa Maria al sacerdote e che senso dare alla “vicinanza” tra essi di cui parlava Giovanni Paolo II? Resta, a me pare, la analogia o la corrispondenza dei piani, all’interno del mistero della salvezza. Quello che Maria è stata sul piano fisico e della realtà storica, una volta per tutte, il sacerdote lo è ogni volta di nuovo sul piano della realtà sacramentale.
In questo senso si possono intendere le parole di Paolo VI: “Quali relazioni e quali distinzioni vi sono fra la maternità di Maria, resa universale dalla dignità e dalla carità della posizione assegnatale da Dio nel piano della Redenzione, e il sacerdozio apostolico, costituito dal Signore per essere strumento di comunicazione salvifica fra Dio e gli uomini? Maria dà Cristo all’umanità; e anche il Sacerdozio dà Cristo all’umanità, ma in modo diverso, com’è chiaro; Maria mediante l’Incarnazione e mediante l’effusione della grazia, di cui Dio l’ha riempita; il Sacerdozio mediante i poteri dell’ordine sacro”[3].
L’analogia tra Maria e il sacerdote si può esprimere così. Maria, per opera dello Spirito Santo, ha concepito Cristo e, dopo averlo nutrito e portato nel suo seno, lo ha dato alla luce a Betlemme; il sacerdote, unto e consacrato di Spirito Santo nell’ordinazione, è chiamato anche lui a riempirsi di Cristo per poi darlo alla luce e farlo nascere nelle anime mediante l’annuncio della parola, l’amministrazione dei sacramenti.
In questo senso il rapporto tra Maria e il sacerdote ha una lunga tradizione dietro di sé, molto più autorevole di quella di Maria – sacerdote. Riprendendo un pensiero di Agostino[4] il Con cilio Vaticano II scrive: “ La Chiesa… diventa essa pure madre, poiché con la predicazione e il battesimo genera a una vita nuova e immortale i figlioli, concepiti ad opera dello Spirito Santo e nati da Dio“ [5].
Il battistero, dicevano i Padri, è il seno in cui la Chiesa dà alla luce i suoi figli e la parola di Dio è il latte puro con cui li nutre: “O prodigio mistico! Uno è il Padre di tutti, uno anche il Verbo di tutti, uno e identico dappertutto è anche lo Spirito Santo e una sola è la Vergine Madre: così io amo chiamare la Chiesa. Pura come vergine, amabile come madre, chiamando a raccolta i suoi figli, li nutre con quel sacro latte che è la parola destinata ai bambini appena nati (cf 1 Pt 2, 2)”[6].
Il beato Isacco della Stella, in una pagina che abbiamo letto nell’ufficio delle letture di sabato scorso, ha fatto una sintesi di questa tradizione: “ Maria e la Chiesa, scrive, sono una madre e più madri; una vergine e più vergini. L’una e l’altra madre, l’una e l’altra vergine. L’una e l’al tra concepisce senza concupiscenza dallo stesso Spirito; l’una e l’altra dà a Dio Padre una prole senza peccato. Quella, senza al cun peccato, partorì al corpo il Capo; questa, nella remissione di tutti i peccati, partorisce il corpo al Capo”[7].
Quello che in questi testi si dice della Chiesa nel suo insieme, come sacramento di salvezza, va applicato in modo speciale ai sacerdoti, perché, ministerialmente, sono essi che, in concreto, generano Cristo nelle anime mediante la parola e i sacramenti.
2. Maria credette
Fin qui l’analogia tra Maria e il sacerdote sul piano, per così dire, oggettivo o della grazia. Esiste però un’analogia anche sul piano soggettivo, cioè tra il contributo personale che la Vergine ha dato alla grazia dell’elezione e il contributo che il sacerdote è chiamato a dare alla grazia dell’ordinazione. Nessuno dei due è un canale inerte che lascia passare la grazia senza nulla apportarvi di proprio.
Tertulliano parla di una versione del docetismo gnostico, secondo cui Gesù era nato, sì, da Maria, ma non concepito in lei e da lei; il corpo di Cristo, venuto dal cielo, sarebbe passato attraverso la Vergine, ma non generato in lei e da lei; Maria sarebbe stata per Gesù una via, non una madre, e Gesù per Maria un ospite, non un figlio[8]. Per non ripetere questa forma di docetismo nella sua vita, il sacerdote non può limitarsi a trasmette agli altri un Cristo imparato dai libri che non è diventato prima carne della sua carne e sangue del suo sangue. Come Maria (l’immagine è di San Bernardo) egli deve essere un serbatoio che fa traboccare al di fuori ciò di cui è pieno dentro, non un canale che si limita a far passare l’acqua senza nulla trattenerne.
L’apporto personale, comune a Maria e al sacerdote, si riassume nella fede. Maria, scrive Agostino, “per fede concepì e per fede partorì” (fide concepit, fide peperit)[9]; anche il sacerdote per fede porta Cristo nel suo cuore e mediante la fede lo comunica agli altri. Sarà il centro della meditazione di oggi: cosa il sacerdote può imparare dalla fede di Maria.
Quando Maria giunse da Elisabetta, questa l’accolse con grande gioia e, “piena di Spirito Santo “, esclamò: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore” (Lc l, 45). Non c’è dubbio che questo aver creduto si riferi sce alla risposta di Maria all’angelo: “Eccomi, sono la serva del Si gnore, avvenga di me quello che hai detto” (Lc 1, 38).
A prima vista, quello di Maria fu un atto di fede facile e per fino scontato. Diventare madre di un re che avrebbe regnato in eterno sulla casa di Giacobbe, madre del Messia! Non era quel lo che ogni fanciulla ebrea sognava di essere? Ma questo è un modo di ragionare assai umano e carnale. Maria viene a tro varsi in una totale solitudine. A chi può spiegare ciò che è av venuto in lei? Chi la crederà quando dirà che il bimbo che por ta nel grembo è “opera dello Spirito Santo “? Questa cosa non è avvenuta mai prima di lei e non avverrà mai dopo di lei.
Maria conosceva certamente ciò che era scritto nel libro della legge e cioè che se la fanciulla, al momento delle nozze, non fosse stata trovata in stato di verginità, doveva essere fatta uscire all’ingres so della casa del padre e lapidata dalla gente del villaggio (cf Dt 22, 20 s). Noi parliamo volentieri oggigiorno del rischio della fede, intendendo, in genere, con ciò, il rischio intellettuale; ma per Maria si trattò di un rischio reale!
Carlo Carretto, nel suo li bretto sulla Madonna, narra come giunse a scoprire la fede di Maria. Quando viveva nel deserto, aveva saputo da alcuni suoi amici Tuareg che una ragazza dell’accampamento era stata promessa sposa a un giovane, ma che non era andata ad abitare con lui, essendo troppo giovane. Aveva collegato questo fatto con quello che Luca dice di Maria. Perciò ripassando, dopo due anni, in quello stesso accampamento, chiese notizie della ragaz za. Notò un certo imbarazzo tra i suoi interlocutori e più tardi uno di loro, avvicinandosi con grande segretezza, fece un segno: passò una mano sulla gola con il gesto caratteristico degli arabi quando vogliono dire: “E stata sgozzata “. Si era scoperta incin ta prima del matrimonio e l’onore della famiglia esigeva quella fine. Allora ripensò a Maria, agli sguardi impietosi della gente di Nazareth, agli ammiccamenti, capì la solitudine di Maria, e quella notte stessa la scelse come compagna di viaggio e maestra della sua fede [10].
Dio non strappa mai alle creature dei consensi, nascondendo loro le conseguenze, ciò cui andranno incontro. Lo vediamo in tutte le grandi chia mate di Dio. A Geremia preannuncia: “Ti muoveranno guerra” (Ger l, 19) e di Saulo, dice ad Anania: “Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome2 (At 9, 16). Solo con Maria, per una missione come la sua, avrebbe agito diversamente? Nella luce dello Spirito Santo, che accompagna la chiamata di Dio, el la ha certamente intravisto che anche il suo cammino non sa rebbe stato diverso da quello di tutti gli altri chiamati. Del resto, Simeone, ben presto, darà espressione a questo presentimento, quando le dirà che una spada le avrebbe trapassato l’anima.
Uno scrittore moderno, Erri De Luca, ha descritto in modo poetico questo presentimento di Maria al momento della nascita di Gesù. Ella è sola nella grotta, Giuseppe veglia all’esterno (per legge nessun uomo può assistere al parto); ha appena dato alla luce il figlio, quando delle strane associazioni le balenano nella mente: “Perché, figlio mio, nasci proprio qui a Bet-Lehem, Casa del Pane? E perché dobbiamo chiamarti Ieshu?… Fa’ che questo brivido salito sulla mia schiena, questo freddo venuto dal futuro sia lontano da lui”. La madre presagisce che quel figlio le sarà tolto, allora ripete tra sé: “Fino alla prima luce Ieshu è solamente mio. Voglio cantare una canzone con queste tre parole e basta. Stanotte qui a Bet Lehem è solamente mio”. E, così dicendo, se lo porta al seno per allattarlo[11].
Maria è l’unica ad aver creduto “in situazione di contemporaneità”, cioè mentre la cosa accadeva, prima di ogni conferma e di ogni convalida da parte degli eventi e della storia 8. Gesù disse a Tommaso: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!” (Gv 20, 29): Maria è la prima di coloro che hanno creduto senza aver ancora visto.
San Paolo dice che Dio ama chi dona con gioia (2 Cor 9, 7) e Maria ha detto a Dio il suo “sì “ con gioia. Il verbo con cui Maria esprime il suo consenso, e che è tradotto con “fiat “ o con “si faccia “, nell’originale, è all’ottativo (génoito), un modo verbale che in greco si usa per esprimere desiderio e perfino gioiosa impazienza che una certa cosa avvenga. Come se la Vergine dicesse: “Desidero anch’io, con tutto il mio essere, quello che Dio desidera; si compia presto ciò che egli vuole “. Davvero, come diceva sant’Agostino, prima ancora che nel suo corpo ella concepì Cristo nel suo cuore.
Ma Maria non disse “fiat” perché non parlava latino e non disse neppure “génoito “ che è parola greca. Che cosa disse allora? Qual è la parola che, nella lingua parlata da Maria, corrisponde più ‘ da vicino a questa espressione? Quando voleva dire a Dio “sì, così sia “, un ebreo diceva “amen! “ Se è lecito cer care di risalire, con pia riflessione, alla ipsissima vox, alla parola esatta, uscita dalla bocca di Maria – o almeno alla parola che c’era, a questo punto, nella fonte giudaica usata da Luca -, que sta deve essere stata proprio la parola “amen”. Ricordiamo i salmi che nella Volgata latina terminavano con l’espressione: “fiat, fiat”?; nel testo greco dei LXX, a quel punto, c’è “genoito, genoito” e nell’originale ebraico conosciuto da Maria c’è “amen, amen”.
Amen è parola ebraica, la cui radice significa solidità, certezza; era usata nella liturgia come risposta di fede alla parola di Dio. Con l’“amen “ si riconosce quel che è stato detto come paro la ferma, stabile, valida e vincolante. La sua traduzione esatta, quando è risposta alla parola di Dio, è questa: “Così è e così sia “. Indica fede e obbedienza insieme; riconosce che quel che Dio dice è vero e vi si sottomette. E dire “sì “ a Dio. In questo senso lo troviamo sulla bocca stessa di Gesù: “Sì, amen, Padre, perché così è piaciuto a te… “ (cf Mt 11, 26). Egli anzi è l’Amen personificato: Così parla l’Amen… (Ap 3, 14) ed è per mezzo di lui che ogni altro “amen “ di fede pronunciato sulla terra sale ormai a Dio (cf 2 Cor l, 20). Anche Maria, dopo il Figlio, è l’ amen a Dio fatto persona.
La fede di Maria è dunque un atto d’amore e di docilità, libe ro anche se suscitato da Dio, misterioso come misterioso è ogni volta l’incontro tra la grazia e la libertà. E questa la vera gran dezza personale di Maria, la sua beatitudine confermata da Cri sto stesso. “Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte” (Lc 11, 27), dice una donna nel Vangelo. La donna proclama Maria beata perché ha portato Gesù; Eli sabetta la proclama beata perché ha creduto; la donna proclama beato il portare Gesù nel grembo, Gesù proclama beato il portarlo nel cuore: “Beati piuttosto – risponde Gesù – coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano”. Egli aiuta, in tal modo, quella donna e tutti noi, a capire dove risiede la grandezza personale di sua Madre. Chi è infatti che “custodiva“ le parole di Dio più di Maria, della quale è detto due volte, dalla stessa Scrittura, che “custodiva tutte le parole nel suo cuore “? (cf Lc 2, 19.51).
Non dovremmo concludere il nostro sguardo alla fede di Maria con l’impressione che Maria abbia creduto una volta e poi basta nella sua vita; che ci sia stato un solo grande atto di fede nella vita della Madonna. Quante volte, in seguito all’Annunciazione, Maria sarà stata martirizzata dall’apparente contrasto della sua situazione con tutto ciò che era scritto e conosciuto, circa la volontà di Dio, nell’Antico Testamento e circa la figura stessa del Messia! Il Concilio Vaticano II ci ha fatto un grande dono, afferman do che anche Maria ha camminato nella fede, anzi che ha “progredito” nella fede, cioè è cresciuta e si è perfezionata in essa [12].
3. Crediamo anche noi!
Passiamo ora da Maria al sacerdote. Sant’Agostino ha scritto: “Maria credette e in lei quel che credette si avverò. Crediamo anche noi, perché quel che si avverò in lei possa giovare anche a noi”[13]. Crediamo anche noi! La contemplazione della fede di Maria ci spinge a rinnovare anzitutto il nostro personale atto di fede e di abbandono a Dio.
Tutti devono e possono imitare Maria nella sua fede, ma in modo tutto speciale deve farlo il sacerdote. “Il mio giusto – dice Dio – vivrà di fede “ (cf Abacuc 2, 4; Rm 1, 17): questo vale, a un titolo speciale, per il sacerdote. Egli è l’uomo della fede. La fede è ciò che determina, per così dire, il suo “peso specifico” e l’efficacia del suo ministero.
Ciò che i fedeli colgono immedia tamente in un sacerdote e in un pastore, è se “ ci crede “, se crede in ciò che dice e in ciò che celebra. Chi dal sacerdote cer ca anzitutto Dio, se ne accorge subito; chi non cerca da lui Dio, può essere facilmente tratto in inganno e indurre in inganno lo stesso sacerdote, facendolo sentire importante, brillante, al pas so coi tempi, mentre, in realtà, è un “bronzo che tintinna e un cembalo squillante”.
Perfino il non credente che si accosta al sacerdote in uno spirito di ricerca, capisce subi to la differenza. Quello che lo provocherà e che potrà metterlo salutarmente in crisi, non sono in genere le più dotte discussioni della fede, ma trovarsi davanti a uno che crede veramente con tutto se stesso. La fede è contagiosa. Come non si contrae contagio, sentendo solo parlare di un virus o studiandolo, ma venendone a contatto, così è con la fede.
A volte si soffre e magari ci si lamenta in preghiera con Dio, perché la gente abbandona la Chiesa, non lascia il peccato, perché parliamo parliamo, e non succede niente. Un giorno gli apostoli tentarono di cacciare il demonio da un pove ro ragazzo, ma senza riuscirvi. Dopo che Gesù ebbe cacciato, lui, lo spirito cattivo dal ragazzo, si accostarono a Gesù in di sparte e gli chiesero: “Perché noi non abbiamo potuto scacciarlo?” E Gesù rispose: “Per la vostra poca fede” (Mi 17, 19-20).
San Bonaventura racconta co me un giorno, mentre era sul monte della Verna, gli tornò in mente ciò che dicono i santi Padri e cioè che l’anima devota, per grazia dello Spirito Santo e la potenza dell’Al­tissimo, può spiritualmente concepire per fede il benedetto Verbo del Padre, partorirlo, dargli il nome, cercarlo e adorarlo con i Magi e infine presentarlo felicemente a Dio Pa dre nel suo tempio. Scrisse allora un opuscolo intitolato “Le cinque feste di Gesù bambino”, per mostrare come il cristiano può rivivere in sé ognuno di questi cinque momenti della vita di Gesù. Mi limito a ciò che san Bonaventura dice delle due prime feste, la concezione e la nascita, applicandolo in particolare al sacerdote.
Il sacerdote conce pisce Gesù quando, scontento della vita che conduce, stimolato da sante ispirazioni e accendendosi di santo ardore, infine stac candosi risolutamente dalle sue vecchie abitudini e difetti, è come fecondato spiritualmente dalla grazia dello Spirito Santo e concepisce il proposito di una vita nuova.
Una volta concepito, il benedetto Figlio di Dio nasce nel cuore del sacerdote, allorché, dopo aver fatto un sano discernimen to, chiesto opportuno consiglio, invocato l’aiuto di Dio, mette immediatamente in opera il suo santo proposito, comin ciando a realizzare quello che da tempo andava maturando, ma che aveva sempre rimandato per paura di non esserne capace.
Questo proposito di vi ta nuova deve, però, tradursi subito, senza rinvii, in qualcosa di concreto, in un cambiamento, possibilmente anche esterno e visibile, nella nostra vita e nelle nostre abitudini. Se il proposito non è messo in atto, Gesù è concepito, ma non è partorito. Sarà uno dei tanti aborti spirituali di cui è pieno purtroppo il mondo delle anime.
Ci sono due brevissime parole che Maria pronunciò al momento dell’Annunciazione e il sacerdote pronuncia nel momento della sua ordinazione: “Eccomi!” e “Amen”, o “Sì”. Ricordo il momento in cui ero davanti all’altare per l’ordinazione con una decina di miei compagni. A un certo punto venne pronunciato il mio nome e io risposi emozionatissimo: “Eccomi!”
Nel corso del rito, ci furono rivolte alcune domande: “Vuoi esercitare il ministero sacerdotale per tutta la vita?”, “Vuoi adempiere degnamente e fedelmente il ministero della parola nella predicazione?”, “Vuoi celebrare con devozione e fedeltà i misteri di Cristo?”. Ad ogni domanda rispondemmo: “Sì, lo voglio!”
Il rinnovamento spirituale del sacerdozio cattolico, auspicato dal Santo Padre, sarà proporzionato allo slancio con cui ognuno di noi, sacerdoti o vescovi della Chiesa, saremo capaci di pronunciare di nuovo un gioioso: “Eccomi!” e “Sì, lo voglio!”, facendo rivivere l’unzione ricevuta nell’ordinazione. Gesù entrò nel mondo dicendo: “Ecco, io vengo, per fare, o Dio, la tua volontà!” (Eb 10,7). Noi lo accogliamo, in questo Natale, con le stesse parole: “Ecco, io vengo, Signore Gesù, a fare la tua volontà!”.
[1] Ps. Epifanio, Omelia in lode della Vergine (PG 43, 497)
[2] Cf. su tutta la questione, R. Laurentin, Maria – ecclesia – sacerdotium, Parigini 1952; art. “Sacerdoti” in Nuovo Dizionario di Mariologia, Ed. Paoline 1985, 1231-1242.
[3] Paolo VI, Udienza generale del 7, Ott. 1964.
[4] S. Agostino, Discorsi 72 A, 8 (Misc. Agost. I, p.164).
[5] Lumen gentium, 64.
[6] Clemente Alessandrino, Pedagogo, I, 6.
[7] B. Isacco della Stella, Discorsi 51 (PL 194, 1863).
[8] Tertulliano, De carne Christi, 20-21 (CCL 2, 910 ss.).
[9] S. Agostino, Discorsi 215, 4 (PL 38,1074).
[10] C. Carretto, Beata te che hai creduto, Ed. Paoline 1986, pp. 9 ss.
[11] E. De Luca, In nome della madre, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 66 ss.
[12] Lumen gentium, 58.
[13] S. Agostino, Discorsi, 215,4 (PL 38, 1074).

Publié dans:Maria Vergine, Padre Cantalamessa |on 25 septembre, 2013 |Pas de commentaires »

AMORE E SILENZIO – PRINCIPI DELLA VITA SPIRITUALE

http://www.certosini.info/testi/amoreesilenzio.htm

AMORE E SILENZIO – PRINCIPI DELLA VITA SPIRITUALE

• Il fine soprannaturale
• La vita di fede
• La presenza naturale di Dio in tutte le cose
• La presenza soprannaturale di Dio nelle anime
• Il peccato mortale priva l’anime di questa presenza
• Come Dio e soprannaturalmente presente in noi?
• Vivere la presenza soprannaturale di Dio

Il fine soprannaturale

Se gettiamo uno sguardo sincero sul passato della nostra vita spirituale, ri­maniamo stupiti, e forse accasciati, per la lentezza o, addirittura, per la nullità dei nostri progressi. Perché tanti sforzi sono rimasti sterili? Perché dopo tanti anni di vita ascetica, dobbiamo riconoscere le stesse debolezze, registrare le stesse cadute? Non avremo, fin dall’inizio, dimenticato l’essenziale, non avremo sbagliato cammino?
 Infatti, non c’è che una sola porta per la quale si può entrare nel regno spirituale. Invano abbiamo tentato di penetravi da un’altra parte; dovevamo urtare contro barriere insormontabili. Eravamo simili a dei ladri maldestri che tentano di penetrare con astuzia in una proprietà ben difesa. « Chi non entra per la porta, è un ladro e un brigante » (Gv. 10,1). Questa porta unica è Cristo, è la fede in Cristo: fede che la carità vivifica, e che, consolidando il nostro cuore, gli permette in un ritorno d’amore, di ardere più intensamente e di risplendere sempre di più, immagine viva della carità divina.
 Bisogna dichiarare senza scusa la perfetta inutilità di un ascetismo che non ha altro ideale che il perfezionamento dell’ “io”, di questo ascetismo che ben po­trebbe essere chiamato « egocentrismo ». I suoi risultati sono molto scarsi, e molto fallaci sono i frutti che se ne ricavano; chi non ha seminato che secondo l’uomo non mieterà che frutti umani.
 L’ascetismo cristiano si fonda interamente su un principio divino e questo stesso principio lo ispira, l’anima e lo con­duce al suo termine: « Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente » (Dt. 6,5 e Mt. 22,37). E’ il riassunto e l’essenza del­l’ antica Legge: la nuova Legge non fa che riprendere questo primo e supremo co­mandamento, spiegarlo e promulgarlo universalmente in tutta la sua semplicità e forza divine. Bisogna, fin dall’inizio del­la vita spirituale, orientare l’anima verso questa totalità dell’amore, verso Dio solo. Agire in altro modo, significa disconosce­re il senso profondo del Cristianesimo. Significa ritornare allo sforzo egoista, al­l’egoismo vanitoso di certe morali pagane – stoicismo di ieri e di oggi – dolorosa ri­cerca di un orgoglio meschino!
 Se noi ci potessimo convincere una volta per tutte della verità delle parole del nostro divino Maestro: « Senza di me non potete far nulla » (Gv. 15,5), come la nostra vita cambierebbe aspetto! Se noi riuscissimo a compenetrarci della dottri­na di vita contenuta in queste poche pa­role: « Senza di me non potete far nulla, noi ci sforzeremo di praticare non questa o quella virtù, ma tutte senza eccezioni, sapendo che è Dio stesso che deve essere al medesimo tempo scopo e principio del­le nostre azioni.
Ma dopo aver fatto tutto ciò che ci era possibile – come se il successo non di­pendesse che da noi soli – noi sapremo ri­manere umili di fronte ai nostri progressi e fiduciosi dopo le nostre cadute. Sapen­do che noi stessi non siamo nulla, ma che per mezzo di Cristo noi siamo onnipoten­ti: “ Tutto posso in colui che mi dà la for­za » (Fil. 4,13), noi non saremo più sco­raggiati per le nostre cadute che fieri de­gli atti di virtù dei quali la grazia di Dio ci avesse reso capaci.
 E c’è di più: per un’anima che ha preso coscienza del suo nulla e del tutto di Dio, le debolezze, le mancanze non devo­no più rappresentare degli ostacoli: esse si trasformano in mezzi, esse sono un’oc­casione per mezzo della quale la fede può aumentare con un atto eroico, e la fiducia trionfare davanti alla manifesta sconfitta di tutto -ciò che non conduce a Dio: “Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze – dice l’Apostolo – perché dimori in me la potenza di Cristo” (2 Cor. 12,9).
 Quando veramente si è cominciato ad appoggiarsi così su Dio, e non su sé stessi, si avanza a passi da gigante nelle vie dell’amore. Sempre di più, la carità domina i nostri atti e purifica le nostre in­tenzioni, in modo che non tarderà ad in­vadere tutta la nostra vita. Se vogliamo essere fedeli alla dot­trina del Vangelo, dobbiamo sforzarci di non agire più se non per motivi di fede e di carità. E, siccome un principio natura­le non dà frutti soprannaturali, non ci ar­riveremo mai se non cercheremo, fin dal principio, di radicarci in queste virtù specificamente cristiane. Se noi non pos­siamo, come dice S.Paolo, pronunciare il nome del Signore senza la grazia, come potremo sperare, solamente per mezzo dei nostri sforzi, di raggiungere il nostro fine soprannaturale?
 Certamente, per la riforma del­l’uomo vecchio, il lavoro della volontà è indispensabile. Ma quand’è che lo slancio della nostra volontà sarà più pronto e più efficace? Quando procederà dalla semplice ragione, o quando sarà opera della fe­de e della carità? – La risposta è facile e viene spontanea al nostro pensiero. Ma allora perché, nello sviluppo della nostra vita interiore, non servirci per quanto ci è possibile delle forze e dei lumi che le virtù teologali ci possono dare? Perché non entrare in pieno, fin dall’inizio, nel regno interiore, nell’amicizia con Dio?
Questo regno di Cristo è aperto per noi.
 E ancora di più, è desiderio forma­le di Nostro Signore che vi entriamo: « Ri­manete in me e io in voi » (Gv. 15,4).
Arrendiamoci, oggi stesso, al suo appello! Cominciamo a vivere di fede: 1l giusto vivrà mediante la fede » (Rom. 1,17).

La vita di fede 
 Quel che importa, prima e al di sopra di tutto è CREDERE. Credere nel­la realtà del Divino, presente intorno a noi e in noi; elevare la nostra attività di volontà e di intelligenza fino al livello del­la vera vita alla quale Dio ci chiama. Que­sto atto di fede, che trasforma il nostro destino umano e lo divinizza, costa alla natura, esige un eroismo di cui saremmo incapaci se Dio, fin d’ora, non prevenisse e sostenesse il nostro sforzo. Non avendo la forza di produrre, da noi stessi, questo primo atto, imiteremo la preghiera del padre di quel malato: ‘Aiutami nella mia incredulità » (Me. 9,24).
 E’Ia fede che ci dà la sicurezza del­le promesse divine: 7i fidanzerò a me nella fedeltà » (Osea 2,22). Essa ci fa cam­minare qui in terra in mezzo a delle tene­bre sante: Camminiamo nella fede » (2 Cor. 5,7). Dall’inizio sino alla fine, seguiremo questa strada, avremo cura di non allontanarcene per non cercare la nostra soddisfazione in lumi troppo facili perché troppo umani, ma che non tarderebbero a lasciarci delusi per la loro vanità.
 La fede è una guida severa, ma in­fallibile; ignora le concessioni e i calcoli: dietro il velo delle apparenze, essa indo­vina già la verità eterna, la vittoria di Ge­sù: « Questa è la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede » (1 Gv. 5,4). Es­sa spera a dispetto di tutti i fattori umani che vorrebbero rallentarne o spezzarne lo slancio, secondo ciò che l’apostolo dice del Patriarca Abramo: « Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza ».(Rom. 4,18)
 Tutto l’insegnamento di Nostro Si­gnore si basa sulla fede. Dubitare signifi­ca cedere: « Uomo di poca fede, perché hai dubitato? » (Mt. 14,31). E’Ia fede che dona la salvezza. Nostro Signore attribui­sce proprio alla fede dei ciechi che Egli guarisce, i miracoli che opera in essi. Un po’ di fede serve a trasformare sopranna­turalmente il mondo: « Se aveste fede quan­to un granellino di senapa…  » (Le. 17,6)
 Che queste righe siano scritte all’i­nizio di queste nostre parole per indicare la frontiera che bisogna superare con de­cisione e semplicità, se vogliamo seguire Nostro Signore: « BISOGNA IMPARARE A FARE AFFIDAMENTO SU DIO
 Noi vorremmo, in queste pagine, delineare le linee essenziali della vita in­teriore indicando un metodo di medita­zione semplice e pratico, basato sulla fe­de. Infatti la fede, come abbiamo detto sin qui, è il principio di questa vita, e quando la grazia divina avrà consumato in noi la sua opera, sarà ancora questa stessa certezza soprannaturale che, dopo aver invaso tutta l’anima nostra, la farà tempio dell’amore, secondo la parola di S. Paolo: ’1a fede che opera per mezzo della carità » (Gal. 5,6) e ancora: « Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così .. siate in grado di .. conoscere l’a­more di Cristo che sorpassa ogni cono­scenza » (Ef. 3,17-19).
 Vediamo prima brevemente le grandi verità che ci devono servire da punto di partenza.
 La presenza naturale di Dio in tutte le cose 
 Per meglio comprendere la pre­senza soprannaturale di Dio, richiamia­mo prima alla memoria come Dio è natu­ralmente presente.
 Dio è in ogni luogo. Noi dimenti­chiamo troppo questa verità così sempli­ce. Essa potrebbe intanto, se noi ci pen­sassimo di più, dare un nuovo orienta­mento alla nostra vita.
 Noi tormentiamo, qualche volta, l’immaginazione per rappresentarci un Dio lontano, e la nostra preghiera ne sof­fre. Dio è Spirito, Spirito che non è limi­tato in un luogo, ma che penetra ogni co­sa. Così i veri adoratori adorano Iddio %n spirito e verità ». Ricordiamoci delle parole dell’Apostolo: In Lui infatti vivia­mo, ci muoviamo ed esistiamo » (At. 17,28).
 All’inizio della nostra vita spirituale, cominceremo ad aprire gli occhi a que­sta grande verità. Il risultato sarà mera­viglioso, se noi potremo arrivare a far vivere in noi questo pensiero della presenza immediata e universale di Dio.
 La ragione, prima di ogni rivela­zione soprannaturale, ci dice che Dio ci conosce, ci vede perfettamente e senza posa, perché Egli conosce e vede ogni co­sa. « Dove andare lontano dal tuo spirito, dove fuggire dalla tua presenza? Se sal­go in cielo, là tu sei, se scendo negli infe­ri, eccoti » (Salmo 138, 7-8).
 Dio non ci segue appena con un semplice sguardo, ma Egli comanda e di­rige tutto quel che facciamo. E’ Lui che ci dà il volere e l’operare (cf. Fil. 2,13). Se Egli non fosse presente in noi, io non sa­rei neppure capace di muovere il dito mi­gnolo. Non c’è nulla, proprio nulla, che non sia sottoposto alla sua azione: neppu­re il peccato. Nell’atto del peccato, Dio è là, Dio dà il potere di agire e l’esercizio dell’atto. La depravazione della nostra volontà è l’unica cosa che non viene da Dio. Siccome Egli è la causa prima e totale, noi non possiamo fare il più piccolo at­to senza di Lui. Se fosse altrimenti, Dio non sarebbe più Dio. « Se prendo le ali dell’aurora per abitare all’estremità del mare, anche là mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra » (Salmo 138,9-10).
 Ma c’è ancora di più. Non basta che Dio governi la creatura e che Egli ne diriga l’attività. Essendo il principio uni­co e sovrano della totalità degli esseri, bi­sogna che Egli li sostenga nell’esistenza, che Egli continui ad ogni istante a dar lo­ro tutto ciò che essi sono. Se l’azione divi­na cessasse per un solo secondo, l’univer­so e noi stessi ci dilegueremmo come un sogno. Quando si è capita la necessità dell’atto divino che conserva tutte le cose do­po averle create, si riconosce al più picco­lo oggetto una grandezza singolare, perché è l’Onnipotente, e Lui solo, che, pre­sente in questo essere infimo, lo mantiene fuori dal nulla.
 L’ombra sembra la più tenue delle realtà: la nostra ombra non è nulla para­gonata a noi. Ma paragonati a Dio, pre­sente in noi, noi abbiamo una realtà ancor minore. Vicino alla realtà divina, noi non siamo neppure delle ombre.
 La presenza soprannaturale di Dio nell anime 
 Dio è, dunque, presente anche in una pietra e la fa essere, con la sua azio­ne immediata, quel che essa è: una pie­tra.
 Ma Dio, nella sua bontà infinita, ha voluto creare degli esseri « a sua imma­gine e somiglianza », che, innalzati dalla grazia, Gli sono ben più vicini che non queste cose inferiori alle quali Egli non comunica che l’essere naturale. Dio è pu­ro spirito. Egli ha, perciò, intelligenza e volontà, per poter, non solo essere pre­sente in essi come in tutte le cose, ma – ele­vandoli all’ordine soprannaturale per mezzo della grazia – comunicarsi ad essi così com’Egli è.
 Dio è presente nelle cose materiali, e dà loro l’essere naturale; ma nelle crea­ture ragionevoli, Egli ha voluto, per gene­rosità totale gratuita, essere presente in modo tale che non solo ha comunicato lo­ro l’essere naturale, ma IL SUO PRO­PRIO ESSERE, divinizzandole.
Dio non era obbligato a darsi in questa maniera. Ma Egli è la Bontà per­sonificata ed il bene cerca di espandersi ( “Bonum est diffusivum sui “). Egli è come il fuoco che non si può trattenere, che si deve comunicare a tutto ciò che è combu­stibile:  » Il Signore tuo Dio è fuoco divo­ratore » (Dt. 4,24).
 Questo fuoco, Nostro Signore è ve­nuto a portarlo sulla terra: T il Verbo si è fatto carne ». E noi sappiamo perché! « Sono venuto a portare il fuoco sulla ter­ra; e come vorrei che fosse già acceso! » (Le. 12,49); Egli ha sofferto per ottenerci. la grazia, per renderci capaci di essere incendiati da questo fuoco divino.
 Noi siamo preparati a ricevere questo fuoco quando abbiamo allontana­to ogni ostacolo all’azione divina. Il più grande ostacolo è il peccato: « Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui ». (Gv. 14,23)
 Nostro Signore non ci ha solo mes­so in comunicazione con la vita del Padre, ma ha voluto rimanere in mezzo a noi nella SS.ma Eucarestia, per aumenta­re per mezzo della S. Comunione questa stessa vita: « Nessuno va al Padre se non per mezzo mio” (Gv. 14,6). Gesù è la via e l’unica via; voler raggiungere la vita di­vina senza di Lui, sarebbe presunzione e illusione. Più ci saremo nutriti dell’amore della sua santa Umanità, più avremo me­ditato i suoi esempi, più la vita divina au­menterà in noi: Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondan­za » (Gv. 10,10).

Il peccato priva l’anima di questa presenza 
 Siamo destinati alla più profonda intimità con Dio stesso. Quest’unione tra l’uomo e il suo Creatore fu stabilita da quando Dio elevò i nostri progenitori all’ordine soprannaturale. Ma per il pecca­to, Adamo ed Eva si ribellarono contro Dio, e l’unione tra il cielo e la terra fu spezzata. C’è stato bisogno di un Uomo­Dio per riparare questa rottura, e ora per la Passione e i meriti di Nostro Signo­re noi possiamo essere di nuovo figli di Dio, vivere la vita divina.
 Abbiamo ricevuto questa vita per mezzo del Battesimo, e se sfortunatamen­te l’abbiamo perduta, Nostro Signore ce l’ha restituita ogni volta risuscitandoci nel suo Sangue prezioso per mezzo della santa assoluzione.
Cerchiamo di capire, perciò, di quale importanza è per noi la fuga del peccato: si tratta di non perdere il dono più prezioso ricevuto dagli uomini. « Se tu conoscessi il dono di Dio… » (Gv. 4,10). Che queste parole di Gesù alla Samarita­na non diventino per noi un rimprovero.
 Tutte le disgrazie riunite non sono nulla paragonate ad un solo peccato, perché un solo peccato ci toghe la vita divina. Per comprendere l’orrore del peccato, rendiamoci conto della sua realtà. Qual’è il cristiano che avrebbe l’audacia di en­trare di nascosto in una chiesa, di violare il Tabernacolo, di strapparne la Pisside, di gettare a terra e di profanare le sacre Specie? Lo faremmo noi, avremmo questo coraggio? – No. Anche il cristiano più tie­pido non oserebbe commettere questo sa­crilegio sul Corpo di Nostro Signore.
 Ma che cosa facciamo noi col pec­cato? Strappiamo Dio del nostro cuore per consegnarci all’azione del demonio.
 Come Dio è soprannaturalmente presente in noi? 
 Sappiamo che Dio è uno nella Na­tura e trino nelle Persone. Il Padre, da tutta l’eternità, genera il Figlio, il suo al­ter ego, la sua immagine perfetta. Non l’ha generato ALTRE VOLTE; quest’atto si realizza in un presente eterno, si per­petua attualmente; CONTINUAMENTE IL PADRE GENERA IL FIGLIO. E il Padre contempla questo Figlio divino e coeterno; il Figlio ama il Padre e per mez­zo di questo sguardo d’amore che essi si scambiano nella semplicità dell’Essenza divina, il Padre e il Figlio spirano lo Spi­rito Santo.
 Questa vita divina, che sarà la so­stanza della nostra felicità eterna, si co­munica già alle anime, a condizione che noi siamo in stato di grazia. Il Padre ge­nera in noi realmente, IN QUESTO MO­MENTO, il Figlio; e l’uno e l’altro produ­cono in noi, AD OGNI ISTANTE, lo Spi­rito Santo.
Abbiamo mai pensato, fino ad og­gi, a queste sublimi verità?
 Portiamo su di noi degli scapolari, delle medaglie, delle reliquie, e crediamo, a buon titolo, di possedere dei tesori; ma noi portiamo in noi il Dio vivo, il Cielo, il fine unico di tutte le cose, la suprema Realtà, e non ci pensiamo … ! Siamo real­mente dei Cristofori, dei Deifori, nel sen­so più stretto della parola. E’ proprio il caso di citare le parole di S. Leone: « Rico­nosci, o cristiano, la tua dignità! »
 Da queste riflessioni così semplici, noi vediamo, d’ora in poi, sprigionarsi una grande conclusione: non è forse evi­dente che se quest’abitazione divina, que­sta presenza di Dio in noi stessi, avesse nella nostra vita quel posto che vi do­vrebbe avere, questa sarebbe totalmente cambiata e trasformata?

Vivere la presenza soprannaturale di Dio 
 Come vi si può arrivare?
Dio non sarebbe l’infinita Bontà e Sapienza se, ricercando ed esigendo la nostra intimità, non ci desse allo stesso tempo i mezzi necessari per comunicare con Lui. Tali mezzi dei quali noi possiamo essere assolutamente sicuri, e che ci per­mettono di entrare in contatto immediato con Dio, sono le virtù teologali e i doni che ci vengono con esse.
 Per mezzo della fede, noi aderiamo alla verità della vita divina che ci è pro­posta.
 Per mezzo della carità, questa vita diviene nostra.
Per mezzo della speranza, noi siamo certi, con l’aiuto della grazia, di viver­la sempre di più e di ottenerne il possesso immutabile in cielo.
Ecco l’essenziale di ogni orazione solida e profonda. Invece di sparpagliare la nostra meditazione su questo o quel punto, invece di filosofare su Dio, molti­plicando gli sforzi dell’intelligenza, della volontà e dell’immaginazione, per farcene degli schemi, per rappresentarci delle scene, noi possiamo andare a Dio nella semplicità del nostro cuore: CercateLo con cuore semplice » (Sap. 1,1).
 Nostro Signore stesso c’invita: « Siate semplici come le colombe » (Mt. 10,16). L’uomo è un essere complicato e sembrerebbe, purtroppo, che egli cerchi di divenire ancora più complicato perfino nelle sue relazioni con Dio. Dio, invece, è la semplicità assoluta. Più noi siamo com­plicati, più rimaniamo lontani da Dio; e nella misura, invece, in cui noi diverremo semplici, ci potremo avvicinare a Lui.
 Abbiamo visto che Dio, nostro Pa­dre, è presente in noi. Un bambino, per parlare con suo padre, va forse a prende­re un manuale di corrispondenza o un co­dice di belle maniere? No, il bambino parla con semplicità, non cerca frasi fatte, ne si perde in formalismi. – Facciamo lo stesso col nostro Padre celeste. Nostro Signore ce l’ha detto: « Se non vi converti­rete e non diverrete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli » (Mt. 18,3).
 Si stanca forse una madre ad ascoltare il proprio figlio che le dice: Mamma, io ti voglio bene » Lo stesso suc­cede con Dio: più la nostra preghiera è in­fantile, e più piace a Dio. Perché è Lui stesso che ha scelto, tra tutti, questo no­me di Padre: T che voi siate figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei no­stri cuori lo Spirito del suo Figlio che gri­da: Abbà, Padre » (Gal. 4,6). Ed è ancora Lui che pone nella nostra bocca le parole ispirate della S. Scrittura e i testi liturgi­ci.
Quale sarà dunque la nostra pre­ghiera? Semplicissima, la più semplice possibile. Ci metteremo in ginocchio e fa­remo con tutto il cuore gli atti di fede, di speranza e di carità. Non c’è metodo di meditazione più sicuro, più elevato e più salutare.

Publié dans:spiritualità  |on 25 septembre, 2013 |Pas de commentaires »

Saint Sergius, Abbot of Radonezh (1314-1392)

Saint Sergius, Abbot of Radonezh (1314-1392) dans immagini sacre

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Publié dans:immagini sacre |on 24 septembre, 2013 |Pas de commentaires »

25 SETTEMBRE: SAN SERGIO DI RADONEZ

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25 SETTEMBRE: SAN SERGIO DI RADONEZ

CHIESA ORTODOSSA RUSSIA

(molto altro sul sito)

Riformatore della vita monastica in Russia, Sergio (1314-1392) nacque da una nobile famiglia della regione di Rostov, trasferitasi a Radonez dopo essere caduta in miseria. Fondò la «laura» della Trinità, monastero dal quale i monaci si recavano in pellegrinaggio al Monte Athos. Attraverso il suo discepolo Nil Sorskij si diffuse l’esicasmo, la preghiera del cuore resa celebre dai Racconti di un pellegrino russo: «Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me». Nel Quattrocento al monastero della Trinità, che stava rinascendo dopo la distruzione dei tartari nel 1409, fu legato per diversi anni il celebre pittore Andrej Rublëv, che vi dipinse la famosissima icona della Trinità.

Sergio e i suoi genitori furono scacciati dalla loro casa dalla guerra civile e dovettero guadagnarsi da vivere facendo i contadini a Radonez, a nord-est di Mosca. A vent’anni Sergio iniziò una vita da eremita, insieme a suo fratello Stefano, nella vicina foresta; in seguito altri uomini si unirono a loro, e ciò che ci vien detto di questi eremiti ricorda i primi seguaci di san Francesco d’Assisi, specialmente per quanto riguarda il loro atteggiamento verso la natura selvaggia – nonostante le differenze climatiche e di altro genere fra l’Umbria e la Russia centrale. Uno scrittore russo ha detto che il loro capo « odora di fresco legno d’abete ».
Nel 1354 essi si trasformarono in monaci che conducevano una vera e propria vita comune; questo cambiamento provocò dei dissensi che avrebbero potuto spaccare per sempre la comunità se non fosse stato per la condotta disinteressata di san Sergio. Questo monastero della Santa Trinità (Troice-Lavra) divenne per il monachesimo della Russia settentrionale quello che le Grotte di san Teodosio erano state per la provincia di Kiev nel sud. Sergio fondò altre case religiose, direttamente o indirettamente, e la sua fama si diffuse moltissimo; nel 1375 rifiutò la sede metropolitana di Mosca, ma usò la sua influenza per mantenere la pace fra i principi rivali. Quando (secondo la tradizione) Dimitrij Donskoj, principe di Mosca nel 1380, lo consultò per chiedere se doveva continuare la sua rivolta armata contro i signori tartari, Sergio lo incoraggiò ad andare avanti: ciò portò alla grande vittoria di Kulikovo. San Sergio è il più amato di tutti i santi russi, non soltanto per l’influenza che ebbe in un periodo critico della storia russa, ma anche per il tipo d’uomo che era. Per il carattere, se non per l’origine, era un tipico « santo contadino »: semplice, umile, serio e gentile, un « buon vicino ». Insegnò ai suoi monaci che servire gli altri faceva parte della loro vocazione, e le persone che indicò loro come modelli erano gli uomini dell’antichità che avevano fuggito il mondo ma aiutavano il loro prossimo; veniva posta un’enfasi particolare sulla povertà personale e comune e sullo sradicamento dell’ostinazione.
San Sergio fu uno dei primi santi russi a cui furono attribuite visioni mistiche (visioni della Beata Vergine connesse con la liturgia eucaristica) e, come in san Serafino di Sarov, talvolta compariva in lui una certa trasfigurazione fisica attraverso la luce. Il popolo lo vedeva come un uomo scelto da Dio, sul quale riposava visibilmente la grazia dello Spirito; ancor oggi molta gente va in pellegrinaggio al suo santuario nel monastero della Trinità di Zagorsk. Fu canonizzato in Russia prima del 1449.
Il celebre Monastero della Trinità-San Sergio a Zagorsk fu fondato attorno alla metà del XIV secolo dal Venerabile Sergio, figlio dei Boiari di Rostov Kiril e Maria, che si erano trasferiti dalla città natale a Radonez. All’età di sette anni, il giovane Bartolomeo (prese il nome di Sergio alla tonsura monastica) fu mandato a scuola. Nonostante avesse difficoltà di apprendimento, il suo animo era attratto dallo studio; Bartolomeo pregava Dio di aprire la sua mente, e di consentirgli l’accesso al sapere.
Un giorno, vagando alla ricerca di alcuni cavalli fuggiti nei campi, al giovane apparve un vecchio monaco, raccolto in preghiera sotto un alto albero.
Il ragazzo si avvicinò al monaco e parlò a lui del suo voto e della sua speranza. Dopo avere ascoltato con partecipazione, il monaco recitò una preghiera per il giovane, affinché la sua mente fosse illuminata. Trasse poi una particola di Pane Eucaristico e con esso benedì il ragazzo, dicendo: « Prendi, e mangiane, questo ti è dato come segno della grazia di Dio, e come aiuto nella comprensione delle Scritture ». E Bartolomeo ricevette la grazia dell’apprendimento e fu in grado di imparare, leggere e memorizzare con facilità.
L’esperienza con il monaco fece crescere in Bartolomeo il desiderio di servire Dio; il giovane desiderava trascorrere la vita nell’isolamento e nella preghiera, ma questa vocazione fu per qualche tempo frenata dall’amore per la propria famiglia.
Bartolomeo era buon carattere e di indole ascetica: umile e gentile, non si irritava mai; si cibava do pane ed acqua, astenendosi da ogni cibo e bevanda nei giorni di digiuno. Dopo la morte dei genitori, Bartolomeo rinunziò all’eredità in favore del fratello minore Pietro, e assieme al fratello Stefano si insediò in una foresta selvaggia e isolata a circa 10 chilometri da Radonez, nei pressi del fiume Konchora. I fratelli costruirono una casetta in legno ed una cappella, che fu dedicata alla Santa Trinità e consacrata da un sacerdote inviato dal Metropolita Feognost’. Fu la fondazione della famosa Lavra della Trinità.
Stefano lasciò presto il fratello per diventare igumeno del monastero Bogojavlenskij di Mosca: Bartolomeo, diventato Sergio dopo la tonsura monastica, restò solo nella foresta. La vita non fu facile, tra le tentazioni, e in mezzo a branchi di lupi ed orsi. Un giorno l’anacoreta nutrì un grande orso ponendo un pezzo di pane sul ceppo di un albero. L’orso ne mangiò, e da quel momento si affezionò al venerabile Sergio, e visse nei pressi del suo rifugio.
Nonostante i tentativi di Sergio di vivere nell’isolamento, il suo stile di vita e di preghiera attrasse molti monaci, che vollero porsi sotto la sua direzione spirituale. Insistevano nel chiedere a Sergio di accettare gli Ordini sacri e di diventare loro igumeno. Dopo tanta insistenza, nel 1354 accetto, con le parole: « preferirei di gran lunga obbedire piuttosto che comandare, ma temendo il giudizio di Dio mi pongo interamente nelle sue mani ».
Il neo-fondato monastero era privo di beni e di ogni mezzo di sostentamento. I paramenti erano molto modesti, i Sacri vasi intagliati nel legno, e torce di legno venivano bruciate al posto delle candele, ma la comunità era devota e zelante. Attratti dalla fama di santità e pietà della comunità di Sergio, molti contadini e artigiani si stabilirono nei pressi del monastero. Ciò portò anche allo stesso monastero qualche vantaggio e maggiore sostentamento. Ciò consentì di distribuire elemosine e di praticare l’ospitalità ai viandanti e ai bisognosi.
San Sergio fu un modello di ascetismo e di umiltà. La sua fama giunse a Costantinopoli, e il Patriarca Filoteo gli inviò la propria benedizione e approvò il sistema di vita cenobitica inaugurato da Sergio. Il Metropolita Alessio di Mosca era molto attaccato a Sergio, e si avvaleva di lui per ricomporre le controversie tra principi e governanti. Volle anche designarlo come proprio successore, ma Sergio rifiutò sempre questa offerta. Un giorno volle premiare Sergio con la Croce d’oro, ma Sergio rifiutò l’onorificenza dicendo: « sin dalla mia gioventù ho rifiutato di decorarmi con oro, e ancora di più ora, in età avanzata, desidero restare povero ».
Il Monastero della Trinità fu casa madre di molte altre fondazioni. Prima della morte di San Sergio, si potevano già contare tra queste i seguenti monasteri: Kirzhachski (nei pressi del fiume Kirzhack nella regione di Vladimir), Golutvin (a Kolomna), Simon (a Moscow), Visotski (nei pressi di Serpukhov), Boris e Gleb (nei pressi di Rostov), Dubenski, Pokrovski (a Borovsk), Avraamiev (a Chukhloma).
Sergio morì all’età di 78 anni, nel 1392. Il suo corpo fu rinvenuto incorrotto e profumato dopo alcuni decenni dalla inumazione.

Publié dans:Ortodossia, Santi |on 24 septembre, 2013 |Pas de commentaires »

LO STABILIRSI DI DIO IN NOI E L’AMORE DI DIO – Macario l’Egiziano

http://tradizione.oodegr.com/tradizione_index/insegnamenti/stabilirsididio.htm

LO STABILIRSI DI DIO IN NOI E L’AMORE DI DIO


Quando si pianta una vite, sono necessarie molta attenzione e fatica, perché più tardi si possa giungere alla vendemmia. Se non ci fosse l’uva, tutta la fatica sarebbe inutile. Lo stesso avviene con la preghiera. Tutta la nostra fatica sarebbe inutile se mancassero i frutti dello spirito, l’amore, la pace e la gioia.

Macario l’Egiziano

La vera vita cristiana consiste nella comunione attiva con Dio, nella vita del Santo Spirito nel cuore, il quale santifica tutto. Tutto il processo del mutamento interiore avviene nella luce dell’unione con Dio, la quale conduce ad una sempre più profonda comprensione della vita divina e culmina con lo stabilirsi di Dio in noi. All’inizio della comunione con Dio la sua potenza si unisce alla libertà dell’uomo e comincia a purificare la sua anima. L’uomo sente questa forza, che lo sostiene e lo aiuta, ma il suo amore per le passioni gli impedisce di riposare in Dio. A lui manca ancora la potenza di Dio nella sua pienezza. Il suo cuore è scontento, insoddisfatto. Egli ha sete di ricevere in sé pienamente Dio, di amarlo con tutto il suo essere, ma non ci riesce per la sua inclinazione alle passioni. Nella comunione con Dio cresce anche il legame con lui. La piena unione con Dio comincia quando l’uomo conosce del tutto il Santo Spirito, allorché abita in lui.
Quest’unione non avviene solo nel pensiero, ma concerne tutta la vita. Il pensiero di Dio, la tendenza del cuore e della mente a Dio prepara l’uomo a riceverlo realmente in sé. Stabilendosi in noi, Dio comincia ad agire senza spegnere con ciò la personalità umana con le sue attitudini: “Infatti Dio in voi fa sì che vogliate e agiate come a lui è gradito” (Filippesi 2, 13). “Io più non vivo, ma vive in me Cristo” (Galati 2, 20).
La lettera di uno starec morente ad un suo discepolo ci introduce in quest’esperienza spirituale. La citiamo secondo J. Gurij, “Tajna Hristjankoj Zizni” (Optina, 1908).
 “A te, che sei il mio più vicino amico in Cristo, desidererei descrivere quella resurrezione dell’amore di Dio, a cui per trent’anni indarno ho aspirato. Quest’aspirazione provocava dolori nella mia nascita spirituale. Da una parte lottavo sino allo sfinimento contro me stesso e le mie passioni. Dall’altra viveva in me il desiderio di qualcosa di meglio e di più elevato di tutto ciò che mi offrivano le passioni. Quest’aspirazione forniva di ali il mio spirito e sentivo come soltanto l’amore verso Dio questa forza eterna, immortale e creatrice, potesse soddisfarmi. Ero assetato di amore verso Dio, ma bisognava rendersi degno di Lui, mentre io rimanevo legato a tutte le mie debolezze. Tuttavia nel frattempo l’amore per Dio cresceva s’infiammava. Facevo ciò che potevo secondo i comandamenti, davo agli infelici fino all’ultimo centesimo, mi sentivo segretamente misero, sopportavo tutte le offese e mi sforzavo di amare i miei nemici. Ma, ciononostante, non sentivo in me alcun amore verso Dio. Di ciò testimoniavano le mie passioni. Sempre più s’impadroniva di me l’aspirazione all’amore verso Dio, ma in realtà non l’acquistavo. Sentivo che l’energia della vita, quell’energia piena di grazia e creatrice, si fonda sull’amore per Dio. Ero convinto che le catene delle passioni sarebbero cadute da me, appena avessi raggiunto quest’amore, affinché anche le loro tracce bruciassero in esso. “La verità vi libererà, ed allora sarete realmente liberi”.
Allora Dio volle mandarmi una sofferenza. Mi ammalai, ma ancora non sentivo in me alcun amore. Mi ritirai in me stesso e soffrii molto, perché ancora ero rimasto senza amore, ma nel peccato. E quanto più soffrivo e piangevo, tanto più nella coscienza diventavo più lieto, poiché il peccato aveva perduto la sua forza su di me. Infatti le eccitazioni delle passioni non mi procuravano alcuna soddisfazione, abbandonarono il cuore e si avvicinò la penitenza accompagnata da un senso di fiducia e di gratitudine verso Dio. Quanto più soffrivo, tanto più mi sentivo leggero. Quella che mi aveva colpito era una malattia apportatrice di gioia. Sentii la necessità di comunicarmi più spesso e questa mi fu concessa. Poi il mio spirito fu preso da un’indicibile fiducia in Dio ed il cuore fu pieno di gratitudine. A questo punto di fronte alla mia nullità si manifestò l’amore di Dio nella sua opera di salvezza. Questo amore si sviluppava così violentemente nel mio intimo, che appena sentivo i miei dolori. Non potevo allontanarmi dall’amore verso Dio né nei miei pensieri né nei movimenti del cuore. Il ricordo di tutta la vita terrena di Cristo, di tutte le sue manifestazioni e di tutte le sue opere mi riempiva di una gioiosa commozione e rinnovava la mia vita interiore. Il cuore era pieno della fiducia di salvarsi. Nulla mi poteva volgere al dubbio sulla sua misericordia. Dio era vicino, l’anima viveva per Lui e provava solo il suo indicibile amore.
Ogni passo della vita terrena di Cristo s’imprimeva chiaramente nella mia coscienza. Tutto era santificato da Lui: l’aria che respiravo, l’acqua che bevevo, il letto su cui giacevo e la cassa da morto che mi attendeva. Tutto divenne pegno della mia salvezza, della mia resurrezione, a cominciare dalla morte fisica sino alla mia glorificazione in Dio. Ed io m’accorsi che nulla accade per merito mio, ma solo per l’immensa misericordia di Dio… Rivissi nel modo più profondo i miei peccati, mentre il mio spirito nello stesso tempo ed incessantemente era animato dalla più beata fiducia nell’amore di Dio, che apportava salvezza, e nella sua misericordia. Lacrime di commozione scorrevano dai miei occhi ed il mio cuore provava qualcosa d’indicibile. Beato nell’amore di Dio, ero pronto a rimanere solo per l’eternità nella mia sofferenza, ma assieme a Dio e nell’amore verso di Lui. Tale è l’amore di Dio, quella forza onnipotente e creatrice, quell’energia della vita eterna. Per mezzo dell’amore divino entra nell’uomo il Regno di Dio nella sua potenza. Bisogna amare Dio, vivere in Lui e respirare nello spirito del suo amore”.

Questa lettera manifesta una vita meravigliosa di unità con Dio, piena di bellezza spirituale e di grazia. In essa è spiegato come il Signore penetra nel cuore dell’uomo e il Santo Spirito arriva e si unisce strettamente con l’anima. È questo il segreto della vita cristiana. Il fine della nostra esistenza è l’aspirazione al Santo Spirito, alla sua presenza in noi ed alla sua compenetrazione di tutto il nostro essere. Senza quest’aspirazione la nostra vita è priva di un fine, è senza senso e vuota.
Ma perché ci si volga a questo Spirito di fuoco e purissimo, è necessario impegnarsi con molta fatica nella purificazione interiore, uno sforzo libero e cosciente, nella trasformazione della nostra natura peccatrice ed egoista in un amore universale. Il Santo Spirito prepara il cuore, l’intimo carattere dell’uomo si modifica. Si riconosce anche la più piccola traccia del peccato e si esige la sua completa scomparsa. Il minimo slancio di compiacimento di se stesso, ogni forma, sia pur minima, di egoismo e di assoggettamento a sé di un’altra persona è un peccato contro l’amore che allontana il Santo Spirito.
La fede Cristiana promette il Regno di Dio nel nostro intimo, ed esso si trasferisce nel cuore preparato. Come il ferro, il piombo, l’argento e l’oro nel fuoco perdono la loro caratteristica durezza e si fondono, così anche l’anima, che cerca Dio con il desiderio interiore e con la fatica e che riceve il fuoco celeste della divinità e l’amore dello Spirito, deve essere libera da ogni passione e legame. Essa perde la sua durezza naturale e peccaminosa e vive serena nel tepore dell’indicibile amore di Dio. La ragione e la mente ricevono nel contatto con il Santo Spirito la costanza, la fermezza ed una pace incrollabile. Esse non sono più turbate dalla superficialità e dall’ozio delle fantasticherie, ma rimangono sempre nella pace di Cristo e nell’amore dello Spirito. Il rinnovamento della mente, la fine dei pensieri e l’amore per il Signore sono la prova della nuova creatura e della trasformazione dell’uomo nel Cristo. Quest’amore vivo ed attivo verso Dio, la comunione con Lui ed il suo stabilirsi in noi sono il frutto della Grazia del Santo Spirito e sono la fonte nello stesso tempo dell’incessante preghiera del cuore.

dall’opera “Obitavnaje Bezgranicnog u Srzu”, Beograd 1982, 228-232; trad. A. S.

Publié dans:meditazioni, Oriente Cristiano, Ortodossia |on 24 septembre, 2013 |Pas de commentaires »

Padre Pio da Pietrelcina

Padre Pio da Pietrelcina dans immagini sacre

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Publié dans:immagini sacre |on 23 septembre, 2013 |Pas de commentaires »

23 SETTEMBRE: SAN PIO DA PIETRELCINA (FRANCESCO FORGIONE)

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SAN PIO DA PIETRELCINA (FRANCESCO FORGIONE)

23 SETTEMBRE

PIETRELCINA, BENEVENTO, 25 MAGGIO 1887 – SAN GIOVANNI ROTONDO, FOGGIA, 23 SETTEMBRE 1968

Francesco Forgione nasce a Pietrelcina, provincia di Benevento, il 25 maggio 1887. Il 22 gennaio 1903, a sedici anni, entra in convento e da francescano cappuccino prende il nome di fra Pio da Pietrelcina. Diventa sacerdote sette anni dopo, il 10 agosto 1910. Nel 1916 i superiori pensano di trasferirlo a San Giovanni Rotondo, sul Gargano, e qui, nel convento di S. Maria delle Grazie, ha inizio per Padre Pio una straordinaria avventura di taumaturgo e apostolo del confessionale. Il 20 settembre 1918 il cappuccino riceve le stimmate della Passione di Cristo che resteranno aperte, dolorose e sanguinanti per ben cinquant’anni. Muore il 23 settembre 1968, a 81 anni. Dichiarato venerabile nel 1997 e beatificato nel 1999, è canonizzato nel 2002.

Etimologia: Pio = devoto, religioso, pietoso (signif. Intuitivo)

Martirologio Romano: San Pio da Pietrelcina (Francesco) Forgione, sacerdote dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini, che nel convento di San Giovanni Rotondo in Puglia si impegnò molto nella direzione spirituale dei fedeli e nella riconciliazione dei penitenti ed ebbe tanta provvidente cura verso i bisognosi e i poveri da concludere in questo giorno il suo pellegrinaggio terreno pienamente configurato a Cristo crocifisso.
Quando muore, il 23 settembre 1968, a 81 anni, le stimmate scompaiono dal suo corpo e, davanti alle circa centomila persone venute da ogni dove ai suoi funerali, ha inizio quel processo di santificazione che ben prima che la Chiesa lo elevasse alla gloria degli altari lo colloca nella devozione dei fedeli di tutto il mondo come uno dei santi più amati dell’ultimo secolo.
Francesco Forgione era nato a Pietrelcina, provincia di Benevento, il 25 maggio 1887. I suoi genitori, Grazio e Giuseppa, erano poveri contadini, ma assai devoti: in famiglia il rosario si pregava ogni sera in casa tutti insieme, in un clima di grande e filiale fiducia in Dio e nella Madonna. Il soprannaturale irrompe assai presto nella vita del futuro santo: fin da bambino egli riceveva visite frequenti di Gesù e Maria, vedeva demoni e angeli, ma poiché pensava che tutti avessero queste facoltà non ne faceva parola con nessuno. Il 22 gennaio 1903, a sedici anni, entra in convento e da francescano cappuccino prende il nome di fra Pio da Pietrelcina. Diventa sacerdote sette anni dopo, il 10 agosto 1910. Vuole partire missionario per terre lontane, ma Dio ha su di lui altri disegni, specialissimi.
I primi anni di sacerdozio sono compromessi e resi amari dalle sue pessime condizioni di salute, tanto che i superiori lo rimandano più volte a Pietrelcina, nella casa paterna, dove il clima gli è più congeniale. Padre Pio è malato assai gravemente ai polmoni. I medici gli danno poco da vivere. Come se non bastasse, alla malattia si vanno ad aggiungere le terribili vessazioni a cui il demonio lo sottopone, che non lasciano mai in pace il povero frate, torturato nel corpo e nello spirito.
Nel 1916 i superiori pensano di trasferirlo a San Giovanni Rotondo, sul Gargano, e qui, nel convento di S. Maria delle Grazie, ha inizio per Padre Pio una straordinaria avventura di taumaturgo e apostolo del confessionale. Un numero incalcolabile di uomini e donne, dal Gargano e da altre parti dell’Italia, cominciano ad accorrere al suo confessionale, dove egli trascorre anche quattordici-sedici ore al giorno, per lavare i peccati e ricondurre le anime a Dio. È il suo ministero, che attinge la propria forza dalla preghiera e dall’altare, e che Padre Pio realizza non senza grandi sofferenze fisiche e morali.
Il 20 settembre 1918, infatti, il cappuccino riceve le stimmate della Passione di Cristo che resteranno aperte, dolorose e sanguinanti per ben cinquant’anni. Padre Pio viene visitato da un gran numero di medici, subendo incomprensioni e calunnie per le quali deve sottostare a infamanti ispezioni canoniche; il frate delle stimmate si dichiara “figlio dell’obbedienza” e sopporta tutto con serafica pazienza. Infine, viene anche sospeso a divinis e solo dopo diversi anni, prosciolto dalle accuse calunniose, può essere reintegrato nel suo ministero sacerdotale.
La sua celletta, la numero 5, portava appeso alla porta un cartello con una celebre frase di S. Bernardo: “Maria è tutta la ragione della mia speranza”. Maria è il segreto della grandezza di Padre Pio, il segreto della sua santità. A Lei, nel maggio 1956, dedica la “Casa Sollievo della Sofferenza”, una delle strutture sanitarie oggi più qualificate a livello nazionale e internazionale, con 70.000 ricoveri l’anno, attrezzature modernissime e collegamenti con i principali istituti di ricerca nel mondo.
Negli anni ‘40, per combattere con l’arma della preghiera la tremenda realtà della seconda guerra mondiale, Padre Pio diede avvio ai Gruppi di Preghiera, una delle realtà ecclesiali più diffuse attualmente nel mondo, con oltre duecentomila devoti sparsi in tutta la terra. Con la “Casa Sollievo della Sofferenza” essi costituiscono la sua eredità spirituale, il segno di una vita tutta dedicata alla preghiera e contrassegnata da una devozione ardente alla Vergine.
Da Lei il frate si sentiva protetto nella sua lotta quotidiana col demonio, il “cosaccio” come lo chiamava, e per ben due volte la Vergine lo guarisce miracolosamente, nel 1911 e nel 1959. In quest’ultimo caso i medici lo avevano dato proprio per spacciato quando, dopo l’arrivo della Madonna pellegrina di Fatima a San Giovanni Rotondo, il 6 agosto 1959, Padre Pio fu risanato improvvisamente, tra lo stupore e la gioia dei suoi devoti.
“Esiste una scorciatoia per il Paradiso?”, gli fu domandato una volta. “Sì”, lui rispose, “è la Madonna”. “Essa – diceva il frate di Pietrelcina – è il mare attraverso cui si raggiungono i lidi degli splendori eterni”. Esortava sempre i suoi figli spirituali a pregare il Rosario e a imitare la Madonna nelle sue virtù quotidiane quali l’umiltà,la pazienza, il silenzio,la purezza,la carità.“Vorrei avere una voce così forte – diceva – per invitare i peccatori di tutto il mondo ad amare la Madonna”.
Lui stesso aveva sempre la corona del rosario in mano. Lo recitava incessantemente per intero, soprattutto nelle ore notturne. “Questa preghiera – diceva Padre Pio – è la nostra fede, il sostegno della nostra speranza, l’esplosione della nostra carità”.
Il suo testamento spirituale, alla fine della sua vita, fu: “Amate la Madonna e fatela amare. Recitate sempre il Rosario”.
Intorno alla sua figura in questi anni si sono scritti molti fiumi di inchiostro. Un incalcolabile numero di articoli e tantissimi libri; si conta che approssimativamente sono più di 200 le biografie a lui dedicate soltanto in italiano. “Farò più rumore da morto che da vivo”, aveva pronosticato lui con la sua solita arguzia. Quella di Padre Pio è veramente una “clientela” mondiale. Perché tanta devozione per questo san Francesco del sud?
Padre Raniero Cantalamessa lo spiega così:“Se tutto il mondo corre dietro a Padre Pio – come un giorno correva dietro a Francesco d’Assisi – è perché intuisce vagamente che non sarà la tecnica con tutte le sue risorse, né la scienza con tutte le sue promesse a salvarci, ma solo la santità. Che è poi come dire l’amore”.

Autore: Maria Di Lorenzo

Publié dans:Santi |on 23 septembre, 2013 |Pas de commentaires »
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