Archive pour le 4 septembre, 2013

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5 SETTEMBRE: MADRE TERESA DI CALCUTTA (1910-1997)

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5 SETTEMBRE: MADRE TERESA DI CALCUTTA (1910-1997)

BIOGRAFIA

“ Sono albanese di sangue, indiana di cittadinanza. Per quel che attiene alla mia fede, sono una suora cattolica. Secondo la mia vocazione, appartengo al mondo. Ma per quanto riguarda il mio cuore, appartengo interamente al Cuore di Gesù”.Di conformazione minuta, ma di fede salda quanto la roccia, a Madre Teresa di Calcutta fu affidata la missione di proclamare l’amore assetato di Gesù per l’umanità, specialmente per i più poveri tra i poveri. “Dio ama ancora il mondo e manda me e te affinché siamo il suo amore e la sua compassione verso i poveri”. Era un’anima piena della luce di Cristo, infiammata di amore per Lui e con un solo, ardente desiderio: “saziare la Sua sete di amore e per le anime”.
Questa luminosa messaggera dell’amore di Dio nacque il 26 agosto 1910 a Skopje, città situata al punto d’incrocio della storia dei Balcani. La più piccola dei cinque figli di Nikola e Drane Bojaxhiu, fu battezzata Gonxha Agnes, ricevette la Prima Comunione all’età di cinque anni e mezzo e fu cresimata nel novembre 1916. Dal giorno della Prima Comunione l’amore per le anime entrò nel suo cuore. L’improvvisa morte del padre, avvenuta quando Agnes aveva circa otto anni, lasciò la famiglia in difficoltà finanziarie. Drane allevò i figli con fermezza e amore, influenzando notevolmente il carattere e la vocazione della figlia. La formazione religiosa di Gonxha fu rafforzata ulteriormente dalla vivace parrocchia gesuita del Sacro Cuore, in cui era attivamente impegnata.
All’età di diciotto anni, mossa dal desiderio di diventare missionaria, Gonxha lasciò la sua casa nel settembre 1928, per entrare nell’Istituto della Beata Vergine Maria, conosciuto come “le Suore di Loreto”, in Irlanda. Lì ricevette il nome di suor Mary Teresa, come Santa Teresa di Lisieux. In dicembre partì per l’India, arrivando a Calcutta il 6 gennaio 1929. Dopo la Professione dei voti temporanei nel maggio 1931, Suor Teresa venne mandata presso la comunità di Loreto a Entally e insegnò nella scuola  per ragazze, St. Mary. Il 24 maggio 1937 suor Teresa fece la Professione dei voti perpetui, divenendo, come lei stessa disse: “la sposa di Gesù” per “tutta l’eternità”. Da quel giorno fu sempre chiamata Madre Teresa. Continuò a insegnare a St. Mary e nel 1944 divenne la direttrice della scuola. Persona di profonda preghiera e amore intenso per le consorelle e per le sue allieve, Madre Teresa trascorse i venti anni della sua vita a “Loreto” con grande felicità. Conosciuta per la sua carità, per la generosità e il coraggio, per la propensione al duro lavoro e per l’attitudine naturale all’organizzazione, visse la sua consacrazione a Gesù, tra le consorelle, con fedeltà e gioia.
Il 10 settembre 1946, durante il viaggio in treno da Calcutta a Darjeeling per il ritiro annuale, Madre Teresa ricevette l’“ispirazione”, la sua “chiamata nella chiamata”. Quel giorno, in che modo non lo raccontò mai, la sete di Gesù per amore e per le anime si impossessò del suo cuore, e il desiderio ardente di saziare la Sua sete divenne il cardine della sua esistenza. Nel corso delle settimane e dei mesi successivi, per mezzo di locuzioni e visioni interiori, Gesù le rivelò il desiderio del suo Cuore per “vittime d’amore” che avrebbero “irradiato il suo amore sulle anime.” ”Vieni, sii la mia luce”, la pregò. “Non posso andare da solo” Le rivelò la sua sofferenza nel vedere l’incuria verso i poveri, il suo dolore per non essere conosciuto da loro e il suo ardente desiderio per il loro amore. Gesù chiese a Madre Teresa di fondare una comunità religiosa, le Missionarie della Carità, dedite al servizio dei più poveri tra i poveri. Circa due anni di discernimento e verifiche trascorsero prima che Madre Teresa ottenesse il permesso di cominciare la sua nuova missione. Il 17 agosto 1948, indossò per la prima volta il sari bianco bordato d’azzurro e oltrepassò il cancello del suo amato convento di “Loreto” per entrare nel mondo dei poveri.
Dopo un breve corso con le Suore Mediche Missionarie a Patna, Madre Teresa rientrò a Calcutta e trovò un alloggio temporaneo presso le Piccole Sorelle dei Poveri. Il 21 dicembre andò per la prima volta nei sobborghi: visitò famiglie, lavò le ferite di alcuni bambini, si prese cura di un uomo anziano che giaceva ammalato sulla strada e di una donna che stava morendo di fame e di tubercolosi. Iniziava ogni giornata con Gesù nell’Eucaristia e usciva con la corona del Rosario tra le mani, per cercare e servire Lui in coloro che sono “non voluti, non amati, non curati”. Alcuni mesi più tardi si unirono a lei, l’una dopo l’altra, alcune sue ex allieve.
Il 7 ottobre 1950 la nuova Congregazione delle Missionarie della Carità veniva riconosciuta ufficialmente nell’Arcidiocesi di Calcutta. Agli inizi del 1960 Madre Teresa iniziò a inviare le sue sorelle in altre parti dell’India. Il Diritto Pontificio concesso alla Congregazione dal Papa Paolo VI nel febbraio 1965 la incoraggiò ad aprire una casa di missione in Venezuela. Ad essa seguirono subito altre fondazioni a Roma e in Tanzania e, successivamente, in tutti i continenti. A cominciare dal 1980 fino al 1990, Madre Teresa aprì case di missione in quasi tutti i paesi comunisti, inclusa l’ex Unione Sovietica, l’Albania e Cuba.
Per rispondere meglio alle necessità dei poveri, sia fisiche, sia spirituali, Madre Teresa fondò nel 1963 i Fratelli Missionari della Carità; nel 1976 il ramo contemplativo delle sorelle, nel 1979 i Fratelli contemplativi, e nel 1984 i Padri Missionari della Carità. Tuttavia la sua ispirazione non si limitò soltanto alle vocazioni religiose. Formò i Collaboratori di Madre Teresa e i Collaboratori Ammalati e Sofferenti, persone di diverse confessioni di fede e nazionalità con cui condivise il suo spirito di preghiera, semplicità, sacrificio e il suo apostolato di umili opere d’amore. Questo spirito successivamente portò alla fondazione dei Missionari della Carità Laici. In risposta alla richiesta di molti sacerdoti, nel 1991 Madre Teresa dette vita anche al Movimento Corpus Christi per Sacerdoti come una “piccola via per la santità” per coloro che desideravano condividere il suo carisma e spirito.
In questi anni di rapida espansione della sua missione, il mondo cominciò a rivolgere l’attenzione verso Madre Teresa e l’opera che aveva avviato. Numerose onorificenze, a cominciare dal Premio indiano Padmashri nel 1962 e dal rilevante Premio Nobel per la Pace nel 1979, dettero onore alla sua opera, mentre i media cominciarono a seguire le sue attività con interesse sempre più crescente. Tutto ricevette, sia i riconoscimenti sia le attenzioni, “per la gloria di Dio e in nome dei poveri”.
L’intera vita e l’opera di Madre Teresa offrirono testimonianza della gioia di amare, della grandezza e della dignità di ogni essere umano, del valore delle piccole cose fatte fedelmente e con amore, e dell’incomparabile valore dell’amicizia con Dio. Ma vi fu un altro aspetto eroico di questa grande donna di cui si venne a conoscenza solo dopo la sua morte. Nascosta agli occhi di tutti, nascosta persino a coloro che le stettero più vicino, la sua vita interiore fu contrassegnata dall’esperienza di una profonda, dolorosa e permanente sensazione di essere separata da Dio, addirittura rifiutata da Lui, assieme a un crescente desiderio di Lui. Chiamò la sua prova interiore: “l’oscurità”. La “dolorosa notte” della sua anima, che ebbe inizio intorno al periodo in cui aveva cominciato il suo apostolato con i poveri e perdurò tutta la vita, condusse Madre Teresa a un’unione ancora più profonda con Dio. Attraverso l’oscurità partecipò misticamente alla sete di Gesù, al suo desiderio, doloroso e ardente, di amore, e condivise la desolazione interiore dei poveri.
Durante gli ultimi anni della sua vita, nonostante i crescenti seri problemi di salute, Madre Teresa continuò a guidare la sua Congregazione e a rispondere alle necessità dei poveri e della Chiesa. Nel 1997 le suore di Madre Teresa erano circa 4.000, presenti nelle 610 case di missione sparse in 123 paesi del mondo. Nel marzo 1997 benedisse la neo-eletta nuova Superiora Generale delle Missionarie della Carità e fece ancora un viaggio all’estero. Dopo avere incontrato il Papa Giovanni Paolo II per l’ultima volta, rientrò a Calcutta e trascorse le ultime settimane di vita ricevendo visitatori e istruendo le consorelle. Il 5 settembre 1997 la vita terrena di Madre Teresa giunse al termine. Le fu dato l’onore dei funerali di Stato da parte del Governo indiano e il suo corpo fu seppellito nella Casa Madre delle Missionarie della Carità. La sua tomba divenne ben presto luogo di pellegrinaggi e di preghiera per gente di ogni credo, poveri e ricchi, senza distinzione alcuna. Madre Teresa ci lascia un testamento di fede incrollabile, speranza invincibile e straordinaria carità. La sua risposta alla richiesta di Gesù: “Vieni, sii la mia luce”, la rese Missionaria della Carità, “Madre per i poveri”, simbolo di compassione per il mondo e testimone vivente dell’amore assetato di Dio.
Meno di due anni dopo la sua morte, a causa della diffusa fama di santità e delle grazie ottenute per sua intercessione, il Papa Giovanni Paolo II permise l’apertura della Causa di Canonizzazione. Il 20 dicembre 2002 approvò i decreti sulle sue virtù eroiche e sui miracoli.

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ROSH HASHANÀ, L’ARTE DELLA PREGHIERA E DELL’ASCOLTO

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ROSH HASHANÀ, L’ARTE DELLA PREGHIERA E DELL’ASCOLTO

DI: DANIELA ABRAVANEL

27/09/2011

Rosh Hashanà è da  molti celebrato come una ‘festa’ e incentrato sulla cena in cui le famiglie si ritrovano in un’atmosfera gioiosa e purtroppo spesso poco consapevole della serietà di quel giorno definito dai maestri come Yom Ha Din, il giorno in cui Dio decide ‘chi vivrà’, chi sarà sano e sereno, chi dovrà perire nella guerra. Non per altro, Rosh Hashana è vissuto dai cabalisti come il giorno di più drammatica rilevanza del calendario ebraico, forse anche più dell’Yom Kippur nel quale Dio invece appare nel Suo volto di compassione e misericordia.
In realtà, anche la cena di Rosh Hashanà dovrebbe essere un vero rito alchemico che ci permette di ‘assaggiare’, di entrare in contatto,  attraverso il cibo, con la ‘Bontà di Dio: non è forse scritto ‘tamu u reu et Hashem ki tov’, assaporate e vedete quanto è buono Hashem ? Di fatto ogni volta che ci nutriamo consapevolmente possiamo entrare in contatto con quell’aspetto di Dio che amorevolmente ci sostiene, ma a Rosh Hashana l’assaporare i ‘simanim’, i cibi rituali, diventa un canale che ci permette di sperimentare la disponibilità di Dio a concederci un anno di bontà, una chance di ricominciare a nuovo, ripuliti dalla memoria dei traumi inscritti nella nostra psiche: di ‘addolcirci’ il palato, con il miele ad esempio, da tutte  le amarezze accumulate nell’anno passato.
Tuttavia affinché il rito possa avere il suo effetto deve essere svolto con vera kavanà: l’atto dell’assaporare deve essere una meditazione, un’operazione alchemica realizzata attraverso il senso del gusto – uno dei dodici hushim, sensi spirituali descritti dal Libro della Formazione. Cosa che difficilmente può avvenire, ovviamente, nell’atmosfera di spensieratezza che caratterizza a volte le cene festive ebraiche.
Non solo. Affinché sia possibile il rinnovamento che il seder di Rosh Hashanà mette in moto, esso deve essere seguito da ore di immersione nella preghiera, nella riflessione, nella teshuvà , ispirate dall’ascolto dello Shofar – il dono divino, il potentissimo strumento dato da Dio al popolo ebraico per risvegliare l’anima,  per darle vigore e direzione, al fine di poter fare le giuste scelte nell’anno a venire.
Troppe persone purtroppo non vivono l’esperienza di risveglio e di rinnovamento procurata dallo Shofar perché non frequentano la sinagoga durante il capodanno ebraico. Infatti la lunghissima liturgia del capodanno, per chi non sa l’ebraico, provoca una resistenza, una demotivazione e un’inevitabile perdita di concentrazione nel vitale lavoro spirituale che dovrebbe avvenire a Rosh Hashanà per tutti gli ebrei, senza esclusione di sorta. Si prega niente meno che per la Vita…in ogni possibile senso…
Per chi decidesse di andare in sinagoga, almeno per ascoltare lo Shofar, vorrei dare un’indicazione importante sulla kavanà da avere durante il suono dello Shofar. All’inizio, quando il suono è strozzato e esce con difficoltà dal corno dell’ariete, lo Shofar ha il potere di riconnetterci a livello superconscio al nostro ‘zar’ personale, alle frustranti ristrettezze emotive, economiche o di salute che sperimentiamo. Attraverso il vissuto consapevole di quel profondo disagio, risvegliato dallo Shofar, possiamo accedere alla spinta trasformativa che deriva proprio dalla nostra personale  sofferenza –rimossa da pesanti strati di inconsapevolezza e  negazione dei bisogni più profondi e  autentici della nostra anima.
Quando finalmente il suono fuoriesce dal corno dell’ariete con tutta la sua potenza, fa riecheggiare in noi il potere della libertà, dell’emancipazione dalle ristrettezze in cui viviamo a causa dei condizionamenti automatici che ci imprigionano. Allora lo Shofar diventa lo strumento di comunicazione, potente e trasformatore del divino che ci parla e ci rivela il nostro percorso personale verso la redenzione, immettendo nel nostro superconscio quel seme che ci porterà  a realizzare la nostra missione unica e personale. Non dimentichiamo, infatti, che il termine Shofar contiene le stesse lettere della parola Shipur, perfezionamento…
Un altro brevissimo consiglio, per chi non sapesse l’ebraico e volesse partecipare alle preghiere in sinagoga, è ricordarsi che il libro di preghiera è stato composto dai maestri affinché fosse una fonte di ispirazione e non una prigione. Così come i maestri hassidici che dimenticavano il testo delle preghiere recitavano l’Alef Bet e chiedevano a Dio di mettere insieme le lettere e comporvi delle preghiere, sono certa che chi saprà pregare dal cuore, dal ‘cuore risvegliato’ dal suono dello Shofar potrà comunque raggiungere con le sue parole, il ‘trono di gloria’.
Per rassicurare chi si sente intimidito ad andare in sinagoga senza conoscere i testi liturgici e a instaurarvi un dialogo personale con Dio,  vorrei proporre alcuni insegnamenti dei più grandi maestri dell’ebraismo riguardo alla preghiera personale e spontanea.

La preghiera personale
Il Talmud ci insegna che gli antichi ebrei meditavano un’ora prima di pregare, per ritrovare se stessi,  per fare heshbon nefesh, un’onesta valutazione delle loro imperfezioni, dei dubbi o dei punti di forza e delle loro priorità esistenziali. Per sentirsi consapevolmente al cospetto di Dio. Poi, dopo la preghiera meditavano un’altra ora per ‘ascoltare’  la ‘risposta’ di Dio: quale era il percorso che la divinità  aveva designato per la loro evoluzione spirituale.
Il Baal Shem Tov era noto per le sue Aliòth, le sue Ascesi mistiche, per il suo prediligere, come il nipote rabbi Nahman, alla frequentazione delle sinagoghe, la preghiera nei boschi, in compagnia degli angeli, l’hidbodedut e la danza sacra.
Oggi, chi osserva con oggettività il mondo ebraico non può far a meno di chiedersi: cosa resta delle ascesi mistiche dei profeti di Israele, cosa resta dell’amore quasi viscerale sperimentato per la Shehinà dai patriarchi? Perché dall’hidbodedut nella natura,  dal dialogo costante e personale con il divino, siamo giunti a una pratica religiosa e a una preghiera organizzata,  rapida e impersonale tra le mura delle sinagoghe ? E ancora: perché anche il Hassidismo è rientrato nei ‘ranghi’ dei conservatorismo, e ha rinunciato al suo carattere innovativo e rivoluzionario?
Oggi è innegabile il fatto che nonostante un ritorno all’osservanza di un gran numero di ebrei che hanno iniziato ad avvicinarsi alla Torà, questa teshuvà assume a volte un carattere esteriore, in quanto non provoca una profonda trasformazione della personalità, il Tikkun ha midot : la riparazione delle emozioni (la rieducazione emozionale tanto evocata anche da Coleman e dai teorici dell’Intelligenza Emotiva) e il superamento dei tratti caratteriali dell’anima animale – la meta principale del ‘ritorno’.
Sia in Israele (dove la discrepanza tra una meticolosa osservanza dei precetti e una sempre più diffusa aggressività, irascibilità ), sia nel resto del mondo ci si trova sempre più spesso di fronte al gap tra una religiosità esteriore e un mondo interiore e psicologico estraniato dall’essenza incontaminata dell’anima – che teoricamente in seguito alla teshuvà dovrebbe prendere il controllo, guidare  la nostra esistenza verso al realizzazione, la gioia, la salute del corpo e dell’anima.
Rav Shlomo Arush, chiedendosi a cosa sia attribuibile tale gap, ha fatto un’ipotesi: forse la mancata purificazione del carattere (considerata come dicevamo da Maimonide, Luzzato e da tutti i grandi saggi l’obbiettivo primo delle mitzvot), dipende da un’ignoranza diffusa della conoscenza della capacità di riflettere e meditare, senza la quale la preghiera rimane un fatto esteriore.
Già Rabbi Nahman nel racconto The Master of Prayers metteva in chiaro come l’unico rimedio all’esilio spirituale e alla mancanza di consapevolezza, fosse la preghiera, una preghiera che emergesse dal profondo del cuore, dalla riflessione (ishuv ha daat), dalla capacità di isolarsi e meditare (hitbodedut), pratica centrale per millenni tra gli antichi ebrei. La preghiera infatti è la manifestazione più elementare della fede.
Se viviamo Dio come  nostro Padre, è ovvio che la prima cosa che dovremmo fare di fronte a un problema è parlarGli, comunicare con Lui. Pregare dal cuore (senza in mano un sidur), significa parlare e comunicare con Dio proprio come faremmo con nostro Padre, con parole autentiche e personali. Tale comunicazione è possibile solo grazie alla percezione che Egli ci è accanto, di fronte, come dice il re David: “Ho posto Dio di fronte a me sempre”. In tale condizione l’assunto cabalistico del ‘Dio è in ogni luogo’ diventa esperienza sensoriale e la teoria della Misericordia divina per le sue creature nella meditazione diventa percezione dell’amorevole vicinanza della Shehinà.
Secondo rabbi Nahman, chi non è capace di stabilire una comunicazione diretta e profonda con il Divino è come un orfano, che non può chiedere aiuto e consiglio a suo Padre.
Vari testi ebraici di maestri, come ad esempio i  ‘Doveri del Cuore’  hanno l’obiettivo di trasformare la fede da teoria metafisica a prassi sperimentale che ci dà la certezza, la sensazione chiara e profonda della vicinanza di Dio, del suo essere a conoscenza di tutti i nostri bisogni, anche di quelli di cui noi stessi non siamo consapevoli.
Il nostro parlare a Dio, sentendoLo presente, è una dichiarazione di fede che supera ogni logica, ogni prova metafisica o spiegazione teologica.  Un vescovo cristiano mi stupì nell’aver intuito il potere della preghiera ebraica quando mi confessò che quando portava i fedeli in pellegrinaggio in Terrasanta li conduceva sulla spianata del Kotel (il Muro del Pianto) e poi ad occhi chiusi li invitava a camminare fino al Muro. Lì dovevano ascoltare la gente semplice che prega, bagnando di lacrime il Muro (come insegnava il re David nei salmi: sciogli come l’acqua il tuo cuore).
Le preghiere quotidiane d’obbligo stabilite dai Saggi devono essere un incentivo, un addestramento alla pratica di parlare e comunicare con Dio, e non la motivazione per la rinuncia al dialogo continuo, intimo e personale con Dio.
Aver disimparato a parlare con Dio dal cuore fa sì che  a parte alcune eccezioni,  anche nelle sinagoghe spesso manchi la kavanà, quel trasporto che per millenni ha caratterizzato la preghiera ebraica. Questo discorso si fa particolarmente serio nelle ezrat nashim (la zona dove pregano le donne) dove chi vorrebbe concentrarsi e pregare, a volte ha difficoltà a evitare di ascoltare lunghe confidenze tra amiche.
In realtà, anche tra gli uomini molti finiscono per ‘recitare’ le orazioni nel modo più veloce possibile – come un dovere di cui disfarsi e non come una preziosa opportunità di connettersi con Dio e con la neshamà, la nostra anima divina.
L’identificazione della preghiera con la lettura e recitazione delle preghiere d’obbligo del siddur ha inoltre fatto sì che la preghiera personale (la preghiera che esce dal profondo del cuore) diventasse una pratica secondaria e facoltativa, mentre per l’Alahà stessa dovremmo rivolgerci a  Dio, con le nostre parole, ogni volta che viviamo una situazione di angustia (zar).  Inoltre la Alahà prevede che nella recitazione dell’Amidà è  bene,  dopo ognuna delle preghiere (meno che nelle tre benedizioni iniziali e finali) inserire delle parole individuali che rendano più autentica e personale la richiesta e l’espressione di gratitudine per i doni ricevuti da Dio. Oggi purtroppo pochi aggiungono preghiere personali nell’Amidà (meno che nella richiesta di guarigione e nello shma colenu) per non restare indietro rispetto al resto del minian.
Credo sia importante chiedersi come mai,  mentre la maggioranza degli ebrei osservanti fa a gara a osservare le mitzvot che riguardano il ‘fare’ (e non l’essere), come ad esempio, la ricerca  meticolosa del più bel Etrog o la costruzione della succà,  o i lunghi viaggi per comprare la carne kasher, quando devono pregare (mitzvà che riguarda il being, l’essere), cercano di farlo rapidamente, come se la preghiera fosse un precetto pesante (e secondario) da assolvere il più velocemente possibile.
Forse la risposta è che la rinuncia a una delle fasi fondamentali delle preghiera (la meditazione, la riflessione e l’introspezione che dovrebbe precedere la preghiera) provoca l’inconsapevolezza e la ‘rimozione’ di quegli aspetti della personalità da rettificare. Una preghiera che si recita correndo dietro ai ritmi affrettati dei minian (a volte scelti proprio perché più ‘veloci’ degli altri)  spesso non ci permette di sperimentare la tefillà come stage per mettersi in discussione e di vivere la preghiera come strumento di trasformazione, come ci insegna il termine ebraico  Leitpalel, che oltre che ‘pregare’ significa ‘giudicarsi’…

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ROSH HASHANAH 2013 4- 8 SETTEMBRE – CAPODANNO 5774

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ROSH HASHANAH 2013 4- 8 SETTEMBRE – CAPODANNO 5774

Rosh Hashanah è il capodanno ebraico, una delle festività più sacre tra quelle ordinate dalla Torah.
Anche se il primo mese del calendario è quello in cui si celebra Pesach, cioè Nissan (Esodo 12:2), il capodanno viene festeggiato il primo giorno del mese di Tishrei (in autunno), poichè esso segnava l’inizio dell’anno agricolo, fondamentale nell’antica concezione ciclica del tempo.
Il nome Rosh Hashanah, che significa proprio « capo dell’anno », non compare mai nella Bibbia, dove invece questa festività viene chiamata « festa della raccolta » (Esodo 23:16), e « giorno annunciato dal suono, una santa convocazione » (Levitico 23:24).
Rosh Hashanah ha un significato collettivo che riguarda l’intero Universo poichè, secondo i Maestri, in questo giorno ricorre l’anniversario della Creazione narrata in Genesi, ed è quindi il momento in cui Dio rinnova il Suo sostentamento alla natura segnando un nuovo inizio per tutti.
Ma il capodanno ha anche un significato che riguarda individualmente ogni essere umano, ed è per questo che nella tradizione è chiamato anche « Yom HaDin », cioè « Giorno del Giudizio ».
Infatti, come è spiegato nel Talmud e nei Midrashim, nel giorno di Rosh Hashanah Dio prende in esame le azioni di ogni uomo e stabilisce il Suo Giudizio, che tuttavia viene fissato definitivamente soltanto dieci giorni dopo, in occasione di Yom Kippur. Per questo, nei dieci giorni che separano le due festività, gli uomini hanno ancora la possibilità di ravvedersi rimediando ai propri errori e abbandonando le loro trasgressioni per meritare il perdono Divino.
Il capodanno ebraico è quindi la festa della riflessione sulla propria coscienza, del pentimento e della speranza di riuscire a migliorare sè stessi, non per la paura di essere puniti, ma per amore del Creatore, del prossimo e della giustizia.
Per scuotere gli animi dal torpore spirituale viene suonato lo Shofar, uno strumento musicale costituito dal corno di un animale (di solito un montone), il cui suono nell’antico Israele era un segnale di guerra. Lo Shofar viene utilizzato nelle Sinagoghe per annunciare alcune funzioni religiose, in particolare durante Rosh Hashanah e Yom Kippur.

Shofar
 Nei giorni che precedono Rosh Hashanah vengono recitate delle preghiere penitenziali chiamate selichot, alcune delle quali fanno parte anche della liturgia della festività.
E’ diffusa l’usanza di recarsi in un luogo dove ci sia acqua corrente nel pomeriggio che precede Rosh Hashanah per gettarvi oggetti vecchi ed inutili recitando il verso del profeta Michea: « Tu getterai le nostre colpe nel mare più profondo » (Michea 7:19).
Non bisogna pensare che si tratti di una cerimonia superstiziosa: il lancio degli oggetti non libera davvero gli Ebrei dai peccati, ma rappresenta simbolicamente l’atto del ravvedimento e dell’abbandono di ogni vecchia colpa.
Durante la cena (seder) di Rosh Hashanah, vengono pronunciate benedizioni di ringraziamento e il pane (challah) viene intinto nel miele per indicare l’augurio di un anno dolce e piacevole. Viene inoltre servita una grande quantità di frutta, in particolare il melograno che simboleggia l’idea di abbondanza e quindi di prosperità.
Quando esisteva ancora il Tempio, durante questa festività venivano effettuati particolari sacrifici e offerte oggi sostituiti dalle preghiere (Numeri 29:1-6).

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