SAPIENZA 9,13-18B – (testo della prima lettura di domenica e commento)
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BRANO BIBLICO SCELTO
SAPIENZA 9,13-18B
1 Quale uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?
14 I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni, 15 perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla grava la mente dai molti pensieri.
16 A stento ci raffiguriamo le cose terrestri, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi può rintracciare le cose del cielo?
17 Chi ha conosciuto il tuo pensiero, se tu non gli hai concesso la sapienza e non gli hai inviato il tuo santo spirito dall’alto?
18 Così furono raddrizzati i sentieri di chi è sulla terra; gli uomini furono ammaestrati in ciò che ti è gradito; essi furono salvati per mezzo della sapienza.
COMMENTO
Sapienza 9,13-18
Il dono della sapienza
Nella seconda sezione del libro (Sap 7,1 – 10,21) è riportata una presentazione ampia e articolata della sapienza in rapporto sia con l’individuo che con il popolo. Questa sezione si divide in tre parti: elogio della sapienza (7,1 – 8,21); preghiera di Salomone per ottenere la sapienza (9,1-18); l’opera della sapienza nella storia di Israele (10,1-21). La preghiera di Salomone termina con il brano, ripreso dalla liturgia, riguardante l’inaccessibilità della sapienza (9,13-18).
Il primo versetto contiene due domande parallele: «Quale uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?» (v. 13). Dal caso particolare di Salomone, si passa all’universalità della natura umana. L’autore si esprime retoricamente con il pronome interrogativo tis, chi, rafforzato da anthrôpos, uomo, e ripetuto poi da solo (cfr. nuovamente i due tis dei vv. 16 e 17). La domanda riguarda la condizione umana nella sua più ampia universalità. Essa verte sulla possibilità di conoscere (gnôsetai, conoscerà, futuro gnomico) la volontà (boulên) di Dio. La boulê di Dio appare sufficientemente determinata dal parallelismo con il successivo: «ciò che Dio vuole», vale a dire la sua volontà, espressa nella legge. L’uomo è troppo limitato nelle sue possibilità (cfr. vv. 5-6) per essere in grado di penetrare il mistero di Dio, e poterne scoprire e comprendere i disegni, anche dopo che sono stati rivelati.
Il versetto successivo contiene invece due affermazioni parallele: «I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni (v. 14). I «mortali» sono gli uomini; nella Bibbia greca il termine è usato solitamente al singolare. Nella letteratura greca si contrappone agli «immortali», che sono gli dèi. L’idea dell’autore riguardo alle nostre possibilità di conoscere la verità nell’ambito morale è piuttosto pessimistica: l’uomo, abbandonato a se stesso, cammina nelle tenebre dell’ignoranza e dell’insicurezza. Nella terminologia platonica si direbbe che, a causa della sua natura materiale, l’uomo non può arrivare più in là delle opinioni.
L’autore passa poi a indicare il motivo della limitatezza umana: «perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla opprime una mente piena di preoccupazioni» (v. 15). L’autore si mantiene fedele alla dicotomia corpo-anima (cfr. 1,4; 8,18-20; 15,8.11.16). La mente (nous) è l’anima stessa in quanto principio pensante. Che il corpo mortale influisca sulla vita psichica dell’uomo è patrimonio comune di tutte le scuole filosofiche; ogni tendenza pura, o pensiero elevato, spiritualizzante, è sempre stato attribuito all’anima umana, e ogni moto legato al mondo materiale è stato imputato al corpo corruttibile. La vita dell’uomo si sviluppa in una continua dialettica fra «il corpo» e «l’anima». Il termine «tenda» è una metafora è tratta dalla vita nomade per indicare ciò che è passeggero, e dunque adatta al corpo corruttibile (cfr. Is 38,12; Gb 4,19-21; 2Cor 5,4; 2Pt 1,13-14). L’aggettivo «d’argilla» è un’allusione all’origine del corpo secondo Gen 2,7 (cfr. Gen 3,19; Sap 15,8): il corpo, radicato nella terra, solidale con i beni puramente terreni, temporali, transitori, frena il volo della mente verso ciò che è spirituale, celeste, immortale.
Il limite della creatura umana si manifesta nella sua incapacità di conoscere: «A stento immaginiamo le cose della terra, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi ha investigato le cose del cielo?» (v. 16). Come nel v. 14, l’autore adduce la realtà della nostra esperienza (prima persona plurale), che è al tempo stesso universale. L’espressione «le cose della terra» indica ciò che accade sulla terra, ciò che l’uomo può verificare e controllare; essa designa le cose che sono a portata di mano, tangibili, sperimentabili direttamente, visibili, vale a dire ciò che non supera la normale capacità dell’uomo terreno, tutto ciò che dovrebbe essere trasparente e ovvio per lui. Tutte queste cose dovrebbero essere conosciute facilmente. Tuttavia, non è così: solo con notevole sforzo riusciamo ad appropriarci delle cose, dominandole appena con le nostre imperfette capacità. La verità è che ogni giorno sperimentiamo che la realtà ci sfugge di mano. La domanda finale del versetto mette in luce l’impossibilità di investigare, conoscere «le cose del cielo». Che cosa esse siano si può comprendere da Gb 38 o da 4 Esd 4,21 («Gli abitanti della terra possono conoscere soltanto quanto è sopra la terra, gli abitanti del cielo, invece, ciò che è nell’ alto del cielo»). Nel linguaggio biblico il cielo è metaforicamente la dimora di Dio (cfr. v. 10a). Le cose del cielo sarebbero dunque quelle che appartengono all’ambito divino.
Alla debolezza umana però Dio supplisce mandando la sapienza: «Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?» (v. 17). In questo versetto, nel quale convergono quasi tutti i temi toccati dall’autore durante la preghiera, si trovano tre dei grandi temi trattati dal giudaismo postesilico: la volontà di Dio, la sapienza e lo spirito. Il volere di Dio non è altro che la volontà divina, ciò che Dio vuole relativamente all’uomo, e che si può conoscere soltanto se Dio liberamente si rivela o manifesta (cfr. Dt 30,12), e se il Signore concede all’uomo il dono della sapienza (cfr. Bar 3,29): è stato, questo, il leitmotiv di tutto il cap. 9, ma al termine l’autore lo proclama più solennemente, poiché oltre alla sapienza richiede il «santo spirito del Signore». È la prima e l’unica volta che nella preghiera di Salomone appare questa espressione. Secondo il parallelismo, santo spirito equivale alla sapienza del Signore. Già nei precedenti capitoli il rapporto fra sapienza e spirito è stato frequente ed intimo, fino a giungere, almeno in parte, all’identificazione (cfr. 1,5-7; 7,7.22). L’autore riecheggia una tradizione antica in Israele, che passa attraverso i profeti e viene raccolta dai saggi.
Il brano termina con un versetto che si collega strettamente con quello precedente e con l’inizio della preghiera di Salomone: «Così vennero raddrizzati i sentieri di chi è sulla terra; gli uomini furono istruiti in ciò che ti è gradito e furono salvati per mezzo della sapienza» (v. 18). I tre verbi di questo periodo sono all’aoristo con valore gnomico, in quanto il v. 18 conferma la preghiera di Salomone («solo così…»), ma conservano anche il loro valore storico di passato, come dimostrano gli esempi del cap. 10. Gli aoristi sono al passivo, che deve essere inteso come un passivo teologico, dato che in ultima analisi esprimono l’azione di Dio per mezzo del suo spirito e della sua sapienza. Quest’azione di Dio è una forza morale che fa sì che gli uomini camminino rettamente, una luce interiore per cui scoprono quel che è gradito al Signore, quel che Dio si attende da loro e per cui sono infine salvati. Il verbo «salvare» (sôzein) ha qui il significato di liberazione da qualsivoglia pericolo naturale imminente. Esso è sinonimo dei verbi che significano protezione, ecc. (cfr. Sap 10,1.4.5.6.9.12-14). Il termine assume qui però un significato più spirituale, in quanto allo stesso attributo divino, la sapienza, vengono attribuite la creazione (cfr. 7,21; 8,6) e la salvezza. Essa quindi riassume i due aspetti fondamentali dell’unica azione potente e amorevole di Dio, che si manifesta meravigliosamente agli inizi e nella reale storia dell’umanità fin dai suoi inizi.
Linee interpretative
L’autore di questo brano concepisce l’uomo, alla luce della filosofia greca, come un composto di anima e corpo. È al corpo soprattutto che attribuisce il suo limite e la sua incapacità di conoscere le cose di Dio. Per lui il corpo si identifica con quanto che si potrebbe chiamare vita istintiva, forze irrazionali che intorbidano la mente, oscuri impulsi del subconscio, non chiariti o mal razionalizzati. L’anima, identificata con la ragione, è invece il principio spirituale che dà vita al corpo e si eleva spontaneamente al mondo superiore.
Questa visione pessimistica dell’uomo non esclude però un messaggio di speranza, che deriva dal fatto che, nonostante la debolezza dell’uomo, Dio manda su di lui la sapienza, che gli indica il giusto cammino o il modo di vivere conforme alla sua volontà. È quindi mediante la sapienza che si compie nella storia il piano salvifico di Dio. Essa ammaestra non soltanto gli israeliti o i patriarchi, ma anche tutti gli uomini che per suo mezzo acquistano la salvezza e la liberazione, soprattutto dalla morte nel suo significato non solo fisico ma anche spirituale (cfr. Sap 2,24

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