Archive pour août, 2013

MARTIN BUBER: IL CAMMINO DELL’UOMO – COMINCIARE DA SE STESSI

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MARTIN BUBER 

IL CAMMINO DELL’UOMO – COMINCIARE DA SE STESSI

Alcune persone eminenti di Israele erano un giorno ospiti di Rabbi Isacco di Worki. La conversazione cadde sull’importanza di un servitore onesto per la gestione di una casa: « Tutto volge al bene – dicevano – se si ha un buon servitore, come dimostra il caso di Giuseppe, nelle cui mani tutto prosperava ». Ma Rabbi Isacco non condivideva l’opinione generale. « Ero anch’io dello stesso avviso – disse – finché il mio maestro non mi dimostrò che in realtà tutto dipende dal padrone di casa. Da giovane, infatti, mia moglie era per me fonte di tribolazione, e pur essendo disposto a sopportare per quel che riguardava me stesso, mi facevano pena i servitori. Andai allora a consultare il mio maestro, Rabbi David di Lelow, e gli chiesi se dovevo oppormi o meno a mia moglie. ‘Perché ti rivolgi a me? – rispose – Rivolgiti a te stesso!’. Dovetti riflettere a lungo su queste parole prima di capirle, e le capii solo ricordandomi anche delle parole del Baal-Shem: ‘Ci sono il pensiero, la parola e l’azione. Il pensiero corrisponde alla moglie, la parola ai figli, l’azione ai servitori. Tutto si volgerà al bene per chi saprà mettere in ordine le tre cose nel proprio spirito’. Allora compresi cosa avesse voluto dire il mio maestro: che tutto dipendeva da me ».
Questo racconto tocca uno dei problemi più profondi e più seri della nostra vita: il problema della vera origine del conflitto tra gli uomini.
Abbiamo l’abitudine di spiegare le manifestazioni del conflitto innanzitutto con i motivi che gli antagonisti riconoscono coscientemente come origine della disputa, oppure con le situazioni e i processi oggettivi che stanno alla base di questi motivi e nei quali le due parti sono implicate; un’altra pista è invece quella di procedere in modo analitico, cercando di esplorare i complessi inconsci, considerati allora come i danni organici di una malattia di cui i motivi evidenti rappresentano i sintomi. L’insegnamento chassidico si avvicina a quest’ultima concezione in quanto rimanda anch’esso la problematica della vita esteriore a quella della vita interiore. Ma ne differisce in due punti essenziali, uno di principio e l’altro, ancora più importante, di ordine pratico.
La differenza di principio risiede nel fatto che l’insegnamento chassidico non tende a esaminare le difficoltà isolate dell’anima, ma ha di mira l’uomo intero. Non si tratta tuttavia di una differenza quantitativa, ma piuttosto della constatazione che il fatto di separare dal tutto elementi e processi parziali ostacola sempre la comprensione della totalità, e che solo la comprensione della totalità in quanto tale può comportare una trasformazione reale, una reale guarigione, innanzitutto dell’individuo e poi del rapporto tra questi e i suoi simili (o, per usare un paradosso: la ricerca del punto nodale sposta quest’ultimo e fa così fallire l’intero tentativo di superare la problematica). Questo non significa assolutamente che non si debbano prendere in considerazione tutti i fenomeni dell’anima; ma nessuno di essi dev’essere posto al centro dell’esame, al punto che tutto il resto possa esserne dedotto. È invece indispensabile considerare tutti i punti, e non in modo separato ma proprio nella loro connessione vitale.
Quanto alla differenza pratica, consiste nel fatto che l’uomo, invece di essere trattato come oggetto dell’analisi, è sollecitato a « rimettersi in sesto ». Bisogna che l’uomo si renda conto innanzitutto lui stesso che le situazioni conflittuali che l’oppongono agli altri sono solo conseguenze di situazioni conflittuali presenti nella sua anima, e che quindi deve sforzarsi di superare il proprio conflitto interiore per potersi così rivolgere ai suoi simili da uomo trasformato, pacificato, e allacciare con loro relazioni nuove, trasformate.
Indubbiamente, per sua natura, l’uomo cerca di eludere questa svolta decisiva che ferisce in profondità il suo rapporto abituale con il mondo: allora ribatte all’autore di questa ingiunzione – o alla propria anima, se è lei a intimargliela – che ogni conflitto implica due attori e che perciò, se si chiede a lui di risalire al proprio conflitto interiore, si deve pretendere altrettanto dal suo avversario. Ma proprio in questo modo di vedere – in base al quale l’essere umano si considera solo come un individuo di fronte al quale stanno altri individui, e non come una persona autentica la cui trasformazione contribuisce alla trasformazione del mondo – proprio qui risiede l’errore fondamentale contro il quale si erge l’insegnamento chassidico.
Cominciare da se stessi: ecco l’unica cosa che conta. In questo preciso istante non mi devo occupare di altro al mondo che non sia questo inizio. Ogni altra presa di posizione mi distoglie da questo mio inizio, intacca la mia risolutezza nel metterlo in opera e finisce per far fallire completamente questa audace e vasta impresa. Il punto di Archimede a partire dal quale posso da parte mia sollevare il mondo è la trasformazione di me stesso. Se invece pongo due punti di appoggio uno qui nella mia anima e l’altro là, nell’anima del mio simile in conflitto con me, quell’unico punto sul quale mi si era aperta una prospettiva, mi sfugge immediatamente.
Così insegnava Rabbi Bunam: « I nostri saggi dicono: ‘Cerca la pace nel tuo luogo’. Non si può cercare la pace in altro luogo che in se stessi finché qui non la si è trovata. È detto nel salmo: ‘Non c’è pace nelle mie ossa a causa del mio peccato ». Quando l’uomo ha trovato la pace in se stesso, può mettersi a cercarla nel mondo intero ».
Ma il racconto che ho preso come punto di partenza non si accontenta di indicare la vera origine dei, conflitti esterni e di attirare l’attenzione sul conflitto interiore in modo generico. L’affermazione del Baal-Shem che vi si trova citata ci precisa anche esattamente in cosa consiste il conflitto interiore determinante. Si tratta del conflitto fra tre principi nell’essere e nella vita dell’uomo: il principio del pensiero, il principio della parola e il principio dell’azione. Ogni conflitto tra me e i miei simili deriva dal fatto che non dico quello che penso e non faccio quello che dico. In questo modo, infatti, la situazione tra me e gli altri si ingarbuglia e si avvelena sempre di nuovo e sempre di più; quanto a me, nel mio sfacelo interiore, ormai incapace di controllare la situazione, sono diventato, contrariamente a tutte le mie illusioni, il suo docile schiavo. Con la nostra contraddizione e la nostra menzogna alimentiamo e aggraviamo le situazioni conflittuali e accordiamo loro potere su di noi fino al punto che ci riducono in schiavitù. Per uscirne c’è una sola strada: capire la svolta – tutto dipende da me – e volere la svolta – voglio rimettermi in sesto.
Ma per essere all’altezza di questo grande compito, l’uomo deve innanzitutto, al di là della farragine di cose senza valore che ingombra la sua vita, raggiungere il suo sé, deve trovare se stesso, non l’io ovvio dell’individuo egocentrico, ma il sé profondo della persona che vive con il mondo. E anche qui tutte le nostre abitudini ci sono di ostacolo.
Vorrei concludere questa riflessione con un divertente aneddoto antico ripreso da uno zaddik. Rabbi Hanoch raccontava: « C’era una volta uno stolto così insensato che era chiamato il Golem. Quando si alzava al mattino gli riusciva così difficile ritrovare gli abiti che alla sera, al solo pensiero, spesso aveva paura di andare a dormire. Finalmente una sera si fece coraggio, impugnò una matita e un foglietto e, spogliandosi, annotò dove posava ogni capo di vestiario. Il mattino seguente, si alzò tutto contento e prese la sua lista: ‘Il berretto: là’, e se lo mise in testa; ‘I pantaloni: lì, e se li infilò; e così via fino a che ebbe indossato tutto. ‘Sì, ma io, dove sono? – si chiese all’improvviso in preda all’ansia – Dove sono rimasto?’. Invano si cercò e ricercò: non riusciva a trovarsi. Così succede anche a noi », concluse il Rabbi.

Publié dans:ebraismo, EBRAISMO: INSEGNAMENTI |on 22 août, 2013 |Pas de commentaires »

22 AGOSTO: BEATA VERGINE MARIA REGINA – PREGHIERE

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22 AGOSTO: BEATA VERGINE MARIA REGINA

PREGHIERA alla B.V. MARIA REGINA

O Madre del mio Dio e mia Signora Maria, mi presento a Te che sei la Regina del Cielo e della terra come un povero piagato davanti ad una potente Regina. Dall’alto trono dal quale tu siedi, non sdegnare, Ti prego, di volgere gli occhi su di me, povero peccatore. Dio Ti ha fatta così ricca per aiutare i poveri e Ti ha costituita Madre di Misericordia affinché Tu possa confortare i miserabili. Guardami dunque e compatiscimi.
 Guardami e non mi lasciare se non dopo avermi trasformato da peccatore in Santo.
 Mi rendo conto di non meritare niente, anzi, per la mia ingratitudine dovrei essere privato di tutte le grazie che per tuo mezzo ho ricevuto dal Signore; ma Tu che sei la Regina di Misericordia non cerchi i meriti, bensì le miserie per soccorrere i bisognosi. Chi è più povero e bisognoso di me?
 O Vergine sublime, so che Tu, oltre ad essere la Regina dell’universo, sei anche la mia Regina. Voglio dedicarmi completamente ed in modo particolare al tuo servizio, affinché Tu possa disporre di me come Ti piace. Perciò Ti dico con San Bonaventura: « O Signora, mi voglio affidare al tuo potere discreto, perchè Tu mi sostenga e governi totalmente. Non mi abbandonare ». Guidami Tu, Regina mia, e non lasciarmi solo. Comandami, utilizzami a Tuo piacere, castigami quando non Ti ubbidisco, poiché i castighi che mi verranno dalle Tue mani mi saranno salutari.
  Ritengo più importante essere tuo servo piuttosto che signore di tutta la terra. « Io sono tuo: salvami ». O Maria, accoglimi come tuo e pensa a salvarmi. Non voglio più essere mio, mi dono a Te.
Se nel passato Ti ho servito male ed ho perduto tante belle occasioni per onorarti, in avvenire voglio unirmi ai tuoi servi più innamorati e fedeli. No, non voglio che da oggi in poi qualcuno mi superi nell’onorarti e nell’amarti, mia amabilissima Regina. Prometto e spero di perseverare così, con il tuo aiuto. Amen.
 (Sant’Alfonso Maria de Liguori, « Le glorie di Maria »)

PREGHIERA di PIO XII a MARIA REGINA
Dal profondo di questa terra di lacrime, ove la umanità dolorante penosamente si trascina; tra i flutti di questo nostro mare perennemente agitato dai venti delle passioni; eleviamo gli occhi a voi, o Maria, Madre amatissima, per riconfortarci contemplando la vostra gloria, e per salutarvi Regina e Signora dei cieli e della terra, Regina e Signora nostra.
Questa vostra regalità vogliamo esaltare con legittimo orgoglio di figli e riconoscerla come dovuta alla somma eccellenza di tutto il vostro essere, o dolcissima e vera Madre di Colui, che è Re per diritto proprio, per eredità, per conquista.
Regnate, o Madre e Signora, mostrandoci il cammino della santità, dirigendoci e assistendoci, affinché non ce ne allontaniamo giammai.
Come nell’alto del cielo Voi esercitate il vostro primato sopra le schiere degli Angeli, che vi acclamano loro Sovrana; sopra le legioni dei Santi, che si dilettano nella contemplazione della vostra fulgida bellezza; così regnate sopra l’intero genere umano, soprattutto aprendo i sentieri della fede a quanti ancora non conoscono il vostro Figlio. Regnate sulla Chiesa, che professa e festeggia il vostro soave dominio e a voi ricorre come a sicuro rifugio in mezzo alle calamità dei nostri tempi. Ma specialmente regnate su quella porzione della Chiesa, che è perseguitata ed oppressa, dandole la fortezza per sopportare le avversità, la costanza per non piegarsi sotto le ingiuste pressioni, la luce per non cadere nelle insidie nemiche, la fermezza per resistere agli attacchi palesi, e in ogni momento la incrollabile fedeltà al vostro Regno.
Regnate sulle intelligenze, affinché cerchino soltanto il vero; sulle volontà, affinché seguano solamente il bene; sui cuori, affinché amino unicamente ciò che voi stessa amate.
Regnate sugl’individui e sulle famiglie, come sulle società e le nazioni; sulle assemblee dei potenti, sui consigli dei savi, come sulle semplici aspirazioni degli umili.
Regnate nelle vie e nelle piazze, nelle città e nei villaggi, nelle valli e nei monti, nell’aria, nella terra e nel mare;
e accogliete la pia preghiera di quanti sanno che il vostro è regno di misericordia, ove ogni supplica trova ascolto, ogni dolore conforto, ogni sventura sollievo, ogni infermità salute, e dove, quasi al cenno delle vostre soavissime mani, dalla stessa morte risorge sorridente la vita.
Otteneteci che coloro, i quali ora in tutte le parti del mondo vi acclamano e vi riconoscono Regina e Signora, possano un giorno nel cielo fruire della pienezza del vostro Regno, nella visione del vostro Figlio, il quale col Padre e con lo Spirito Santo vive e regna nei secoli dei secoli. Così sia!
 (Sua Santità PIO PP. XII, 1° novembre 1954)

PREGHIERA a MARIA REGINA di tutti i SANTI
 O Immacolata Regina del cielo e della terra, so che sono indegno di avvicinarmi a Te, so che sono indegno anche di venerarti prostrato con la fronte nella polvere; ma poiché ti amo, mi permetto di supplicarti. Desidero ardentemente conoscerti, conoscerti sempre più profondamente e senza alcun limite per amarti con ardore senza limiti. Desidero farti conoscere da altre anime, affinché da queste, sempre più numerose, sia amata; desidero che divenga la Regina di tutti i cuori, presenti e futuri e ciò quanto prima, al più presto! Alcuni ancora non conoscono il tuo Nome; altri, oppressi da peccati, non osano sollevare a Te i loro sguardi; altri pensano che Tu non sia necessaria a raggiungere il fine della vita; vi sono poi coloro che il demonio – il quale non volle riconoscerti Regina – tiene soggetti a sé e non permette loro di piegare le ginocchia dinanzi a Te. Molti ti amano, ti venerano, ma pochi sono quelli che siano pronti a tutto per il tuo amore: ad ogni lavoro, ad ogni sofferenza, allo stesso sacrificio della vita. Che finalmente, o Regina del cielo e della terra, Tu possa regnare nei cuori di tutti e di ciascuno. Che tutti gli uomini ti riconoscano per Madre, che tutti per te si sentano figli di Dio e si amino come fratelli.
Amen.

PREGHIERA a MARIA REGINA del Purgatorio
 Vergine Santissima del Suffragio, Tu che sei la consolatrice degli afflitti e la Madre universale dei credenti, volgi lo sguardo pietoso alle anime del Purgatorio, che sono esse pure tue figlie e più di ogni altra meritevoli di pietà perché incapaci di aiutarsi da sole in mezzo alle indicibili pene che soffrono. Deh! cara nostra Corredentrice, interponi presso il trono della divina misericordia tutta la potenza della tua mediazione, e offri a sconto dei loro debiti la Vita, la Passione, la Morte del tuo divin Figlio, unitamente ai meriti tuoi e a quelli di tutti i Santi del cielo e di tutti i giusti della terra, affinché soddisfatta pienamente la divina giustizia vengano presto a ringraziarti in cielo e a possedere e lodare per sempre con Te il divino Liberatore.
Amen.

The Jesus prayer

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Publié dans:immagini sacre |on 20 août, 2013 |Pas de commentaires »

21 AGOSTO – SAN PIO X (GIUSEPPE SARTO) PAPA

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SAN PIO X (GIUSEPPE SARTO) PAPA

21 AGOSTO

RIESE, TREVISO, 2 GIUGNO 1835 – ROMA, 21 AGOSTO 1914

(PAPA DAL 09/08/1903 AL 20/08/1914)

Giuseppe Sarto, vescovo di Mantova (1884) e patriarca di Venezia (1893), sale alla cattedra di Pietro con il nome di Pio X. È il primo Papa dell’età contemporanea a provenire dal ceto contadino e popolare, seguito 65 anni dopo da Papa Giovanni XXIII. È uno dei primi pontefici ad aver percorso tutte le tappe del ministero pastorale, da cappellano a Papa. È il pontefice che nel Motu proprio «tra le sollecitudini» (1903) afferma che la partecipazione ai santi misteri è la fonte prima e indispensabile alla vita cristiana. Difende l’integrità della dottrina della fede, promuove la comunione eucaristica anche dei fanciulli, avvia la riforma della legislazione ecclesiastica, si occupa della Questione romana e dell’Azione Cattolica, cura la formazione dei sacerdoti, fa elaborare un nuovo catechismo, favorisce il movimento biblico, promuove la riforma liturgica e il canto sacro. (Avvenire)

Etimologia: Pio = devoto, religioso, pietoso (signif. Intuitivo)

Martirologio Romano: Memoria di san Pio X, papa, che fu dapprima sacerdote in parrocchia e poi vescovo di Mantova e patriarca di Venezia. Eletto, infine, Pontefice di Roma, si propose come programma di governo di ricapitolare tutto in Cristo e lo realizzò in semplicità di animo, povertà e fortezza, promuovendo tra i fedeli la vita cristiana con la partecipazione all’Eucaristia, la dignità della sacra liturgia e l’integrità della dottrina.
(20 agosto: A Roma, anniversario della morte di san Pio X, papa, la cui memoria si celebra domani).
Fu il primo papa dell’età contemporanea a provenire dal ceto contadino e popolare, seguito 65 anni dopo da papa Giovanni XXIII anch’egli di origini contadine, ma fu senz’altro uno dei primi pontefici ad aver percorso tutte le tappe del ministero pastorale, da cappellano a papa.
Giuseppe Melchiorre Sarto nacque a Riese (Treviso), oggi Riese Pio X, il 2 giugno 1835, secondo dei 10 figli di Giovanni Battista Sarto e Margherita Sanson; il padre era messo comunale e nel tempo libero coltivava un piccolo appezzamento di terreno.
Sin da ragazzo dimostrò forza di carattere e tenace volontà; serenamente sopportava i sacrifici imposti dalla condizione povera della famiglia, percorse per anni ogni giorno a piedi, spesso scalzo, la strada che conduce da Riese a Castelfranco per poter frequentare la scuola.
Dotato di predisposizione allo studio, fu aiutato da alcuni sacerdoti e poi dal patriarca di Venezia, anch’egli originario di Riese, che gli offrì un posto gratuito nel Seminario di Padova, a quell’epoca uno dei migliori d’Italia e anche qui ben presto si notò la ricchezza della sua indole, dotata di notevole equilibrio.
Quando aveva 17 anni, nel 1852, morì il padre e gli amministratori del piccolo Municipio di Riese, per aiutare la numerosa famiglia, offrirono al giovane Giuseppe l’impiego occupato dal padre.
Ma l’eroica madre Margherita, rifiutò l’offerta, perché il ‘Bepi’ doveva seguire la sua vocazione sacerdotale; avrebbe pensato lei con il suo lavoro di sarta, a portare avanti la famiglia, lavorando notte e giorno.
Fu ordinato sacerdote a 23 anni (settembre 1858) e subito nominato cappellano a Tombolo (Padova) piccola parrocchia di campagna, dove giunse il 29 novembre 1858, qui profuse le giovani forze nell’apostolato e nel ministero sacerdotale per ben nove anni.
Essendo risultato primo al concorso, fu nominato nel 1867 parroco a Salzano, grosso borgo della provincia veneziana, dove rimase per circa nove anni.
Dotato di una salute di ferro, di un’energia che non conosceva debolezza e di una sorprendente capacità di rapportarsi con gli altri, egli si diede anima e corpo all’attività parrocchiale, suscitando l’ammirazione dei parrocchiani e dei confratelli sacerdoti.
Nel novembre 1875 il vescovo di Treviso lo chiamò presso di sé nominandolo Canonico della Cattedrale, Cancelliere della Curia Vescovile, Direttore spirituale del Seminario; incarichi di prestigio per il giovane sacerdote Giuseppe Sarto (aveva 40 anni), il quale trascorreva la mattina al vescovado e il pomeriggio in Seminario.
Adempiva ai suoi compiti con dedizione e competenza, la sua sollecitudine gli faceva portare a casa le pratiche non ancora evase che sbrigava anche nelle ore notturne, la sua buona salute gli consentiva di recuperare le forze con appena 4-5 ore di sonno.
Il suo modo di agire, pieno di comprensione verso gli altri e il suo amore particolare per i poveri, gli guadagnarono l’affetto e la stima di tutti, cosicché nessuno si meravigliò quando nel settembre 1884, papa Leone XIII lo nominò vescovo di Mantova.
La diocesi mantovana attraversava un periodo particolarmente difficile, sia al suo interno, sia con il potere civile, ma il modesto prete Giuseppe Sarto, conosciuto per la fama di oratore brillante e per la sua grande carità, si rivelò un capo, con uno spirito realistico, pronto a cogliere il nodo dei problemi e a trovarne le soluzioni pratiche, con una bonarietà sorridente ma che all’occorrenza sapeva accompagnarla con una fermezza innata.
Seppe pacificare gli animi e avviò un profondo rinnovamento della vita cristiana in tutta la diocesi; incoraggiò l’affermarsi delle cooperative operaie; formatosi sotto papa Pio IX e nel clima reazionario della monarchia asburgica, alla quale il Veneto fino al 1866 era soggetto, mons. Sarto era considerato un “intransigente”, che condannava il liberalismo e lo spirito di apertura alla mentalità moderna.
Erano problemi che agitavano la Chiesa del post Stato Pontificio e la ventata di modernismo proveniente da tanti settori della società, vedeva nelle diocesi italiane il contrapporsi di ideologie, con vescovi permissivi e altri intransigenti alle aperture.
Papa Leone XIII apprezzando il suo operato, lo elevò alla dignità cardinalizia il 12 giugno 1893 con il titolo di San Bernardo alle Terme e il 15 giugno lo destinava alla sede patriarcale di Venezia, anch’essa in una situazione particolarmente difficile.
Ma il suo ingresso poté avvenire solo il 24 novembre 1894, perché mancava il beneplacito del Governo Italiano; il re d’Italia Umberto I°, sosteneva di avere il diritto di scelta del patriarca per un antico privilegio della Repubblica Veneta, ma alla fine dopo 17 mesi si addivenne ad un compromesso.
Pur avendo conservato un certo attaccamento sentimentale per Francesco Giuseppe, il sovrano austriaco dei suoi primi trent’anni, al contrario dell’ambiente di curia, il patriarca Sarto manifestò verso la Casa Savoia e il giovane Regno d’Italia un atteggiamento più conciliante, ormai convinto che indietro non si sarebbe più ritornati.
Riteneva necessario preparare un progressivo riavvicinamento tra la nuova Italia e la Santa Sede, risolvendo la ‘Questione Romana’ e salvaguardando tutto ciò che vi era di essenziale sotto l’aspetto spirituale, ma abbandonando ciò che era transitorio nelle posizioni prese da papa Pio IX, dopo l’occupazione dello Stato Pontificio e perseguite anche da papa Leone XIII.
Incurante delle critiche e dello stupore di alcuni, non esitò ad indurre i cattolici veneziani ad allearsi con i liberali moderati, per far cadere l’amministrazione comunale massonica, che aveva soppresso il catechismo nelle scuole e fatto togliere il crocifisso negli ospedali.
Mobilitò i parroci e i gruppi di Azione Cattolica, moltiplicò le riunioni dei comitati, governò la stampa cattolica; il suo avvicinamento all’Italia ufficiale, era dettato da un realismo pastorale e non per simpatia all’ideologia liberale e modernista che personalmente rifiutò sempre.
A Venezia ci fu una fioritura della vita religiosa, gli adulti venivano istruiti nella fede e organizzati in Associazioni religiose; i bambini venivano preparati alla Prima Comunione e Cresima con particolare impegno, le celebrazioni liturgiche presero nuovo decoro con la solennità dei canti sacri.
In questo periodo conobbe il giovane Lorenzo Perosi, ne ammirò il talento musicale, lo aiutò e incoraggiò a diventare sacerdote, gli affidò la riforma del canto liturgico prima a Venezia e poi a Roma.
Amò i poveri, ai quali donava tutto quello che possedeva, giunto a Venezia non volle una porpora cardinalizia nuova, ma fece riadattare dalle sue sorelle che l’avevano seguito, quella vecchia del suo predecessore, donando ai poveri la somma equivalente per una nuova.
Pur essendo ostile al socialismo e al liberalismo, non mancò, come a Mantova, di preoccuparsi di tutto quanto potesse migliorare le condizioni di vita degli operai, incoraggiò le Casse Operaie parrocchiali, le Società di Mutuo Soccorso, gli uffici di collocamento popolare e per indirizzare il clero in questa direzione, istituì nel 1895 una cattedra di scienze economiche e sociali nel Seminario.
A Venezia amò tutti ed era amato da tutti; il 15 ottobre 1893 il cardinale era al capezzale dell’anziana madre morente, la quale aveva espresso il desiderio prima di morire di vedere il figlio vestito dei suoi abiti cardinalizi e lui volle accontentarla, si presentò all’improvviso quel mattino e la madre vedendolo esclamò con stupore: “Ah Bepi, sè tutto rosso!…” e lui: “E vu mare, sè tutta bianca!”.
Il 20 luglio 1903 ad oltre 93 anni, morì papa Leone XIII, che aveva governato la Chiesa oltre 25 anni e il patriarca di Venezia card. Sarto partì alla volta di Roma, alla stazione ferroviaria una gran folla lo circondò per salutarlo ed egli commosso rassicurò loro “Vivo o morto ritornerò”, del resto il biglietto per il treno che gli era stato offerto, era di andata e ritorno.
Quelle parole furono profetiche, perché il patriarca Sarto non tornò più a Venezia perché eletto papa; ma un suo successore, papa Giovanni XXIII, anch’egli patriarca della città lagunare, autorizzò il ritorno dell’urna con il corpo dell’ormai santo Pio X, che avvenne trionfalmente il 12 aprile 1959; l’urna esposta nella Basilica di San Marco, rimase a Venezia per un mese fino al 10 maggio, a ricevere il saluto e la venerazione dei suoi veneziani.
Il Conclave che seguì fu uno dei più drammatici, perché fu l’ultimo in cui venne esercitata “l’esclusiva” di un governo cattolico nei confronti di un papabile sgradito.
Il candidato più autorevole a succedere a Leone XIII era il suo Segretario di Stato card. Mariano Rampolla del Tindaro, ritenuto dal governo asburgico un continuatore della politica di sostegno dei cristiano-sociali in Austria e Ungheria e favorevole alle aspirazioni indipendentiste degli Slavi nei Balcani; il cardinale di Cracovia si fece portatore del veto imperiale contro Rampolla, fra le proteste del Decano del Sacro Collegio Cardinalizio e di altri cardinali, per l’ingerenza del potere civile.
Ad ogni modo il conclave durato quattro giorni designò il 3 agosto 1903, il patriarca di Venezia nuovo pontefice, nonostante le sue implorazioni a non votarlo, il quale alla fine accettò prendendo il nome di Pio X.
Il suo pontificato durò 11 anni, rompendo la sua personale cadenza negli incarichi ricevuti che furono stranamente sempre di nove anni; 9 anni in Seminario, 9 come cappellano a Tombolo, 9 anni come parroco a Salzano, 9 come canonico e direttore del Seminario a Treviso, 9 come vescovo di Mantova e 9 come patriarca di Venezia.
Aveva 68 anni quando salì al Soglio Pontificio instaurando una linea di condotta per certi versi di continuità con i due lunghissimi pontificati di Pio IX e Leone XIII che l’avevano preceduto, specie in campo politico, ma anche di rottura con certi schemi ormai consolidati, ad esempio, sebbene di umili origini egli rifiutò sempre di elargire benefici alla famiglia, come critica verso certi nepotismi e favoritismi più o meno evidenti, fino allora praticati.
Suo Segretario di Stato fu il card. Merry del Val, con il quale si dedicò ad una riaffermazione ben chiara dei diritti della Chiesa e ad una strategia ad ampio raggio per ristabilire l’ordine sociale secondo il volere di Dio.
Davanti ai grandi progressi di un liberalismo prevalentemente antireligioso, di un socialismo prevalentemente materialista e di uno scientismo presuntuoso, Pio X avvertì la necessità di erigere il papato contro la modernità, spezzando ogni tentativo di avviare un compromesso efficace tra i cattolici e la nuova cultura.
Con l’enciclica “Pascendi” del 1907 condannò il ‘modernismo’; in campo politico riprese la linea intransigente di Pio IX, egli considerava la separazione della Chiesa dallo Stato come un sacrilegio, gravemente ingiuriosa nei confronti di Dio al quale bisogna rendere non solo un culto privato ma anche uno pubblico.
La riaffermazione del potere papale, dopo le vicissitudini della caduta dello Stato Pontificio, portarono con il pensiero di Pio X ad identificare l’istituzione papale con la Chiesa intera, la Santa Sede con il popolo di Dio.
Non si può qui fare una completa panoramica del suo pontificato, vissuto alla vigilia della Prima Guerra Mondiale e del sorgere della Rivoluzione Russa, e in pieno affermarsi dei nuovi movimenti di pensiero come il modernismo, il liberalismo, infiltrati di materialismo e spirito antireligioso, con una Massoneria dilagante.
Centinaia di libri sono stati scritti su quel vivace periodo, ne citiamo uno: “Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia” di Pietro Scoppola, Bologna, 1961.
Il 20 gennaio 1904 papa Pio X reduce dal drammatico conclave che l’aveva eletto, stabilì che nessun potere laico esterno, potesse opporre un veto nell’elezione del pontefice e fulminò con scomunica quei cardinali che si prestassero a fare da portavoce, anche del semplice desiderio o indicazione di uno Stato.
Pio X che amava presentarsi come un “buon parroco di campagna” aveva in realtà notevoli doti e non era affatto sprovvisto di cultura, leggeva numerose opere, parlava e leggeva il francese, possedeva un gusto artistico e protesse i tesori d’arte della Chiesa; cultore della musica, amò il canto liturgico.
Uomo di grandezza morale, viveva in Dio e di Dio, esercitava le virtù cristiane fino all’eroismo, con una umiltà diventata la sua seconda natura senza la minima ostentazione; una effettiva povertà e un atteggiamento di distacco di fronte a se stesso che non abbandonava mai; una fede e una fiducia nella Provvidenza origine di quella serenità interiore che si poteva ammirare in lui; inoltre una carità che destava la meraviglia dei dignitari del Vaticano.
“Instaurare omnia in Christo” era il motto di papa Pio X e con la forza e la costanza che gli erano proprie, cercò di attuare in tutti campi questa restaurazione della società cristiana a partire dalla Chiesa; riformò profondamente la Curia Romana e le varie Congregazioni, fece redigere un nuovo Codice di Diritto Canonico; applicò le norme per la Comunione frequente e per i bambini; riformò la Liturgia togliendo dal Messale molte cose inutili, riportò al ciclo delle domeniche, il posto che era stato usurpato dal ciclo dei Santi; sollecitò il canto e la musica nelle funzioni sacre; istituì l’obbligo del catechismo a piccoli e grandi e che da lui si chiamò “Catechismo di Pio X”.
Verso la fine del suo pontificato, sull’Europa si addensavano nubi minacciose di guerra, che coinvolgevano molti Stati cattolici in contrasto fra loro.
Dopo l’attentato di Sarajevo all’arciduca ereditario Francesco Ferdinando, seguì il 28 luglio 1914 l’attacco dell’Austria alla Serbia e man mano il conflitto si estese a tutta l’Europa; per papa Pio X, già da tempo sofferente di gotta e quasi ottantenne, fu l’inizio della fine, il suo stato di salute e il deperimento fisico si accentuò e dopo una bronchite trasformatosi bruscamente in polmonite acuta, il pontefice morì nella notte tra il 20 e il 21 agosto 1914; fu sepolto nelle Grotte Vaticane.
In vita era indicato come un “Papa Santo”, perché correva voce di guarigioni avvenute toccando i suoi abiti, ma lui sorridendo correggeva: “Mi chiamo Sarto non Santo”. Fu beatificato il 3 giugno 1951 da papa Pio XII e proclamato santo dallo stesso pontefice il 29 maggio 1954; la sua urna si venera nella Basilica di S. Pietro.

Autore: Antonio Borrelli

Publié dans:Papi, Santi |on 20 août, 2013 |Pas de commentaires »

DA « IL CAMMINO CRISTIANO »: COSE DA BUTTARE

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DA « IL CAMMINO CRISTIANO »

COSE DA BUTTARE

Buttiamo via i mormorii
Cosa c’è di peggio in una Chiesa che dei credenti che mormorano? Si lamentano di tutto e di tutti, non gli va bene assolutamente niente. Loro stessi non fanno nulla ma giudicano severamente l’operato di chi s’impegna per l’opera di Dio. La Scrittura ci fa un identikit dei mormoratori: « Sono dei mormoratori, degli scontenti; camminano secondo le loro passioni; la loro bocca proferisce cose incredibilmente gonfie, e circondano d’ammirazione le persone per interesse » (Giuda 1:16).
Dio c’invita a buttare via dal nostro cuore i mormorii: « Non mormorate, come alcuni di loro mormorarono, e perirono colpiti dal distruttore » (1 Corinzi 10:10).
Ogni credente desideroso di fare la volontà di Dio, deve fare ogni cosa senza mormorii: « Fate ogni cosa senza mormorii e senza dispute » (Filippesi 2:14).

Buttiamo via le nostre giustificazioni
Se abbiamo la tendenza a giustificare le nostre debolezze e l’amore per le cose del mondo, smettiamola! Il Seme, cioè la Parola di Dio che è caduto fra le spine, rappresenta coloro che hanno udito, ma se ne vanno e restano soffocati dalle cure e dalle ricchezze e dai piaceri della vita e non arrivano a maturità: « Quello che è caduto tra le spine sono coloro che ascoltano, ma se ne vanno e restano soffocati dalle preoccupazioni, dalle ricchezze e dai piaceri della vita, e non arrivano a maturità » (Luca 8:14).
Quante scuse a volte troviamo, per giustificare le nostre debolezze: « Tutti insieme cominciarono a scusarsi. Il primo gli disse: « Ho comprato un campo e ho necessità di andarlo a vedere; ti prego di scusarmi ».Un altro disse: « Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli; ti prego di scusarmi ». Un altro disse: « Ho preso moglie, e perciò non posso venire » (Luca 14:18-20).
Buttiamo via le nostre giustificazioni e l’amore per le cose del mondo: « Non amate il mondo né le cose che sono nel mondo. Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui. Perché tutto ciò che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno » (1 Giovanni 2:15-17).

Buttiamo via tutte quelle abitudini che non ci permettono di leggere e meditare la Parola di Dio
Talvolta ci sono abitudini che ci tolgono il tempo per la lettura e la meditazione della Parola di Dio. Ricordiamoci che senza cibo e senza acqua, l’uomo muore. Allo stesso modo, senza la Parola di Dio, l’uomo è destinato alla morte spirituale. Colui che trascura la Parola di Dio, vede il suo cuore indurirsi giorno dopo giorno: « Perché il cuore di questo popolo si è fatto insensibile, sono divenuti duri d’orecchi, e hanno chiuso gli occhi, affinché non vedano con gli occhi e non odano con gli orecchi, non comprendano con il cuore, non si convertano, e io non li guarisca » (Atti 28:27). Non è forse vero che mentre l’uomo parla a Dio attraverso la preghiera, Dio parla all’uomo attraverso la Sua Parola? Dio vuole comunicare la Sua volontà: « Questo libro della legge non si allontani mai dalla tua bocca, ma meditalo, giorno e notte; abbi cura di mettere in pratica tutto ciò che vi è scritto; poiché allora riuscirai in tutte le tue imprese, allora prospererai » (Giosuè 1:8). È Dio che dette questo consiglio a Giosuè che resta valido per ogni generazione. Deve essere presente in ogni sincero credente questo desiderio: « Mi alzo prima dell’alba e grido; io spero nella tua parola. Gli occhi miei prevengono le veglie della notte, per meditare la tua parola » (Salmo 119:147,148).
Quanto tempo dedichiamo alla TV? Quanto tempo perdiamo in cose futili ed inutili? Torniamo alla Parola di Dio se vogliamo vedere l’aurora: « Alla legge! Alla testimonianza! » Se il popolo non parla così, non vi sarà per lui nessuna aurora! » (Isaia 8:20).

Buttiamo via gli aspetti negativi del nostro carattere
Un’espressione che l’apostolo Paolo usa al riguardo è: « Gettare via »: « Via da voi ogni amarezza, ogni cruccio e ira e clamore e parola offensiva con ogni sorta di cattiveria! » (Efesini 4:31).
Il nostro temperamento deve essere controllato dallo Spirito Santo. Nel momento in cui ciò non avviene, ecco manifestarsi i frutti della carne: « Ora le opere della carne sono manifeste, e sono: fornicazione, impurità, dissolutez-za, dolatria, stregoneria, inimicizie, discordia, gelosia, ire, contese, divisioni,
sètte, invidie, ubriachezze, orge e altre simili cose; circa le quali, come vi ho già detto, vi preavviso: chi fa tali cose non erediterà il regno di Dio » (Galati 5:19-21). Un temperamento controllato dallo Spirito Santo, produrrà invece il frutto dello Spirito: « Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mansuetudine, autocontrollo; contro queste cose non c’è legge. Quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri. Se viviamo dello Spirito, camminiamo anche guidati dallo Spirito » (Galati 5:22-25).
Non giustifichiamoci dietro la famosa frase: « Questo è il mio carattere », perché dicendo questo, affermiamo che Dio non può fare più nulla per noi. Dio ci ama così come siamo ma ci ama così tanto da non lasciarci come siamo: « Io quindi corro così; non in modo incerto; lotto al pugilato, ma non come chi batte l’aria; anzi, tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù, perché non avvenga che, dopo aver predicato agli altri, io stesso sia squalificato » (1 Corinzi 9:26,27).

Buttiamo via la nostra ansia
Quanta apprensione si nasconde talvolta nella nostra vita, che facilmente si trasforma in ansia. Domandiamoci: « Siamo o no figli di Dio? Dio è nostro Padre? » Se soltanto rispondiamo di si a queste domande, non dobbiamo temere di nulla: « Perciò vi dico: non siate in ansia per la vostra vita, di che cosa mangerete o di che cosa berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutre. Non valete voi molto più di loro? E chi di voi può con la sua preoccupazione aggiungere un’ora sola alla durata della sua vita? E perché siete così ansiosi per il vestire? Osservate come crescono i gigli della campagna: essi non faticano e non filano; eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro. Ora se Dio veste in questa maniera l’erba dei campi che oggi è, e domani è gettata nel forno, non farà molto di più per voi, o gente di poca fede? Non siate dunque in ansia, dicendo: « Che mangeremo? Che berremo? Di che ci vestiremo? » Perché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; ma il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose. Cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno date in più. Non siate dunque in ansia per il domani, perché il domani si preoccuperà di sé stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno » (Matteo 6:25-34).
Notiamo in questi versetti l’invito del Signore: « Non siate in ansia ». Gettiamo via da noi ogni sollecitudine ansiosa, perché Dio si prende cura di noi: « Io, il Signore, il tuo Dio, fortifico la tua mano destra e ti dico: Non temere, io ti aiuto! Non temere, Giacobbe, vermiciattolo, e Israele, povera larva. Io ti aiuto », dice il Signore. « Il tuo salvatore è il Santo d’Israele » (Isaia 41:13,14).

Buttiamo via la nostra pigrizia
A volte capita d’incontrare cristiani particolarmente pigri: hanno voglia di non fare nulla. La pigrizia è un pericolo da non trascurare. Il grande re Davide cadde in un vortice di peccati a causa della pigrizia: « L’anno seguente, nella stagione in cui i re cominciano le guerre, Davide mandò Ioab con la sua gente e con tutto Israele a devastare il paese dei figli di Ammon e ad assediare Rabba; ma Davide rimase a Gerusalemme. Una sera Davide, alzatosi dal suo letto, si mise a passeggiare sulla terrazza del
palazzo reale; dalla terrazza vide una donna che faceva il bagno. La donna era bellissima » (2 Samuele 11:1,2).
Se la pigrizia trovò posto nel cuore di Davide, può trovarla anche nel nostro e in quel caso grande sarà la nostra rovina: « Fino a quando, o pigro, te ne starai coricato? Quando ti sveglierai dal tuo sonno? Dormire un po’, sonnecchiare un po’, incrociare un po’ le mani per riposare. La tua povertà verrà come un ladro, la tua miseria, come un uomo armato » (Proverbi 6:9-11).
La via del pigro conduce velocemente alla povertà come dimostrano i seguenti versetti:
- Proverbi 13:4 « Il pigro desidera, e non ha nulla, ma l’operoso sarà pienamente soddisfatto.
- Proverbi 15:19 « La via del pigro è come una siepe di spine, ma il sentiero degli uomini retti è piano ».
- Proverbi 19:15,24 « La pigrizia fa cadere nel torpore, e la persona indolente patirà la fame ». Il pigro tuffa la mano nel piatto e non fa neppure tanto da portarla alla bocca ».
- Proverbi 20:4 « Il pigro non ara a causa del freddo; alla raccolta verrà a cercare, ma non ci sarà nulla ».
- Proverbi 21:25 « I desideri del pigro lo uccidono, perché le sue mani rifiutano di lavorare ».
- Proverbi 26:15 « Il pigro tuffa la mano nel piatto; e gli sembra fatica riportarla alla bocca ».
- Ecclesiaste 10:18 « Per la pigrizia sprofonda il soffitto; per la rilassatezza delle mani piove in casa ».
Buttiamo via da noi la pigrizia: « Quanto allo zelo, non siate pigri; siate ferventi nello spirito, servite il Signore » (Romani 12:11).
Rimbocchiamoci le maniche perché le campagne sono bianche da mietere e gli operai sono pochi: « E diceva loro: « La mèsse è grande, ma gli operai sono pochi; pregate dunque il Signore della mèsse perché spinga degli operai nella sua mèsse » (Luca 10:2).

Buttiamo via i giudizi
Gesù dice – e la nostra esperienza lo ha più volte dimostrato – che è più facile vedere la pagliuzza che è nell’occhio del fratello, che la trave che è nel nostro occhio, è più facile che ingoiamo il cammello, mentre filtriamo il moscerino. I difetti degli altri sono come gli anabbaglianti della macchina: sono sempre quelli degli altri che ci danno fastidio: « Non giudicate, affinché non siate giudicati; perché con il giudizio con il quale giudicate, sarete giudicati; e con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi. Perché guardi la
pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello, mentre non scorgi la trave che è nell’occhio tuo? O, come potrai tu dire a tuo fratello: « Lascia che io ti tolga dall’occhio la pagliuzza », mentre la trave è nell’occhio tuo? Ipocrita, togli prima dal tuo occhio la trave, e allora ci vedrai bene per trarre la pagliuzza dall’occhio di tuo fratello » (Matteo 7:1-5). È facile giudicare gli altri, più difficile giudicare noi stessi: « Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, perché siete simili a sepolcri imbiancati, che appaiono belli di fuori, ma dentro sono pieni d’ossa di morti e d’ogni immondizia. Così anche voi, di fuori sembrate giusti alla gente; ma dentro siete pieni d’ipocrisia e d’iniquità » (Matteo 23:27,28).
L’ipocrita era una maschera teatrale, dietro la quale si nascondeva l’attore. Buttiamo via da noi questa maschera, mostriamo il nostro vero volto, perché solo così saremo meno severi con gli altri. Talvolta capita che proprio quando viviamo una vita non conforme alla volontà di Dio, che diventiamo troppo severi con gli altri, come accadde a Davide: « Davide si adirò moltissimo contro quell’uomo e disse a Natan: « Com’è vero che il Signore vive, colui che ha fatto questo merita la morte e pagherà quattro volte il valore dell’agnellina, per aver fatto una cosa simile e non aver avuto pietà ». Allora Natan disse a Davide: « Tu sei quell’uomo! » (2 Samuele 12:5-7).
Impara ad essere tollerante verso gli sbagli degli altri come lo sei con te stesso e soprattutto guarda gli altri non dimenticando che Gesù è morto anche per loro.

Buttiamo via la gelosia e l’invidia
Secondo un’enciclopedia, la gelosia è: « Invidia, rivalità », mentre l’invidia è: « Sentimento di rancore e d’astio per la felicità o le qualità degli altri ».
La gelosia che porta alla contesa è prova di carnalità nella chiesa: « Fratelli, io non ho potuto parlarvi come a spirituali, ma ho dovuto parlarvi come a carnali, come a bambini in Cristo. Vi ho nutriti di latte, non di cibo solido, perché non eravate capaci di sopportarlo; anzi, non lo siete neppure adesso, perché siete ancora carnali. Infatti, dato che ci sono tra di voi gelosie e contese, non siete forse carnali e non vi comportate come qualsiasi uomo »? (1 Corinzi 3:1-3). Invidia e gelosia verso dei fratelli sono dunque sentimenti negativi presenti in coloro che non gioiscono del bene e delle qualità altrui, ma se ne irritano perché le vorrebbero per sé. È mancanza di amore e di sottomissione a Dio nello accettare la « misura della fede » che Lui ci ha assegnata. Gelosia per un dono di predicazione che può farci ombra, per una famiglia ordinata e sottomessa a Dio, per un’intesa profonda fra coniugi, per l’apprezzamento che altri fratelli ottengono.
Invidia e gelosia, finché non generano contese e altri guai, possono non trasparire all’esterno, ma rodono il nostro rapporto col fratello e rovinano la nostra vita spirituale.
Un esame interessante sarebbe accertare quando proviamo nel nostro cuore (spesso senza rendercene chiaramente conto) il compiacimento per le disgrazie degli altri. Se riusciamo ad essere sinceri fino in fondo, credo che dovremmo vergognarci e gridare al Signore. Tendenziosità, sospetto, cattiva intenzione presunta negli altri, modo negativo di considerare il fratello, compiacimento per gli errori altrui: tutti sentimenti purtroppo diffusi che restano dentro, ma che avvelenano sovente i rapporti e preparano a guasti più clamorosi.

Buttiamo via l’ira e la collera
Quest’impeto dell’animo improvviso e violento che si rivolge contro qualcuno o qualcosa, quest’infiammarsi, accendersi, avvampare, ardere d’ira, non deve essere presente nella vita del credente: « Sia ogni uomo lento all’ira, perché l’ira dell’uomo non mette in opera la giustizia di Dio » (Giacomo 1:19).
L’ira dell’uomo è sempre vista negativamente. Nella parabola del figlio prodigo, il fratello maggiore si adira e non vuole entrare nel banchetto d’amore: « Egli si adirò e non volle entrare; allora suo padre uscì e lo pregava di entrare. Ma egli rispose al padre: « Ecco, da tanti anni ti servo e non ho mai trasgredito un tuo comando; a me però non hai mai dato neppure un capretto per far festa con i miei amici; ma quando è venuto questo tuo figlio che ha sperperato i tuoi beni con le prostitute, tu hai ammazzato per lui il vitello ingrassato » (Luca 15:28-30).
L’ira è sempre condannata da Gesù: « Chiunque s’adira contro suo fratello sarà sottoposto al tribunale » (Matteo 5:22).
Ira e collera sono fra le cose da deporre: « Ora invece deponete anche voi tutte queste cose: ira, collera, malignità, calunnia; e non vi escano di bocca parole oscene » (Colossesi 3:8).
Le parole di Efesini 4:26: « Adiratevi e non peccate, il sole non tramonti sopra la vostra collera », non esortano all’ira, significano piuttosto: « Mostrate sdegno, però, attenti a non peccare » (TILC) e non rimanete in quest’atteggiamento. « Sia tolta via ogni ira » (v. 31).
Fruga negli angoli più remoti della tua vita, forse si è ammucchiata tanta spazzatura: non risparmiarla, buttala via.

Publié dans:meditazioni |on 20 août, 2013 |Pas de commentaires »

San Bernardo di Chiaravalle

San Bernardo di Chiaravalle dans immagini sacre bernard

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Publié dans:immagini sacre |on 19 août, 2013 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI: SAN BERNARDO DI CHIARAVALLE (memoria 20 agosto)

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2009/documents/hf_ben-xvi_aud_20091021_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

PIAZZA SAN PIETRO

MERCOLEDÌ, 21 OTTOBRE 2009

SAN BERNARDO DI CHIARAVALLE (memoria 20 agosto)

Cari fratelli e sorelle,

oggi vorrei parlare su san Bernardo di Chiaravalle, chiamato “l’ultimo dei Padri” della Chiesa, perché nel XII secolo, ancora una volta, rinnovò e rese presente la grande teologia dei Padri. Non conosciamo in dettaglio gli anni della sua fanciullezza; sappiamo comunque che egli nacque nel 1090 a Fontaines in Francia, in una famiglia numerosa e discretamente agiata. Giovanetto, si prodigò nello studio delle cosiddette arti liberali – specialmente della grammatica, della retorica e della dialettica – presso la scuola dei Canonici della chiesa di Saint-Vorles, a Châtillon-sur-Seine e maturò lentamente la decisione di entrare nella vita religiosa. Intorno ai vent’anni entrò a Cîteaux, una fondazione monastica nuova, più agile rispetto agli antichi e venerabili monasteri di allora e, al tempo stesso, più rigorosa nella pratica dei consigli evangelici. Qualche anno più tardi, nel 1115, Bernardo venne inviato da santo Stefano Harding, terzo Abate di Cîteaux, a fondare il monastero di Chiaravalle (Clairvaux). Qui il giovane Abate, aveva solo venticinque anni, poté affinare la propria concezione della vita monastica, e impegnarsi nel tradurla in pratica. Guardando alla disciplina di altri monasteri, Bernardo richiamò con decisione la necessità di una vita sobria e misurata, nella mensa come negli indumenti e negli edifici monastici, raccomandando il sostentamento e la cura dei poveri. Intanto la comunità di Chiaravalle diventava sempre più numerosa, e moltiplicava le sue fondazioni.
In quegli stessi anni, prima del 1130, Bernardo avviò una vasta corrispondenza con molte persone, sia importanti che di modeste condizioni sociali. Alle tante Lettere di questo periodo bisogna aggiungere numerosi Sermoni, come anche Sentenze e Trattati. Sempre a questo tempo risale la grande amicizia di Bernardo con Guglielmo, Abate di Saint-Thierry, e con Guglielmo di Champeaux, figure tra le più importanti del XII secolo. Dal 1130 in poi, iniziò a occuparsi di non pochi e gravi questioni della Santa Sede e della Chiesa. Per tale motivo dovette sempre più spesso uscire dal suo monastero, e talvolta fuori dalla Francia. Fondò anche alcuni monasteri femminili, e fu protagonista di un vivace epistolario con Pietro il Venerabile, Abate di Cluny, sul quale ho parlato mercoledì scorso. Diresse soprattutto i suoi scritti polemici contro Abelardo, un grande pensatore che ha iniziato un nuovo modo di fare teologia, introducendo soprattutto il metodo dialettico-filosofico nella costruzione del pensiero teologico. Un altro fronte contro il quale Bernardo ha lottato è stata l’eresia dei Catari, che disprezzavano la materia e il corpo umano, disprezzando, di conseguenza, il Creatore. Egli, invece, si sentì in dovere di prendere le difese degli ebrei, condannando i sempre più diffusi rigurgiti di antisemitismo. Per quest’ultimo aspetto della sua azione apostolica, alcune decine di anni più tardi, Ephraim, rabbino di Bonn, indirizzò a Bernardo un vibrante omaggio. In quel medesimo periodo il santo Abate scrisse le sue opere più famose, come i celeberrimi Sermoni sul Cantico dei Cantici. Negli ultimi anni della sua vita – la sua morte sopravvenne nel 1153 – Bernardo dovette limitare i viaggi, senza peraltro interromperli del tutto. Ne approfittò per rivedere definitivamente il complesso delle Lettere, dei Sermoni e dei Trattati. Merita di essere menzionato un libro abbastanza particolare, che egli terminò proprio in questo periodo, nel 1145, quando un suo allievo, Bernardo Pignatelli, fu eletto Papa col nome di Eugenio III. In questa circostanza, Bernardo, in qualità di Padre spirituale, scrisse a questo suo figlio spirituale il testo De Consideratione, che contiene insegnamenti per poter essere un buon Papa. In questo libro, che rimane una lettura conveniente per i Papi di tutti i tempi, Bernardo non indica soltanto come fare bene il Papa, ma esprime anche una profonda visione del mistero della Chiesa e del mistero di Cristo, che si risolve, alla fine, nella contemplazione del mistero di Dio trino e uno: “Dovrebbe proseguire ancora la ricerca di questo Dio, che non è ancora abbastanza cercato”, scrive il santo Abate “ma forse si può cercare meglio e trovare più facilmente con la preghiera che con la discussione. Mettiamo allora qui termine al libro, ma non alla ricerca” (XIV, 32: PL 182, 808), all’essere in cammino verso Dio.
Vorrei ora soffermarmi solo su due aspetti centrali della ricca dottrina di Bernardo: essi riguardano Gesù Cristo e Maria santissima, sua Madre. La sua sollecitudine per l’intima e vitale partecipazione del cristiano all’amore di Dio in Gesù Cristo non porta orientamenti nuovi nello statuto scientifico della teologia. Ma, in maniera più che mai decisa, l’Abate di Clairvaux configura il teologo al contemplativo e al mistico. Solo Gesù – insiste Bernardo dinanzi ai complessi ragionamenti dialettici del suo tempo – solo Gesù è “miele alla bocca, cantico all’orecchio, giubilo nel cuore (mel in ore, in aure melos, in corde iubilum)”. Viene proprio da qui il titolo, a lui attribuito dalla tradizione, di Doctor mellifluus: la sua lode di Gesù Cristo, infatti, “scorre come il miele”. Nelle estenuanti battaglie tra nominalisti e realisti – due correnti filosofiche dell’epoca – l’Abate di Chiaravalle non si stanca di ripetere che uno solo è il nome che conta, quello di Gesù Nazareno. “Arido è ogni cibo dell’anima”, confessa, “se non è irrorato con questo olio; insipido, se non è condito con questo sale. Quello che scrivi non ha sapore per me, se non vi avrò letto Gesù”. E conclude: “Quando discuti o parli, nulla ha sapore per me, se non vi avrò sentito risuonare il nome di Gesù” (Sermones in Cantica Canticorum XV, 6: PL 183,847). Per Bernardo, infatti, la vera conoscenza di Dio consiste nell’esperienza personale, profonda di Gesù Cristo e del suo amore. E questo, cari fratelli e sorelle, vale per ogni cristiano: la fede è anzitutto incontro personale, intimo con Gesù, è fare esperienza della sua vicinanza, della sua amicizia, del suo amore, e solo così si impara a conoscerlo sempre di più, ad amarlo e seguirlo sempre più. Che questo possa avvenire per ciascuno di noi!
In un altro celebre Sermone nella domenica fra l’ottava dell’Assunzione, il santo Abate descrive in termini appassionati l’intima partecipazione di Maria al sacrificio redentore del Figlio. “O santa Madre, – egli esclama – veramente una spada ha trapassato la tua anima!… A tal punto la violenza del dolore ha trapassato la tua anima, che a ragione noi ti possiamo chiamare più che martire, perché in te la partecipazione alla passione del Figlio superò di molto nell’intensità le sofferenze fisiche del martirio” (14: PL 183,437-438). Bernardo non ha dubbi: “per Mariam ad Iesum”, attraverso Maria siamo condotti a Gesù. Egli attesta con chiarezza la subordinazione di Maria a Gesù, secondo i fondamenti della mariologia tradizionale. Ma il corpo del Sermone documenta anche il posto privilegiato della Vergine nell’economia della salvezza, a seguito della particolarissima partecipazione della Madre (compassio) al sacrificio del Figlio. Non per nulla, un secolo e mezzo dopo la morte di Bernardo, Dante Alighieri, nell’ultimo canto della Divina Commedia, metterà sulle labbra del “Dottore mellifluo” la sublime preghiera a Maria: “Vergine Madre, figlia del tuo Figlio,/umile ed alta più che creatura,/termine fisso d’eterno consiglio, …” (Paradiso 33, vv. 1ss.).
Queste riflessioni, caratteristiche di un innamorato di Gesù e di Maria come san Bernardo, provocano ancor oggi in maniera salutare non solo i teologi, ma tutti i credenti. A volte si pretende di risolvere le questioni fondamentali su Dio, sull’uomo e sul mondo con le sole forze della ragione. San Bernardo, invece, solidamente fondato sulla Bibbia e sui Padri della Chiesa, ci ricorda che senza una profonda fede in Dio, alimentata dalla preghiera e dalla contemplazione, da un intimo rapporto con il Signore, le nostre riflessioni sui misteri divini rischiano di diventare un vano esercizio intellettuale, e perdono la loro credibilità. La teologia rinvia alla “scienza dei santi”, alla loro intuizione dei misteri del Dio vivente, alla loro sapienza, dono dello Spirito Santo, che diventano punto di riferimento del pensiero teologico. Insieme a Bernardo di Chiaravalle, anche noi dobbiamo riconoscere che l’uomo cerca meglio e trova più facilmente Dio “con la preghiera che con la discussione”. Alla fine, la figura più vera del teologo e di ogni evangelizzatore rimane quella dell’apostolo Giovanni, che ha poggiato il suo capo sul cuore del Maestro.
Vorrei concludere queste riflessioni su san Bernardo con le invocazioni a Maria, che leggiamo in una sua bella omelia. “Nei pericoli, nelle angustie, nelle incertezze, – egli dice – pensa a Maria, invoca Maria. Ella non si parta mai dal tuo labbro, non si parta mai dal tuo cuore; e perché tu abbia ad ottenere l’aiuto della sua preghiera, non dimenticare mai l’esempio della sua vita. Se tu la segui, non puoi deviare; se tu la preghi, non puoi disperare; se tu pensi a lei, non puoi sbagliare. Se ella ti sorregge, non cadi; se ella ti protegge, non hai da temere; se ella ti guida, non ti stanchi; se ella ti è propizia, giungerai alla meta…” (Hom. II super «Missus est», 17: PL 183, 70-71).

LA DONNA VALORIZZATA NELL’OPERA DI S. LUCA PER MERITO DI GESÙ IL SIGNORE SOTTO L’AZIONE DELLO SPIRITO SANTO

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 LA DONNA VALORIZZATA NELL’OPERA DI S. LUCA PER MERITO DI GESÙ IL SIGNORE SOTTO L’AZIONE DELLO SPIRITO SANTO

MARIA LUISA RIGATO

Introduzione

L’evento della Pentecoste cristiana è uno dei temi più commentati e dipinti della cristianità. Essendo considerato l’evento originario della chiesa (At 11,15: «in principio»), è comunque sempre pieno di suggestione e oggetto di rinnovata interpretazione. Anziché definire le comunità cristiane delle origini come post-pasquali, in riferimento alla risurrezione del Signore Gesù, sarebbe più preciso definirle post-pentecostali, includendovi anche l’azione dello Spirito Santo, ossia dell’Inviato-dell’Apostolo da parte del Risorto che afferma[1]: «Io invio la Promessa del Padre mio su di voi» (Lc 24,49). Si noti l’enfatico «Io», grammaticalmente superfluo.
All’inizio del terzo millennio dalla venuta del Signore Gesù è forse (?) giunto il tempo di chiudere la fase della rivendicazione femminile[2], tipica dell’ultimo quarto del ventesimo secolo e frutto saporoso del concilio Vaticano II, per leggere e comprendere titoli e/o appellativi ministeriali presenti negli scritti del Nuovo Testamento – riferiti per secoli solamente agli uomini – finalmente e semplicemente in maniera inclusiva, ossia riferiti a discepoli donne e uomini, anche se grammaticalmente al maschile. Possa davvero adempiersi l’augurio-manifesto verosimilmente già pre-paolino: «né donna separatamente da uomo né uomo separatamente da donna, nel Signore» (1Cor 11,11), in un contesto non matrimoniale, ma liturgico. La prevaricazione dell’uno sull’altra e viceversa non è evangelica.
Le pagine seguenti sono una rilettura di alcuni dettagli della narrazione pentecostale lucana, per ri-scoprire una volta di più l’aspetto inclusivo – in questo caso nell’opera lucana (Vangelo secondo Luca e Atti degli Apostoli) –, ossia la graduale comprensione tra i discepoli del «Signore Gesù»[3] circa la pari dignità tra uomini e donne, capaci queste di pari responsabilità nella chiesa, anche a livello dei carismi di profezia, di invio (= apostolato), di testimonianza, di evangelizzazione (attiva), in seguito al battesimo in Spirito Santo e fuoco (Lc 3,16 = Mt 3,11; senza «fuoco»: Mc 1,8; Gv 1,33; At 1,5).
Procedo pertanto dalla precomprensione, fondata sullo studio dei testi, che nella chiesa delle origini, e già in embrione nella sequela di Gesù, si possa o si debba parlare di inclusività;detto diversamente, i titoli al maschile riguardano uomini e donne. Pensiamo ad esempio al ben noto passo di Rm 16,1, dove Paolo in prima istanza raccomanda «Febe, la nostra sorella, che è anche diacono della chiesa in Cencre» (il porto orientale di Corinto). «Diacono» – come il nostro «ministro» – è dunque un titolo maschile adoperato da Paolo qui per una donna, ossia in maniera inclusiva.
Tra i discepoli del Signore Gesù si possono distinguere «i Dodici», poi la cerchia larga dei discepoli-fratelli, donne e uomini, poi – per effetto speciale della Pentecoste – un gruppo più ristretto di discepoli-apostoli, donne e uomini. Quanto a «i Dodici», – in cima alla piramide o alla base della medesima – anch’essi discepoli-apostoli[4], ma solo uomini, rappresentano nella chiesa i capostipiti, ovviamente maschi, delle dodici tribù d’Israele. Essi «nel regno» di Gesù «siederanno su troni giudicando le dodici tribù d’Israele» (Lc 22,30).
È vero, oggi si tratta spesso di cercare puntigliosamente, tra le righe, affermazioni, indicazioni, indizi, che alla fine si trovano come delle perle preziose nascoste a conferma e supporto di una interpretazione inclusiva! Ritengo comunque che qui si tratti di un nostro problema, non di un problema per i primi lettori degli scritti del Nuovo Testamento. Per essi l’inclusività era presumibilmente ovvia, per cui quando si leggeva nel testo «discepoli» questo appellativo includeva donne e uomini. Prima della riforma liturgica del Vaticano II la proclamazione del Vangelo durante la Messa iniziava spesso con la frase: «Il Signore disse ai suoi discepoli». Nella comprensione dei cristiani e nelle prediche questa espressione era l’esatto equivalente di: «Il Signore disse ai suoi apostoli, cioè ai Dodici»! È difficile superare tanti secoli di lettura ideologica al maschile!
Le analisi lessicali del testo greco ed ebraico sono giustificate dal presupposto che il vocabolario e la forma letteraria del testo sono già il contenuto del testo stesso.

Il racconto di Pentecoste
Ecco una traduzione la più letterale possibile di At 2,1-4:
1E nel compiersi il giorno della Pentecoste, erano tutti insieme nello stesso posto. 2Improvvisamente ci fu un suono come di soffio irruento violento e riempì l’intera casa dove erano seduti. 3E apparvero ad essi lingue divise come di fuoco e sedette/stette sopra ciascuno di essi 4e tutti furono ricolmi di Spirito Santo e cominciarono a parlare con altre lingue così come lo Spirito dava ad essi di esprimersi.
Chi sono i «tutti» presenti all’effusione dello Spirito Santo? La prima domanda che esige una risposta è proprio questa: chi sono i «tutti» di At 2,1.4, beneficiari dell’effusione dello Spirito Santo? Nei commentari si trovano tre diverse posizioni:
-     sono soltanto i Dodici apostoli;
-     sono gli Undici assieme al gruppo di donne e dei fratelli di Gesù elencati in At 1,13, ma non i centoventi di At 1,15;
-     sono la totalità dei presenti dichiarata per ultima, e cioè i centoventi di At 1,15, inclusi i nominati in At 1,13:«Pietro, Giovanni, Giacomo, Andrea, Filippo, Tommaso, Bartolomeo, Matteo, Giacomo di Alfeo, Simone lo zelota, Giuda di Giacomo, insieme a[lle] donne e a Maria la Madre di Gesù e ai fratelli [consanguinei] di Lui».
Per motivi di spazio bisogna qui rinunciare ad un’analisi minuziosa[5] dei passi significativi per l’argomento in esame in cui troviamo in Luca il termine «tutti». Riassumo pertanto sinteticamente.
Siccome letterariamente e canonicamente gli Atti degli Apostoli sono la continuazione ideale del Vangelo secondo Luca, non possiamo prescindere da esso. Dunque le persone presenti nella duplice narrazione lucana dell’ascensione del Signore Gesù e nel contesto narrativo immediato sono le medesime, sia nel Vangelo (Lc 24,33-53) sia negli Atti (At 1,1-14). In Lc 24,33 si tratta dei «due» ritornati da Emmaus, tra cui Cleofa, e «gli Undici e quelli con essi»; chi sono «quelli con essi»? Sono le stesse persone, narrativamente parlando, nominate da Luca all’inizio del capitolo 24: le donne Maria Maddalena, Giovanna e Maria di Giacomo e le rimanenti con esse (Lc 24,10). Queste, avendo vissuta l’esperienza sconvolgente presso il sepolcro di uomini-angeli (Lc 24,4-23) che danno loro l’annuncio della risurrezione di Gesù, «annunziarono tutte queste cose agli Undici e a tutti i rimanenti» (Lc 24,9). Questa proposizione è letterariamente parallela con: «dicevano/ripetevano queste cose agli apostoli» (Lc 24,10), nel senso che anche «i rimanenti» sono apostoli accanto agli Undici. Anche in At 2,37 ricorre una formula analoga: «Pietro e i rimanenti apostoli» più ampia di «Pietro con gli Undici» (At 2,14). Nel capitolo 24 del Vangelo, Luca non nomina né la Madre di Gesù, né i parenti di lui: lo farà in At 1,14.
Nel prologo degli Atti, in prima battuta Gesù risorto dà disposizioni «agli apostoli [...] che si era scelto» (At 1,2). Siccome Luca fa un preciso riferimento al suo «primo libro» (At 1,1), e siccome in Lc 6,13 ricorre lo stesso termine riferito a Gesù che «di tra i discepoli si scelse dodici e li denominò anche apostoli», viene spontanea l’identificazione degli apostoli di At 1,2 con «i Dodici», rispettivamente «gli Undici» perché nel frattempo Giuda era morto. In At 1,3 «gli Undici» non sono più soli, anche se narrativamente Luca ce lo fa sapere soltanto in At 1,14 dove gli Undici sono «con donne e parenti stretti», e in occasione dell’elezione di Mattia (At 1,21-26). Nel primo caso si tratta di un numero relativamente ristretto di persone, comunque individuate e individuabili. L’aver ricordato esplicitamente la presenza di «donne», tra cui Maria la Madre di Gesù», è, a mio avviso, estremamente importante.
In At 1,24 Luca allarga l’idea di «tutti». È vero che il Signore è conoscitore del cuore di tutti in senso assoluto, ma qui si tratta del gruppo che a lui si rivolge in preghiera, ossia i «circa centoventi fratelli» (At 1,15). Per rimpiazzare Giuda, deve trattarsi di uno presente alle vicende «del Signore Gesù, incominciando dal battesimo di Giovanni fino» a quando «fu assunto di tra voi/noi» e vengono proposti due. Viene eletto tramite la sorte il dodicesimo. Deve comunque trattarsi di uno degli uomini (un essere maschile) del gruppo, «testimone della Sua risurrezione con noi uno di questi».
Mattia[6] viene annoverato «insieme agli Undici apostoli» dopo una preghiera rivolta al Signore di scegliere  tra i due (At 1,11.22.24).
In At 2,1 i «tutti» riuniti per l’evento della Pentecoste sono dunque in primo luogo il gruppo di At 1,14. In secondo luogo anche i circa centoventi fratelli (At 1,15), tenendo presente che «circa» non esprime un numero preciso, ma un gruppo ragguardevole multiplo dei Dodici. Se così non fosse, bisognerebbe escludere sia la Madre di Gesù sia il neoeletto Mattia! Questi «tutti» (At 2,4.11) furono ricolmi di Spirito Santo e incominciarono a parlare un linguaggio ispirato: «con altre lingue». Oggetto del parlare ispirato di tutti, non solo dei Dodici, sono «le grandi opere di Dio».
In At 2,7 «tutti questi che parlano» sono definiti «Galilei». Tra essi possiamo pensare ad una parte di «tutti i noti/conoscenti» a/di Gesù presenti alla crocifissione, uomini e donne, ma da lontano (Lc 23,49) e soprattutto «donne alla sequela (che seguono con) di lui dalla Galilea vedenti queste cose».
Non sarebbe giusto glissare sull’evidente enfasi lucana a proposito dei due participi al femminile «quelle che seguono con» e «quelle che hanno visto». Non soltanto queste donne vengono definite «seguaci» di Gesù, ma anche testimoni «oculari». Luca ritorna ancora sull’argomento con altri due participi al femminile e un verbo di visione al momento della sepoltura di Gesù. Rimane sempre la difficoltà di tradurre dal greco queste forme verbali: «Le donne seguaci però, le quali erano venute con lui dalla Galilea osservarono il sepolcro e come fu deposto il suo corpo» (Lc 23,55). Di queste donne i «due» sulla via verso Emmaus riferiranno a Gesù risorto – come se non lo sapesse! – «che esse vanno dicendo anche di aver visto una visone di angeli» (Lc 24,23). Difficile non pensare ad un richiamo a Lc 1,2: «come hanno trasmesso a noi coloro che fin dal principio hanno visto con i propri occhi e divennero ministri della parola».
Quanto ai «galilei» di At 2,7 – limitatamente ai sudditi della tetrarchia di Erode Antipa (Lc 3,1) – possiamo almeno pensare, quanto alle donne, a Maria di Magdala, a Giovanna moglie di Cusa amministratore di Erode, a Susanna (Lc 8,2-3; per le prime due anche Lc 24,10) e alle «molte altre le quali[7] li servivano con i loro beni» (Lc 8,3). La struttura grammaticale di Lc 8,1.3 è particolarmente intrigante e permette la lettura seguente: Gesù proclama ed evangelizza il regno di Dio ««ed i Dodici con lui e alcune donne, che erano state guarite [...] e molte altre». Le «alcune donne» non sono le «molte altre». Così come tra i discepoli vi era un gruppo ristretto di dodici «con Gesù», analogamente tra le donne vi era un gruppetto ristretto di tre[8] (un quarto di dodici) «con Gesù», quasi a rappresentare le madri d’Israele – Sara (Rm 4,19; Rm 9,9; Eb 11,11; 1Pt 3,6), Rebecca (Rm 9,10), Rachele (Mt 2,18) –. L’imperativo «ricordatevi» (Lc 24,6c) riguarda le donne «galilee» in maniera del tutto particolare. I due messaggeri [angeli] ingiungono alle donne di ricordarsi la profezia di Gesù sulla sua morte-risurrezione che egli aveva fatto proprio a loro, nella Galilea. I riscontri letterari conducono alle predizioni fatte ai Dodici in particolare, e ai discepoli in generale (Lc 18,31-34; Lc 9,22). Per Luca dunque le donne erano presenti in entrambi i gruppi.
Altre seguaci galilee sono probabilmente la suocera di Simon Pietro che «li serviva» (Lc 4,39); Maria di (= moglie di) Giacomo [il piccolo cf. Mc 15,40] e «le rimanenti con esse» (Lc 24,10), definite dai «due di tra essi» (Lc 24,13) «alcune donne di tra noi» (Lc 24,22). Nella redazione lucana il villaggio di Marta e Maria è anonimo (Lc 10,38). Vuole Luca forse annoverare tra le donne «galilee» anche le due sorelle discepole?
Quanto ai fratelli-parenti possiamo pensare a Giacomo[9] consanguineo di Gesù (Mt 13,55; Mc 6,3; Gal 1,19), a Maria di (= moglie di) Joses (Mc 15,47), a Cleofa (Lc 24,18), verosimilmente il Clopa giovanneo (Gv 19,25) e ad altri della famiglia di Maria e/o di Giuseppe, non nomini esplicitamente da Luca.
Tra i non-Galilei possiamo annoverare i padroni di casa: «l’intera casa» (At 2,2) ed altri. Tra gli apostoli pentecostali – come mi piace chiamarli – vanno certamente annoverati Barnaba, Giovanni evangelista (distinto dal figlio di Zebedeo), che ho definito «ultimo dei prestigiosi Presbiteri di Gerusalemme, discepolo del Signore Gesù»[10], l’ex-cieco nato giovanneo (Gv 9,7.38), Maria di Magdala; Andronico e Giunia, e infine lo stesso Saulo-Paolo. Egli sembra voler fornire un identikit degli apostoli della prima generazione in due contesti diversi di autodifesa del suo essere apostolo: essere liberi (non schiavi), aver veduto Gesù il Signore risorto, essere ingaggiati da Lui e pere Lui, essere Ebrei (ossia di lingua ebraica), di stirpe israelitica, discendenti di Abramo (1Cor 9,1-2; 2Cor 11,22-23).
Quanto ad essere «testimoni» della risurrezione di Gesù e alla «missione» post-pentecostale, per motivi di spazio rimando al mio studio indicato nella Bibliografia.

Conclusione
Possiamo vedere un’analogia nella presentazione lucana di due eventi originari: l’inizio apostolico-profetico di Gesù e l’inizio apostolico-profetico della chiesa. Detto diversamente, «Gesù di Nazaret, come Dio lo unse di Spirito Santo e potenza» (At 10,37-38; At 4,27; Lc 4,18) e l’essere battezzati in Spirito Santo e fuoco dei discepoli (Lc 3,16) per essere apostoli-profeti-testimoni del Risorto. Per il primo evento Luca cita esplicitamente Isaia (Lc 4,18 = Is 61,1-2). Per il secondo Luca cita esplicitamente Gioele: «profeteranno i vostri figli e le vostre figlie [...] i miei servi e le mie serve» (At 2,17-18 = Gl 3,1-2). Non si può inoltre negare la vicinanza impressionante di Is 6,5-8 ad At 2,3-4. Alla luce di questi passi profetici e ad un’attenta rilettura del racconto lucano sulla Pentecoste emerge l’inclusività di tre titoli carismatico-ministeriali, nel senso che ne furono investiti uomini e donne presenti, i «tutti» di At 1,15, intimamente legati al Maestro e rappresentativi di tutta la chiesa di allora e di adesso. Nella comunità pentecostale non viene sminuito il ruolo dei Dodici ma si allarga la cerchia degli apostoli e dei testimoni, con caratteristiche ben precise. I presenti, donne e uomini, ricevono dallo Spirito una lingua purificata dal fuoco divino per essere inviati a rendere testimonianza al/del Signore Gesù; sono cioè costituiti apostoli-profeti-testimoni pentecostali della sua risurrezione.
Aver rappresentato per secoli pittoricamente l’evento della Pentecoste come se riguardasse soltanto «gli Undici»/«i Dodici» e Maria la Madre di Gesù, con lo Spirito Santo discendente come una colomba, è dunque un duplice falso esegetico e teologico, perché secondo la narrazione lucana le persone presenti erano in numero maggiore e di «colomba» non c’è l’ombra. Se c’era Maria, c’erano anche gli altri «tutti»!
Possiamo allora chiederci come mai attraverso i secoli i carismi ministeriali ri-divennero sempre più esclusivi, riservati cioè al genere maschile. Mentre l’inclusività del titolo di «profeta» non ha creato problema perché si trova al femminile sia nell’Antico come nel Nuovo Testamento, l’inclusività dei titoli ministeriali di apostoli e testimoni ha rappresentato un tabù nella chiesa dei secoli successivi a quello delle origini, forse per un fenomeno di normalizzazione restaurata. La comunità originaria, nonostante i condizionamenti culturali di diversa natura, fece uno sforzo enorme sotto l’azione dello Spirito Santo, assecondando una precisa volontà del Signore risorto.
Insieme a Luca, anche Giovanni, alla sua maniera, narra della promessa e dell’effusione dello Spirito Santo. Parafrasando Gv 14,26 con Gv 16,13 e Gv 20,22: il Consolatore, lo Spirito Santo, ripresentò alla memoria dei discepoli quanto il Signore aveva detto. Egli, «lo Spirito della Verità» ossia lo Spirito di Gesù rivelatore introdusse i discepoli ad una ulteriore verità che prima non erano neppure in grado di sopportare, dopo che il Signore risorto «alitò e disse loro ricevete Spirito Santo». Nel «discorso del congedo», quando Gesù prega non soltanto per «questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in» lui (Gv 17,20), chiede al Padre «che tutti siano una cosa sola come Noi» (Gv 17,11.21.22.23). In questa preghiera del Gesù giovanneo possiamo tranquillamente collocare anche, e forse prima di tutto, l’istanza dell’unità tra discepole e discepoli.

Maria-Luisa Rigato

Sommario
È giunto il tempo di comprendere finalmente e semplicemente tutti gli appellativi ministeriali del Nuovo Testamento in maniera inclusiva, ossia donne e uomini inclusi. Senza nulla togliere all’importanza dei «Dodici» apostoli, da tutta la narrazione lucana sulla Pentecoste (At 2,1-13, ­ messa anche a confronto con Is 6,5-8) ­ emerge che «gli altri» non costituiscono una cornice decorativa per i «Dodici», ma «tutti» i presenti, donne e uomini, ricevono dallo Spirito Santo una lingua purificata dal fuoco divino per essere inviati a rendere testimonianza per Gesù il Signore: tutti diventanoapostoli-profeti-testimonidella sua risurrezione.

NOTA BIBLIOGRAFICA
Cf. M.-L. Rigato, Il valore inclusivo di Pantes nella narrazione dell’evento di Pentecoste in Luca (At 2,3-4). Apostoli-Testimoni pentecostali, in «Rivista Biblica» 48 (2000), pp. 129-150, con molte note e ampia bibliografia. Collegato al precedente: Id., L’evento della Pentecoste secondo At 2,3-4 alla luce di Is 6,5-8, in «Rivista Biblica» 48 (2000), fasc. 4 [in fase di stampa]; Id., Maria di Nazaret di stirpe levitica sacerdotale, in «Theotokos. Ricerche interdisciplinari di Mariologia», 8 (2000), pp. 275-304.
[1] Altri appellativi dello Spirito Santo nei Vangeli e negli Atti degli Apostoli: «Potenza da(ll’) alto» (Lc 24,49); «il Dono di Dio» (At 8,20); «il Dono dello Spirito Santo» (At 10,45); «Dio ha dato il Dono» (At 11,17); «il Consolatore» che Gesù «manderà» (Gv 14,26; Gv 15,26; Gv 16,7).
[2] Vorrei sintetizzare la fase della rivendicazione con le parole che nel suo delizioso volumetto L. Padovese, Piccoli dialoghi fra santi di marmo, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 1999, mette sulle labbra di Tecla: «Proprio guardando a Gesù, al discepolo prediletto, e al mio grande maestro Paolo io dico che noi donne dobbiamo rivendicare il passato cristiano come passato appartenente anche a noi, non soltanto come un passato maschile cui le donne partecipavano solo ai margini, oppure non facevano nulla. Cristo ci ha liberati dalla situazione di emarginazione e di inferiorità in cui la cultura mediterranea, patricentrica e maschilista, ci vorrebbe lasciare. L’intensità del nostro amare ha fatto di noi donne libere, vere discepole del Maestro!» (p. 48).
[3] È questa la professione di fede più concentrata. Nei Vangeli troviamo generalmente il titolo «Signore» senza il nome di Gesù, fatta eccezione per Mc 16,19 «il Signore Gesù» e Lc 24,3 «il corpo del Signore Gesù». Negli Atti degli Apostoli è uno dei titoli preferiti: «il Signore Gesù» (At 1,21; At 4,33; At 6,59; At 8,16; At 9,17; At 11,20; At 15,11; At 16,31; At 19,5.13.17; At 20,21 + «nostro» At 24.35; At 21,13), tre volte accompagnato da «Cristo» (At 11,17; At 15,26 + «nostro»; At 28,31). È presente in tutti gli altri scritti del Nuovo Testamento.
[4] Lc 6,13: «Gesù chiamò a sé i suoi discepoli e avendo scelto da essi Dodici li denominò anche apostoli». Questa traduzione del testo greco («e» con «anche») dal punto di vista grammaticale è del tutto plausibile e s’impone per via del versetto successivo: «Simone il quale denominò anche Pietro» (Lc 6,14). Se questo è vero, Luca fin dalla prima ricorrenza di «apostoli» nel suo vangelo farebbe intuire che «i Dodici» erano, sì, apostoli, ma non i soli apostoli., come emerge anche da altri passi del Nuovo Testamento.
[5] Rimando per questo al nostro articolo: Il valore inclusivo di Pantes nella narrazione dell’evento di Pentecoste in Luca (At 2,3-4). Apostoli-Testimoni pentecostali, in «Rivista Biblica» 48 (2000), pp. 129-150 (qui: pp. 134-141).
[6] Secondo 1Cor 15,5: «Cristo [...] apparve a Cefa indi ai Dodici». La tradizione ha incluso fin dal principio Mattia tra i Dodici.
[7] Grammaticalmente è possibile riferire «li servivano con i loro beni» soltanto alle «molte altre», senza includere il gruppo delle donne citate per nome.
[8] Gli evangelisti menzionano per nome al massimo tre donne alla volta (Mt 27,56; Mc 15,40; Mc 16,1; Lc 8,3; Lc 24,10).
[9] Per Giacomo rimandiamo al nostro articolo: Maria di Nazaret di stirpe levitica sacerdotale, in «Theotokos. Ricerche interdisciplinari di Mariologia», 8 (2000), pp. 275-304.
[10] Per Giovanni rimandiamo al nostro articolo: Maria di Nazaret di stirpe…, cit., excursus finale.

Publié dans:BIBBIA, biblica, Santi Evangelisti |on 19 août, 2013 |Pas de commentaires »

Magnificat

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Publié dans:immagini sacre |on 18 août, 2013 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO, OMELIA PER L’ASSUNTA

http://www.zenit.org/it/articles/maria-canta-con-i-cristiani-il-magnificat-della-speranza

PAPA FRANCESCO, OMELIA PER L’ASSUNTA

Maria canta con i cristiani il Magnificat della speranza
L’omelia di Papa Francesco nella Messa di ieri per la Solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria, in piazza della Libertà a Castelgandolfo

Citta’ del Vaticano, 16 Agosto 2013 (Zenit.org)

Alle ore 9.00 di ieri, giovedì 15 agosto, Solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria, Papa Francesco ha lasciato in auto il Vaticano ed ha raggiunto Castel Gandolfo, recandosi subito in visita al Monastero di clausura delle Clarisse, all’interno delle Ville Pontificie. Alle 10.30, in piazza della Libertà, ha presieduto la Santa Messa per i fedeli della parrocchia pontificia di San Tommaso da Villanova. Di seguito, riportiamo il testo dell’omelia che il Santo Padre ha pronunciato dopo la proclamazione del Vangelo:

***

Cari fratelli e sorelle!
Al termine della Costituzione sulla Chiesa, il Concilio Vaticano II ci ha lasciato una meditazione bellissima su Maria Santissima. Ricordo soltanto le espressioni che si riferiscono al mistero che celebriamo oggi: La prima è questa: «L’immacolata Vergine, preservata immune da ogni macchia di colpa originale, finito il corso della sua vita terrena, fu assunta alla gloria celeste col suo corpo e la sua anima, e dal Signore esaltata come la regina dell’universo» (n. 59). E poi, verso la fine, vi è quest’altra: «La Madre di Gesù, come in cielo, glorificata ormai nel corpo e nell’anima, è l’immagine e la primizia della Chiesa che dovrà avere il suo compimento nell’età futura, così sulla terra brilla come segno di sicura speranza e di consolazione per il Popolo di Dio in cammino, fino a quando non verrà il giorno del Signore» (n. 68). Alla luce di questa bellissima icona di nostra Madre, possiamo considerare il messaggio contenuto nelle Letture bibliche che abbiamo appena ascoltato. Possiamo concentrarci su tre parole-chiave: lotta, risurrezione, speranza.
Il brano dell’Apocalisse presenta la visione della lotta tra la donna e il drago. La figura della donna, che rappresenta la Chiesa, è da una parte gloriosa, trionfante, e dall’altra ancora in travaglio. Così in effetti è la Chiesa: se in Cielo è già associata alla gloria del suo Signore, nella storia vive continuamente le prove e le sfide che comporta il conflitto tra Dio e il maligno, il nemico di sempre. E in questa lotta che i discepoli di Gesù devono affrontare – noi tutti, noi, tutti i discepoli di Gesù dobbiamo affrontare questa lotta – Maria non li lascia soli; la Madre di Cristo e della Chiesa è sempre con noi. Sempre, cammina con noi, è con noi. Anche Maria, in un certo senso, condivide questa duplice condizione. Lei, naturalmente, è ormai una volta per sempre entrata nella gloria del Cielo. Ma questo non significa che sia lontana, che sia staccata da noi; anzi, Maria ci accompagna, lotta con noi, sostiene i cristiani nel combattimento contro le forze del male. La preghiera con Maria, in particolare il Rosario – ma sentite bene: il Rosario. Voi pregate il Rosario tutti i giorni? Ma, non so… [i presenti gridano: Sì!] Sicuro? Ecco, la preghiera con Maria, in particolare il Rosario ha anche questa dimensione « agonistica », cioè di lotta, una preghiera che sostiene nella battaglia contro il maligno e i suoi complici. Anche il Rosario ci sostiene nella battaglia.
La seconda Lettura ci parla della risurrezione. L’apostolo Paolo, scrivendo ai Corinzi, insiste sul fatto che essere cristiani significa credere che Cristo è veramente risorto dai morti. Tutta la nostra fede si basa su questa verità fondamentale che non è un’idea ma un evento. E anche il mistero dell’Assunzione di Maria in corpo e anima è tutto inscritto nella Risurrezione di Cristo. L’umanità della Madre è stata « attratta » dal Figlio nel suo passaggio attraverso la morte. Gesù è entrato una volta per sempre nella vita eterna con tutta la sua umanità, quella che aveva preso da Maria; così lei, la Madre, che Lo ha seguito fedelmente per tutta la vita, Lo ha seguito con il cuore, è entrata con Lui nella vita eterna, che chiamiamo anche Cielo, Paradiso, Casa del Padre. Anche Maria ha conosciuto il martirio della croce: il martirio del suo cuore, il martirio dell’anima. Lei ha sofferto tanto, nel suo cuore, mentre Gesù soffriva sulla croce. La Passione del Figlio l’ha vissuta fino in fondo nell’anima. E’ stata pienamente unita a Lui nella morte, e per questo le è stato dato il dono della risurrezione. Cristo è la primizia dei risorti, e Maria è la primizia dei redenti, la prima di «quelli che sono di Cristo». E’ nostra Madre, ma anche possiamo dire è la nostra rappresentante, è la nostra sorella, la nostra prima sorella, è la prima dei redenti che è arrivata in Cielo.
Il Vangelo ci suggerisce la terza parola: speranza. Speranza è la virtù di chi, sperimentando il conflitto, la lotta quotidiana tra la vita e la morte, tra il bene e il male, crede nella Risurrezione di Cristo, nella vittoria dell’Amore. Abbiamo sentito il Canto di Maria, il Magnificat: è il cantico della speranza, è il cantico del Popolo di Dio in cammino nella storia. E’ il cantico di tanti santi e sante, alcuni noti, altri, moltissimi, ignoti, ma ben conosciuti a Dio: mamme, papà, catechisti, missionari, preti, suore, giovani, anche bambini, nonni, nonne: questi hanno affrontato la lotta della vita portando nel cuore la speranza dei piccoli e degli umili. Maria dice: «L’anima mia magnifica il Signore» – anche oggi canta questo la Chiesa e lo canta in ogni parte del mondo. Questo cantico è particolarmente intenso là dove il Corpo di Cristo patisce oggi la Passione. Dove c’è la Croce, per noi cristiani c’è la speranza, sempre. Se non c’è la speranza, noi non siamo cristiani. Per questo a me piace dire: non lasciatevi rubare la speranza. Che non ci rubino la speranza, perché questa forza è una grazia, un dono di Dio che ci porta avanti guardando il Cielo. E Maria è sempre lì, vicina a queste comunità, a questi nostri fratelli, cammina con loro, soffre con loro, e canta con loro il Magnificat della speranza.

Cari fratelli e sorelle, uniamoci anche noi, con tutto il cuore, a questo cantico di pazienza e di vittoria, di lotta e di gioia, che unisce la Chiesa trionfante con quella pellegrinante, noi; che unisce la terra con il Cielo, che unisce la nostra storia con l’eternità, verso la quale camminiamo. Così sia.

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