Il Profeta Zaccaria

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SAN ZACCARIA PROFETA
6 SETTEMBRE
VI SECOLO A.C.
Zaccaria fu chiamato al ministero profetico nel 520 a.C. Mediante visioni e parabole, egli annunzia l’invito di Dio a penitenza, condizione perché si avverino le promesse. Le sue profezie riguardano il futuro del rinato Israele, futuro prossimo e futuro messianico. Zaccaria mette in evidenza il carattere spirituale del rinato Israele, la sua santità. L’azione divina in quest’opera di santificazione raggiungerà la sua pienezza col regno del Messia. Questa rinascita è frutto esclusivo dell’amore di Dio e della sua onnipotenza. L’alleanza concretizzata nella promessa messianica fatta a David ripiglia il suo corso a Gerusalemme. La profezia si avverò alla lettera nell’entrata solenne di Gesù nella città santa. Così, insieme a un amore sconfinato verso il suo popolo, Dio unisce un’apertura totale verso le genti, che purificate entreranno a far parte del regno. Appartenente alla tribù di Levi, nato a Galaad e ritornato nella vecchiaia dalla Caldea in Palestina, Zaccaria avrebbe compiuto molti prodigi, accompagnandoli con profezie di contenuto apocalittico, come la fine del mondo e il doppio giudizio divino. Morto in tarda età sarebbe stato sepolto accanto alla tomba del profeta Aggeo. (Avvenire)
Etimologia: Zaccaria = memoria di Dio, dall’aramaico
Martirologio Romano: Commemorazione di san Zaccaria, profeta, che predisse il ritorno del popolo dall’esilio nella terra promessa, dando ad esso l’annuncio di un re di pace, che Cristo Signore attuò mirabilmente nel suo trionfale ingresso nella Città Santa di Gerusalemme.
Zaccaria, il profeta maggiormente citato nel Nuovo Testamento, dopo Isaia, penultimo dei profeti minori, fu chiamato al ministero profetico lo stesso anno di Aggeo, nel 520. Il suo ministero durò probabilmente fino alla costruzione ultimata del tempio di Gerusalemme, tema delle sue esortazioni. Mediante visioni e parabole, egli annunzia l’invito di Dio a penitenza, condizione perché si avverino le promesse: « Così parla il Signore degli eserciti: Convertitevi a me, e io mi rivolgerò a voi ». Le sue profezie riguardano il futuro del rinato Israele, futuro prossimo e futuro messianico. E’ giunta l’ora della benevolenza del Signore verso Israele: il Tempio si avvia alla ricostruzione e stanno per essere riedificate Gerusalemme e le altre città di Giuda, mentre i popoli che hanno gioito per la sua distruzione saranno puniti.
Zaccaria mette in evidenza il carattere spirituale del rinato Israele, la sua santità, realizzata progressivamente, al pari della ricostruzione materiale. L’azione divina in quest’opera di santificazione raggiungerà la sua pienezza col regno del Messia. Questa rinascita è frutto esclusivo dell’amore di Dio e della sua onnipotenza: « Ecco, io libererò il mio popolo. Li ricondurrò ad abitare in Gerusalemme: saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio, nella fedeltà e nella giustizia ». L’alleanza concretizzata nella promessa messianica fatta a David ripiglia il suo corso a Gerusalemme: « Esulta con tutte le tue forze, figlia di Sion, effondi il tuo giubilo, figlia di Gerusalemme. Ecco a te viene il tuo re: egli è giusto e vittorioso, è umile e cavalca un asinello, giovane puledro di una giumenta ». La profezia si avverò alla lettera nell’entrata solenne di Gesù nella città santa. L’asinello, contrapposto al cavallo da guerra, simboleggia l’indole pacifica del re Messia: « Egli annuncerà la pace alle genti; il suo regno si estenderà dall’uno all’altro mare ». Così, insieme a un amore sconfinato verso il suo popolo, Dio unisce un’apertura totale verso le genti, che purificate entreranno a far parte del regno: « Quale felicità, quale bellezza! Il frumento darà vigore ai giovani e il vino dolce alle fanciulle ».
In questo vaticinio, chiaramente messianico, è adombrata l’Eucaristia. Appartenente alla tribù di Levi, nato a Galaad e ritornato nella vecchiaia dalla Caldea in Palestina, Zaccaria avrebbe compiuto molti prodigi, accompagnandoli con profezie di contenuto apocalittico, come la fine del mondo e il doppio giudizio divino. Morto in tarda età sarebbe stato sepolto accanto alla tomba del profeta Aggeo.
Autore: Piero Bargellini
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BRANO BIBLICO SCELTO
SAPIENZA 9,13-18B
1 Quale uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?
14 I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni, 15 perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla grava la mente dai molti pensieri.
16 A stento ci raffiguriamo le cose terrestri, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi può rintracciare le cose del cielo?
17 Chi ha conosciuto il tuo pensiero, se tu non gli hai concesso la sapienza e non gli hai inviato il tuo santo spirito dall’alto?
18 Così furono raddrizzati i sentieri di chi è sulla terra; gli uomini furono ammaestrati in ciò che ti è gradito; essi furono salvati per mezzo della sapienza.
COMMENTO
Sapienza 9,13-18
Il dono della sapienza
Nella seconda sezione del libro (Sap 7,1 – 10,21) è riportata una presentazione ampia e articolata della sapienza in rapporto sia con l’individuo che con il popolo. Questa sezione si divide in tre parti: elogio della sapienza (7,1 – 8,21); preghiera di Salomone per ottenere la sapienza (9,1-18); l’opera della sapienza nella storia di Israele (10,1-21). La preghiera di Salomone termina con il brano, ripreso dalla liturgia, riguardante l’inaccessibilità della sapienza (9,13-18).
Il primo versetto contiene due domande parallele: «Quale uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?» (v. 13). Dal caso particolare di Salomone, si passa all’universalità della natura umana. L’autore si esprime retoricamente con il pronome interrogativo tis, chi, rafforzato da anthrôpos, uomo, e ripetuto poi da solo (cfr. nuovamente i due tis dei vv. 16 e 17). La domanda riguarda la condizione umana nella sua più ampia universalità. Essa verte sulla possibilità di conoscere (gnôsetai, conoscerà, futuro gnomico) la volontà (boulên) di Dio. La boulê di Dio appare sufficientemente determinata dal parallelismo con il successivo: «ciò che Dio vuole», vale a dire la sua volontà, espressa nella legge. L’uomo è troppo limitato nelle sue possibilità (cfr. vv. 5-6) per essere in grado di penetrare il mistero di Dio, e poterne scoprire e comprendere i disegni, anche dopo che sono stati rivelati.
Il versetto successivo contiene invece due affermazioni parallele: «I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni (v. 14). I «mortali» sono gli uomini; nella Bibbia greca il termine è usato solitamente al singolare. Nella letteratura greca si contrappone agli «immortali», che sono gli dèi. L’idea dell’autore riguardo alle nostre possibilità di conoscere la verità nell’ambito morale è piuttosto pessimistica: l’uomo, abbandonato a se stesso, cammina nelle tenebre dell’ignoranza e dell’insicurezza. Nella terminologia platonica si direbbe che, a causa della sua natura materiale, l’uomo non può arrivare più in là delle opinioni.
L’autore passa poi a indicare il motivo della limitatezza umana: «perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla opprime una mente piena di preoccupazioni» (v. 15). L’autore si mantiene fedele alla dicotomia corpo-anima (cfr. 1,4; 8,18-20; 15,8.11.16). La mente (nous) è l’anima stessa in quanto principio pensante. Che il corpo mortale influisca sulla vita psichica dell’uomo è patrimonio comune di tutte le scuole filosofiche; ogni tendenza pura, o pensiero elevato, spiritualizzante, è sempre stato attribuito all’anima umana, e ogni moto legato al mondo materiale è stato imputato al corpo corruttibile. La vita dell’uomo si sviluppa in una continua dialettica fra «il corpo» e «l’anima». Il termine «tenda» è una metafora è tratta dalla vita nomade per indicare ciò che è passeggero, e dunque adatta al corpo corruttibile (cfr. Is 38,12; Gb 4,19-21; 2Cor 5,4; 2Pt 1,13-14). L’aggettivo «d’argilla» è un’allusione all’origine del corpo secondo Gen 2,7 (cfr. Gen 3,19; Sap 15,8): il corpo, radicato nella terra, solidale con i beni puramente terreni, temporali, transitori, frena il volo della mente verso ciò che è spirituale, celeste, immortale.
Il limite della creatura umana si manifesta nella sua incapacità di conoscere: «A stento immaginiamo le cose della terra, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi ha investigato le cose del cielo?» (v. 16). Come nel v. 14, l’autore adduce la realtà della nostra esperienza (prima persona plurale), che è al tempo stesso universale. L’espressione «le cose della terra» indica ciò che accade sulla terra, ciò che l’uomo può verificare e controllare; essa designa le cose che sono a portata di mano, tangibili, sperimentabili direttamente, visibili, vale a dire ciò che non supera la normale capacità dell’uomo terreno, tutto ciò che dovrebbe essere trasparente e ovvio per lui. Tutte queste cose dovrebbero essere conosciute facilmente. Tuttavia, non è così: solo con notevole sforzo riusciamo ad appropriarci delle cose, dominandole appena con le nostre imperfette capacità. La verità è che ogni giorno sperimentiamo che la realtà ci sfugge di mano. La domanda finale del versetto mette in luce l’impossibilità di investigare, conoscere «le cose del cielo». Che cosa esse siano si può comprendere da Gb 38 o da 4 Esd 4,21 («Gli abitanti della terra possono conoscere soltanto quanto è sopra la terra, gli abitanti del cielo, invece, ciò che è nell’ alto del cielo»). Nel linguaggio biblico il cielo è metaforicamente la dimora di Dio (cfr. v. 10a). Le cose del cielo sarebbero dunque quelle che appartengono all’ambito divino.
Alla debolezza umana però Dio supplisce mandando la sapienza: «Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?» (v. 17). In questo versetto, nel quale convergono quasi tutti i temi toccati dall’autore durante la preghiera, si trovano tre dei grandi temi trattati dal giudaismo postesilico: la volontà di Dio, la sapienza e lo spirito. Il volere di Dio non è altro che la volontà divina, ciò che Dio vuole relativamente all’uomo, e che si può conoscere soltanto se Dio liberamente si rivela o manifesta (cfr. Dt 30,12), e se il Signore concede all’uomo il dono della sapienza (cfr. Bar 3,29): è stato, questo, il leitmotiv di tutto il cap. 9, ma al termine l’autore lo proclama più solennemente, poiché oltre alla sapienza richiede il «santo spirito del Signore». È la prima e l’unica volta che nella preghiera di Salomone appare questa espressione. Secondo il parallelismo, santo spirito equivale alla sapienza del Signore. Già nei precedenti capitoli il rapporto fra sapienza e spirito è stato frequente ed intimo, fino a giungere, almeno in parte, all’identificazione (cfr. 1,5-7; 7,7.22). L’autore riecheggia una tradizione antica in Israele, che passa attraverso i profeti e viene raccolta dai saggi.
Il brano termina con un versetto che si collega strettamente con quello precedente e con l’inizio della preghiera di Salomone: «Così vennero raddrizzati i sentieri di chi è sulla terra; gli uomini furono istruiti in ciò che ti è gradito e furono salvati per mezzo della sapienza» (v. 18). I tre verbi di questo periodo sono all’aoristo con valore gnomico, in quanto il v. 18 conferma la preghiera di Salomone («solo così…»), ma conservano anche il loro valore storico di passato, come dimostrano gli esempi del cap. 10. Gli aoristi sono al passivo, che deve essere inteso come un passivo teologico, dato che in ultima analisi esprimono l’azione di Dio per mezzo del suo spirito e della sua sapienza. Quest’azione di Dio è una forza morale che fa sì che gli uomini camminino rettamente, una luce interiore per cui scoprono quel che è gradito al Signore, quel che Dio si attende da loro e per cui sono infine salvati. Il verbo «salvare» (sôzein) ha qui il significato di liberazione da qualsivoglia pericolo naturale imminente. Esso è sinonimo dei verbi che significano protezione, ecc. (cfr. Sap 10,1.4.5.6.9.12-14). Il termine assume qui però un significato più spirituale, in quanto allo stesso attributo divino, la sapienza, vengono attribuite la creazione (cfr. 7,21; 8,6) e la salvezza. Essa quindi riassume i due aspetti fondamentali dell’unica azione potente e amorevole di Dio, che si manifesta meravigliosamente agli inizi e nella reale storia dell’umanità fin dai suoi inizi.
Linee interpretative
L’autore di questo brano concepisce l’uomo, alla luce della filosofia greca, come un composto di anima e corpo. È al corpo soprattutto che attribuisce il suo limite e la sua incapacità di conoscere le cose di Dio. Per lui il corpo si identifica con quanto che si potrebbe chiamare vita istintiva, forze irrazionali che intorbidano la mente, oscuri impulsi del subconscio, non chiariti o mal razionalizzati. L’anima, identificata con la ragione, è invece il principio spirituale che dà vita al corpo e si eleva spontaneamente al mondo superiore.
Questa visione pessimistica dell’uomo non esclude però un messaggio di speranza, che deriva dal fatto che, nonostante la debolezza dell’uomo, Dio manda su di lui la sapienza, che gli indica il giusto cammino o il modo di vivere conforme alla sua volontà. È quindi mediante la sapienza che si compie nella storia il piano salvifico di Dio. Essa ammaestra non soltanto gli israeliti o i patriarchi, ma anche tutti gli uomini che per suo mezzo acquistano la salvezza e la liberazione, soprattutto dalla morte nel suo significato non solo fisico ma anche spirituale (cfr. Sap 2,24
8 SETTEMBRE 2013 | 23A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C | PROPOSTA DI LECTIO DIVINA
LECTIO DIVINA SU: LC 14, 25-33
Dopo aver trascorso del tempo predicando in Galilea, Gesù aveva raccolto un certo successo. Circondato costantemente da un gruppo di discepoli, veniva cercato da persone che volevano sentirlo parlare di Dio ed essere curate dai propri mali. Ad un certo punto, sulla strada per Gerusalemme, Gesù volle approfittare del fatto che una grande moltitudine lo seguiva per avvertire i suoi discepoli più vicini, del prezzo che devono pagare quelli che lo seguono. In questo modo indicava a tutti, alla gente così come ai suoi discepoli, che, per cercarlo, non basta avere bisogno di lui e che, per seguirlo, non è sufficiente rallegrarsi di poter trarre qualche profitto. Piuttosto al contrario, le conseguenze della sequela sono estremamente gravose. Anticipandole, Gesù ha voluto che i suoi discepoli si prendessero del tempo prima di decidere se proseguire con lui. E questo perché non voleva, né vuole, essere seguito da incoscienti che non sanno dove vanno né a cosa sono chiamati se proseguono il cammino dietro di lui. A Gesù non interessava che i suoi discepoli fossero molti, ma che si rendessero responsabili delle conseguenze sì. E che fossero liberi di seguirlo.
In quel tempo, 25 una folla numerosa andava con lui; Egli si voltò e disse loro:
26 « Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo.
27 Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.
28 Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? 29 Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, 30 dicendo: « Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro ». 31 Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila?32 Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace.
33 Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.
1. LEGGERE: capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice
Deve attirare la nostra attenzione il fatto che un giorno Gesù abbia indirizzato un’istruzione tanto dura, estremamente esigente, sulla sequela a quanti, discepoli o meno, condividevano il cammino con lui. Gli bastò sentirsi accompagnato da una moltitudine, per metterla in guardia sulle condizioni che deve accettare chiunque desideri essere un suo discepolo. La gente che camminava con lui lo stava già seguendo. Gesù, a quanto pare, non si accontentava di essere semplicemente accompagnato. Voleva più grandi, inaudite, rinunce. E lo disse loro in faccia, « voltandosi » verso di loro.
Sono tre le condizioni che pone alla gente e lo fa in forma lapidaria, senza girarci attorno e senza eufemismi. Inoltre, ed è significativo, tutte e tre sono formulate in negativo: non può essere discepolo chi non lo preferisce a chiunque altro (Lc 14,26), chi non porta la propria croce (Lc 14,27), chi non rinuncia a tutto ciò che possiede (Lc 14,33). Chi non fosse capace di adempiere a tutte e tre, non può nemmeno sognarsi di seguirlo, per quanto, di fatto, già lo stia seguendo.
Unicamente la prima richiesta di Gesù, la più elaborata e innaturale, è una condizionale. Nessun dovere, per sacrosanto che sia, deve essere più vincolante della scelta di essergli compagno: seguirlo rende secondario amare genitori, fratelli e, perfino, se stessi. Bisogna notare che il primato d’amore che Gesù merita non è a priori né a posteriori, ma simultaneo: non bisogna smettere di amare la famiglia per poi accompagnare Gesù; né bisogna seguire Gesù per riuscire, dopo, ad amarlo più che i propri cari. Mentre lo accompagna il cuore del discepolo non può mantenere allo stesso livello altri affetti, tanto naturali e sacri come l’amore per la famiglia e per se stessi.
La seconda e la terza richiesta di Gesù sono brevi, entrambe in negativo: può seguirlo chi può caricarsi della sua croce e rinunciare ai propri beni. Due dettagli non insignificanti non devono passare inosservati, perché portano qualche novità. La croce che bisogna portare è la propria, ma bisogna portarla dietro di lui: non è una croce qualsiasi, è la croce che porta chi lo segue, la croce che si ottiene per seguirlo. La rinuncia ai beni non è generica, né è un proposito per il futuro: i beni sono quelli che si possiedono, i propri, senza escluderne nessuno. La rinuncia è totale.
Davanti a una simile pretesa Gesù invita, con una doppia similitudine (il costruttore di una torre, il re in guerra), a fermarsi a pensare se vale la pena intraprendere un cammino che può risolversi male o senza una conclusione. Quanto più elevato è il prezzo da pagare, tanta più prudenza richiede fare l’affare. Gesù non vuole discepoli entusiasti ma poco lucidi.
2. MEDITARE: applicare alla vita quello che dice il testo!
Molti fra coloro che accompagnavano Gesù a Gerusalemme non potevano sospettare cosa lo aspettava. Gesù fa una pausa durante il cammino per avvertirli: da adesso in avanti, non deve accompagnarlo chi vuole, e nemmeno chi è stato chiamato da lui, ma solo coloro che sono disposti a pagare il prezzo dovuto. Non smette di sorprendere che questo lo dica a una moltitudine che già lo sta seguendo e non a pochi, i suoi discepoli più vicini. Quando radicalizza le sue pretese, amplia l’uditorio; essendo la sua richiesta tanto drastica, la rende opzionale. D’ora in avanti lo seguiranno solo coloro che saranno così liberi da poter rinunciare al meglio di ciò che hanno, tutta la loro famiglia e i loro beni, tutti. Bisogna ringraziare Gesù di non essersi imposto nell’imporre delle condizioni così sovraumane, di averci lasciato liberi quando ci chiede di liberarci da tutto ciò che abbiamo di più caro. Gesù ha reso « opzionale » la sequela, quando ha annunciato quanto sarebbe venuta a costare. Gesù ha esteso a tutti la possibilità di seguirlo, quando ha posto le condizioni per farlo. Chi non è capace di rinunciare al massimo (tutta la famiglia e tutto quello che si possiede), non può seguire il suo Signore.
E Gesù, anticipando ciò che sarebbe stato loro richiesto, ha voluto che coloro che lo seguivano si prendessero del tempo prima di decidere di continuare il cammino con lui; e questo perché non desiderava, né desidera, essere seguito da incoscienti che non sanno dove vanno né a cosa sono chiamati se continuano il cammino dietro di lui; a Gesù non importava che fossero molti i suoi discepoli, ma che si rendessero responsabili delle conseguenze sì.
Quello che Gesù chiede a chi desidera seguirlo, detto senza eufemismi, è una barbarità. Per quanto possiamo abbassare il radicalismo delle sue parole, non è accettabile che, per arrivare ad essere suoi meri discepoli, ci chieda – e come condizione a priori! – che amiamo i nostri cari meno di lui. Nemmeno Dio, nel decalogo, aveva osato tanto; è vero che Dio ci comandò di amarlo in primo luogo e sopra tutte le cose, ma ci obbligò anche ad amare i nostri genitori e il prossimo come noi stessi. Aspettandosi che si preferisca lui a chiunque altro, Gesù pretende dai suoi discepoli molto di più di quanto un maestro è solito – e può – chiedere; esigendo un amore tanto esclusivo quanto escludente, condanna chi vuole seguirlo a non perseguire altri affetti per degni e necessari che siano.
Che l’amore paterno o filiale, l’amore dei fratelli e quello degli sposi debba cedere davanti all’amore che si deve a lui come maestro è una pretesa inaudita, anche se fosse possibile. Non è, certamente, un requisito normale, né facile da adempire. Per quanto sia vero che Gesù non impone di rinunciare a qualsiasi affetto, è insolito che esiga da coloro che lo seguono di essere amato da loro più dei loro cari; non si accontenta di essere una in più fra le persone stimate dai suoi, deve essere il primo e il principale fra queste. Il discepolo non può nemmeno amare se stesso più del suo Signore: la stessa vita del discepolo non vale tanto quanto l’amore per il suo maestro. E che si tratti di una condizione opzionale, rende più libera la decisione di seguirlo, ma non facilita minimamente la sequela.
Se restasse qualche dubbio, per tagliare alla radice qualsiasi scusa, aggiunge in seguito che non è degno di seguirlo chi non lo segua caricandosi della sua croce. Che seguire chi, sulla strada per Gerusalemme, cammina verso la sua croce, impone di seguirlo con la propria, lo aveva già ripetuto ai suoi varie volte (Lc 9,22-23.44). Non solo Gesù si aspetta dai suoi discepoli che gli siano fedeli quando arriverà il momento della sofferenza; chiede anche che percorrano questo cammino ciascuno con la propria croce. Non basta, perciò, che la croce di Gesù non ci provochi scandalo e diserzione; più precisamente, sarà suo compagno solo chi prende la propria croce. Seguire colui che sta per essere crocifisso richiede di portare la propria croce. Gesù non pretende dai suoi che lo seguano fino al Calvario, fino a che camminano con lui sopportando le loro croci. Chi segue qualcuno che sta per essere crocifisso non può uscirne indenne: sbarazzandosi del dolore che dà la croce non si cammina dietro Gesù.
Per quanto possa sembrarci dura, la pretesa continua ad essere logica: il discepolo non è più del suo maestro; il cristiano non può uscirne meglio di Cristo; la vita del discepolo deve seguire la via percorsa dal suo Signore. Chi prova repulsione per la croce e la rifiuta, chi non è disposto ad accettarla e non si carica del suo peso, può anche essere una bellissima persona, ma non arriverà ad essere un buon discepolo. Non è la croce di Cristo quella che bisogna portare: quella – piccola, come un giochino – la portiamo già tutti, senza che ci pesi; bisogna caricarsi della propria, quella che ci provoca tanto dolore perché è solo nostra. Gesù ha ridotto il suo magistero all’assunzione della croce; chi si carica di questo peso è suo discepolo.
Le condizioni sono così radicali che lo stesso Gesù invita chi pensa di seguirlo a prendersi del tempo e a pensarci senza fretta. Per questo aggiunge due brevi parabole che insistono sulla necessità di misurare le proprie forze prima di prendere la decisione di seguirlo. Proprio perché vuole una decisione cosciente da chi lo segue, non vuole che lo si segua alla cieca, bisogna valutare se si hanno sufficienti energie per essere all’altezza della pretesa. Non si può dire che Gesù non ci abbia avvisato. Bisogna prenderlo sul serio quando ci esorta a prenderci del tempo per pensare e verificare se realmente abbiamo la capacità sufficiente – come quella del costruttore – e le forze disponibili – come quelle del re. Nel cammino di discepolato Gesù ha stabilito due tappe: la prima, quella del « seguimi » iniziale, e la seconda, quella del « se qualcuno vuole seguirmi ». Fino alla prima tappa basterebbero l’attrazione personale e la curiosità che suscita la sua persona; nella seconda restano solo coloro che rimarranno senza niente pur di non perderlo. Dove mi trovo io? Continuo ad essere affascinato da Gesù per quello che dice e quello che fa? O seguo Gesù perché ho già lasciato quello che avevo? Posso dire che seguirlo mi sta costando qualcosa, che sto rinunciando a qualcuno per poter restare con lui? Saprò quanto per me è « prezioso » seguire Gesù quando saprò qual è il prezzo che devo pagare per seguirlo.
Non basta dunque la buona volontà, per tanta che se en abbia. Bisogna che siano sufficienti i mezzi e le forze. Gesù non vuole ingannare quanti lo seguono con false promesse né nascondendo loro la verità: desidera che i suoi discepoli, prima di decidere, conoscano le conseguenze e si assumano i rischi. Proprio perché pretenderà troppo da coloro che lo seguono, li vuole coscienti e liberi. È una delicatezza da parte sua, di cui dovremmo ringraziare, accogliendo il suo invito a pensarci con calma. Gesù non vuole discepoli che assomiglino all’uomo che ha cominciato a edificare senza avere la certezza che finirà l’opera; per non aver valutato prima se disponeva di tutto il necessario, rimase con la casa a metà; tutto ciò che ottenne fu apparire ridicolo agli occhi dei suoi conoscenti. Più grave il caso del re che condusse una guerra senza nemmeno immaginare che il suo avversario poteva arrivare meglio preparato alla battaglia; ne uscì sconfitto non perché non avesse forze sufficienti ma perché non aveva previsto che i suoi antagonisti ne avrebbero avute altrettante; perse il regno per non essere stato prudente e non aver sfruttato i mezzi che aveva. Gesù vorrebbe risparmiare ai suoi la vergogna che verrebbe loro lasciando le cose a metà e il disastro di non vincere la battaglia decisiva. Per questo ci avvisa che non sarà facile seguirlo; per questo vuole sapere se abbiamo tutto quello che serve per finire quello che iniziamo, quando ci lanciamo dietro di lui. Invece di accontentarsi che lo seguiamo, ci chiede se potremo seguirlo o, meglio ancora, insiste perché noi ce lo chiediamo.
Con i suoi avvertimenti ci lascia intendere che è cosciente di quanto estreme sono le sue pretese; prima che noi le proviamo sulla nostra pelle, ci permette di conoscerle e vedere se siamo in grado di accettarle. Gesù non vuole vedersi circondato da gente con molte illusioni e scarsa responsabilità, che sia stata entusiasmata dalle sue promesse senza avere accettato le sue condizioni; né vuole essere seguito da persone che, dopo, si sentano ingannate, per essersi impegnate con lui senza conoscere i costi della sequela. La sequela di Gesù è una questione importante e deve essere affrontata con serietà; quello che ci chiede non è poco e non è comodo, e Gesù ci ha dato un po’ di tempo per riflettere prima di accettarlo.
E davvero c’è bisogno di pensarci. Prima di chiederci di valutare se ne siamo capaci, aveva già chiesto ai suoi discepoli che non amassero nessuno più di lui: nessuna delle persone a noi più care deve essere più importante di lui. Dopo averci dato del tempo per riflettere, esige che non possediamo altro bene all’infuori di lui: l’alienazione da tutti i beni può sembrarci impossibile, ma è condizione ineludibile per la sequela. Così come non sopporta che condividiamo il nostro cuore con le persone amate, non permette che teniamo in considerazione cose buone che lo sono davvero ma che non fanno di lui il nostro maggior bene. Possiamo capire allora l’impegno affinché non prendiamo alla leggera la scelta della sequela, perché non sono leggere le sue imposizioni: dal discepolo Gesù si aspetta che non ami nessuno quanto lui, si aspetta di essere considerato il primo dei nostri affetti e il maggiore dei nostri beni. Alto prezzo per essere un semplice discepolo! Proprio per questo faremmo bene a pensarci un po’ di più.
Accompagnare Gesù impone la rinuncia ai beni più grandi di questa vita. Gesù non vuole essere spartito con altre passioni per quanto siano buone e naturali. Lui è il meglio – meglio della migliore fra le famiglie, più grande dei beni più grandi – che i suoi discepoli devono possedere. Solo chi è capace di rinunciare, sa che ama; e chi ama, rinuncia senza soffrire nel lasciare ciò che è buono, perché ottiene così qualcosa – qualcuno – di migliore. Con che capacità di rinuncia vivo la mia vita cristiana? Cristo è per me la ragione sufficiente per porre al secondo posto ciò che di buono ho nella mia vita?
Non si può negare che le condizioni che pone Gesù, quando rende opzionale la sequela, siano quasi inumane. Superata la sorpresa, il discepolo sa contare sul suo maestro come unico bene e viatico, se per lui non contano niente le altre cose e le altre persone. Bisognerà pensarci due volte, prima di dichiararsi disposti a seguirlo a tutti i costi. Ma non c’è dubbio che varrà la pena – e la croce – avere Gesù come compagno e guida nella vita. A chi lo segue Gesù chiede più amore di quello che si sente per la propria famiglia, più attaccamento di quello che si ha verso ciò che è buono e bello. Non chiede che odiamo coloro che amiamo e che non possediamo i beni che ci sono dati; solo – solo? – che non amiamo nessuno più di lui e non diamo per buono nulla che non sia lui.
JUAN JOSE BARTOLOME sdb,