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Le tre virtù teologali: fede, speranza e carità

Le tre virtù teologali: fede, speranza e carità dans immagini sacre Teologali

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GESU’ A MENSA

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GESU’ A MENSA

Certamente anche Gesù a volte si è seduto da solo a mensa. Questo però non interessa agli evangelisti. A loro interessa Gesù che sa rendersi commensale o che invita alla sua mensa. Osservando infatti Gesù a mensa con altri, i primi discepoli hanno imparato che per imitarlo debbono essere costruttori di comunità, cioè vivere in pienezza la fraternità. Tale è l’insegnamento che sgorga dal capitolo 14 di Luca, e anche dal capitolo 15 che mediteremo nel prossimo articolo.
La liturgia legge il capitolo 14 in due diverse domeniche, ma lo fa saltando i vv. 2-6 e 15-24. Se però vogliamo capire bene l’insegnamento di Gesù, conviene leggersi prima l’intero capitolo. Questo ci permette di valutare le nostre prime impressioni di fronte al testo e, poi, di passare a una più approfondita meditazione.
L’inizio è significativo: “Un sabato Gesù fu invitato a pranzo in casa di un capo dei farisei ed essi stavano a osservarlo” (v. 1). Segue la guarigione di un ammalato (vv. 2-6), poi si parla di Gesù che insegna agli invitati un po’ di buone maniere (vv. 7-14), quindi si narra la Parabola del grande Banchetto (vv. 15-24); infine Gesù parla delle condizioni per essere suo discepolo (vv. 25-35). Tutto il racconto, però, si sviluppa nell’ottica di un banchetto, che non si fa mai da soli. Ma, quando lo si fa con altri, ci si sente davvero fratelli? Questa la problematica che possiamo capire soltanto se prima ci chiediamo

Come si rivela Gesù?
Gesù accoglie l’invito a pranzo, ma appena giunge nella casa del fariseo si accorge che gli hanno teso un tranello: “davanti a lui vi era un uomo malato di idropisia e i farisei stavano a osservarlo”; si intende: per vedere se osava guarirlo in giorno di sabato (vedi 6,6-7). Ora, come reagisce Gesù? Come uno che cerca il bene di tutti, anche di chi gli ha teso un tranello. Innanzitutto guarda l’ammalato e lo vede come una persona bisognosa di aiuto. Perciò è logico che egli cerchi di rendersi prossimo1. Per gli altri invece quell’ammalato non è una persona, è solo una pedina che essi muovono a piacimento per incastrare Gesù. Gesù li guarda e come sempre cerca il dialogo (vedi caso simile in 6,6-11). Ciò significa che li ama e che cerca un possibile incontro. E lo fa chiedendo se “è lecito o no guarire in giorno di sabato. Ma essi tacquero”. Non accettano il dialogo. E Gesù reagisce guarendo l’ammalato e poi spiegando perché lo ha guarito in giorno di festa. Egli vuole semplicemente che trattino quell’uomo almeno come essi trattano i loro animali. Gesù non vuole che si strumentalizzi una persona umana. Caso storicamente chiuso, ma non per chi ascolta oggi la “Parola”.
Ci si mette a tavola (v. 7), e qui Gesù si accorge che gli invitati non agiscono da fratelli: c’è la corsa ai primi posti. Perciò denuncia l’arrivismo, il carrierismo, la scalata ai primi posti della società e prospetta una comunità in cui ognuno si preoccupa degli altri (vedi Fil 2,3-4), in cui tutti si sentano di casa e trattati alla pari.
Poi osserva gli invitati: appartengono tutti a una certa categoria di persone. Egli, che si sedeva a mensa anche con gli esattori delle tasse (detti “pubblicani” o “peccatori”; vedi 5,27-32), non proibisce di banchettare con gli amici, però dice a chi lo ha invitato: “Quando offri un banchetto non invitare solo i tuoi amici, i tuoi fratelli, i tuoi parenti, i ricchi, ma invita anche i poveri, gli storpi, gli zoppi, i ciechi e sarai beato” (v. 13-14). Appena udì ciò un invitato capì che Gesù stava parlando del regno di Dio e disse: “Beato chi prenderà cibo nel regno di Dio” (v. 15).
L’immagine di Gesù ora è perfetta. Gesù vive sempre in pieno la sua missione: affratellare tutti e finirla di dare peso a ciò che ci divide nella società, perché ogni persona si senta di casa, parte della stessa famiglia, della “sua famiglia”; con parole nostre: della “sua Chiesa”. E noi già sappiamo come si forma questa sua famiglia. Gesù infatti ha detto: “Mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (8,21). E per spiegarsi meglio, racconta la Parabola del grande Banchetto (vv. 16-24); ce n’è a sufficienza per confrontarsi con Gesù.
Prima, però, osserviamo come in questo racconto si rivela Gesù. È lui “il servo” che porta a tutti l’invito a entrare nella sala del banchetto e la sua parola continua a riecheggiare nel mondo come un invito alla salvezza. Tutti sono invitati, però ognuno deve personalmente scegliere se accettare o no. La predicazione del Vangelo è uno sforzo per “convincere tutti a entrare”, senza costrizione alcuna2. E si aggiunge: “Perché la mia casa si riempia”. L’affermazione dice che Gesù vive la certezza della speranza. Sa che riuscirà a portare a termine la sua missione. Solo chi non si ricrede e rifiuta sino alla fine “non entrerà”.

Gesù e noi comunità cristiana
Tutti sono invitati a sedersi alla stessa mensa, a fare comunione, a esprimere nei loro gesti l’universale fraternità. Ma la parola di colui che invita a mensa non è accolta da tutti. Ci sono coloro che ascoltano la “Parola” che annuncia la salvezza, ma questa parola, seminata nel loro cuore, è come il seme caduto tra le spine; e le spine (solo Gesù poteva inventare questo, perché urta la perenne cultura umana) rappresentano le preoccupazioni, le ricchezze e i piaceri della vita (vedi 8,14) che soffocano la parola seminata nel cuore. È per motivi di interessi materiali che alcuni non accettano (vv. 18-19), ma forse c’è anche un altro motivo: accettare di formare parte della famiglia di Gesù significa sedersi a mensa con i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi, cioè con coloro, che secondo il parlare comune, non contano nella società. Ebbene, essi non vogliono accogliere quel principio che guida la vita della “famiglia di Gesù”, cioè di coloro che ascoltano la sua parola e la mettono in pratica. Gesù ha detto: “Nessuno di voi si faccia chiamare «Rabbì» o «Padre» o «Maestro», perché voi siete tutti fratelli. E chi tra voi è più grande sarà vostro servo” (vedi Mt 23,8-11). Ora, quando si fa forza su ciò che ci distingue dagli altri, è impossibile fare comunità, è impossibile vivere da veri fratelli. Ognuno ha il suo compito nella comunità cristiana, ma nessuno ha il diritto di guardare gli altri dall’alto in basso. Per noi cristiani tutti sono “fratelli e sorelle”, perché la vita cristiana è imitazione di Gesù, che non si vergogna di chiamarsi “fratello” e che si è fatto “servo” in mezzo a noi (Lc 22,27). Lui, il Signore si è fatto “servo”; ha “lavato i piedi” dei suoi discepoli (vedi Gv 13,14-15).
Gesù insegna che nella “sua famiglia” tutti debbono sentirsi parte viva della comunità, partecipi della vita della famiglia di Dio. Per questo è necessario essere “testimoni dell’Amore”. L’ultima espressione è il titolo del IV capitolo della Lettera Apostolica “Novo Millennio Ineunte” di Giovanni Paolo II (giorno dell’Epifania 2000). È un capitolo in cui dalla contemplazione del volto di Cristo si passa a contemplare il suo volto in ogni persona umana; “per fare – dice il Papa – della Chiesa la casa e la scuola della comunione”. E continua dicendo: “Questa è la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e alle attese profonde del mondo” (n. 43).
Ora, “fare comunione” – dice sempre il Papa – significa “saper «fare spazio» al fratello portando «i pesi gli uni degli altri» (Gal 6,2), respingendo le tentazioni egoistiche che continuamente ci insidiano e generano competizione, carrierismo, diffidenza e gelosie. Non ci facciamo illusioni: senza questo cammino spirituale, a ben poco servirebbero gli strumenti esteriori della comunione. Diventerebbero apparati senz’anima, maschere di comunione più che sue vie di espressione e di crescita” (n. 43). “Fare comunione” significa instaurare a ogni livello della comunità ecclesiale un senso di dialogo e di ascolto tra tutti; soprattutto tra pastori e fedeli. A questo proposito Giovanni Paolo II dice: “Significativo ciò che San Benedetto ricorda all’Abate del monastero, nell’invitarlo a consultare anche i giovani: «Spesso ad uno più giovane il Signore ispira un parere migliore». E San Paolino da Nola esorta: «Pendiamo dalla bocca di tutti i fedeli, perché in ogni fedele soffia lo Spirito di Dio»” (n. 45).
Siamo di fronte a una dolce realtà: la Chiesa oggi – e per “Chiesa” intendiamo l’intera comunità dei credenti in Cristo – è in attento ascolto della pagina evangelica che abbiamo scelto come meditazone e c’è in essa un desiderio di viverla sino in fondo, un desiderio di fare fruttificare la “Parola” che è stata seminata in noi, un desiderio di “purificare la memoria” da un passato di vita ecclesiale non sempre conforme al Vangelo e di tentare finalmente la vera via evangelica, l’unica che davvero ci mette in grado di costruire un mondo di pace. Di qui la scelta a cui ci chiama Gesù.
Dopo il racconto della parabola, come dopo il primo annuncio di passione (9,23-24) e sulla linea di quanto ha detto a chi voleva seguirlo o a chi egli invitava a seguirlo sulla strada di Gerusalemme (9,57-62), Gesù dice: “Chi non mi ama più di3 suo padre, di sua madre… chi non porta la sua croce… chi non è disposto a perdere tutti i suoi beni… non può essere mio discepolo”. Non c’è bisogno di dilungarsi nella spiegazione. Il contesto della comunità di Luca è un contesto di persecuzione. Ebbene, il discepolo, se vuole continuare a seguire Gesù dev’essere disposto a mettere la fedeltà a Gesù al di sopra di ogni vincolo di sangue, disposto anche a “perdere” la propria vita e anche tutto ciò che possiede, perché la fedeltà a Gesù e al Vangelo è per lui il bene supremo. Il Papa commenta così il “portare la croce”: “Il cristiano non ricerca la sofferenza, ma l’amore. E la croce accolta diviene il segno dell’amore e del dono totale. Portarla dietro a Cristo vuol dire unirsi a lui nell’offrire la prova massima dell’amore”4.

Pregando il testo
Signore Gesù, è la terza volta che ci metti di fronte a scelte ben precise (vedi 9,23-24.57-62), e la seconda volta (prima volta in 9,57ss) che ci inviti a ponderare bene se vale la pena o no. Ci hai pure già parlato delle relazioni con le persone più care e ci hai detto senza mezzi termini che il seguirti fino in fondo può a volte comportare duri contrasti con i propri familiari (vedi 12,51-53). E tu ne hai avuto l’esperienza quando ti fecero sapere che “tua madre e i tuoi fratelli volevano vederti”. Ebbene, tu, prendendo le distanze dai vincoli di sangue, hai risposto: “Mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (8,19-21). Quel giorno anche tua madre ha dovuto fare la scelta di diventare sempre di più “discepola della Parola” per essere partecipe della tua nuova famiglia. Tu hai saputo “perdere la tua vita” e hai vissuto il totale distacco da ogni ricchezza per compiere la tua missione sino in fondo.
E oggi è a me e ai miei fratelli nella fede che esigi una scelta chiara e definitiva per te; tu ci vuoi come te, “pietra angolare” della tua Chiesa, costruttori di comunità, di fraternità, perché vuoi, come ce lo ha ricordato il tuo Vicario sulla terra che la tua Chiesa sia “casa e scuola di comunione”. Ci offri ideali immensi, Gesù! Ideali che impegnano l’intera nostra esistenza; ci chiami ad abbattere ogni frontiera, perché il mondo intero diventi una famiglia e si sieda alla stessa mensa, come il tuo profeta Isaia lo aveva preannunciato (Is 2,2-5).
Signore Gesù non oso dirti che non ho le forze, perché so che mi rispondi: “Mettiti accanto a me e in sintonia con me osserva ogni persona che incontri; solo così sentirai che, come me, devi farti dono a tutti sino all’effusione del sangue. E non aver paura, perché io sarò con te con la potenza del mio Spirito. Guarda i «testimoni della fede» che ti hanno preceduto nei secoli, e sentirai che anche tu ce la puoi fare”.
Signore Gesù, è bello essere cristiano! Solo così sono sicuro di realizzarmi pienamente co-
me persona umana, ma soprattutto come “figlio di Dio”. Grazie, Signore Gesù! Donami ogni giorno il coraggio della fedeltà. Amen!

Mario Galizzi

STORIA DELLA PREGHIERA LITANICA – LE LITANIE NELLA STORIA E NELLA SCRITTURA

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STORIA DELLA PREGHIERA LITANICA

Data: Venerdi 6 Maggio 2011,

dal libro di Concetta Sinopoli, Meditare le Litanie, EDB, Bologna 1992, pp. 7-23

LE LITANIE NELLA STORIA E NELLA SCRITTURA

Il vocabolo greco litaneia (preghiera, supplica), viene tradotto nel plurale latino litaniae ed assume il significato generale di preghiera che si esprime con la supplica e l’intercessione. Bisogna, però, ricordare che nel Registrum Epistolarum di Papa Gregorio I, alla fine del 500, il medesimo termine indica la processione di fedeli che ogni anno, il 25 aprile, si recava da san Lorenzo in Lucina alla basilica di san Pietro, intonando preci titaniche. Nel Messale Romano che ha preceduto il Messale « postconciliare » di Paolo VI del 1969, il giorno 25 aprile e i tre giorni di preparazione alla festa dell’Ascensione erano, rispettivamente, appellati con le espressioni in litaniis maioribus e in litaniis minoribus: giorni, cioè, di litanie maggiori e di rogazioni o litanie minori. Da questi accenni emerge la presenza remota e costante della preghiera titanica nella Tradizione cristiana: litanie di supplica si ritrovano negli scritti di san Clemente Romano ai Corinti, in Giustino, nei Padri apostolici; litanie d’invocazione appaiono in testi giudaici e, persino, pagani. Le litanie dei Santi, che gli studiosi ritengono concordemente alle origini di quelle della Vergine, sono state scoperte in un testo greco dell’Asia Minore, del 400 circa, come invocazione collettiva degli abitanti del paradiso. La struttura fondamentale delle litanie dei Santi sembra fissata nel VII secolo. Esse non costituiscono una serie di lodi, ma piuttosto due grandi parti: la prima riservata ad una sequela d’invocazioni a Dio, alla Madonna ed ai Santi; la seconda formata da una precisa serie di richieste rivolte al Signore, in parte motivate, dette deprecazioni. Queste formule di preghiera avevano un carattere popolare e venivano usate nelle processioni, durante la veglia pasquale, per le ordinazioni, nelle rogazioni, nelle preghiere per i malati e i moribondi, in occasione di feste diverse. Alla loro diffusione contribuirono in particolare i monaci irlandesi che ne promossero la pratica in tutta l’Europa. Ancor prima d’essere devozione, però, l’invocazione titanica è preghiera biblica. La Sacra Scrittura documenta l’incontro, nella verità, tra il Creatore e la creatura: il Signore della misericordia e il povero che grida, esulta, ripete senza stancarsi la sua bontà, la sua grandezza, lo esalta e lo benedice. Come non ritrovare negli attributi di eternità. potenza, grandezza, gloria…dei Salmi e dei cantici biblici, i segni dell’indicibile per chi sperimenta la vicinanza dell’Assoluto e la sacralità dell’ospite..? Egli parla perché è, mentre Mosè si copre la faccia protestando la propria indegnità, cercando d rispondere con tutto l’amore del proprio essere tutte le forze, tutta la mente. Gli studiosi sottolineano in particolare i salmi dai ritornelli titanici quali il Salmo 117 (118) ed il Salmo 135 (136): simili, in parte, quanto ad espressioni di lode, ringraziamento e versetto titanico. Il Salmo 117 (118) introduce la storia della salvezza con la celebrazione del « Dio d’Israele e di coloro che lo temono »:
Celebrate il Signore, perché è buono;
perché eterna è la sua misericordia.
Dica Israele che egli è buono:
eterna è la sua misericordia.
Lo dica chi teme Dio:
eterna è la sua misericordia. (vv. 1-2.4)
Il Salmo 135 (136), detto esplicitamente Grande litania di ringraziamento, s’apre con la lode per continuare nella recita storica degli interventi divini a favore del popolo:
Lodate il Signore perché è buono:
perché eterna è la sua misericordia.
Lodate il Signore dei signori:
perché eterna è la sua misericordia.
Egli solo ha compiuto meraviglie:
perché eterna è la sua misericordia. (vv. 1 .3-4)
Anche il Cantico dei tre giovani nella fornace, del libro di Daniele (Dn 3,52-90), possiede struttura e andamento litanici: all’invito di benedizione segue il ritornello « lodatelo ed esaltatelo nei secoli » per una serie innumerevole di volte, finché storia e bontà di Dio diventano movimenti della preghiera e ragione di essa. Episodi di preghiera litanica si ritrovano nei canoni islamici come lode ed antifone, oltre alla ripetizione degli attributi divini. E, dunque, costitutivo essenziale di ogni litania e forma litanica il legame profondo, l’unità e l’accordo d’anima, cuore e mente che nella brevità, nell’esemplificazione verbale, rivelano l’evento spirituale, accolgono la Presenza ed implorano l’azione della grazia.
Ti preghiamo, Signore, per la tua santa Chiesa,
che si estende dall’uno all’altro capo del mondo;
Tu l’hai conquistata col sangue prezioso del tuo Cristo:
conservala incrollabile, al riparo dalle tempeste,
fino alla consumazione dei tempi.
Ti preghiamo per l’episcopato universale,
che trasmette fedelmente la parola di verità.
Ti preghiamo per la pochezza del tuo celebrante
e per tutti i presbiteri, per i diaconi e per il clero,
affinché tutti siano pieni della sapienza del tuo Spirito.
Ti preghiamo per quelli che detengono l’autorità,
conservaci nella pace,
in modo che passiamo tutto il tempo della vita
nella tranquillità e nella concordia,
a glorificarti, per Gesù Cristo, speranza nostra.1

PREGHIERA LITANICA: LITURGIA E TRADIZIONE
Se nei Vangeli ricercassimo i brani relativi agli incontri di Gesù con gli « ultimi » facendo attenzione all’atteggiamento di supplica nella richiesta e all’insistenza umile di tanti bisogni, potremmo apprendere dal cieco di Gerico, dai lebbrosi e dai piccoli d’ogni sorta, la forza dell’invocazione accorata. La preghiera incessante necessita di strutture lineari, non complicate dal ragionamento. L’apostolo Paolo, rivolgendosi a Timoteo, esorta: «Ti raccomando dunque, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità. Questa è una cosa bella e gradita al cospetto di Dio»(lTm 2,1-2).
La preghiera comunitaria trova in queste espressioni l’incoraggiamento a far presenti al Signore i vari momenti della vita sociale, le difficoltà e le necessità storiche. Nella Liturgia, ambito privilegiato del culto comunitario, si sviluppano, sin dai primi testi patristici, vere e proprie formulazioni tecniche che si differenziarono, più tardi, in termini occidentali ed orientali ben definiti. Dalla Didaché agli scritti di Giustino, da Clemente di Roma, intorno all’anno 100, fino ad Ambrogio di Milano, ad Agostino di Ippona (†431) e Prospero d’Aquitania, morto nel 455, formule di supplica in tal senso compaiono nella celebrazione dell’eucaristia ed in altri momenti liturgici. In Oriente, la liturgia Eucaristica si apre col canto intercalato da preghiere litaniche per continuare a sviluppare, assumendo i caratteri del dramma sacro, un dialogo intenso tra il celebrante e il popolo, di cui Dio è l’interlocutore. In questo dialogo un ruolo particolare spetta al diacono che funge da intermediario, ponendosi davanti alla porta santa, tra il santuario e l’assemblea, come per dirigere la preghiera collettiva dei fedeli in unione a quella del sacerdote. Dopo uno scambio di benedizioni e l’Amen cantato dal coro, il sacerdote ed il diacono si coprono con il Kalimafkion (paramento sacro) e, mentre, dietro il velo dell’iconostasi, il prete prega silenziosamente per l’assemblea, tra i fedeli e il diacono si svolge il dialogo titanico. Esso ha lo scopo d’accordare tutte le anime alla supplica del celebrante ed è detto grande synaptê che equivale alla preghiera latina collecta. La preghiera diaconale, cioè guidata dal diacono, prende anche il nome di ectenia perché « estesa » a tutte le necessità della comunità cristiana e a tutte le persone; si ritrova di frequente nelle liturgie e conclude la prima parte della celebrazione dell’eucaristia. Il diacono inizia: in pace preghiamo il Signore!, il coro risponde: Kyrie eleison, Signore abbiate pietà! e la litania prosegue, toccante per semplicità ed altezza spirituale, con un numero di appelli che corrispondono alle invocazioni delle intenzioni generali e locali. La preghiera volge al termine con invocazioni di soccorso e salvezza per terminare nel ricordo della potente intercessione di Maria, nella comunione dei santi: «Facendo memoria della tutta santa, tutta pura, benedetta al di sopra di tutto e gloriosa nostra signora, Madre di Dio e sempre Vergine, Maria, e di tutti i santi, raccomandiamo noi stessi, gli uni gli altri e tutta la nostra vita a Cristo, nostro Dio». Il coro conclude: A voi, Signore.
Nella liturgia Ambrosiana si possono riscontrare elementi tipici di questa litania nella serie d’invocazioni in uso durante la preghiera dei fedeli delle domeniche di Quaresima, intercalate dalla risposta: Domine miserere. Ma la oratio universalis o oratio fidelium, in occidente, conoscerà sviluppi e formulari diversi e famosi, differenziandosi dall’Oriente per consuetudini e per il ruolo stesso del diacono, a cui non è vincolata.
La preghiera dei fedeli romana assume una collocazione diversa nella liturgia latina: in origine non può essere ritenuta, a dire degli studiosi, parte integrante della liturgia della Parola o sua conclusione. Essa era collegata ad altre due azioni sacerdotali: lo scambio del bacio di pace e la presentazione delle offerte, come appare nella descrizione del rito dell’eucaristia di Giustino (+165). Inoltre, i fedeli, che con il battesimo ricevono lo Spirito di Cristo, innalzano la loro preghiera anche spontaneamente o tramite un semplice lettore.
Comune ai cristiani d’Oriente ed Occidente, l’anelito spirituale ed il carattere d’invocazione e supplica della preghiera litanica che nella risposta ripetuta si delinea, non si può dimenticare, al di là delle forme e delle caratteristiche proprie di ognuno, il germe liturgico che s’esprimerà, attraverso aspetti formali e contenuti essenziali, nelle litanie mariane.
Ti presentiamo l’offerta per tutti i santi
che fin dalle origini ti hanno allietato,
per i patriarchi, i profeti, i giusti, i martiri,
i confessori, i vescovi, i sacerdoti, i diaconi,
i lettori, i cantori, le vergini, le vedove,
i laici e tutti coloro di cui conosci il nome.
Ti presentiamo l’offerta per questo popolo,
perché esso diventi la lode del Cristo,
un sacerdozio regale, una nazione santa
per i più piccoli del tuo popolo,
affinché tu non respinga nessuno di noi.
Ti preghiamo per questa città e per tutti i suoi abitanti,
per gli ammalati, gli esiliati, i viaggiatori.
Ti preghiamo per coloro che ci odiano
e ci fanno soffrire persecuzione a causa del tuo nome;
per quelli che si smarriscono.
Ti preghiamo per i catecumeni della Chiesa
per i nostri fratelli che fanno penitenza.2

INNI, TITOLI E LODI ALLA VERGINE
Alle fonti delle litanie alla Vergine gli studiosi distinguono la derivazione strutturale dall’aspetto contenutistico. La tipologia delle litanie mariane non è assimilabile alle Laudes Virginis, né ha assunto i caratteri dell’innografia. La struttura delle litanie mariane trae invece origine dalle Litanie dei Santi in cui Maria ha sempre un posto particolare già dalla loro comparsa, essendo precedente ad esse la diffusione del culto alla Vergine, sia in Oriente che in Occidente. Per quanto riguarda i contenuti è, invece, evidente una trasposizione di invocazioni, titoli ed espressioni significative che prima di diventare lodi popolari, sono stati coniati ed approfonditi per simbologia e contenuto teologico dagli esegeti e dai padri della Chiesa d’Oriente e d’Occidente, soprattutto nell’omiletica, in occasione di feste liturgiche e di controversie dottrinali. L’esigenza di chiarimento di alcuni presupposti cristologici attaccati dalle eresie più diverse, portò alle definizioni di Efeso sulla Madre di Dio e diede impulso alla ricca produzione d’invocazioni mariane presente in Oriente a partire dal V secolo. In Occidente, dal secolo X al Rinascimento, si sviluppa il genere delle Laudes marianae che, in forma ritmica e vagamente poetica, intrecciano supplica e giaculatoria con attributi alla Vergine. Influenza notevole ebbe l’inno per eccellenza della tradizione orientale, l’Akathistos. Tradotto in latino da Cristoforo, vescovo di Venezia, intorno al IX secolo, ispirò la parigina Salutatio sanctae Mariae del secolo XI ed altre produzioni innografiche occidentali. Le litanie si nutrirono di questi dati, ma in modo vario ed originale, fondando i loro titoli nell’autenticità della Scrittura e sviluppando i temi evangelici alla luce di simboli ed immagini individuate dai Padri nei testi biblici, applicate a Maria in relazione a Cristo. Con il diffondersi della predicazione, delle congregazioni religiose e delle spiritualità, si moltiplicarono anche i testi delle litanie che, in origine, appartennero a formulari propri di cattedrali o abbazie. Tali formulari si presentavano ordinariamente in prosa, ma non mancano gli esempi in rima. Una di queste litanie è attribuita a Sant’Anselmo di Canterbury: in essa, alla Madonna è riservata una nutrita serie d’invocazioni.
Un dato costante e specifico dell’invocazione litanica è la necessità di rendere la preghiera semplice ed immediata, mai superficiale o studiata per eludere l’impegno dell’orazione. La preghiera delle litanie sgorga da vene profonde di contemplazione in cui l’esperienza d’insufficienza delle parole umane è confortata dal dono di Dio, dalla rivelazione della sua presenza. L’uomo, incapace di parlare al Creatore, di chiedergli secondo le esigenze della sua miseria, sillaba, con l’aiuto dello Spirito, le meraviglie di Dio, ciò che di esse riesce a percepire, e, poveramente, invoca. Sintesi di verità e di slanci poetici, di dottrina e di fede, l’espressione litanica richiama l’opera della grazia in Maria per farne movimento di lode, a cui segue l’umile percezione di se stessi e della propria miseria. L’alternarsi degli sguardi, del saluto e della supplica, stabilisce il ritmo della preghiera profonda, nella quiete e nell’abbandono del cuore. Le litanie non possono essere pregate come recita distratta ed affrettata, specie a conclusione di altre pratiche devozionali, qual è il rosario. Esse ne sottolineano piuttosto l’attenzione ai misteri della vita di Gesù, attraverso il dialogo essenziale e fiducioso con la Madre. In Maria trovo, ammiro e cerco per l’oggi della mia vita cristiana, il punto di vista, I’inquadratura e le linee del progetto di Dio accolto e realizzato negli aspetti concreti. L’azione dello Spirito nella sua creaturalità e nella sua santità m’incoraggia a seguire vie di semplicità e di contemplazione. Nel silenzio di pause appropriate, il tono della voce e il significato delle parole coinvolgono la mente e gli affetti, in un clima di raccoglimento, che prepara l’incontro.
«Le litanie devono essere anche recitate correttamente. Come vengono dette talvolta non hanno alcun valore. Quanto sia bella e benefica la preghiera delle litanie lo si nota solo quando ogni invocazione è pronunciata chiaramente e dopo la risposta si fa una piccola pausa, esattamente sufficiente perché il contenuto acquisti risonanza e l’invocazione seguente non succeda con precipitazione meccanica. Allora viene da se che anche la risposta a sua volta non suoni meccanica, ma lasci essa pure una piccola pausa sì che una pace divina si diffonda su tutta la preghiera».3
La Vergine Maria ci conduce all’incipit trinitario e battesimale all’explicit della salvezza, all’incontro con l’Agnello immolato e nella semplicità dei piccoli, che totalmente si affidano e si lasciano portare, apriamo gli occhi per vedere la grandezza dell’amore di Dio.

FORMULARI LITANICI E ORIENTAMENTI DEL MAGISTERO
Un manoscritto della fine del XII secolo attesta quarantadue litanie a Sancta Maria del formulario di Aquileia, dette anche Veneziane perché, dopo la decadenza del patriarcato di Aquileia, si mantennero in uso nelle rubriche veneziane fino agli inizi del 1800. Chiamate Litaniae de Domina, venivano recitate specialmente in occasione di gravi calamità. Allo stesso periodo storico risalgono litanie mariane che prenderanno, in seguito, il nome di lauretane, dal santuario della santa casa di Loreto, in cui si cantavano agli inizi del XVI secolo. Le settantatrè invocazioni riportate dal manoscritto parigino in questione, hanno già l’armonica struttura di quelle lauretane e sono disposte in modo organico, similmente a quelle del formulario di Loreto, se si eccettua l’appellativo di Magistra, che in quest’ultimo non compare. In entrambi, Maria è invocata come Mater, Virgo, con una serie di titoli simbolici e biblici, e come Regina. Le litanie lauretane vanno distinte in « antiche » e « nuove ». Le prime, testimoniate e diffuse dal Manuale di Pietro Canisio alla fine del XVI secolo, attualmente in uso; le seconde derivate da un testo differente che nel 1575 fu musicato da Costanzo Porta, direttore di cappella del santuario di Loreto. Ben presto, però, questo formulario moderno non verrà più usato, mentre il formulario antico trova collocazione stabile nella devozione, anche per l’intervento di Sisto V. Il papa, con una Bolla indirizzata ai soli Carmelitani Scalzi, concedeva indulgenza di duecento giorni ai fedeli che recitassero le Litanie della beatissimo Vergine Maria, in uso presso la santa casa. Nel periodo di rinnovamento della Chiesa che il Concilio di Trento aveva inaugurato, non mancano gli eccessi. Clemente VIII, nel 1601, stabilisce, allora, l’approvazione delle litanie della santa casa e la loro importanza, con il decreto Quoniam multi. Le quarantaquattro invocazioni pubblicate dopo il 1572, nella Nuova dichiarazione della santa casa di Loreto, hanno oggi raggiunto il numero di cinquanta per le aggiunte che dogmi ed occasioni particolari hanno determinato.Ricordiamo, per il momento, l’invocazione Mater Ecclesiae, del 21 novembre 1964, quando Paolo VI, a conclusione della III Sessione del Vaticano II, proclamò Maria « Madre della Chiesa », perché il popolo cristiano la onorasse ancor più con tale titolo. Molti altri formulari hanno arricchito la devozione mariana in sedi e contesti diversi; sono da menzionare le Litanie di Magonza, le Litanie di Alcobaça, le litanie deprecatorie, le litanie del libro di Ore della Regina Eleonora, quelle «del Rosario» e i formulari litanici dell’Ordine dei Servi di Maria. Litanie ibride e recenti s’ispirano a forme miste, alla Scrittura e alle definizioni conciliari, al rito d’incoronazione della Vergine e all’antica venerazione di titoli iconografici della tradizione.
Il Magistero, dopo aver affrontato gli aspetti fondamentali del rapporto della Beata Vergine con Cristo e con la Chiesa, nel capitolo VIII della Lumen gentium, si sofferma, nell’ambito del medesimo capitolo (nn. 66-67) ad esaminare la natura e le linee fondamentali del culto mariano. Esso, specifica già nel titolo, al n. 67: deve essere alieno da esagerazioni e grettezze. Il 2 febbraio 1974, Paolo VI presenta l’Esortazione Apostolica Marialis cultus che indica quattro orientamenti essenziali per il culto della Vergine: biblico, liturgico, ecumenico e antropologico. A conclusione del documento il Papa insegna: «La venerazione che la Chiesa ha reso alla Madre del Signore in ogni luogo e in ogni tempo dal saluto benedicente di Elisabetta (cf. Lc 1,42-45) alle espressioni di lode e di supplica della nostra epoca – costituisce una validissima testimonianza della « sua norma di preghiera » ed invito a ravvivare nelle coscienze la « sua norma di fede ». E, viceversa, la « norma di fede della Chiesa » richiede che, dappertutto, si sviluppi rigogliosa la preghiera nei confronti della Madre di Cristo».4
In continuità d’intenti e d’insegnamento, Giovanni Paolo II ha approfondito tali principi nella sua Lettera Enciclica Redemptoris Mater promulgata il 25 marzo 1987 e seguita dalla Lettera di orientamenti e proposte per l’Anno mariano della Congregazione per il culto divino. L’Enciclica auspica una lettura conciliare che tenga presente non solo la »dottrina della fede » ma anche »la vita di fede dell’autentica spiritualità mariana » che come la « devozione » corrispondente – dice il Papa - »trova una ricchissima fonte nell’esperienza storica delle persone e delle varie comunità cristiane viventi tra i diversi popoli e nazioni su tutta la terra ».5 Ricordando san Luigi Maria Grignion de Montfort e la sua proposta di Consacrazione a Cristo per le mani di Maria, come mezzo efficace per vivere fedelmente gli impegni battesimali il Santo Padre annuncia l’Anno Mariano. Tra gli Orientamenti relativi a quest’ultimo, si ritrovano alcune precise indicazioni riguardanti le litanie. Le litanie lauretane sono inserite nel Rituale romano e stimate dalla Sede Apostolica. I pastori dovranno riconsiderare la natura e le funzioni delle litanie come preghiera a se stante, provvedere a traduzioni e melodie adeguate, far conoscere ai fedeli il Rito per l’incoronazione dell’immagine della B.Vergine Maria, prendere in considerazione formulari antichi e moderni o propri della Chiesa locale.6 Queste indicazioni contengono il segreto di una prassi equilibrata, conforme alla spiritualità ed alla dottrina cristiana, per attingere alle fonti della supplica e della lode.
Fermati anima mia e ascolta,
lascia fuori di te ogni cosa.
Entra e inebriati di colori, di luce,
respira purezza e sublimità per lunghi attimi,
senza muoverti,
Riprendi forza e spera in Dio.
Lui solo cerca nella sua meraviglia,
nello stupore rendi grazie
per tutto ciò che ti è concesso di comprendere.
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Publié dans:liturgia: Litanie, preghiere |on 10 septembre, 2013 |Pas de commentaires »

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