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The Priesthood of Mary, Mosaic in the Basilica of Parenzo, Croatia

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MARIA MADRE E MODELLO DEL SACERDOTE

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MARIA MADRE E MODELLO DEL SACERDOTE

(Padre Cantalamessa, 18 dicembre 2009, Terza Predica di Avvento)

Nella lettera a tutti i sacerdoti in occasione del Giovedì Santo del 1979, la prima della serie del suo pontificato, Giovanni Paolo II scriveva: “C’è, nel nostro sacerdozio, ministeriale la dimensione stupenda e penetrante della vicinanza della madre di Cristo”. In quest’ultima meditazione di Avvento, vorremmo riflettere proprio su questa vicinanza tra Maria e il sacerdote.
Di Maria non si parla molto spesso nel Nuovo Testamento. Tuttavia, se ci facciamo caso, notiamo che ella non è assente in nessuno dei tre momenti costitutivi del mistero cristiano che sono: l’Incarnazione, il Mistero pasquale, e la Pentecoste. Maria fu presente nell’Incarnazione perché essa è avvenuta in lei; fu presente nel Mistero pasquale, perché è scritto che: “ presso la croce di Gesù stava Maria sua madre” (cf Gv 19, 25); fu presente nella Pentecoste, perché è scritto che gli apostoli erano “ assidui e concordi nella preghiera con Maria, la madre di Gesù “ (cf At 1, 14).
Ognuna di queste tre presenze ci rivela qualcosa della misteriosa vicinanza tra Maria e il sacerdote, ma trovandoci nell’imminenza del Natale, vorrei limitarmi alla prima di esse, a quello che Maria dice del sacerdote e al sacerdote nel mistero dell’incarnazione.
1. Quale rapporto tra Maria e il sacerdote?
Vorrei anzitutto accennare alla questione del titolo di sacerdote attribuito alla Vergine nella tradizione. Uno scrittore della fine del V secolo chiama Maria “Vergine e allo stesso tempo sacerdote e altare che ci ha dato Cristo pane del cielo per la remissione dei peccati”[1]. Dopo di lui, sono frequenti i riferimenti al tema di Maria sacerdote che però divenne oggetto di sviluppi teologici solo nel secolo XVII, nella scuola francese di San Sulpizio. In essa il sacerdozio di Maria non viene messo tanto in rapporto con il sacerdozio ministeriale quanto con quello di Cristo.
Alla fine del secolo XIX si diffuse una vera e propria devozione alla Vergine – sacerdote e san Pio X accordò anche una indulgenza alla relativa pratica. Quando però si intravide il pericolo di confondere il sacerdozio di Maria con quello ministeriale, il magistero della Chiesa divenne reticente e due interventi del Santo Ufficio posero praticamente fine a tale devozione[2].
Dopo il concilio si continua a parlare del sacerdozio di Maria, collegandolo però non al sacerdozio ministeriale, e neppure a quello supremo di Cristo, ma al sacerdozio universale dei fedeli: ella possederebbe a titolo personale, come figura e primizia della Chiesa, quel “sacerdozio regale” (1 Pt 2,9) che tutti i battezzati posseggono a titolo collettivo.
Che possiamo ritenere di questa lunga tradizione che associa Maria al sacerdote e che senso dare alla “vicinanza” tra essi di cui parlava Giovanni Paolo II? Resta, a me pare, la analogia o la corrispondenza dei piani, all’interno del mistero della salvezza. Quello che Maria è stata sul piano fisico e della realtà storica, una volta per tutte, il sacerdote lo è ogni volta di nuovo sul piano della realtà sacramentale.
In questo senso si possono intendere le parole di Paolo VI: “Quali relazioni e quali distinzioni vi sono fra la maternità di Maria, resa universale dalla dignità e dalla carità della posizione assegnatale da Dio nel piano della Redenzione, e il sacerdozio apostolico, costituito dal Signore per essere strumento di comunicazione salvifica fra Dio e gli uomini? Maria dà Cristo all’umanità; e anche il Sacerdozio dà Cristo all’umanità, ma in modo diverso, com’è chiaro; Maria mediante l’Incarnazione e mediante l’effusione della grazia, di cui Dio l’ha riempita; il Sacerdozio mediante i poteri dell’ordine sacro”[3].
L’analogia tra Maria e il sacerdote si può esprimere così. Maria, per opera dello Spirito Santo, ha concepito Cristo e, dopo averlo nutrito e portato nel suo seno, lo ha dato alla luce a Betlemme; il sacerdote, unto e consacrato di Spirito Santo nell’ordinazione, è chiamato anche lui a riempirsi di Cristo per poi darlo alla luce e farlo nascere nelle anime mediante l’annuncio della parola, l’amministrazione dei sacramenti.
In questo senso il rapporto tra Maria e il sacerdote ha una lunga tradizione dietro di sé, molto più autorevole di quella di Maria – sacerdote. Riprendendo un pensiero di Agostino[4] il Con cilio Vaticano II scrive: “ La Chiesa… diventa essa pure madre, poiché con la predicazione e il battesimo genera a una vita nuova e immortale i figlioli, concepiti ad opera dello Spirito Santo e nati da Dio“ [5].
Il battistero, dicevano i Padri, è il seno in cui la Chiesa dà alla luce i suoi figli e la parola di Dio è il latte puro con cui li nutre: “O prodigio mistico! Uno è il Padre di tutti, uno anche il Verbo di tutti, uno e identico dappertutto è anche lo Spirito Santo e una sola è la Vergine Madre: così io amo chiamare la Chiesa. Pura come vergine, amabile come madre, chiamando a raccolta i suoi figli, li nutre con quel sacro latte che è la parola destinata ai bambini appena nati (cf 1 Pt 2, 2)”[6].
Il beato Isacco della Stella, in una pagina che abbiamo letto nell’ufficio delle letture di sabato scorso, ha fatto una sintesi di questa tradizione: “ Maria e la Chiesa, scrive, sono una madre e più madri; una vergine e più vergini. L’una e l’altra madre, l’una e l’altra vergine. L’una e l’al tra concepisce senza concupiscenza dallo stesso Spirito; l’una e l’altra dà a Dio Padre una prole senza peccato. Quella, senza al cun peccato, partorì al corpo il Capo; questa, nella remissione di tutti i peccati, partorisce il corpo al Capo”[7].
Quello che in questi testi si dice della Chiesa nel suo insieme, come sacramento di salvezza, va applicato in modo speciale ai sacerdoti, perché, ministerialmente, sono essi che, in concreto, generano Cristo nelle anime mediante la parola e i sacramenti.
2. Maria credette
Fin qui l’analogia tra Maria e il sacerdote sul piano, per così dire, oggettivo o della grazia. Esiste però un’analogia anche sul piano soggettivo, cioè tra il contributo personale che la Vergine ha dato alla grazia dell’elezione e il contributo che il sacerdote è chiamato a dare alla grazia dell’ordinazione. Nessuno dei due è un canale inerte che lascia passare la grazia senza nulla apportarvi di proprio.
Tertulliano parla di una versione del docetismo gnostico, secondo cui Gesù era nato, sì, da Maria, ma non concepito in lei e da lei; il corpo di Cristo, venuto dal cielo, sarebbe passato attraverso la Vergine, ma non generato in lei e da lei; Maria sarebbe stata per Gesù una via, non una madre, e Gesù per Maria un ospite, non un figlio[8]. Per non ripetere questa forma di docetismo nella sua vita, il sacerdote non può limitarsi a trasmette agli altri un Cristo imparato dai libri che non è diventato prima carne della sua carne e sangue del suo sangue. Come Maria (l’immagine è di San Bernardo) egli deve essere un serbatoio che fa traboccare al di fuori ciò di cui è pieno dentro, non un canale che si limita a far passare l’acqua senza nulla trattenerne.
L’apporto personale, comune a Maria e al sacerdote, si riassume nella fede. Maria, scrive Agostino, “per fede concepì e per fede partorì” (fide concepit, fide peperit)[9]; anche il sacerdote per fede porta Cristo nel suo cuore e mediante la fede lo comunica agli altri. Sarà il centro della meditazione di oggi: cosa il sacerdote può imparare dalla fede di Maria.
Quando Maria giunse da Elisabetta, questa l’accolse con grande gioia e, “piena di Spirito Santo “, esclamò: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore” (Lc l, 45). Non c’è dubbio che questo aver creduto si riferi sce alla risposta di Maria all’angelo: “Eccomi, sono la serva del Si gnore, avvenga di me quello che hai detto” (Lc 1, 38).
A prima vista, quello di Maria fu un atto di fede facile e per fino scontato. Diventare madre di un re che avrebbe regnato in eterno sulla casa di Giacobbe, madre del Messia! Non era quel lo che ogni fanciulla ebrea sognava di essere? Ma questo è un modo di ragionare assai umano e carnale. Maria viene a tro varsi in una totale solitudine. A chi può spiegare ciò che è av venuto in lei? Chi la crederà quando dirà che il bimbo che por ta nel grembo è “opera dello Spirito Santo “? Questa cosa non è avvenuta mai prima di lei e non avverrà mai dopo di lei.
Maria conosceva certamente ciò che era scritto nel libro della legge e cioè che se la fanciulla, al momento delle nozze, non fosse stata trovata in stato di verginità, doveva essere fatta uscire all’ingres so della casa del padre e lapidata dalla gente del villaggio (cf Dt 22, 20 s). Noi parliamo volentieri oggigiorno del rischio della fede, intendendo, in genere, con ciò, il rischio intellettuale; ma per Maria si trattò di un rischio reale!
Carlo Carretto, nel suo li bretto sulla Madonna, narra come giunse a scoprire la fede di Maria. Quando viveva nel deserto, aveva saputo da alcuni suoi amici Tuareg che una ragazza dell’accampamento era stata promessa sposa a un giovane, ma che non era andata ad abitare con lui, essendo troppo giovane. Aveva collegato questo fatto con quello che Luca dice di Maria. Perciò ripassando, dopo due anni, in quello stesso accampamento, chiese notizie della ragaz za. Notò un certo imbarazzo tra i suoi interlocutori e più tardi uno di loro, avvicinandosi con grande segretezza, fece un segno: passò una mano sulla gola con il gesto caratteristico degli arabi quando vogliono dire: “E stata sgozzata “. Si era scoperta incin ta prima del matrimonio e l’onore della famiglia esigeva quella fine. Allora ripensò a Maria, agli sguardi impietosi della gente di Nazareth, agli ammiccamenti, capì la solitudine di Maria, e quella notte stessa la scelse come compagna di viaggio e maestra della sua fede [10].
Dio non strappa mai alle creature dei consensi, nascondendo loro le conseguenze, ciò cui andranno incontro. Lo vediamo in tutte le grandi chia mate di Dio. A Geremia preannuncia: “Ti muoveranno guerra” (Ger l, 19) e di Saulo, dice ad Anania: “Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome2 (At 9, 16). Solo con Maria, per una missione come la sua, avrebbe agito diversamente? Nella luce dello Spirito Santo, che accompagna la chiamata di Dio, el la ha certamente intravisto che anche il suo cammino non sa rebbe stato diverso da quello di tutti gli altri chiamati. Del resto, Simeone, ben presto, darà espressione a questo presentimento, quando le dirà che una spada le avrebbe trapassato l’anima.
Uno scrittore moderno, Erri De Luca, ha descritto in modo poetico questo presentimento di Maria al momento della nascita di Gesù. Ella è sola nella grotta, Giuseppe veglia all’esterno (per legge nessun uomo può assistere al parto); ha appena dato alla luce il figlio, quando delle strane associazioni le balenano nella mente: “Perché, figlio mio, nasci proprio qui a Bet-Lehem, Casa del Pane? E perché dobbiamo chiamarti Ieshu?… Fa’ che questo brivido salito sulla mia schiena, questo freddo venuto dal futuro sia lontano da lui”. La madre presagisce che quel figlio le sarà tolto, allora ripete tra sé: “Fino alla prima luce Ieshu è solamente mio. Voglio cantare una canzone con queste tre parole e basta. Stanotte qui a Bet Lehem è solamente mio”. E, così dicendo, se lo porta al seno per allattarlo[11].
Maria è l’unica ad aver creduto “in situazione di contemporaneità”, cioè mentre la cosa accadeva, prima di ogni conferma e di ogni convalida da parte degli eventi e della storia 8. Gesù disse a Tommaso: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!” (Gv 20, 29): Maria è la prima di coloro che hanno creduto senza aver ancora visto.
San Paolo dice che Dio ama chi dona con gioia (2 Cor 9, 7) e Maria ha detto a Dio il suo “sì “ con gioia. Il verbo con cui Maria esprime il suo consenso, e che è tradotto con “fiat “ o con “si faccia “, nell’originale, è all’ottativo (génoito), un modo verbale che in greco si usa per esprimere desiderio e perfino gioiosa impazienza che una certa cosa avvenga. Come se la Vergine dicesse: “Desidero anch’io, con tutto il mio essere, quello che Dio desidera; si compia presto ciò che egli vuole “. Davvero, come diceva sant’Agostino, prima ancora che nel suo corpo ella concepì Cristo nel suo cuore.
Ma Maria non disse “fiat” perché non parlava latino e non disse neppure “génoito “ che è parola greca. Che cosa disse allora? Qual è la parola che, nella lingua parlata da Maria, corrisponde più ‘ da vicino a questa espressione? Quando voleva dire a Dio “sì, così sia “, un ebreo diceva “amen! “ Se è lecito cer care di risalire, con pia riflessione, alla ipsissima vox, alla parola esatta, uscita dalla bocca di Maria – o almeno alla parola che c’era, a questo punto, nella fonte giudaica usata da Luca -, que sta deve essere stata proprio la parola “amen”. Ricordiamo i salmi che nella Volgata latina terminavano con l’espressione: “fiat, fiat”?; nel testo greco dei LXX, a quel punto, c’è “genoito, genoito” e nell’originale ebraico conosciuto da Maria c’è “amen, amen”.
Amen è parola ebraica, la cui radice significa solidità, certezza; era usata nella liturgia come risposta di fede alla parola di Dio. Con l’“amen “ si riconosce quel che è stato detto come paro la ferma, stabile, valida e vincolante. La sua traduzione esatta, quando è risposta alla parola di Dio, è questa: “Così è e così sia “. Indica fede e obbedienza insieme; riconosce che quel che Dio dice è vero e vi si sottomette. E dire “sì “ a Dio. In questo senso lo troviamo sulla bocca stessa di Gesù: “Sì, amen, Padre, perché così è piaciuto a te… “ (cf Mt 11, 26). Egli anzi è l’Amen personificato: Così parla l’Amen… (Ap 3, 14) ed è per mezzo di lui che ogni altro “amen “ di fede pronunciato sulla terra sale ormai a Dio (cf 2 Cor l, 20). Anche Maria, dopo il Figlio, è l’ amen a Dio fatto persona.
La fede di Maria è dunque un atto d’amore e di docilità, libe ro anche se suscitato da Dio, misterioso come misterioso è ogni volta l’incontro tra la grazia e la libertà. E questa la vera gran dezza personale di Maria, la sua beatitudine confermata da Cri sto stesso. “Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte” (Lc 11, 27), dice una donna nel Vangelo. La donna proclama Maria beata perché ha portato Gesù; Eli sabetta la proclama beata perché ha creduto; la donna proclama beato il portare Gesù nel grembo, Gesù proclama beato il portarlo nel cuore: “Beati piuttosto – risponde Gesù – coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano”. Egli aiuta, in tal modo, quella donna e tutti noi, a capire dove risiede la grandezza personale di sua Madre. Chi è infatti che “custodiva“ le parole di Dio più di Maria, della quale è detto due volte, dalla stessa Scrittura, che “custodiva tutte le parole nel suo cuore “? (cf Lc 2, 19.51).
Non dovremmo concludere il nostro sguardo alla fede di Maria con l’impressione che Maria abbia creduto una volta e poi basta nella sua vita; che ci sia stato un solo grande atto di fede nella vita della Madonna. Quante volte, in seguito all’Annunciazione, Maria sarà stata martirizzata dall’apparente contrasto della sua situazione con tutto ciò che era scritto e conosciuto, circa la volontà di Dio, nell’Antico Testamento e circa la figura stessa del Messia! Il Concilio Vaticano II ci ha fatto un grande dono, afferman do che anche Maria ha camminato nella fede, anzi che ha “progredito” nella fede, cioè è cresciuta e si è perfezionata in essa [12].
3. Crediamo anche noi!
Passiamo ora da Maria al sacerdote. Sant’Agostino ha scritto: “Maria credette e in lei quel che credette si avverò. Crediamo anche noi, perché quel che si avverò in lei possa giovare anche a noi”[13]. Crediamo anche noi! La contemplazione della fede di Maria ci spinge a rinnovare anzitutto il nostro personale atto di fede e di abbandono a Dio.
Tutti devono e possono imitare Maria nella sua fede, ma in modo tutto speciale deve farlo il sacerdote. “Il mio giusto – dice Dio – vivrà di fede “ (cf Abacuc 2, 4; Rm 1, 17): questo vale, a un titolo speciale, per il sacerdote. Egli è l’uomo della fede. La fede è ciò che determina, per così dire, il suo “peso specifico” e l’efficacia del suo ministero.
Ciò che i fedeli colgono immedia tamente in un sacerdote e in un pastore, è se “ ci crede “, se crede in ciò che dice e in ciò che celebra. Chi dal sacerdote cer ca anzitutto Dio, se ne accorge subito; chi non cerca da lui Dio, può essere facilmente tratto in inganno e indurre in inganno lo stesso sacerdote, facendolo sentire importante, brillante, al pas so coi tempi, mentre, in realtà, è un “bronzo che tintinna e un cembalo squillante”.
Perfino il non credente che si accosta al sacerdote in uno spirito di ricerca, capisce subi to la differenza. Quello che lo provocherà e che potrà metterlo salutarmente in crisi, non sono in genere le più dotte discussioni della fede, ma trovarsi davanti a uno che crede veramente con tutto se stesso. La fede è contagiosa. Come non si contrae contagio, sentendo solo parlare di un virus o studiandolo, ma venendone a contatto, così è con la fede.
A volte si soffre e magari ci si lamenta in preghiera con Dio, perché la gente abbandona la Chiesa, non lascia il peccato, perché parliamo parliamo, e non succede niente. Un giorno gli apostoli tentarono di cacciare il demonio da un pove ro ragazzo, ma senza riuscirvi. Dopo che Gesù ebbe cacciato, lui, lo spirito cattivo dal ragazzo, si accostarono a Gesù in di sparte e gli chiesero: “Perché noi non abbiamo potuto scacciarlo?” E Gesù rispose: “Per la vostra poca fede” (Mi 17, 19-20).
San Bonaventura racconta co me un giorno, mentre era sul monte della Verna, gli tornò in mente ciò che dicono i santi Padri e cioè che l’anima devota, per grazia dello Spirito Santo e la potenza dell’Al­tissimo, può spiritualmente concepire per fede il benedetto Verbo del Padre, partorirlo, dargli il nome, cercarlo e adorarlo con i Magi e infine presentarlo felicemente a Dio Pa dre nel suo tempio. Scrisse allora un opuscolo intitolato “Le cinque feste di Gesù bambino”, per mostrare come il cristiano può rivivere in sé ognuno di questi cinque momenti della vita di Gesù. Mi limito a ciò che san Bonaventura dice delle due prime feste, la concezione e la nascita, applicandolo in particolare al sacerdote.
Il sacerdote conce pisce Gesù quando, scontento della vita che conduce, stimolato da sante ispirazioni e accendendosi di santo ardore, infine stac candosi risolutamente dalle sue vecchie abitudini e difetti, è come fecondato spiritualmente dalla grazia dello Spirito Santo e concepisce il proposito di una vita nuova.
Una volta concepito, il benedetto Figlio di Dio nasce nel cuore del sacerdote, allorché, dopo aver fatto un sano discernimen to, chiesto opportuno consiglio, invocato l’aiuto di Dio, mette immediatamente in opera il suo santo proposito, comin ciando a realizzare quello che da tempo andava maturando, ma che aveva sempre rimandato per paura di non esserne capace.
Questo proposito di vi ta nuova deve, però, tradursi subito, senza rinvii, in qualcosa di concreto, in un cambiamento, possibilmente anche esterno e visibile, nella nostra vita e nelle nostre abitudini. Se il proposito non è messo in atto, Gesù è concepito, ma non è partorito. Sarà uno dei tanti aborti spirituali di cui è pieno purtroppo il mondo delle anime.
Ci sono due brevissime parole che Maria pronunciò al momento dell’Annunciazione e il sacerdote pronuncia nel momento della sua ordinazione: “Eccomi!” e “Amen”, o “Sì”. Ricordo il momento in cui ero davanti all’altare per l’ordinazione con una decina di miei compagni. A un certo punto venne pronunciato il mio nome e io risposi emozionatissimo: “Eccomi!”
Nel corso del rito, ci furono rivolte alcune domande: “Vuoi esercitare il ministero sacerdotale per tutta la vita?”, “Vuoi adempiere degnamente e fedelmente il ministero della parola nella predicazione?”, “Vuoi celebrare con devozione e fedeltà i misteri di Cristo?”. Ad ogni domanda rispondemmo: “Sì, lo voglio!”
Il rinnovamento spirituale del sacerdozio cattolico, auspicato dal Santo Padre, sarà proporzionato allo slancio con cui ognuno di noi, sacerdoti o vescovi della Chiesa, saremo capaci di pronunciare di nuovo un gioioso: “Eccomi!” e “Sì, lo voglio!”, facendo rivivere l’unzione ricevuta nell’ordinazione. Gesù entrò nel mondo dicendo: “Ecco, io vengo, per fare, o Dio, la tua volontà!” (Eb 10,7). Noi lo accogliamo, in questo Natale, con le stesse parole: “Ecco, io vengo, Signore Gesù, a fare la tua volontà!”.
[1] Ps. Epifanio, Omelia in lode della Vergine (PG 43, 497)
[2] Cf. su tutta la questione, R. Laurentin, Maria – ecclesia – sacerdotium, Parigini 1952; art. “Sacerdoti” in Nuovo Dizionario di Mariologia, Ed. Paoline 1985, 1231-1242.
[3] Paolo VI, Udienza generale del 7, Ott. 1964.
[4] S. Agostino, Discorsi 72 A, 8 (Misc. Agost. I, p.164).
[5] Lumen gentium, 64.
[6] Clemente Alessandrino, Pedagogo, I, 6.
[7] B. Isacco della Stella, Discorsi 51 (PL 194, 1863).
[8] Tertulliano, De carne Christi, 20-21 (CCL 2, 910 ss.).
[9] S. Agostino, Discorsi 215, 4 (PL 38,1074).
[10] C. Carretto, Beata te che hai creduto, Ed. Paoline 1986, pp. 9 ss.
[11] E. De Luca, In nome della madre, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 66 ss.
[12] Lumen gentium, 58.
[13] S. Agostino, Discorsi, 215,4 (PL 38, 1074).

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AMORE E SILENZIO – PRINCIPI DELLA VITA SPIRITUALE

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AMORE E SILENZIO – PRINCIPI DELLA VITA SPIRITUALE

• Il fine soprannaturale
• La vita di fede
• La presenza naturale di Dio in tutte le cose
• La presenza soprannaturale di Dio nelle anime
• Il peccato mortale priva l’anime di questa presenza
• Come Dio e soprannaturalmente presente in noi?
• Vivere la presenza soprannaturale di Dio

Il fine soprannaturale

Se gettiamo uno sguardo sincero sul passato della nostra vita spirituale, ri­maniamo stupiti, e forse accasciati, per la lentezza o, addirittura, per la nullità dei nostri progressi. Perché tanti sforzi sono rimasti sterili? Perché dopo tanti anni di vita ascetica, dobbiamo riconoscere le stesse debolezze, registrare le stesse cadute? Non avremo, fin dall’inizio, dimenticato l’essenziale, non avremo sbagliato cammino?
 Infatti, non c’è che una sola porta per la quale si può entrare nel regno spirituale. Invano abbiamo tentato di penetravi da un’altra parte; dovevamo urtare contro barriere insormontabili. Eravamo simili a dei ladri maldestri che tentano di penetrare con astuzia in una proprietà ben difesa. « Chi non entra per la porta, è un ladro e un brigante » (Gv. 10,1). Questa porta unica è Cristo, è la fede in Cristo: fede che la carità vivifica, e che, consolidando il nostro cuore, gli permette in un ritorno d’amore, di ardere più intensamente e di risplendere sempre di più, immagine viva della carità divina.
 Bisogna dichiarare senza scusa la perfetta inutilità di un ascetismo che non ha altro ideale che il perfezionamento dell’ “io”, di questo ascetismo che ben po­trebbe essere chiamato « egocentrismo ». I suoi risultati sono molto scarsi, e molto fallaci sono i frutti che se ne ricavano; chi non ha seminato che secondo l’uomo non mieterà che frutti umani.
 L’ascetismo cristiano si fonda interamente su un principio divino e questo stesso principio lo ispira, l’anima e lo con­duce al suo termine: « Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente » (Dt. 6,5 e Mt. 22,37). E’ il riassunto e l’essenza del­l’ antica Legge: la nuova Legge non fa che riprendere questo primo e supremo co­mandamento, spiegarlo e promulgarlo universalmente in tutta la sua semplicità e forza divine. Bisogna, fin dall’inizio del­la vita spirituale, orientare l’anima verso questa totalità dell’amore, verso Dio solo. Agire in altro modo, significa disconosce­re il senso profondo del Cristianesimo. Significa ritornare allo sforzo egoista, al­l’egoismo vanitoso di certe morali pagane – stoicismo di ieri e di oggi – dolorosa ri­cerca di un orgoglio meschino!
 Se noi ci potessimo convincere una volta per tutte della verità delle parole del nostro divino Maestro: « Senza di me non potete far nulla » (Gv. 15,5), come la nostra vita cambierebbe aspetto! Se noi riuscissimo a compenetrarci della dottri­na di vita contenuta in queste poche pa­role: « Senza di me non potete far nulla, noi ci sforzeremo di praticare non questa o quella virtù, ma tutte senza eccezioni, sapendo che è Dio stesso che deve essere al medesimo tempo scopo e principio del­le nostre azioni.
Ma dopo aver fatto tutto ciò che ci era possibile – come se il successo non di­pendesse che da noi soli – noi sapremo ri­manere umili di fronte ai nostri progressi e fiduciosi dopo le nostre cadute. Sapen­do che noi stessi non siamo nulla, ma che per mezzo di Cristo noi siamo onnipoten­ti: “ Tutto posso in colui che mi dà la for­za » (Fil. 4,13), noi non saremo più sco­raggiati per le nostre cadute che fieri de­gli atti di virtù dei quali la grazia di Dio ci avesse reso capaci.
 E c’è di più: per un’anima che ha preso coscienza del suo nulla e del tutto di Dio, le debolezze, le mancanze non devo­no più rappresentare degli ostacoli: esse si trasformano in mezzi, esse sono un’oc­casione per mezzo della quale la fede può aumentare con un atto eroico, e la fiducia trionfare davanti alla manifesta sconfitta di tutto -ciò che non conduce a Dio: “Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze – dice l’Apostolo – perché dimori in me la potenza di Cristo” (2 Cor. 12,9).
 Quando veramente si è cominciato ad appoggiarsi così su Dio, e non su sé stessi, si avanza a passi da gigante nelle vie dell’amore. Sempre di più, la carità domina i nostri atti e purifica le nostre in­tenzioni, in modo che non tarderà ad in­vadere tutta la nostra vita. Se vogliamo essere fedeli alla dot­trina del Vangelo, dobbiamo sforzarci di non agire più se non per motivi di fede e di carità. E, siccome un principio natura­le non dà frutti soprannaturali, non ci ar­riveremo mai se non cercheremo, fin dal principio, di radicarci in queste virtù specificamente cristiane. Se noi non pos­siamo, come dice S.Paolo, pronunciare il nome del Signore senza la grazia, come potremo sperare, solamente per mezzo dei nostri sforzi, di raggiungere il nostro fine soprannaturale?
 Certamente, per la riforma del­l’uomo vecchio, il lavoro della volontà è indispensabile. Ma quand’è che lo slancio della nostra volontà sarà più pronto e più efficace? Quando procederà dalla semplice ragione, o quando sarà opera della fe­de e della carità? – La risposta è facile e viene spontanea al nostro pensiero. Ma allora perché, nello sviluppo della nostra vita interiore, non servirci per quanto ci è possibile delle forze e dei lumi che le virtù teologali ci possono dare? Perché non entrare in pieno, fin dall’inizio, nel regno interiore, nell’amicizia con Dio?
Questo regno di Cristo è aperto per noi.
 E ancora di più, è desiderio forma­le di Nostro Signore che vi entriamo: « Ri­manete in me e io in voi » (Gv. 15,4).
Arrendiamoci, oggi stesso, al suo appello! Cominciamo a vivere di fede: 1l giusto vivrà mediante la fede » (Rom. 1,17).

La vita di fede 
 Quel che importa, prima e al di sopra di tutto è CREDERE. Credere nel­la realtà del Divino, presente intorno a noi e in noi; elevare la nostra attività di volontà e di intelligenza fino al livello del­la vera vita alla quale Dio ci chiama. Que­sto atto di fede, che trasforma il nostro destino umano e lo divinizza, costa alla natura, esige un eroismo di cui saremmo incapaci se Dio, fin d’ora, non prevenisse e sostenesse il nostro sforzo. Non avendo la forza di produrre, da noi stessi, questo primo atto, imiteremo la preghiera del padre di quel malato: ‘Aiutami nella mia incredulità » (Me. 9,24).
 E’Ia fede che ci dà la sicurezza del­le promesse divine: 7i fidanzerò a me nella fedeltà » (Osea 2,22). Essa ci fa cam­minare qui in terra in mezzo a delle tene­bre sante: Camminiamo nella fede » (2 Cor. 5,7). Dall’inizio sino alla fine, seguiremo questa strada, avremo cura di non allontanarcene per non cercare la nostra soddisfazione in lumi troppo facili perché troppo umani, ma che non tarderebbero a lasciarci delusi per la loro vanità.
 La fede è una guida severa, ma in­fallibile; ignora le concessioni e i calcoli: dietro il velo delle apparenze, essa indo­vina già la verità eterna, la vittoria di Ge­sù: « Questa è la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede » (1 Gv. 5,4). Es­sa spera a dispetto di tutti i fattori umani che vorrebbero rallentarne o spezzarne lo slancio, secondo ciò che l’apostolo dice del Patriarca Abramo: « Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza ».(Rom. 4,18)
 Tutto l’insegnamento di Nostro Si­gnore si basa sulla fede. Dubitare signifi­ca cedere: « Uomo di poca fede, perché hai dubitato? » (Mt. 14,31). E’Ia fede che dona la salvezza. Nostro Signore attribui­sce proprio alla fede dei ciechi che Egli guarisce, i miracoli che opera in essi. Un po’ di fede serve a trasformare sopranna­turalmente il mondo: « Se aveste fede quan­to un granellino di senapa…  » (Le. 17,6)
 Che queste righe siano scritte all’i­nizio di queste nostre parole per indicare la frontiera che bisogna superare con de­cisione e semplicità, se vogliamo seguire Nostro Signore: « BISOGNA IMPARARE A FARE AFFIDAMENTO SU DIO
 Noi vorremmo, in queste pagine, delineare le linee essenziali della vita in­teriore indicando un metodo di medita­zione semplice e pratico, basato sulla fe­de. Infatti la fede, come abbiamo detto sin qui, è il principio di questa vita, e quando la grazia divina avrà consumato in noi la sua opera, sarà ancora questa stessa certezza soprannaturale che, dopo aver invaso tutta l’anima nostra, la farà tempio dell’amore, secondo la parola di S. Paolo: ’1a fede che opera per mezzo della carità » (Gal. 5,6) e ancora: « Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così .. siate in grado di .. conoscere l’a­more di Cristo che sorpassa ogni cono­scenza » (Ef. 3,17-19).
 Vediamo prima brevemente le grandi verità che ci devono servire da punto di partenza.
 La presenza naturale di Dio in tutte le cose 
 Per meglio comprendere la pre­senza soprannaturale di Dio, richiamia­mo prima alla memoria come Dio è natu­ralmente presente.
 Dio è in ogni luogo. Noi dimenti­chiamo troppo questa verità così sempli­ce. Essa potrebbe intanto, se noi ci pen­sassimo di più, dare un nuovo orienta­mento alla nostra vita.
 Noi tormentiamo, qualche volta, l’immaginazione per rappresentarci un Dio lontano, e la nostra preghiera ne sof­fre. Dio è Spirito, Spirito che non è limi­tato in un luogo, ma che penetra ogni co­sa. Così i veri adoratori adorano Iddio %n spirito e verità ». Ricordiamoci delle parole dell’Apostolo: In Lui infatti vivia­mo, ci muoviamo ed esistiamo » (At. 17,28).
 All’inizio della nostra vita spirituale, cominceremo ad aprire gli occhi a que­sta grande verità. Il risultato sarà mera­viglioso, se noi potremo arrivare a far vivere in noi questo pensiero della presenza immediata e universale di Dio.
 La ragione, prima di ogni rivela­zione soprannaturale, ci dice che Dio ci conosce, ci vede perfettamente e senza posa, perché Egli conosce e vede ogni co­sa. « Dove andare lontano dal tuo spirito, dove fuggire dalla tua presenza? Se sal­go in cielo, là tu sei, se scendo negli infe­ri, eccoti » (Salmo 138, 7-8).
 Dio non ci segue appena con un semplice sguardo, ma Egli comanda e di­rige tutto quel che facciamo. E’ Lui che ci dà il volere e l’operare (cf. Fil. 2,13). Se Egli non fosse presente in noi, io non sa­rei neppure capace di muovere il dito mi­gnolo. Non c’è nulla, proprio nulla, che non sia sottoposto alla sua azione: neppu­re il peccato. Nell’atto del peccato, Dio è là, Dio dà il potere di agire e l’esercizio dell’atto. La depravazione della nostra volontà è l’unica cosa che non viene da Dio. Siccome Egli è la causa prima e totale, noi non possiamo fare il più piccolo at­to senza di Lui. Se fosse altrimenti, Dio non sarebbe più Dio. « Se prendo le ali dell’aurora per abitare all’estremità del mare, anche là mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra » (Salmo 138,9-10).
 Ma c’è ancora di più. Non basta che Dio governi la creatura e che Egli ne diriga l’attività. Essendo il principio uni­co e sovrano della totalità degli esseri, bi­sogna che Egli li sostenga nell’esistenza, che Egli continui ad ogni istante a dar lo­ro tutto ciò che essi sono. Se l’azione divi­na cessasse per un solo secondo, l’univer­so e noi stessi ci dilegueremmo come un sogno. Quando si è capita la necessità dell’atto divino che conserva tutte le cose do­po averle create, si riconosce al più picco­lo oggetto una grandezza singolare, perché è l’Onnipotente, e Lui solo, che, pre­sente in questo essere infimo, lo mantiene fuori dal nulla.
 L’ombra sembra la più tenue delle realtà: la nostra ombra non è nulla para­gonata a noi. Ma paragonati a Dio, pre­sente in noi, noi abbiamo una realtà ancor minore. Vicino alla realtà divina, noi non siamo neppure delle ombre.
 La presenza soprannaturale di Dio nell anime 
 Dio è, dunque, presente anche in una pietra e la fa essere, con la sua azio­ne immediata, quel che essa è: una pie­tra.
 Ma Dio, nella sua bontà infinita, ha voluto creare degli esseri « a sua imma­gine e somiglianza », che, innalzati dalla grazia, Gli sono ben più vicini che non queste cose inferiori alle quali Egli non comunica che l’essere naturale. Dio è pu­ro spirito. Egli ha, perciò, intelligenza e volontà, per poter, non solo essere pre­sente in essi come in tutte le cose, ma – ele­vandoli all’ordine soprannaturale per mezzo della grazia – comunicarsi ad essi così com’Egli è.
 Dio è presente nelle cose materiali, e dà loro l’essere naturale; ma nelle crea­ture ragionevoli, Egli ha voluto, per gene­rosità totale gratuita, essere presente in modo tale che non solo ha comunicato lo­ro l’essere naturale, ma IL SUO PRO­PRIO ESSERE, divinizzandole.
Dio non era obbligato a darsi in questa maniera. Ma Egli è la Bontà per­sonificata ed il bene cerca di espandersi ( “Bonum est diffusivum sui “). Egli è come il fuoco che non si può trattenere, che si deve comunicare a tutto ciò che è combu­stibile:  » Il Signore tuo Dio è fuoco divo­ratore » (Dt. 4,24).
 Questo fuoco, Nostro Signore è ve­nuto a portarlo sulla terra: T il Verbo si è fatto carne ». E noi sappiamo perché! « Sono venuto a portare il fuoco sulla ter­ra; e come vorrei che fosse già acceso! » (Le. 12,49); Egli ha sofferto per ottenerci. la grazia, per renderci capaci di essere incendiati da questo fuoco divino.
 Noi siamo preparati a ricevere questo fuoco quando abbiamo allontana­to ogni ostacolo all’azione divina. Il più grande ostacolo è il peccato: « Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui ». (Gv. 14,23)
 Nostro Signore non ci ha solo mes­so in comunicazione con la vita del Padre, ma ha voluto rimanere in mezzo a noi nella SS.ma Eucarestia, per aumenta­re per mezzo della S. Comunione questa stessa vita: « Nessuno va al Padre se non per mezzo mio” (Gv. 14,6). Gesù è la via e l’unica via; voler raggiungere la vita di­vina senza di Lui, sarebbe presunzione e illusione. Più ci saremo nutriti dell’amore della sua santa Umanità, più avremo me­ditato i suoi esempi, più la vita divina au­menterà in noi: Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondan­za » (Gv. 10,10).

Il peccato priva l’anima di questa presenza 
 Siamo destinati alla più profonda intimità con Dio stesso. Quest’unione tra l’uomo e il suo Creatore fu stabilita da quando Dio elevò i nostri progenitori all’ordine soprannaturale. Ma per il pecca­to, Adamo ed Eva si ribellarono contro Dio, e l’unione tra il cielo e la terra fu spezzata. C’è stato bisogno di un Uomo­Dio per riparare questa rottura, e ora per la Passione e i meriti di Nostro Signo­re noi possiamo essere di nuovo figli di Dio, vivere la vita divina.
 Abbiamo ricevuto questa vita per mezzo del Battesimo, e se sfortunatamen­te l’abbiamo perduta, Nostro Signore ce l’ha restituita ogni volta risuscitandoci nel suo Sangue prezioso per mezzo della santa assoluzione.
Cerchiamo di capire, perciò, di quale importanza è per noi la fuga del peccato: si tratta di non perdere il dono più prezioso ricevuto dagli uomini. « Se tu conoscessi il dono di Dio… » (Gv. 4,10). Che queste parole di Gesù alla Samarita­na non diventino per noi un rimprovero.
 Tutte le disgrazie riunite non sono nulla paragonate ad un solo peccato, perché un solo peccato ci toghe la vita divina. Per comprendere l’orrore del peccato, rendiamoci conto della sua realtà. Qual’è il cristiano che avrebbe l’audacia di en­trare di nascosto in una chiesa, di violare il Tabernacolo, di strapparne la Pisside, di gettare a terra e di profanare le sacre Specie? Lo faremmo noi, avremmo questo coraggio? – No. Anche il cristiano più tie­pido non oserebbe commettere questo sa­crilegio sul Corpo di Nostro Signore.
 Ma che cosa facciamo noi col pec­cato? Strappiamo Dio del nostro cuore per consegnarci all’azione del demonio.
 Come Dio è soprannaturalmente presente in noi? 
 Sappiamo che Dio è uno nella Na­tura e trino nelle Persone. Il Padre, da tutta l’eternità, genera il Figlio, il suo al­ter ego, la sua immagine perfetta. Non l’ha generato ALTRE VOLTE; quest’atto si realizza in un presente eterno, si per­petua attualmente; CONTINUAMENTE IL PADRE GENERA IL FIGLIO. E il Padre contempla questo Figlio divino e coeterno; il Figlio ama il Padre e per mez­zo di questo sguardo d’amore che essi si scambiano nella semplicità dell’Essenza divina, il Padre e il Figlio spirano lo Spi­rito Santo.
 Questa vita divina, che sarà la so­stanza della nostra felicità eterna, si co­munica già alle anime, a condizione che noi siamo in stato di grazia. Il Padre ge­nera in noi realmente, IN QUESTO MO­MENTO, il Figlio; e l’uno e l’altro produ­cono in noi, AD OGNI ISTANTE, lo Spi­rito Santo.
Abbiamo mai pensato, fino ad og­gi, a queste sublimi verità?
 Portiamo su di noi degli scapolari, delle medaglie, delle reliquie, e crediamo, a buon titolo, di possedere dei tesori; ma noi portiamo in noi il Dio vivo, il Cielo, il fine unico di tutte le cose, la suprema Realtà, e non ci pensiamo … ! Siamo real­mente dei Cristofori, dei Deifori, nel sen­so più stretto della parola. E’ proprio il caso di citare le parole di S. Leone: « Rico­nosci, o cristiano, la tua dignità! »
 Da queste riflessioni così semplici, noi vediamo, d’ora in poi, sprigionarsi una grande conclusione: non è forse evi­dente che se quest’abitazione divina, que­sta presenza di Dio in noi stessi, avesse nella nostra vita quel posto che vi do­vrebbe avere, questa sarebbe totalmente cambiata e trasformata?

Vivere la presenza soprannaturale di Dio 
 Come vi si può arrivare?
Dio non sarebbe l’infinita Bontà e Sapienza se, ricercando ed esigendo la nostra intimità, non ci desse allo stesso tempo i mezzi necessari per comunicare con Lui. Tali mezzi dei quali noi possiamo essere assolutamente sicuri, e che ci per­mettono di entrare in contatto immediato con Dio, sono le virtù teologali e i doni che ci vengono con esse.
 Per mezzo della fede, noi aderiamo alla verità della vita divina che ci è pro­posta.
 Per mezzo della carità, questa vita diviene nostra.
Per mezzo della speranza, noi siamo certi, con l’aiuto della grazia, di viver­la sempre di più e di ottenerne il possesso immutabile in cielo.
Ecco l’essenziale di ogni orazione solida e profonda. Invece di sparpagliare la nostra meditazione su questo o quel punto, invece di filosofare su Dio, molti­plicando gli sforzi dell’intelligenza, della volontà e dell’immaginazione, per farcene degli schemi, per rappresentarci delle scene, noi possiamo andare a Dio nella semplicità del nostro cuore: CercateLo con cuore semplice » (Sap. 1,1).
 Nostro Signore stesso c’invita: « Siate semplici come le colombe » (Mt. 10,16). L’uomo è un essere complicato e sembrerebbe, purtroppo, che egli cerchi di divenire ancora più complicato perfino nelle sue relazioni con Dio. Dio, invece, è la semplicità assoluta. Più noi siamo com­plicati, più rimaniamo lontani da Dio; e nella misura, invece, in cui noi diverremo semplici, ci potremo avvicinare a Lui.
 Abbiamo visto che Dio, nostro Pa­dre, è presente in noi. Un bambino, per parlare con suo padre, va forse a prende­re un manuale di corrispondenza o un co­dice di belle maniere? No, il bambino parla con semplicità, non cerca frasi fatte, ne si perde in formalismi. – Facciamo lo stesso col nostro Padre celeste. Nostro Signore ce l’ha detto: « Se non vi converti­rete e non diverrete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli » (Mt. 18,3).
 Si stanca forse una madre ad ascoltare il proprio figlio che le dice: Mamma, io ti voglio bene » Lo stesso suc­cede con Dio: più la nostra preghiera è in­fantile, e più piace a Dio. Perché è Lui stesso che ha scelto, tra tutti, questo no­me di Padre: T che voi siate figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei no­stri cuori lo Spirito del suo Figlio che gri­da: Abbà, Padre » (Gal. 4,6). Ed è ancora Lui che pone nella nostra bocca le parole ispirate della S. Scrittura e i testi liturgi­ci.
Quale sarà dunque la nostra pre­ghiera? Semplicissima, la più semplice possibile. Ci metteremo in ginocchio e fa­remo con tutto il cuore gli atti di fede, di speranza e di carità. Non c’è metodo di meditazione più sicuro, più elevato e più salutare.

Publié dans:spiritualità  |on 25 septembre, 2013 |Pas de commentaires »

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