I tre Arcangeli

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29 SETTEMBRE: GLI ARCANGELI MICHELE, GABRIELE E RAFFAELE
(è il mio onomastico… Gabriella)
Essi vengono da Dio «inviati in servizio, a vantaggio di coloro che devono essere salvati». La nostra «azione di grazie», l’ Eucaristia, è una «concelebrazione» in cui ci uniamo agli Angeli nel triplice canto: «Santo, Santo, Santo il Signore Dio dell’universo».
Michele, nome ebraico che vuol dire « Chi è come Dio? » viene ricordato nel libro di Daniele del popolo eletto (Dan 10,13 e 12,1). La lettera di san Giuda lo presenta in lotta contro Satana per il corpo di Mosè. Anche l’Apocalisse ricorda il combattimento di Michele e dei suoi angeli contro il drago. La liturgia dei defunti lo vuole accompagnatore delle anime. Molto venerato dagli Ebrei divenne presto assai popolare nel culto cristiano. Il 29-IX cade l’anniversario della dedicazione di una chiesa in suo onore sulla via Salaria (sec. V).
Gabriele «forza di Dio», si presentò a Zaccaria come «colui che sta al cospetto di Dio» (Lc 1,19). Portare l’annuncio di Dio è il compito che gli riconosce Daniele (8,16; 9,21): annunziò infatti la nascita del Battista e di Gesù Cristo (Lc 1,5-22.26-38).
Raffaele, «Dio ha curato», compare nel libro di Tobia come accompagnatore nel viaggio del giovane Tobia e come portatore di salvezza al vecchio padre cieco.
San Luca mostra sovente l’intervento degli angeli nelle origini della Chiesa perché con la venuta di Cristo l’umanità è entrata nell’era definitiva in cui Dio è vicino all’uomo e il cielo è unito alla terra. Essi vengono da Dio «inviati in servizio, a vantaggio di coloro che devono essere salvati». La nostra «azione di grazie», l’ Eucaristia, è una «concelebrazione» in cui ci uniamo agli Angeli nel triplice canto: «Santo, Santo, Santo il Signore Dio dell’universo».
Dalle «Omelie sui vangeli» di san Gregorio Magno, papa
E’ da sapere che il termine «angelo» denota l’ufficio, non la natura. Infatti quei santi spiriti della patria celeste sono sempre spiriti, ma non si possono chiamare sempre angeli, poiché solo allora sono angeli, quando per mezzo loro viene dato un annunzio. Quelli che recano annunzi ordinari sono detti angeli, quelli invece che annunziano i più grandi eventi son chiamati arcangeli.
Per questo alla Vergine Maria non viene inviato un angelo qualsiasi, ma l’arcangelo Gabriele. Era ben giusto, infatti, che per questa missione fosse inviato un angelo tra i maggiori, per recare il più grande degli annunzi. A essi vengono attribuiti nomi particolari, perché anche dal modo di chiamarli appaia quale tipo di ministero è loro affidato. Nella santa città del cielo, resa perfetta dalla piena conoscenza che scaturisce dalla visione di Dio onnipotente, gli angeli non hanno nomi particolari, che contraddistinguono le loro persone, ma quando vengono a noi per qualche missione, prendono anche il nome dall’ufficio che esercitano.
Così Michele significa: Chi è come Dio?, Gabriele: Fortezza di Dio, e Raffaele: Medicina di Dio.
Quando deve compiersi qualcosa che richiede grande coraggio e forza, si dice che è mandato Michele, perché si possa comprendere, dall’azione e dal nome, che nessuno può agire come Dio. L’antico avversario che bramò, nella sua superbia, di essere simile a Dio, dicendo: Salirò in cielo (cfr. Is 14, 13-14), sulle stelle di Dio innalzerò il trono, mi farò uguale all’Altissimo, alla fine del mondo sarà abbandonato a se stesso e condannato all’estremo supplizio. Orbene egli viene presentato in atto di combattere con l’arcangelo Michele, come è detto da Giovanni: «Scoppiò una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago» (Ap 12, 7).
A Maria è mandato Gabriele, che è chiamato Fortezza di Dio; egli veniva ad annunziare colui che si degnò di apparire nell’umiltà per debellare le potenze maligne dell’aria. Doveva dunque essere annunziato da «Fortezza di Dio» colui che veniva quale Signore degli eserciti e forte guerriero.
Raffaele, come abbiamo detto, significa Medicina di Dio. Egli infatti toccò gli occhi di Tobia, quasi in atto di medicarli, e dissipò le tenebre della sua cecità. Fu giusto dunque che venisse chiamato «Medicina di Dio» colui che venne inviato a operare guarigioni.
Preghiera
San Michele Arcangelo,
difendici nella lotta;
sii nostro aiuto contro la cattiveria e le insidie del demonio.
Gli comandi Iddio,
supplichevoli ti preghiamo:
tu, che sei il Principe della milizia celeste,
con la forza divina rinchiudi nell’inferno Satana
e gli altri spiriti maligni
che girano il mondo
per portare le anime alla dannazione.
Amen.
Angeli e arcangeli nella fede cattolica
Le affermazioni sugli angeli, nella fede cattolica, sono precise ed insieme discrete. Se ne riconosce come verità di fede l’esistenza ed il ministero di servitori di Cristo e della sua opera di salvezza e, perciò, la loro presenza a vantaggio dell’uomo e della Chiesa. E’ la testimonianza biblica il continuo punto di riferimento per queste affermazioni teologiche.
Gli angeli nel Catechismo della Chiesa cattolica
L’esistenza degli esseri spirituali, incorporei, che la Sacra Scrittura chiama abitualmente angeli, è una verità di fede. La testimonianza della Scrittura è tanto chiara quanto l’unanimità della Tradizione.
Chi sono?
Sant’Agostino dice a loro riguardo: “Angelus officii nomen est, non naturae. Quaeris nomen huius naturae, spiritus est; quaeris officium, angelus est: ex eo quod est, spiritus est, ex eo quod agit, angelus – La parola angelo designa l’ufficio, non la natura. Se si chiede il nome di questa natura si risponde che è spirito; se si chiede l’ufficio, si risponde che è angelo: è spirito per quello che è, mentre per quello che compie è angelo” [Sant'Agostino, Enarratio in Psalmos, 103, 1, 15]. In tutto il loro essere, gli angeli sono servitori e messaggeri di Dio. Per il fatto che “vedono sempre la faccia del Padre. . . che è nei cieli” (Mt 18,10), essi sono “potenti esecutori dei suoi comandi, pronti alla voce della sua parola” (Sal 103,20).
In quanto creature puramente spirituali, essi hanno intelligenza e volontà: sono creature personali [Cf Pio XII, Lett. enc. Humani generis: Denz. -Schönm., 3891] e immortali [Cf Lc 20,36]. Superano in perfezione tutte le creature visibili. Lo testimonia il fulgore della loro gloria [Cf Dn 10,9-12].
Cristo “con tutti i suoi angeli”
Cristo è il centro del mondo angelico. Essi sono “i suoi angeli”: “Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli… ” (Mt 25,31). Sono suoi perché creati per mezzo di lui e in vista di lui: “Poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui” (Col 1,16). Sono suoi ancor più perché li ha fatti messaggeri del suo disegno di salvezza: “Non sono essi tutti spiriti incaricati di un ministero, inviati per servire coloro che devono ereditare la salvezza?” (Eb 1,14).
Essi, fin dalla creazione [Cf Gb 38,7] e lungo tutta la storia della salvezza, annunciano da lontano o da vicino questa salvezza e servono la realizzazione del disegno salvifico di Dio: chiudono il paradiso terrestre, [Cf Gen 3,24] proteggono Lot. [Cf Gen 19] salvano Agar e il suo bambino, [Cf Gen 21,17] trattengono la mano di Abramo; [Cf Gen 22,11] la Legge viene comunicata “per mano degli angeli” (At 7,53), essi guidano il Popolo di Dio, [Cf Es 23,20-23] annunziano nascite [Cf Gdc 13] e vocazioni, [Cf Gdc 6,11-24; Is 6,6] assistono i profeti, [Cf 1Re 19,5] per citare soltanto alcuni esempi. Infine, è l’angelo Gabriele che annunzia la nascita del Precursore e quella dello stesso Gesù [Cf Lc 1,11; Lc 1,26].
Dall’Incarnazione all’Ascensione, la vita del Verbo incarnato è circondata dall’adorazione e dal servizio degli angeli. Quando Dio “introduce il Primogenito nel mondo, dice: lo adorino tutti gli angeli di Dio” (Eb 1,6). Il loro canto di lode alla nascita di Cristo non ha cessato di risuonare nella lode della Chiesa: “Gloria a Dio… ” (Lc 2,14). Essi proteggono l’infanzia di Gesù, [Cf Mt 1,20; Mt 2,13; Mt 1,19] servono Gesù nel deserto, [Cf Mc 1,12; Mt 4,11] lo confortano durante l’agonia, [Cf Lc 22,43] quando egli avrebbe potuto da loro essere salvato dalla mano dei nemici [Cf Mt 26,53] come un tempo Israele [Cf 2Mac 10,29-30; 2Mac 11,8]. Sono ancora gli angeli che “evangelizzano” (Lc 2,10) annunziando la Buona Novella dell’Incarnazione [Cf Lc 2,8-14] e della Risurrezione [Cf Mc 16,5-7] di Cristo. Al ritorno di Cristo, che essi annunziano, [Cf At 1,10-11] saranno là, al servizio del suo giudizio [Cf Mt 13,41; Mt 25,31; Lc 12,8-9].
Gli angeli nella vita della Chiesa
Allo stesso modo tutta la vita della Chiesa beneficia dell’aiuto misterioso e potente degli angeli [Cf At 5,18-20; At 8,26-29; At 10,3-8; At 12,6-11; At 27,23-25].
Nella Liturgia, la Chiesa si unisce agli angeli per adorare il Dio tre volte santo; [Messale Romano, “Sanctus”] invoca la loro assistenza (così nell’“In Paradisum deducant te angeli…” – In Paradiso ti accompagnino gli angeli – della Liturgia dei defunti, o ancora nell’“Inno dei Cherubini” della Liturgia bizantina), e celebra la memoria di alcuni angeli in particolare (san Michele, san Gabriele, san Raffaele, gli angeli custodi).
Dal suo inizio [Cf Mt 18,10] fino all’ora della morte [Cf Lc 16,22] la vita umana è circondata dalla loro protezione [Cf Sal 34,8; Sal 91,10-13] e dalla loro intercessione [Cf Gb 33,23-24; Zc 1,12; Tb 12,12]. “Ogni fedele ha al proprio fianco un angelo come protettore e pastore, per condurlo alla vita” [San Basilio di Cesarea, Adversus Eunomium, 3, 1: PG 29, 656B]. Fin da quaggiù, la vita cristiana partecipa, nella fede, alla beata comunità degli angeli e degli uomini, uniti in Dio.
http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=Amos%206,1a.4-7
BRANO BIBLICO SCELTO – AMOS 6,1A.4-7
Così dice il Signore onnipotente:
1 « Guai agli spensierati di Sion
e a quelli che si considerano sicuri sulla montagna di Samaria!
4 Essi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani
mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli cresciuti nella stalla.
5 Canterellano al suono dell’arpa,
si pareggiano a Davide negli strumenti musicali;
6 bevono il vino in larghe coppe
e si ungono con gli unguenti più raffinati,
ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano.
7 Perciò andranno in esilio in testa ai deportati
e cesserà l’orgia dei buontemponi ».
COMMENTO
I rischi di una vita dissoluta
Nel libro di Amos, dopo una serie di oracoli contro le nazioni (Am 1,3 – 2,16) e prima delle cinque visioni avute dal profeta (Am 7,1 – 9,10), è riportata una raccolta di oracoli contro Israele (Am 3,1 – 6,14). All’ultimo posto si situa un oracolo (6,1-14), la cui unità tematica è indicata dal riferimento alla «casa d’Israele» e dalla menzione di coloro che si sentono sicuri, fiduciosi, e infine dalla contrapposizione tra «la prima fra le nazioni» e «la nazione che li opprimerà». Il testo si articola in due sezioni di sette versetti ciascuna (vv. 1-7; 8-14), che descrivono rispettivamente il comportamento degli empi e la loro punizione. La liturgia riporta solo i vv. 1.4-7 che descrivono le colpe di un gruppo privilegiato, i notabili della «casa d’Israele» (6,1b), e concludono con l’annunzio della punizione che verrà poi specificata in seguito. Il soggetto che parla è il profeta: non c’è infatti alcun segno che indichi una parola di JHWH.
Il testo inizia con questa esclamazione: «Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri sulla montagna di Samaria!» (v. 1a). L’esclamazione «guai!» introduce una denunzia o un ammonimento (cfr. Am 5,18). L’espressione «spensierati di Sion» indica una categoria di persone che si trovano a loro agio, senza preoccupazione, con una nota di insolenza e di orgoglio. La loro sicurezza deriva dal fatto che risiedono in Sion, cioè in Gerusalemme, dove si trova il tempio di JHWH. In parallelismo sono menzionati «coloro che si considerano sicuri», cioè confidano, sono fiduciosi. Anche questo atteggiamento ha un significato negativo, quando si tratta di persone che pongono la loro fiducia in se stesse, oppure negli alleati militari o negli idoli (cfr. Is 32,9; 36,4-9; Mi 2,8; 7,5). Qui si tratta di persone che si sentono sicure sulla montagna di Samaria, confidando nelle fortificazioni che difendono la città dai nemici. La denunzia del profeta cade dunque su una certa categoria di abitanti sia del regno di Giuda che di quello di Israele. Essi si ingannano volutamente pensando di evitare un grave danno per il paese. La stessa falsa sicurezza viene loro rimproverata nuovamente nei vv. 1b-3 omessi dalla liturgia. Si introducono così i vv. 4-6 nei quali si descrive il loro modo di vivere.
Il primo rimprovero riguarda i festini a cui partecipano: «Distesi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli cresciuti nella stalla» (v. 4). Si tratta dunque di persone che appartengono alle classi più abbienti e politicamente influenti. I due verbi «distendersi» e «sdraiarsi» indicano il loro modo di vita «sciolto» «dissoluto» di vivere (cfr. v. 7). La descrizione dei cibi insiste sul fatto che essi li prendono direttamente dal meglio del gregge e della stalla. La « stalla» è menzionata per indicare i vitelli da ingrasso (cfr. 1Sam 28,24; Ger 46,21; Ml 3,20).
Oltre che sdraiarsi pigramente nei loro banchetti, coloro a cui si rivolge Amos «canterellano al suono dell’arpa, come Davide improvvisano su strumenti musicali» (v. 5). Il verbo tradotto «canterellare» è interpretato abitualmente in riferimento al suonare o al cantare, forse in modo inetto (vociare, urlare, schiamazzare), probabilmente sotto l’effetto del vino. Tale traduzione è congetturale e si basa sulla presenza del termine «arpa». In questo contesto, l’espressione «improvvisare su strumenti musicali come Davide» assume un senso ironico. Forse si tratta semplicemente di utilizzare posate e piatti per accompagnare, come se fosse musica, i loro discorsi di ubriachi.
Infine le persone in questione «bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano» (v. 6). Le coppe del vino sono ampi «crateri», un termine frequente nella descrizione delle offerte (Nm 7) e degli arredi del tempio (1Re 7; Ger 52,18-19) per indicare recipienti assai grandi. L’impiego di questo termine in Amos sottolinea l’abbondanza del vino consumato. Nonostante l’allusione all’unzione evochi l’unzione di Davide, (cfr. 1Sam 16,12-13; Sal 89,21), di Ieu (2Re 9,3.6), di Aronne e dei suoi figli (Lv 8,12.30), è evidente che qui si tratti semplicemente dei cosmetici usati dai partecipanti alla celebrazione. Il vero rimprovero arriva solamente nel v. 6b: «Non si dolgono per la distruzione di Giuseppe». Il verbo «dolersi» in forma riflessiva esprime non lo stare male fisicamente, ma l’affliggersi interiormente (cfr. Is 17,11; Ger 12,13). «Giuseppe» (cfr. «casa di Giuseppe» in Am 5,6, e «resto di Giuseppe» in Am 5,15), senza alcun’altra determinazione e in chiara contrapposizione ai benestanti («la casa d’Israele» del v. 1b), si riferisce a tutti coloro che sono esclusi da quei banchetti.
Dopo la descrizione del comportamento dei benestanti in Sion e a Samaria, il profeta pronunzia la condanna: «Perciò ora andranno in esilio in testa ai deportati e cesserà l’orgia dei dissoluti» (v. 7). Introdotta dal minaccioso «perciò» la conclusione è l’annunzio dell’esilio d’Israele (cfr. Am 5,27; 7,11.17). Gli esiliati che vanno in testa sono infatti i «notabili». Il popolo minuto era probabilmente in buona parte risparmiato dall’esilio, per ragioni non certo umanitarie ma tecniche ed economiche. Anche in Am 4,2 si distingue implicitamente tra coloro che vanno in testa e coloro che li seguono nel corteo degli imprigionati. Questa lettura è confermata dal v. 7b che annunzia la fine delle baldorie, alle quali solo partecipavano i notabili (cfr. vv. 3-6). Il termine tradotto con «orgia» appare altrove solamente in Ger 16,5, dove, dal contesto, significa «casa dei banchetti » (di cordoglio). La traduzione «orgia» per Am 6,7 è favorita dalla presenza, per la seconda volta nel testo, dei dissoluti, cioè di «coloro che si sdraiano per i banchetti» (cfr. v. 4).
LINEE INTERPRETATIVE
In questo testo il profeta critica aspramente la corruzione di una classe dirigente che trae vantaggio dalla propria posizione sociale e non si cura del bene comune. Ciò che al profeta sta a cuore non è tanto la giusta distribuzione del benessere economico, ma il senso di responsabilità che dovrebbero avere coloro che sono a capo di una nazione. Essi invece sottovalutano i pericoli, si godono la vita e pongono le premesse di una catastrofe che colpirà tutta la nazione.
Di fronte a questa superficialità dettata dall’egoismo, il profeta annunzia come castigo la conquista nemica e l’esilio. Si tratta proprio del disastro che i notabili di Israele non hanno saputo o voluto prevenire. Quando questo evento capiterà, proprio loro saranno i primi a essere colpiti. Si può dire che essi hanno procurato da se stessi la propria rovina. Su questo sfondo il messaggio del profeta è un invito a cambiare mentalità e ad assumere fino in fondo le proprie responsabilità.
29 SETTEMBRE 2013 | 26A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C | PROPOSTA DI LECTIO DIVINA
LECTIO DIVINA SU: LC 16,19-31
Comprendere quanto Gesù vuole dirci con la parabola non risulta difficile. Fino a quando visse, il ricco nuotò nell’abbondanza; ebbe di tutto, tranne che compassione verso il povero che digiunava alla sua porta. Dopo la morte, non poté né alleviare la sua disgrazia né evitare che la sua famiglia camminasse, senza saperlo, verso un’identica fine. Carico di beni, il ricco non poté salvarsi, né salvare i suoi.
Una volta morto il povero, che nessuno aveva soccorso in vita, godé per sempre della consolazione di Dio. La morte di ambedue cambiò radicalmente e definitivamente, la loro sorte: chi prima non si privava di nulla non trovò dopo neppure una goccia d’acqua per rinfrescarsi; colui che aveva solo il desiderio di saziarsi con quello che altri sprecavano, ottenne come soddisfazione la compagnia di Dio.
Se l’abbondanza di beni causò la perdizione del ricco, il povero non dovette fare altro che lottare per sopravvivere senza disperare di Dio. Il ricco non aveva bisogno né del povero, né di Dio, per vivere bene; al povero gli mancò di tutto, dei beni ed un prossimo compassionevole, ma ebbe sempre Dio dalla sua parte quantunque non lo sapeva.
In quel tempo, Gesù disse ai farisei:
19 « C’era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di lino e banchettava sontuosamente ogni giorno. 20Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, 21 che desiderava nutrirsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco. Anche i cani venivano a leccare le sue piaghe. 22 Ora avvenne che il povero morì e gli angeli lo portarono nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. 23 Essendo all’inferno, in mezzo ai tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro nel suo seno, 24 e gridò: « Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e bagnarmi la lingua, perché soffro tormenti in queste fiamme ». 25 Ma Abramo rispose: ‘Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni in vita, e Lazzaro, a sua volta, i mali: ora lui è consolato, mentre tu sei tormentato. 26E anche tra noi e voi vi è un grande abisso, perché non si riesca ad attraversare, anche se si vuole, né da qui a voi, né da lì a noi’. 27 Il ricco rispose: « Ti prego, dunque, padre, di mandarlo a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli, 28 affinché dia la sua testimonianza, e così evitare che vengano anch’essi in questo luogo di tormento ». 29Ma Abramo rispose: « Hanno Mosè e i Profeti, che ascoltino loro ». 30 Il ricco riprese a dire: « No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si pentiranno ». 31 Rispose Abramo: « Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se qualcuno risorge dai morti ».
1. LEGGERE: CAPIRE QUELLO CHE DICE IL TESTO FACENDO ATTENZIONE A COME LO DICE
Luca considera destinatari dell’insegnamento di Gesù i farisei, i quali ha definito poco prima « amanti » del denaro, (Lc 16,14). Non si può passar sopra al dettaglio, se si vuole interpretare correttamente Gesù. Si rivolge solo a chi ama più i suoi beni che il suo prossimo. I diretti destinatari della severa avvertenza non sono un gruppo di fedeli ebrei, bensì tutti coloro che vivono attaccati ai loro beni.
La parabola che si può vedere come un’illustrazione paradigmatica di quando disse già Gesù nella pianura, (Lc 6,20 -21.24-25), contiene una dura condanna della ricchezza, non per la sua provenienza illecita che qui non si menziona, bensì per la sua malefica conseguenza: il suo potere di rendere insensibile il cuore dell’uomo e chiuderlo alla necessità del prossimo. Ma è, inoltre, buona notizia, perché svela dove Dio ha messo le sue preferenze ed il suo cuore. Il Dio di Gesù non è neutrale, si è schierato a beneficio dell’indigente e del sottovalutato, benché lo mostri non sempre in forma immediata o evidente.
La narrazione presenta i personaggi (Lc 16,19.20). Il ricco ha molti beni, ma non ha nome, non ha viso; può essere chiunque. Il povero è identificato dal suo nome, (Lazzaro: Dio aiuta), prima ancora che si menzionino i suoi mali e la sua fame. Il ricco si dava a banchetti giornalieri; il povero era carne per i cani. Non si può dire con altre parole l’abisso che li separava. La morte di ambedue farà che questo abisso, prima non affrancato, diventi ora insormontabile, definitivo. Ma con fortuna invertita.
Il ricco che non aveva fatto niente ‘di male’, solo vivere dei suoi beni, andò all’inferno. Il povero, del quale non si racconta niente ‘di buono’, solo di essere povero di tutto, è introdotto nel ‘seno di Abramo.’ Benché sembri un fine logico dentro l’insegnamento di Gesù, non smette di essere sorprendente in una cultura, come quella biblica, dove i beni sono buoni, perché provengono dal buon Dio. Ma, insegna Gesù, c’è qualcosa più pregiato dei propri beni, vedere, il prossimo che ha bisogno di essi. È in dialogo con Abramo quando il ricco ‘imparerà’ la lezione. E gli uditori di Gesù, riceveranno un pesante avvertimento. Lazzaro, il povero che non fu soccorso in vita non può aiutare nessuno, né i morti, né i vivi che continuano a godere della vita. Nessuno può aiutare chi non si fa aiutare dalla legge di Dio, Mosè e dai profeti. È Dio, la sua volontà espressa, quella che deve aprire il cuore del ricco alla necessità del suo prossimo. Per il ricco c’è solo un ‘miracolo’ che possa salvarlo, la presenza del povero al suo fianco. Chi rimane insensibile alla necessità del suo prossimo si sta coltivando la sua propria condanna.
Terribile istruzione: chi non fu compassionevole in vita non riceverà compassione dopo la sua morte. Chi ama i suoi beni più che il suo prossimo, non avrà chi lo soccorrerà. Quello sarà, per sempre, il suo ‘inferno.’
2. MEDITARE: APPLICARE ALLA VITA QUELLO CHE DICE IL TESTO!
Con questa parabola che gli è propria, Luca ha voluto presentare, in forma particolarmente drammatica, senza concessioni né moine, il pericolo che corre il credente ricco: non è che uno possa, un giorno, perdere quanto ha, è che i suoi averi possono farlo perdere per sempre. Quanto facile risulta per un povero, fidarsi di Dio! E di chi se no? Quanto costa ad un ricco mettere la sua fiducia in Dio: metti la tua sicurezza in noi, gli dicono i suoi beni! C’è qualcosa, dunque, di molto ‘brutto’ nei ‘beni’; essi hanno una capacità molto forte di perversione. Il loro piacere allontana il povero dal proprio cuore e ci pone in contrasto con Dio. L’unico bene in cui il povero conta è Dio. Il ricco, per il quale un povero non conta niente, smette di contare per Dio.
È evidente che Gesù, raccontando simile storia, prendeva una posizione sorprendentemente critica rispetto all’abbondanza di beni in vita. Perché niente di brutto aveva fatto il ricco, al massimo spendere i suoi beni senza considerazione né pietà verso il prossimo che soffriva al suo fianco. E niente fece di buono il povero, se non quello di starsene per terra mendicando un aiuto che non arrivò mai.
Dobbiamo riconoscere che, benché chiaro, l’insegnamento di Gesù non ci aggrada: contraddice non già solo la moda, i valori, della nostra società, bensì, soprattutto, la nostra stessa vita e le opzioni che prende il nostro cuore quotidianamente. Pochi giudizi di Gesù ci risultano tanto irrealizzabili nel mondo in cui viviamo, tanto lontani dalla nostra realtà, come il suo giudizio sulla ricchezza. Nei nostri giorni non c’è chi consideri i beni materiali come un grave pericolo o lo sperpero come un’autentica ingiustizia. I nostri ricchi possono fare quello che vogliono del loro denaro; ciò che ci dispiace è che lo consumino senza di noi. E noi, quelli che diciamo di seguire Gesù, facciamo qualcosa di più per avere maggiori beni, godere di migliori condizioni di vita, poter pagarci i nostri capricci, spendere il nostro denaro come ci pare? Come qualunque altro, invidiamo quanti hanno più di noi, sognando il giorno in cui arriveremo ad essere ricchi ed identifichiamo la fortuna con una somma importante di denaro. Non ci mancano ragioni; perché i beni materiali sono quei beni che ci sono necessari per vivere. Benché sappiamo che il denaro non basta per fare felice una vita, la sua mancanza è già un motivo di infelicità.
Gesù non condanna la ricchezza, non la considera cattiva per sé stessa. Ma con la sua parabola ci fa notare la sua pericolosità: quello che ha molto, per il fatto di avere di più, normalmente non è più sensibile davanti a chi ha meno, normalmente non sente responsabilità di fronte a lui. Crede di potere disporre del suo denaro solo perché gli appartiene, senza che gli importi il fatto che altri non abbiano di che cosa vivere. Avere di più, godere meglio, spendere rapidamente, è per molti oggi il fine della loro vita; Gesù ci fa notare che quello può essere anche il fine: la cosa brutta non era il fatto che il ricco possedesse molto, ma che non mettesse qualcosa a disposizione del povero. Sprecò i suoi beni, e la sua vita per sempre, non perché spendesse molto, bensì perché non si consumò un po’ a beneficio di chi era nella necessità. La cosa brutta dei beni non è averli, né desiderarli. La cosa brutta sta nel fatto che chi più ha, meno dà. Gesù ci avvisa con calma: la nostra fortuna finale non dipende da quello che abbiamo potuto accumulare in vita bensì da quanto abbiamo voluto condividere. Sopravvivremo non per quanto avremo speso in vita, bensì per quello che abbiamo voluto mettere a disposizione degli altri.
Tutto quello che ebbe il ricco non gli valse per salvarsi. Poté comprarsi di tutto in vita, meno che un posto vicino a Dio dopo la sua morte. E chi più aveva fu chi perse di più, non già la vita ed alcuni beni, perse tutta la vita e Dio. I beni che abbiamo, il benessere che godiamo, il denaro che sprechiamo possono farci star bene senza l’unico Dio e l’autentica buona vita, ma non godere della sua intimità per sempre. A tanto rischiamo quando ci attacchiamo ai beni che periscono con noi: dimentichiamo che l’unico bene che sopravvivrà è quello che facciamo agli altri; il bene che facciamo a noi stessi morrà con noi; il bene che non facciamo a chi è nella necessità ci condannerà. Non inganniamoci mettendo come scusa che, in fin dei conti, noi non siamo tanto ricchi come il signore della parabola. Benché non possediamo tanto per banchettare splendidamente ogni giorno, basta che ci sia qualcuno vicino a noi che abbia maggiori necessità e mangi meno. Comparato con quanto volessimo avere, saremo sempre poveri; in paragone con chi dispone meno di noi, siamo, in realtà, benestanti. Non rimanere al passo di chi ha bisogno, non aiutare chi ha bisogno, ci fa ricchi ed egoisti, benché possediamo poco. Dio ci ha dato i beni per fare il bene e, così, farci migliori, non più ricchi. Quello che siamo riusciti ad accumulare nella vita c’è stato concesso affinché rispondiamo alle nostre necessità e a quelle del nostro prossimo.
Gesù non demonizza la ricchezza in sé stessa. Sottolinea l’insensibilità che produce nell’anima di chi la possiede: chi non vide con pietà l’indigenza altrui diventa sordo alla parola di Dio ed i suoi profeti, e non darà credito alle sue opere più stupende. Neanche il miracolo più portentoso è capace di cambiare il cuore immutabile davanti alla povertà del fratello: chi non ha ascoltato la voce dell’indigente non obbedirà alla legge di Dio né ascolterà la sua voce, benché la senta. Per sentire Dio bisogna ascoltare il povero. La sua esistenza miserabile è il solo « miracolo » che può operare la nostra conversione. Abbiamo poveri a sufficienza intorno a noi, affinché possiamo convertirci alla povertà. Dio ci ha dato tanti prossimi che hanno bisogno di noi, dei nostri beni, perché Egli vuole essere nostro unico Bene. In ogni povero che convive tra noi, Dio ci ha dato un motivo, e l’occasione, per la nostra conversione.
Nella parabola Gesù, inoltre, ci fa un secondo avvertimento. Chi non vede con pietà l’indigenza altrui non sentirà la parola di Dio né darà credito alle sue opere più stupende. Sarebbe stato inutile che un ricco tornasse alla vita, non per salvare se stesso, ma semplicemente per avvisare la sua famiglia. Chi è insensibile davanti ad un mendicante che ha vicino a sé, diventa sordo alla voce stessa di Dio ed annichilisce anche la sua capacità di vedere prodigi. I miracoli sono insufficienti, Dio stesso è superfluo per chi non si intenerisce davanti allo stato di necessità del suo prossimo. Il portento più stupendo o la stessa legge di Dio non possono cambiare il cuore un uomo che ama più i beni che il suo prossimo che preferisce sprecare il suo denaro invece di soccorrere il bisognoso. Risulta commovente vedere come i beni che possediamo finiscono per possederci, occupano il nostro tempo e sequestrano i nostri migliori sentimenti, prendono in ostaggio il nostro cuore. E la cosa brutta non è che Gesù ce lo faccia notare; la cosa peggiore è che siamo spesso tutti spettatori, e vittime, di quella tentazione di optare per i nostri beni contro il nostro prossimo.
Se prendiamo sul serio la parabola di Gesù, ci accorgeremo che ha anche un messaggio promettente. Finché c’è qualcuno vicino a noi da soccorrere, non stiamo salvando noi stessi, ma neanche siamo persi per sempre. Finché esiste vicino a noi qualcuno con maggiori necessità di noi, abbiamo ancora la speranza di guadagnare Dio per sempre. Il povero da curare è la nostra assicurazione sulla vita eterna! Nessuno è completamente perso – né salvo! -, se ha qualcuno a cui badare. Nessuno di noi ha così pochi beni da non avere possibilità di aiutare con quello che ha: che Dio sia il nostro futuro Bene dipenderà sempre dal fatto che mettiamo i nostri beni al servizio di chi ha più bisogno di essi. Serviamoci di quanto Dio ci diede in vita per averlo come Dio per sempre.
Più che stupirsi per l’inappellabile condanna del ricco e la salvezza senza troppo sforzo del povero, bisogna sorprendersi – lì sta il ‘cuore’ di questo vangelo – del Dio che si rivela in entrambe le attuazioni: un Dio che concede, e per sempre, la compagnia di Abramo a chi visse tra i cani; un Dio che esce in difesa solo di chi non ha avuto nulla, neanche compassione del suo prossimo; un Dio che non sopporta che non si tratti bene chi non ottenne beni. Badare al povero non è, dunque, compito opzionale per un credente. Dio ci ha dato i poveri perché vuole essere Lui, un giorno e per sempre, la nostra ricchezza.
JUAN JOSE BARTOLOME sdb,