Archive pour le 17 septembre, 2013

The creation of cosmos, The 12th Century New Roman Mosaics of the Cathedral of the Nativity of the Most Holy Mother of God in Monreale, Italy

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GESU’ E LA PREGHIERA

http://www.filosofico.net/preghierafilosofia3.htm

GESU’ E LA PREGHIERA

Con Gesù, il tema della preghiera viene declinato in maniera diversa e, se vogliamo, innovativa. Egli si colloca del tutto nel giudaismo, anche se spalanca la porta al Cristianesimo. Parlando di lui, affronteremo essenzialmente cinque temi diversi:

1)     La preghiera in Gesù (ossia il modo e le forme in cui egli pregava);
2)     L’insegnamento che egli ci ha lasciato a proposito della preghiera;
3)     Il testo della principale preghiera di Gesù, vale a dire il “Padre nostro” (riportato da Luca e da Matteo);
4)     La preghiera che con Gesù i discepoli rivolgevano a Dio;
5)     La preghiera rivolta a Gesù stesso.

1) Sappiamo che Gesù partecipava alle preghiere che si svolgevano al suo tempo, vale a dire le preghiere giudaiche. Sappiamo inoltre che, da adolescente, egli fece viaggi a Gerusalemme in occasione della Pasqua, che frequentava la sinagoga e che addirittura fu chiamato a fare la lettura (in particolare, lesse Isaia). Dai testi sacri, apprendiamo inoltre che Gesù, prima della Passione, se la prese coi mercanti del tempio e coi cambiavalute, nel tentativo di riportare il culto a una più alta dimensione spirituale. Ancora, sappiamo che egli condivise la cena pasquale coi suoi discepoli e pregò con loro. Insomma, si può dire che Gesù si comportò come un pio giudeo del suo tempo, prendendo parte a tutte le forme di preghiere. In altri passi dei testi sacri, affiorano aspetti più intimi che fanno riferimento alla sua preghiera personale: ad esempio, Luca mostra più volte Gesù nell’atto di isolarsi per poter pregare da solo. Altre volte, egli è raffigurato nell’atto di combattere il demonio e le sue tentazioni, invocando il Padre. Particolarmente significativo è l’aspetto che potremmo dire “filiale” della preghiera di Gesù, alludendo con quest’espressione alla sua familiarità con Dio, da lui iteratamente definito “Padre”, con la confidenza e la fiducia tipica del bambino nei confronti del genitore. Anche sulla Croce, Gesù si rivolge a Dio invocandoLo e chiamandoLo “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Il Vangelo di Giovanni sviluppa poi i discorsi che Gesù tenne al cospetto dei suoi discepoli: in particolare, il capitolo 17 si presenta come una lunga preghiera.
2) Nei “Sinottici”, vi sono sezioni sugli insegnamenti di Gesù a proposito della preghiera, i quali costituiscono il contesto del “Padre nostro”. Nella prospettiva di Gesù, la preghiera non deve moltiplicare le parole, come fanno indebitamente i Pagani (è difficile stabilire a quali pagani si alluda, visto che le preghiere pagane erano generalmente piuttosto stringate). Inoltre, la preghiera non dev’essere ipocrita, dev’essere non esibita, bensì sentita, personale, silenziosa, in opposizione ai farisei. Nella preghiera, la richiesta di beni materiali dev’essere subordinata alla richiesta della venuta del Regno di Dio, l’interiorità deve prevalere sull’esteriorità.
Addentriamoci ora nella preghiera “Padre nostro”, che sarà ereditato dai Cristiani: esso è tramandato in due maniere differenti da Luca e da Matteo; la versione del secondo, è più ricca, è quella che si è “imposta” nella tradizione cristiana e con buona probabilità è il frutto di un rimaneggiamento della preghiera di Gesù. Come prima cosa, si può rilevare come, nel “Padre nostro”, Dio venga dapprima elogiato ed esaltato e, in seconda battuta, gli si rivolgano delle richieste. L’esaltazione di Dio avviene in tre momenti: a) “sia santificato il tuo nome”, b) “venga il tuo regno”, c) “sia fatta la tua volontà” (quest’ultima esaltazione è assente in Luca). L’esordio della preghiera quale si ha in Matteo – “Padre nostro” – è la tipica invocazione che si ritrova nelle “Diciotto benedizioni” e nella “Preghiera per i defunti”, preghiere che la tradizione ebraica rivolgeva già prima a Dio: si tratta, dunque, di una formula stereotipa. Dal canto suo, Luca esordisce soltanto con “Padre”, invocazione che si ritrova in quasi tutte le religioni (ma non nell’Islam), dagli Egizi ai Greci, e che dev’essere posta in relazione al fatto che, tradizionalmente, Israele è “figlio primogenito” di Dio. Lo stesso tema dell’avvento del regno di Dio era già diffuso nella religiosità ebraica anteriore e dev’essere inteso, oltre che nel più scontato senso materiale, in quello astratto di regalità divina che, per un verso, vige già ora e, per un altro verso, si attuerà solo in un futuro a cui si tende escatologicamente. La seconda parte del “Padre nostro” è dedicata alle richieste umane, proprio come nei Salmi: la prima richiesta è quella del “pane quotidiano”, che dev’essere inteso nel senso più materiale e anche in riferimento al passo biblico della manna piovuta dal cielo con cui può sfamarsi il popolo nel deserto. In secondo luogo, si avanza una richiesta concernente i debiti: “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Con quest’espressione, Gesù adombra l’idea secondo cui, nella misura in cui noi perdoniamo gli altri, Dio perdona noi. Come terza richiesta, si chiede a Dio di liberare dalle tentazioni: “non indurci in tentazione”. Questa traduzione è ingannevole, perché fa parere che Dio tenti l’uomo: in realtà, dev’essere intesa in questo significato: “non lasciarci in balia della tentazione”. L’ultima richiesta avanzata nel “Padre nostro” è quella di affrancare l’uomo dal male: “liberaci dal male”.   
4) I Vangeli riportano episodi nei quali Gesù prega insieme coi suoi discepoli: pensiamo all’episodio della “trasfigurazione”, nel quale i discepoli vivono un’esperienza estatica, o a quando Gesù si raccoglie insieme ad alcuni discepoli per pregare sul monte. L’episodio forse più famoso è quello dell’“ultima cena”, in cui Gesù celebra un pasto di ringraziamento che i Vangeli presentano come cena pasquale, benché manchino i tratti tipici della Pasqua (ad esempio l’agnello).
5) Sono anche attestati episodi in cui vengono rivolte preghiere a Gesù: tali preghiere, tuttavia, non presentano i tratti del culto, giacché Gesù non è ancora diventato un oggetto di culto. Sono piuttosto preghiere con le quali si richiede a Gesù di sanare lebbrosi, di guarire disabili, di far camminare paralitici: sono piuttosto ambigue per il fatto che, pur non essendo ancora diventato oggetto di culto, Gesù è visto come una persona a cui abbandonarsi con piena fiducia. Sullo sfondo, sono già presenti i futuri atteggiamenti con cui ci si rivolgerà a Gesù quando diverrà oggetto di culto. In altri episodi, egli si presenta come intermediario che, nel sanare i malati, esegue la volontà di Dio.
Possiamo notare come il messaggio di Gesù, in origine, non fosse universale, bensì rivolto ai “figli perduti” di Israele: eppure nel suo agire erano implicite le basi per quell’universalizzazione del Cristianesimo che sarà successivamente operata da Paolo di Tarso. Com’è noto, Gesù opera in Galilea, terra in cui i pagani erano numerosi ma disposti, per così dire, a macchia di leopardo, con la conseguenza che v’erano zone in cui essi erano del tutto assenti. In particolare, i pagani risiedevano nelle città, mentre i Giudei prediligevano i villaggi e la loro refrattarietà alla penetrazione della cultura greca. Sappiamo però di una città, Sefforis, popolosa e sviluppata che stranamente non è mai menzionata nei Sinottici, benché fosse vicinissima alle altre città (Cafarnao) che vengono invece citate: forse Gesù non s’è mai voluto recare a Sefforis? E perché? Probabilmente perché in quella città c’erano i pagani, i quali esulavano dai suoi interessi e cadevano al di fuori del suo messaggio, il quale abbiamo visto essere rivolto soltanto agli Ebrei. Come dicevamo, è con Paolo di Tarso che il verbo cristiano si universalizza e, con esso, lo stesso messaggio di salvezza diventa universale.

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CONFESSARSI, PERCHÈ? (BRUNO FORTE)

http://pastorale.myblog.it/archive/2009/10/01/confessarsi-perche-bruno-forte.html

CONFESSARSI, PERCHÈ? (BRUNO FORTE)

LA RICONCILIAZIONE E LA BELLEZZA DI DIO

01/10/2009

Proviamo a capire insieme che cos’è la confessione:
se lo capisci veramente, con la mente e col cuore,
sentirai il bisogno e la gioia di fare esperienza di questo incontro,
in cui Dio, donandoti il Suo perdono attraverso il ministro della Chiesa,
crea in Te un cuore nuovo, mette in te uno Spirito nuovo,
perché Tu possa vivere un’esistenza ricon­ciliata con Lui, con Te stesso e con gli altri,
divenendo a tua volta capace di perdono e di amore
al di là di ogni tentazione di sfiducia e di ogni misura di stanchezza


1. Perché confessarsi? Fra le domande che vengono poste al mio cuore di Vescovo, ne scelgo una che mi è stata fatta spesso: perché bisogna confessarsi? È una domanda che ritorna in molteplici forme: perché si deve andare da un sacerdote a dire i propri peccati e non lo si può fare direttamente con Dio, che ci conosce e comprende molto meglio di qualunque interlocutore umano? E, ancora più radicalmente: perché parlare delle mie cose, specie di quelle di cui ho vergogna perfino con me stesso, a qualcuno che è peccatore come me, e che forse valuta in modo completamente diverso dal mio ciò di cui ho fatto esperienza o non lo capisce affatto? Che ne sa lui di che cosa è veramente peccato per me? Qualcuno aggiunge: e poi, esiste veramente il peccato, o è solo un’invenzione dei preti per tenerci buoni? A quest’ultima domanda sento di poter rispondere subito e senza timore di smentita: il peccato c’è, e non solo è male, ma fa male. Basta guardare la scena quotidiana del mondo, dove violenze, guerre, ingiustizie, sopraffazioni, egoismi, gelosie e vendette si sprecano (un esempio di questo “bollettino di guerra” ce lo danno ogni giorno le notizie su giornali, radio, televisione e internet!). Chi crede nell’amore di Dio, poi, percepisce come il peccato sia amore ripiegato su se stesso (“amor curvus”, “amore curvo”, dicevano i Medioevali), ingratitudine di chi risponde all’amore con l’indifferenza e il rifiuto. Questo rifiuto ha conseguenze non solo su chi lo vive, ma anche sulla società tutta intera, fino a produrre dei condizionamenti e degli intrecci di egoismi e di violenze che costituiscono delle vere e proprie “strutture di peccato” (si pensi alle ingiustizie sociali, alla sperequazione fra paesi ricchi e paesi poveri, allo scandalo della fame nel mondo…). Proprio per questo non si deve esitare a sottolineare quanto sia grande la tragedia del peccato e quanto la perdita del senso del peccato – ben diverso da quella malattia dell’anima che chiamiamo “senso di colpa” – indebolisca il cuore davanti allo spettacolo del male e alle seduzioni di Satana, l’Avversario che cerca di separarci da Dio.
2. L’esperienza del perdono Nonostante tutto, però, non mi sento di dire che il mondo è cattivo e che fare il bene è inutile. Sono, anzi, convinto che il bene c’è ed è molto più grande del male, che la vita è bella e che vivere rettamente, per amore e con amore, vale veramente la pena. La ragione profonda che mi fa pensare così è l’esperienza della misericordia di Dio, che faccio in me stesso e che vedo risplendere in tante persone umili: è un’esperienza che ho vissuto tante volte, sia dando il perdono come ministro della Chiesa, sia ricevendolo. Sono anni che mi confesso regolarmente, più volte al mese e con la gioia di farlo. La gioia nasce dal sentirmi amato in modo nuovo da Dio ogni volta che il Suo perdono mi raggiunge attraverso il sacerdote che me lo dà in Suo nome. È la gioia che ho visto tanto spesso sul volto di chi veniva a confessarsi: non il futile senso di leggerezza di chi “ha vuotato il sacco” (la confessione non è uno sfogo psicologico né un incontro consolatorio, o non lo è principalmente), ma la pace di sentirsi bene “dentro”, toccati nel cuore da un amore che sana, che viene dall’alto e ci trasforma. Chiedere con convinzione, ricevere con gratitudine e dare con generosità il perdono è sorgente di una pace impagabile: perciò, è giusto ed è bello confessarsi. Vorrei far partecipi delle ragioni di questa gioia tutti coloro che riuscirò a raggiungere con questa lettera.
3. Confessarsi da un sacerdote? Mi chiedi dunque: perché bisogna confessare a un sacerdote i propri peccati e non lo si può fare direttamente a Dio? Certamente, è sempre a Dio che ci si rivolge quando si confessano i propri peccati. Che sia, però, necessario farlo anche davanti a un sacerdote ce lo fa capire Dio stesso: scegliendo di inviare Suo Figlio nella nostra carne, egli dimostra di volerci incontrare mediante un contatto diretto, che passa attraverso i segni e i linguaggi della nostra condizione umana. Come Lui è uscito da sé per amore nostro ed è venuto a “toccarci” con la sua carne, così noi siamo chiamati ad uscire da noi stessi per amore Suo e andare con umiltà e fede da chi può darci il perdono in nome Suo con la parola e col gesto. Solo l’assoluzione dei peccati che il sacerdote ti dà nel sacramento può comunicarti la certezza interiore di essere stato veramente perdonato e accolto dal Padre che è nei cieli, perché Cristo ha affidato al ministero della Chiesa il potere di legare e sciogliere, di escludere e di ammettere nella comunità dell’allean­za (cf. Mt 18,17). È Lui che, risorto dalla morte, ha detto agli Apostoli: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi ri­mette­rete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteran­no non rimessi” (Gv 20,22s). Perciò, confessarsi da un sacerdote è tutt’altra cosa che farlo nel segreto del cuore, esposto alle tante insicurezze e ambiguità che riempiono la vita e la storia. Da solo non saprai mai veramente se a toccarti è stata la grazia di Dio o la tua emozione, se a perdonarti sei stato tu o è stato Lui per la via che Lui ha scelto. Assolto da chi il Signore ha scelto e inviato come ministro del perdono, potrai sperimentare la libertà che solo Dio dona e capirai perché confessarsi è fonte di pace.
4. Un Dio vicino alla nostra debolezza La confessione è dunque l’incontro col perdono divino, offertoci in Gesù e trasmessoci mediante il ministero della Chiesa. In questo segno efficace della grazia, appuntamento con la misericordia senza fine, ci viene offerto il volto di un Dio che conosce come nessuno la nostra condizione umana e le si fa vicino con tenerissimo amore. Ce lo dimostrano innumerevoli episodi della vita di Gesù, dall’incontro con la Samaritana alla guarigione del paralitico, dal perdono all’adultera alle lacrime di fronte alla morte dell’amico Lazzaro… Di questa vicinanza tenera e compassionevole di Dio abbiamo immenso bisogno, come dimostra anche un semplice sguardo alla nostra esistenza: ognuno di noi con­vive con la propria debolezza, attraver­sa l’infermità, si affaccia alla morte, avverte la sfida delle domande che tutto questo accende nel cuore. Per quanto, poi, possiamo desiderare di fare il bene, la fragilità che ci caratterizza tutti ci espone conti­nuamente al rischio di cadere nella tentazione. L’Apostolo Paolo ha descritto con precisione questa esperienza: “C’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio” (Rom 7,18s). È il conflitto interiore da cui nasce l’invocazione: “Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?” (Rom 7, 24). Ad essa risponde in modo particolare il sacra­mento del perdono, che viene a soccor­rerci sempre di nuovo nella nostra condi­zione di peccato, rag­giun­gendoci con la po­tenza sanante della grazia divina e trasfor­mando il nostro cuore e i compor­tamenti in cui ci esprimiamo. Perciò, la Chiesa non si stanca di proporci la grazia di questo sacramento durante l’intero cammino della nostra vita: attraverso di essa è Gesù, vero medico cele­ste, che viene a farsi carico dei nostri peccati e ad accompagnarci, con­ti­nuando la sua opera di guari­gione e di salvezza. Come accade per ogni storia d’amore, anche l’alleanza col Signore va rinnovata senza sosta: la fedeltà è l’impegno sempre nuovo del cuore che si dona e accoglie l’amore che gli viene donato, fino al giorno in cui Dio sarà tutto in tutti.
5. Le tappe dell’incontro col perdono Proprio perché desiderato da un Dio profondamente “umano”, l’incontro con la misericordia offertaci da Gesù avviene attraverso varie tappe, che rispettano i tempi della vita e del cuore. All’inizio c’è l’ascol­to della buona novella, in cui ti raggiunge l’appello dell’Amato: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15). Attraverso questa voce è lo Spirito Santo ad agire in te, dandoti dolcezza nel consentire e credere alla Verità. Quando ti rendi docile a questa voce e decidi di rispondere con tutto il cuore a Colui che ti chiama, intraprendi il cammino che ti porta al dono più grande, quel dono tanto prezioso da far dire a Paolo: “Vi sup­plichiamo in nome di Cristo: la­sciatevi riconciliare con Dio” (2 Cor 5,20). La riconciliazione è appunto il sacramento dell’incontro con Cristo, che attraverso il ministero della Chiesa viene a soccorrere la debolezza di chi ha tradito o rifiutato l’alleanza con Dio, lo riconcilia col Padre e con la Chiesa, lo ricrea come creatura nuova nella forza dello Spirito Santo. Questo sacramento è chiamato anche della penitenza, perché in esso si esprime la conversione dell’uo­mo, il cammino del cuore che si pente e viene ad invocare il perdo­no di Dio. Il termine confessione – usato comunemente – si riferisce invece all’atto di confessare le proprie colpe davanti al sacerdote, ma richiama anche la triplice confessione da fare per vivere in pienezza la celebrazione della riconciliazione: la confessione di lode (“confessio laudis”), con cui facciamo memoria dell’amore divino che ci precede e ci accompagna, riconoscendone i segni nella nostra vita e comprendendo meglio in tal modo la gravità della nostra colpa; la confessione del peccato, con la quale presentiamo al Padre il nostro cuore umile e pentito riconoscendo i nostri peccati (“confessio pecca­ti”); la confessione di fede, infine, con cui ci apriamo al perdono che libera e salva, offertoci con l’assoluzione (“confessio fidei”). A loro volta, i gesti e le parole in cui esprimeremo il dono che abbiamo ricevuto confesseranno nella vita le meraviglie operate in noi dalla misericordia di Dio.
6. La festa dell’incontro Nella storia della Chiesa la peni­ten­za è stata vissuta in una grande varietà di forme, comunitarie e individuali, che hanno però tutte mante­nuto la struttura fondamentale dell’incontro personale fra il peccatore pentito e il Dio vivente attraverso la media­zione del ministero del vescovo o del sacerdote. Attraverso le parole dell’assoluzio­ne, pro­nunciate da un uomo peccatore, che però è stato scelto e consacrato per il ministero, è Cristo stesso che accoglie il peccatore pentito e lo riconcilia col Padre e nel dono dello Spirito Santo lo rinnova come mem­bro vivo della Chiesa. Riconciliati con Dio, veniamo accolti nella comunione vivificante della Trinità e riceviamo in noi la vita nuova della grazia, l’amore che solo Dio può effondere nei nostri cuori: il sacra­mento del perdono rinnova, così, il nostro rapporto col Padre, col Figlio e con lo Spirito Santo, nel cui nome ci è data l’assoluzione delle colpe. Come mostra la parabola del Padre e dei due figli, l’incontro della riconciliazione culmina in un banchetto di vivande saporite, cui si partecipa col vestito nuovo, l’anello e i calzari ai piedi (cf. Lc 15,22s): immagini che esprimono tutte la gioia e la bellezza del dono offerto e ricevuto. Veramente, per usare le parole del Padre della parabola, “bisogna far festa e rallegrarsi, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Lc 15,24). Come è bello pensare che quel figlio può essere ognuno di noi!
7. Il ritorno alla casa del Padre In rapporto a Dio Padre la peni­ten­za si presenta come un “ritorno a casa” (questo è propriamente il senso della parola “teshuvà”, che l’ebraico usa per dire “conversione”). Attraverso la presa di co­scien­za delle tue colpe, ti accorgi di essere in esilio, lontano dalla patria dell’amore: avverti disagio, dolore, perché capisci che la colpa è una rottura dell’alleanza col Signore, un rifiuto del Suo amore, è “amore non amato”, e proprio così è anche sorgente di alie­nazione, perché il peccato ci sradica dalla nostra vera dimora, il cuore del Padre. È allora che occorre ricordarci della casa dove siamo attesi: senza questa memoria dell’amore non potremmo mai avere la fiducia e la speranza necessarie a prendere la decisione di tornare a Dio. Con l’umiltà di chi sa di non essere degno di venir chiamato “figlio”, possiamo deciderci di andare a bussare alla porta della casa del Padre: quale sorpresa scoprire che lui è alla finestra a scrutare l’orizzonte, perché aspetta da tanto il nostro ritorno! Alle nostre mani aperte, al cuore umile e pentito risponde la gratuita offerta del perdo­no, con cui il Padre ci riconcilia con sé, “convertendosi” in qualche modo a noi: “Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incon­tro, gli si gettò al collo e lo baciò” (Lc 15,20). Con straordinaria tenerezza Dio ci introduce in modo rinnovato nella condizione di figli, offerta dall’alleanza stabilita in Gesù.
8. L’incontro con Cristo, morto e risorto per noi In rapporto al Figlio il sacra­men­to della riconciliazione ci offre la gioia dell’incontro con Lui, il Signore crocifisso e risorto, che attraverso la Sua Pasqua ci dona la vita nuova infondendo il Suo Spirito nei nostri cuori. Questo incontro si compie attraverso l’itinerario che porta ognuno di noi a confessare le nostre colpe con umiltà e dolore dei peccati e a ricevere con gratitudine piena di stupore il perdono. Uniti a Gesù nella Sua morte di Croce, moriamo al peccato e all’uomo vecchio che in esso ha trionfato. Il Suo sangue sparso per noi ci riconcilia con Dio e con gli altri, abbattendo il muro dell’inimicizia che ci teneva prigionieri della nostra solitudine senza speranza e senza amore. La forza della Sua resurrezione ci raggiunge e trasforma: il Risorto ci tocca il cuore, lo fa ardere in noi di una fede nuova, che schiude i nostri occhi e ci rende capaci di riconoscere Lui accanto a noi e la Sua voce in chi ha bisogno di noi. Tutta la nostra esistenza di peccatori, unita a Cristo crocifisso e risorto, si offre alla misericordia di Dio per essere sanata dall’angoscia, liberata dal peso della colpa, confermata nei doni di Dio e rinno­vata nella potenza del Suo amore vittorioso. Liberati dal Signore Gesù, siamo chiamati a vivere come Lui nella libertà dalla paura, dalla colpa e dalle seduzioni del male, per compiere opere di verità, di giustizia e di pace.
9. La vita nuova nello Spirito Grazie al dono dello Spirito che effonde in noi l’amore di Dio (cf. Rm 5,5), il sacramento della riconciliazione è sorgente di vita nuova, comunione rinnovata con Dio e con la Chiesa, di cui proprio lo Spirito è l’anima e la forza di coesione. È lo Spirito a spingere il peccatore perdonato a esprimere nella vita la pace ricevuta, ac­cettando anzitutto le conseguenze della colpa com­messa, e cioè la cosiddetta “pena”, che è come l’effetto della malattia rappresentata dal peccato e va considerata come una ferita da sanare con l’olio della grazia e la pazienza dell’amore da avere verso noi stessi. Lo Spirito, poi, ci aiuta a maturare il proposito fermo di vivere un cammino di conversione fatto di impegni concreti di carità e di preghiera: il segno penitenziale richiesto dal confessore serve appunto ad esprimere questa scelta. La vita nuova, a cui così rinasciamo, può dimostrare più di ogni altra cosa la bellezza e la forza del perdono sempre di nuovo invocato e ricevuto (“perdono” vuol dire appunto dono rinnovato: perdonare è donare all’infinito!). Ti chiedo, allora: perché fare a meno di un dono così gran­de? Accostati alla confes­sione con cuore umile e contrito e vivila con fede: ti cambierà la vita e darà pace al tuo cuore. Allora, i tuoi occhi si apriranno per riconoscere i segni della bellezza di Dio presenti nel creato e nella storia e ti sgorgherà dall’anima il canto della lode. Ed anche a te, sacerdote che mi leggi e come me sei ministro del perdono, vorrei rivolgere un invito che mi nasce dal cuore: sii sempre pronto – a tempo e fuori tempo – ad annunciare a tutti la misericordia e a dare a chi te lo chiede il perdono di cui ha bisogno per vivere e per morire. Per quella persona potrebbe trattarsi dell’ora di Dio nella sua vita!
10. Lasciamoci riconciliare con Dio! L’invito dell’Apostolo Paolo diventa, così, anche il mio: lo esprimo servendomi di due voci diverse. La prima è quella di Friedrich Nietzsche, che negli anni della giovinezza scrive queste parole appassionate, segno del bisogno della misericordia divina che tutti ci portiamo dentro: “Ancora una volta, prima di partire e volgere i miei sguardi verso l’alto, rimasto solo, levo le mie mani a Te, presso cui mi rifugio, cui dal profondo del cuore ho consacrato altari, affinché ogni ora la voce Tua mi torni a chiamare… ConoscerTi io voglio, Te, l’Ignoto, che a fondo mi penetri nell’anima e come tempesta squassi la mia vita, inafferrabile eppure a me affine! ConoscerTi, io voglio, e anche servirTi” (Scritti giovanili, I, 1, Milano 1998, 388). L’altra voce è quella attribuita a Francesco d’Assisi, che esprime la verità di una vita rinnovata dalla grazia del perdono: “Signore, fa’ di me uno strumento della Tua pace. Dove è odio, che io porti l’amore. Dov’è offesa, che io porti il perdono. Dov’è discordia, che io porti l’unione. Dov’è errore, che io porti la verità. Dov’è dubbio, che io porti la fede. Dov’è disperazione, che io porti la speranza. Dove sono tenebre, che io porti la luce. Dov’è tristezza, che io porti la gioia. Maestro, fa’ che io non cerchi tanto di essere consolato quanto di consolare, di essere compreso quanto di comprendere, di essere amato quanto di amare”. Sono questi i frutti della riconciliazione, invocata ed accolta da Dio, che auguro a tutti Voi che mi leggete. Con questo augurio, che diventa preghiera, Vi abbraccio e benedico uno per uno

+ Bruno, Vostro Padre nella fede
Per l’esame di coscienza

Publié dans:Bruno Forte, liturgia, LITURGIA: SACRAMENTI |on 17 septembre, 2013 |Pas de commentaires »

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