Archive pour août, 2013

SANT’AGOSTINO – PREGHIERE DA « LE CONFESSIONI », PARTE PRIMA: IL GRIDO DELL’ANIMA

http://www.augustinus.it/varie/preghiere/preghiere_conf_index.htm

- sono 5 parti, metto le prime due, l’indirizzo webe per tutte è:

http://www.augustinus.it/varie/preghiere/preghiere_conf_index.htm

SANT’AGOSTINO, PREGHIERE DA « LE CONFESSIONI »

PARTE PRIMA

IL GRIDO DELL’ANIMA

Come invocare Dio?
Tu sei grande, Signore, e ben degno di lode; grande è la tua virtù, e la tua sapienza incalcolabile. E l’uomo vuole lodarti, una particella del tuo creato, che si porta attorno il suo destino mortale, che si porta attorno la prova del suo peccato e la prova che tu resisti ai superbi. Eppure l’uomo, una particella del tuo creato, vuole lodarti. Sei tu che lo stimoli a dilettarsi delle tue lodi, perché ci hai fatti per te, e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in te. Concedimi, Signore, di conoscere e capire se si deve prima invocarti o lodarti, prima conoscere oppure invocare. Ma come potrebbe invocarti chi non ti conosce? Per ignoranza potrebbe invocare questo per quello. Dunque ti si deve piuttosto invocare per conoscere? Ma come invocheranno colui, in cui non credettero? E come chiedere, se prima nessuno dà l’annunzio? Loderanno il Signore coloro che lo cercano, perché cercandolo lo trovano, e trovandolo lo loderanno. Che io ti cerchi, Signore, invocandoti, e ti invochi credendoti, perché il tuo annunzio ci è giunto. Ti invoca, Signore, la mia fede, che mi hai dato e ispirato mediante il tuo Figlio fatto uomo, mediante l’opera del tuo Annunziatore ( 1, 1, 1).

Perché invocare Dio?
Ma come invocare il mio Dio, il Dio mio Signore? Invocarlo sarà comunque invitarlo dentro di me; ma esiste dentro di me un luogo, ove il mio Dio possa venire dentro di me, ove possa venire dentro di me Dio, Dio, che creò il cielo e la terra? C’è davvero dentro di me, Signore Dio mio, qualcosa capace di comprenderti? Ti comprendono forse il cielo e la terra, che hai creato e in cui mi hai creato? Oppure, poiché senza di te nulla esisterebbe di quanto esiste, avviene che quanto esiste ti comprende? E poiché anch’io esisto così, a che chiederti di venire dentro di me, mentre io non sarei, se tu non fossi in me? Non sono ancora negli inferi sebbene tu sei anche là, e quando pure sarò disceso all’inferno, tu sei là. Dunque io non sarei, Dio mio, non sarei affatto, se tu non fossi in me; o meglio, non sarei, se non fossi in te, poiché tutto da te, tutto per te, tutto in te. Sì, è così, Signore, è così. Dove dunque ti invoco, se sono in te? Da dove verresti in me? Dove mi ritrarrei, fuori dal cielo e dalla terra, perché di là venga in me il mio Dio, che disse: « Cielo e terra io colmo? » (1, 2, 2).

Cosa sei, Dio mio?
Cosa sei dunque, Dio mio? Cos’altro, di grazia, se non il Signore Dio? Chi è invero signore all’infuori del Signore, chi Dio all’infuori del nostro Dio? O sommo, ottimo, potentissimo, onnipotentissimo, misericordiosissimo e giustissimo, remotissimo e presentissimo, bellissimo e fortissimo, stabile e inafferrabile, immutabile che tutto muti, mai nuovo mai decrepito, rinnovatore di ogni cosa, che a loro insaputa porti i superbi alla decrepitezza; sempre attivo sempre quieto, che raccogli senza bisogno; che porti e riempi e serbi, che crei e nutri e maturi, che cerchi mentre nulla ti manca. Ami ma senza smaniare, sei geloso e tranquillo, ti penti ma senza soffrire, ti adiri e sei calmo, muti le opere ma non il disegno, ricuperi quanto trovi e mai perdesti; mai indigente, godi dei guadagni; mai avaro, esigi gli interessi; ti si presta per averti debitore, ma chi ha qualcosa, che non sia tua? Paghi i debiti senza dovere a nessuno, li condoni senza perdere nulla.
Che ho mai detto, Dio mio, vita mia, dolcezza mia santa? Che dice mai chi parla di te? Eppure sventurati coloro che tacciono di te, poiché sono muti ciarlieri ( 1, 4, 4)

Tu sei la mia salvezza!
Chi mi farà riposare in te, chi ti farà venire nel mio cuore a inebriarlo? Allora dimenticherei i miei mali, e il mio unico bene abbraccerei: te. Cosa sei per me? Abbi misericordia, affinché io parli. E cosa sono io stesso per te, sì che tu mi comandi di amarti e ti adiri verso di me e minacci, se non ubbidisco, gravi sventure, quasi fosse una sventura lieve l’assenza stessa di amore per te? Oh, dimmi, per la tua misericordia, Signore Dio mio, cosa sei per me. Di’ all’anima mia: la salvezza tua io sono. Dillo, che io l’oda. Ecco, le orecchie del mio cuore stanno davanti alla tua bocca, Signore. Aprile e di’ all’anima mia: la salvezza tua io sono. Rincorrendo questa voce io ti raggiungerò, e tu non celarmi il tuo volto. Che io muoia per non morire, per vederlo ( 1, 5, 5)

La mia anima è la tua casa
Angusta è la casa della mia anima perché tu possa entrarvi: allargala dunque; è in rovina: restaurala; alcune cose contiene, che possono offendere la tua vista, lo ammetto e ne sono consapevole; ma chi potrà purificarla, a chi griderò, se non a te: « purificami, Signore dalle mie brutture ignote a me stesso, risparmia al tuo servo le brutture degli altri »? Credo, perciò anche parlo. Signore, tu sai: non ti ho parlato contro di me dei miei delitti, Dio mio, e tu non hai assolto la malvagità del mio cuore? Non disputo con te, che sei la verità, e io non voglio ingannare me stesso, nel timore che la mia iniquità s’inganni. Quindi non disputo con te, perché, se ti porrai a considerare le colpe, Signore, Signore, chi reggerà? (1, 5, 6).

Signore, che io ti ami fortissimamente
Ascolta, Signore, la mia implorazione: non venga meno la mia anima sotto la tua disciplina, non venga meno io nel confessarti gli atti della tua commiserazione, con cui mi togliesti dalle mie pessime strade. Che tu mi riesca più dolce di tutte le attrazioni dietro a cui correvo; che io ti ami fortissimamente e stringa con tutto il mio intimo essere la tua mano; che tu mi scampi da ogni tentazione fino alla fine! Ecco, non sei tu, Signore, il mio re e il mio Dio ? Al tuo servizio sia rivolto quanto di utile imparai da fanciullo, sia rivolta la mia capacità di parlare e scrivere e leggere e computare (1, 15, 24).

Grazie, Signore, per i tuoi doni!
Eppure, Signore, a te eccellentissimo, ottimo creatore e reggitore dell’universo, a te Dio nostro grazie anche se mi avessi voluto soltanto fanciullo. Perché anche allora esistevo, vivevo, sentivo, avevo a cuore la preservazione del mio essere, immagine della misteriosissima unità da cui provenivo; vigilavo con l’istinto interiore sulla preservazione dei miei sensi, e persino in quei piccoli pensieri, su piccoli oggetti, godevo della verità; non volevo essere ingannato, avevo una memoria vivida, ero fornito di parola, mi intenerivo all’amicizia, evitavo il dolore, il disprezzo, l’ignoranza. Cosa vi era in un tale essere, che non fosse ammirevole e pregevole? E tutti sono doni del mio Dio, non lo li ho dati a me stesso. Sono beni, e tutti sono io. Dunque è buono chi mi fece, anzi lui stesso è il mio bene, e io esulto in suo onore per tutti i beni di cui anche da fanciullo era fatta la mia esistenza. Il mio peccato era di non cercare in lui, ma nelle sue creature, ossia in me stesso e negli altri, i diletti, i primati, le verità, così precipitando nei dolori, nelle umiliazioni, negli errori. A te grazie, dolcezza mia e onore mio e fiducia mia, Dio mio, a te grazie dei tuoi doni. Tu però conservameli, così conserverai me pure, e tutto ciò che mi hai donato crescerà e si perfezionerà, e io medesimo sussisterò con te, poiché tu mi hai dato di sussistere (1, 20, 31).

O mia gioia tardiva!
Assordato dallo stridore della catena della mia mortalità, con cui era punita la superbia della mia anima, procedevo sempre più lontano da te, ove mi lasciavi andare, e mi agitavo, mi sperdevo, mi spandevo, smaniavo tra le mie fornicazioni; e tu tacevi. O mia gioia tardiva, tacevi allora, mentre procedevo ancora più lontano da te moltiplicando gli sterili semi delle sofferenze, altero della mia abiezione e insoddisfatto della mia spossatezza (2, 2, 2).

Tu sei sempre vicino
Tu, Signore, regoli anche i tralci della nostra morte e sai porre una mano leggera sulle spine bandite dal tuo paradiso, per smussarle. La tua onnipotenza non è lontana da noi neppure quando noi siamo lontani da te (2, 2, 3).

Signore, che dài per maestro il dolore
Tu eri sempre presente con i tuoi pietosi tormenti, cospargendo delle più ripugnanti amarezze tutte le mie delizie illecite per indurmi alla ricerca della delizia che non ripugna. Dove l’avessi trovata, non avrei trovato che te, Signore, te, che dài per maestro il dolore e colpisci per guarire e ci uccidi per non lasciarci morire senza di te (2, 2, 4).

Ti amerò, Signore!
Come rimunerare il Signore del fatto che la mia memoria rievoca simili azioni e la mia anima non ne è turbata? Io ti amerò, Signore, ti renderò grazie e confesserò il tuo nome, poiché mi hai perdonato malvagità e delitti così grandi. Attribuisco alla tua grazia e alla tua misericordia il dileguarsi come ghiaccio dei miei peccati; attribuisco alla tua grazia anche tutto il male che non ho commesso. Cosa non avrei potuto fare, se amai persino il delitto in se stesso? Eppure tutti questi peccati: e quelli che di mia spontanea volontà commisi, e quelli che sotto la tua guida evitai, mi furono rimessi, lo confesso (2, 7, 15).

Voglio te
Voglio te, giustizia e innocenza bella e ornata delle tue pure luci e di un’insaziabile sazietà. Accanto a te una pace profonda e una vita imperturbabile. Chi entra in te, entro nel gaudio del suo Signore; non avrà timori e si troverà sommamente bene nel sommo Bene. Io mi dispersi lontano da te ed errai, Dio mio, durante la mia adolescenza per vie troppo remote dalla tua solida roccia. Così divenni per me regione di miseria (2, 10, 18).

Dio mio, sconfinata misericordia mia!
Pure, la tua misericordia mi aleggiava intorno fedele, di lontano. In quante iniquità non mi sono corrotto fino alla putredine! Ti lasciai per seguire una curiosità sacrilega, che doveva precipitarmi nell’abisso infido e nel culto ingannevole dei demòni, cui immolavo in sacrificio i miei misfatti. E tu frattanto non cessavi di flagellarmi. Non osai persino, nelle affollate cerimonie delle tue festività, fra le pareti della tua chiesa concepire voglie impure e brigare per cogliere frutti mortali? Perciò mi hai fustigato duramente. Ma i tuoi castighi erano nulla rispetto alla mia colpa, o sconfinata misericordia mia, Dio mio, rifugio mio dai terribili pericoli fra cui vagai presuntuoso, a testa alta, staccandomi sempre più da te, invaghito delle mie, non delle tue strade, invaghito della mia libertà di evaso (3, 3, 5).

O Verità, Verità!
O Verità, Verità, come già allora e dalle intime fibre del mio cuore sospiravo verso di te, mentre quella gente mi stordiva spesso e in vario modo con il solo suono del tuo nome e la moltitudine dei suoi pesanti volumi. Nei vassoi che si offriva alla mia fame di te, invece di te si presentavano il sole e la luna, creature tue, e belle, ma pur sempre creature tue, non te stessa, anzi neppure le tue prime creature, poiché le precedono le creature spirituali, essendo queste corporee, sebbene luminose e celesti. Ma io neppure delle tue prime creature, bensì di te sola, di te, Verità non soggetta a trasformazione né ad ombra di mutamento, avevo fame e sete. Invece mi si ammannivano ancora su quei vassoi delle ombre baluginanti. Non sarebbe stato meglio rivolgere senz’altro il mio amore al vero sole, vero almeno per questi occhi, anziché a quelle menzogne, che attraverso gli occhi ingannavano lo spirito? Eppure io le ingoiavo, perché le credevo te, ma senza avidità, perché nella mia bocca non avevi il tuo reale sapore, non essendo davvero tu quelle insulse finzioni, e senza trarne un nutrimento, anzi un esaurimento sempre maggiore. Così il cibo dei sogni è in tutto simile a quello della veglia, eppure i dormienti non si nutrono, perché dormono. Ma i cibi che allora mi somministravano non erano nemmeno simili in nulla a te, quale ti conosco ora che mi hai parlato. Erano fantasmi corporei, corpi falsi. Sono più reali questi corpi veri, che vediamo con gli occhi della carne in cielo e in terra, che vediamo come le bestie e gli uccelli li vedono, eppure più reali di quanto li immaginiamo; ed anche immaginandoli li vediamo in modo più reale di quando muovendo da essi ne supponiamo altri maggiori e infiniti del tutto inesistenti, come le vanità di cui allora mi pascevo senza pascermi. Ma tu, Amore mio, su cui mi piego per essere forte, non sei né i corpi che vediamo, sia pure, in cielo, né quelli che non vi vediamo, essendo un frutto della tua creazione, e neppure tra i sommi nel tuo ordinamento. Quanto sei dunque lontano dalle mie fantasie di allora, fantasie di corpi sprovvisti di ogni realtà! Più reali di esse sono le rappresentazioni dei corpi esistenti, e più reali di queste i corpi medesimi, che pure tu non sei. Ma tu non sei neppure l’anima, che è la vita dei corpi, e la vita dei corpi è indubbiamente più alta e reale dei corpi. Tu sei la vita delle anime, la vita delle vite, vivente per tua sola virtù senza mai mutare, vita dell’anima mia (3, 6, 10).

Cosa sono io senza di te?
Cosa sono io per me stesso senza te, se non una guida verso il precipizio? e quando anche sto bene, cosa sono, se non uno che succhia il tuo latte e si nutre di te, vivanda incorruttibile? è chi è l’uomo, qualsiasi uomo, come uomo? Ci deridano pure i forti e i potenti; noi, deboli e bisognosi, ci confesseremo a te (4, 1, 1).

Ascolta il mio pianto
Ed ora, Signore, tutto ciò è ormai passato e il tempo ha lenito la mia ferita. Potrei ascoltare da te, che sei la verità, avvicinare alla tua bocca l’orecchio del mio cuore, per farmi dire come il pianto possa riuscire dolce agli infelici? o forse, sebbene ovunque presente, hai respinto lontano da te la nostra infelicità e, mentre tu sei stabile in te stesso, noi ci muoviamo in un seguito di prove? Eppure, se non potessimo piangere contro le tue orecchie, non rimarrebbe nulla della nostra speranza. Come può essere dunque che dall’amarezza della vita si coglie un soave frutto di gemiti, di pianto, di sospiri, di lamenti? La dolcezza nasce forse dalla speranza che tu li ascolti? Ciò accade giustamente nelle preghiere, perché sono animate dal desiderio di giungere fino a te; ma anche nella sofferenza per una perdita, in un lutto come quello che allora mi opprimeva? Io non speravo né invocavo con le mie lacrime il ritorno dell’amico alla vita, ma soffrivo e piangevo soltanto. Io ero infelice e la mia felicità più non era. O forse il pianto è una realtà amara e ci diletta per il disgusto delle realtà un tempo godute e ora aborrite? (4, 5, 10).

Dio, speranza mia
Eccolo il mio cuore, mio Dio, eccolo nel suo intimo. Vedilo attraverso i miei ricordi, o speranza mia, tu che mi purifichi dall’impurità di questi sentimenti, dirigendo i miei occhi verso di te e strappando dal laccio i miei piedi (4, 6 ,11).

Dio delle virtù, volgiti a me
Dio delle virtù, rivolgi noi a te, mostra a noi il tuo viso, e saremo salvi. L’animo dell’uomo si volge or qua or là, ma dovunque fuori di te è affisso al dolore, anche se si affissa sulle bellezze esterne a te e a sé. Eppure non esisterebbero cose belle, se non derivassero da te. Nascono e svaniscono: nascendo cominciano, per così dire, a esistere, crescono per maturare, e appena maturate invecchiano fino a morire. Non tutte invecchiano, ma tutte muoiono… Ti lodi per quelle cose la mia anima, Dio creatore di tutto, ma senza lasciarsi in esse invischiare dall’amore, attraverso i sensi del corpo (4, 10, 15).

Ascolta, anima mia…
Non essere vana, anima mia, non assordare l’orecchio del cuore nel tumulto delle tue vanità. Ascolta tu pure: è il Verbo stesso che ti grida di tornare; il luogo della quiete imperturbabile è dove l’amore non conosce abbandoni, se lui per primo non abbandona. Qui invece lo vedi, ogni cosa dilegua per far posto ad altre e costituire l’universo inferiore nella sua interezza. « Ma io, dice il Verbo divino, mi dileguo forse da qualche parte? ». Fissa dunque in lui la tua dimora, affida a lui quanto tieni da lui, anima mia finalmente stanca d’inganni; affida alla verità quanto ti viene dalla verità, e nulla perderai. Rifioriranno le tue putredini, tutte le tue debolezze saranno guarite, le tue parti caduche riparate, rinnovate, fissate strettamente a te stessa; anziché travolgerti nel loro abisso, rimarranno stabili e durevoli con te accanto a Dio eternamente stabile e durevole (4, 11, 16).

Amiamolo, amiamolo!
Se ti piacciono i corpi loda Dio per essi, rivolgi il tuo amore al loro artefice per evitare di spiacere a lui per il piacere delle cose. Se ti piacciono le anime, in Dio amale, poiché sono mutevoli anch’esse, ma in lui si Fissano stabilmente, mentre altrove passerebbero e perirebbero. In lui amale dunque, rapisci a lui con te quante altre anime puoi e di’ loro: « Amiamolo, amiamolo: lui è il creatore di queste cose e non ne è lontano, perché non le abbandonò dopo averle create, ma, venute da lui, in lui sono. Dov’è? Dove si assapora la verità? E’ nell’intimo del cuore, ma il cuore errò lontano da lui. Rientrate nel vostro cuore, prevaricatori, e unitevi a colui che vi ha creati. Restate con lui, e resterete saldi; riposate in lui, e avrete riposo. Dove andate, alle tribolazioni? Dove andate? Il bene che amate deriva da lui, ma solo in quanto tende a lui è buono e soave; sarà invece giustamente amaro, perché ingiustamente si ama, lasciando lui, ciò che deriva da lui. Quale vantaggio ricavate dal vostro lungo e continuo camminare per vie aspre e penose? Non vi è quiete dove voi la cercate. Cercate ciò che cercate, ma non è 11, dove voi cercate. Voi cercate una vita felice in un paese di morte: non è lì. Come potrebbe essere una vita felice ove manca la vita? (4, 12, 18).

Fino a quando questo peso nel cuore?
Discese nel mondo la nostra vita, la vera, si prese sulle sue spalle la nostra morte e l’uccise con la sovrabbondanza della sua vita, ci gridò tuonando di tornare dal mondo a lui, nel sacrario onde venne a noi dapprima entrando nel seno di una vergine, ove gli si unì come sposa la creatura umana, la nostra carne mortale, per non rimanere definitivamente mortale; poi di là, come sposo che esce dal talamo, uscì con balzo di gigante per correre la sua via, e senza mai attardarsi corse gridando a parole e a fatti, con la morte e la vita, con la discesa e l’ascesa, gridando affinché tornassimo a lui; e si dipartì dagli occhi affinché tornassimo al cuore, ove trovarlo. Partì infatti, ed eccolo, è qui. Non volle rimanere a lungo con noi, e non ci ha lasciati. Partì verso un luogo da cui non si era mai dipartito, perché il mondo fu fatto per mezzo suo, e in questo mondo era, e venne in questo mondo a salvare i peccatori. La mia anima si confessa a lui, e lui la guarisce, perché ha peccato contro di lui. « Figli degli uomini, fino a quando questo peso nel cuore?. Anche dopo che la vita discese a voi, non volete ascendere a vivere? Dove ascendete, se siete già in alto e avete posto la bocca nel cielo? Discendete, per ascendere, e ascendere a Dio, poiché cadeste nell’ascendere contro Dio ». Di’ loro queste parole, anima mia, affinché piangano nella valle del pianto, e così rapiscili via con te fino a Dio. Lo spirito di Dio t’ispira queste parole, se nel parlare ardi col fuoco della carità (4, 12, 19).

O dolce verità!
Pure tendevo queste orecchie, o dolce verità, alla tua melodia interiore nell’atto stesso di meditare sulla bellezza e la convenienza. Il mio desiderio era di stare ritto innanzi a te, di udirti, di sentirmi preso dalla gioia alla voce dello Sposo; e non potevo realizzarlo poiché le voci del mio errore mi trascinavano fuori di me e il peso del mio orgoglio mi faceva cadere verso il basso. Non davi infatti gioia e letizia al mio udito, né esultavano le ossa, che non erano state ancora umiliate (4, 15, 27).

Tu, ci proteggi e ci sorreggi
O Signore Dio nostro, noi si speri nella copertura delle tue ali, e tu proteggi noi, sorreggi noi. Tu ci sorreggerai, e da piccoli e ancora canuti ci sorreggerai. La nostra fermezza, quando è in te allora è fermezza; quando è in noi, è infermità. Il nostro bene vive sempre accanto a te, e nell’avversione a te è la nostra perversione. Volgiamoci tosto indietro, Signore, per non essere sconvolti. Il nostro bene vive indefettibilmente accanto a te, perché tu medesimo lo sei, e non temiamo di non trovare al nostro ritorno il nido da cui siamo precipitati. La nostra casa non precipita durante la nostra assenza: è la tua eternità (4, 16, 31).

PREGHIERE DALLE CONFESSIONI – PARTE SECONDA: VERSO L’APPRODO

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SANT’AGOSTINO: PREGHIERE DALLE CONFESSIONI

PARTE SECONDA

VERSO L’APPRODO

Il canto della lode

Accetta l’olocausto delle mie confessioni dalla mano della mia lingua, formata e sollecitata da te alla confessione del tuo nome. Risana tutte le mie ossa, e ti dicano: « Signore, chi simile a te? ». Chi a te si confessa non ti rende nota la sua intima storia, poiché un cuore chiuso non esclude da sé il tuo occhio, né la durezza degli uomini respinge la tua mano, bensì tu la stemperi a tuo piacere, con la pietà o la punizione; e nessuno si sottrae al tuo calore. La mia anima ti lodi per amarti, ti confessi gli atti della tua commiserazione per lodarti. L’intero tuo creato non interrompa mai il canto delle tue lodi: né gli spiriti tutti attraverso la bocca rivolta verso di te, né gli esseri animati e gli esseri materiali, attraverso la bocca di chi li contempla. Così la nostra anima, sollevandosi dalla sua debolezza e appoggiandosi alle tue creature, trapassa fino a te, loro mirabile creatore. E 11 ha ristoro e vigore vero (5, 1, 1).

Ovunque sei presente

Vadano, fuggano pure lontano da te gli inquieti e gli iniqui. Tu li vedi, ne distingui le ombre fra le cose. Così l’insieme risulta bello anche con la loro presenza, con la loro deformità. Che male poterono farti? dove poterono deturpare il tuo regno, se è giusto e intatto dall’alto dei cieli fino ai lembi estremi della terra? Dove fuggirono fuggendo dal tuo volto? in quale luogo non li puoi trovare? Fuggirono per non vedere la tua vista posata su di loro e urtare, accecati, contro di te, che non abbandoni nulla di ciò che hai creato: per non urtare contro di te, e ricevere l’equo castigo della loro iniquità. Si sottrassero alla tua mitezza per urtare nella tua giustizia e cadere nella tua severità. Evidentemente ignorano che tu sei dovunque e nessun luogo ti racchiude, che tu solo sei vicino anche a chi si pone lontano da te. Dunque si volgano indietro a cercarti: tu non abbandoni le tue creature come esse abbandonano il loro creatore. Se si volgono indietro da sé a cercarti, eccoti già lì, nel loro cuore, nel cuore di chiunque ti riconosce e si getta ai tuoi piedi, piangendo sulle tue ginocchia dopo il suo aspro cammino. Tu prontamente ne tergi le lacrime, e più singhiozzano allora e si confortano al pianto perché sei tu, Signore, e non un uomo qualunque, carne e sangue, ma tu, Signore, il loro creatore, che le rincuori e le consoli. Anch’io dov’ero quando ti cercavo? Tu eri davanti a me, ma io mi ero allontanato da me e non mi ritrovavo. Tanto meno ritrovavo te (5, 2, 2).

Dio degli umili!

Tu sei grande, Signore, e volgi lo sguardo sugli umili, mentre gli eccelsi li vuoi conoscere da lontano e solo ai cuori contriti ti avvicini; non ti riveli ai superbi neppure se con la loro curiosa destrezza sappiano calcolare le stelle e l’arena, misurare gli spazi siderei ed esplorare le piste degli astri (5, 3, 3).

Felice chi conosce Dio

Signore, Dio di verità, basta la conoscenza di queste cose per piacerti? Infelice davvero chi conosce tutte quelle e ignora te; felice chi conosce te, anche se ignora quelle. Chi poi sa e di te e di quelle, non per quelle è più felice, ma per te solo felice, se, oltre a conoscerti, ti glorifica per ciò che sei e ti ringrazia, anziché disperdersi nei suoi vani pensieri. Chi sa di possedere un albero e ti è grato di goderlo, sebbene ignori i cubiti della sua altezza o la sua estensione in larghezza, è migliore di chi lo misura e ne conteggia tutti i rami, però non lo possiede né riconosce il suo creatore né lo ama. Così all’uomo di fede il mondo intero con i suoi tesori appartiene; forse non ha quasi nulla, eppure tutto possiede perché unito a te, padrone di tutto. Non importa se nemmeno conosce i giri delle Orse: solo uno stolto dubiterebbe che non sia in ogni caso migliore di chi sa misurare il cielo, enumerare le stelle, pesare gli elementi, però fa nessun conto di te, che ogni cosa hai disposto nella sua misura e numero e peso (5, 4, 7).

Tu guidi i miei passi

Le tue mani, Dio mio, nel segreto della tua provvidenza non abbandonavano invero la mia anima; d’altra parte dal cuore sanguinante di mia madre ti si offriva per me notte e giorno il sacrificio delle sue lacrime. Agisti verso di me in modi mirabili. Fu azione tua, Dio mio, perché dal Signore sono diretti i passi dell’uomo, e gli imporrà la via. Come ottenere la salvezza, se la tua mano non ricrea la tua creazione? (5,7,13).

Dove eri, o Dio?

O speranza mia fin dalla mia gioventù, dov’eri per me, dove ti eri ritratto? Non eri stato tu a crearmi, a farmi diverso dai quadrupedi e più sapiente dei volatili del cielo? Ma io camminavo fra le tenebre e su terreno sdrucciolevole; ti cercavo fuori di me e non ti trovavo, perché tu sei il Dio del mio cuore. Ormai avevo raggiunto il fondo del mare: come non perdere fiducia, non disperare di scoprire più il vero? (6, 1, 1).

Guarda il mio cuore, Signore!

Cercavo avidamente onori, guadagni, nozze, e tu ne ridevi. Per colpa di queste passioni soffrivo disagi amarissimi, ma la tua benignità era tanto più grande, quanto meno dolce mi facevi apparire ciò che tu non eri. Guarda il mio cuore, Signore, per il cui volere rievoco e ti confesso questi fatti. Si unisca ora a te la mia anima, che hai estratta dal vischio tenacissimo della morte. Quanto era misera! E tu stuzzicavi il bruciore della piaga perché, lasciando tutto, si rivolgesse a te, che sei sopra tutto e senza di cui tutto sarebbe nulla; perché si volgesse a te e fosse guarita. Quanto ero misero, dunque, e tu come hai operato per farmi sentire la mia miseria! (6, 6, 9).

Il mio riposo

Lode a te, gloria a te, fonte di misericordia. Io mi facevo più miserabile, e tu più vicino. Ormai, ormai era accostata la tua mano, che mi avrebbe tolto e lavato dal fango, e io lo ignoravo. Solo, a trattenermi dallo sprofondare ulteriormente nel gorgo dei piaceri carnali, stava il timore della morte e del tuo giudizio futuro, mai dileguato dal mio cuore pur nel variare delle mie opinioni. Guai all’anima temeraria, che sperò di trovare di meglio allontanandosi da te. Vòltati e rivòltati sulla schiena, sui fianchi, sul ventre, ma tutto è duro, e tu solo il riposo. Ed eccoti, sei qui, a liberi dai nostri errori miserabili e ci metti sulla strada e consoli e dia: « Correte, io vi reggerò, io vi condurrò al traguardo e là ancora vi reggerò » (6,16, 26).

Signore, giudice giusto

In realtà tu, Signore, regolatore giustissimo dell’universo, all’insaputa dei consultori e dei consultati, con un’ispirazione misteriosa fai sempre udire a chi si consulta, dall’abisso di giustizia del tuo giudizio, la risposta vantaggiosa per lui secondo gli occulti meriti delle anime. Nessun uomo ti domandi: « Che è ciò », « A che ciò? ». Non lo domandi, non lo domandi, perché è un uomo (7, 6, 10).

Il mio pungolo

Ma tu, Signore, permani in eterno, e non ti adiri in eterno verso di noi. Hai sentito pietà di questa terra e cenere, piacque ai tuoi occhi di racconciare le mie sconcezze. Mi agitavi con pungoli interni per rendermi insoddisfatto, finché al mio sguardo interiore tu fossi certezza. Il mio tumore scemava sotto la cura della tua mano nascosta, la vista intorbidata e ottenebrata della mia mente guariva di giorno in giorno sotto l’azione del collirio pungente di salutari dolori (7, 8, 12).

O eterna verità e vera carità e cara eternità

Ammonito da quegli scritti a tornare in me stesso, entrai nell’intimo del mio cuore sotto la tua guida; e lo potei, perché divenisti il mio soccorritore. Vi entrai e scorsi con l’occhio della mia anima, per quanto torbido fosse, sopra l’occhio medesimo della mia anima, sopra la mia intelligenza, una luce immutabile. Non questa luce comune, visibile a ogni carne, né della stessa specie ma di potenza superiore, quale sarebbe la luce comune se splendesse molto, molto più splendida e penetrasse con la sua grandezza l’universo. Non così era quella, ma cosa diversa, molto diversa da tutte le luci di questa terra. Neppure sovrastava la mia intelligenza al modo che l’olio sovrasta l’acqua, e il cielo la terra, bensì era più in alto di me, poiché fu lei a crearmi, e io più in basso, poiché fui da lei creato. Chi conosce la verità, la conosce, e chi la conosce, conosce l’eternità. La carità la conosce. O eterna verità e vera carità e cara eternità, tu sei il mio Dio, a te sospiro giorno e notte. Quando ti conobbi la prima volta, mi sollevasti verso di te per farmi vedere come vi fosse qualcosa da vedere, mentre io non potevo ancora vedere: respingesti il mio sguardo malfermo col tuo raggio folgorante e io tutto tremai d’amore e terrore. Mi scoprii lontano da te in una regione dissimile, ove mi pareva di udire la tua voce dall’alto: « Io sono il nutrimento degli adulti. Cresa, e mi mangerai, senza per questo trasformarmi in te, come il nutrimento della tua carne; ma tu ti trasformerai in me ». Riconobbi che hai ammaestrato l’uomo per la sua cattiveria e imputridito come ragnatela l’anima mia. Chiesi: « La verità è dunque un nulla, poiché non si estende nello spazio sia finito sia infinito? »; e tu gridasti da lontano: « Anzi, io sono colui che sono ». Queste parole udii con l’udito del cuore. Ora non avevo più motivo di dubitare. Mi sarebbe stato più facile dubitare della mia esistenza, che dell’esistenza della verità, la quale si scorge comprendendola attraverso il creato (7, 10, 16).

Mi risvegliai in te e ti vidi…

Non c’è sanità di giudizio in coloro che non gradiscono qualche cosa del tuo creato, come non ce n’era in me quando non gradivo molte delle cose da te create. E poiché la mia anima non osava non gradire il mio Dio, si rifiutava di riconoscere come opera tua tutto ciò che non gradiva. Di qui era giunta alla concezione delle due sostanze, senza trovarsi soddisfatta e usando un linguaggio non suo; poi aveva abbandonato quell’idea per costruirsi un dio esteso dovunque negli spazi infiniti, che aveva immaginato fossi tu e aveva collocato nel proprio cuore, ricostituendosi tempio del proprio idolo, abominevole ai tuoi occhi. Quando però a mia insaputa prendesti il mio capo fra le tue braccia e chiudesti i miei occhi per togliere loro la vista delle cose vane, mi ritrassi un poco da me, la mia follia si assopì. Mi risvegliai in te e ti vidi, infinito ma diversamente, visione non prodotta dalla carne (7, 14, 20).

Verso il monte di Dio

Ero sorpreso di amarti, ora, e più non amare un fantasma in tua vece. Ma non ero stabile nel godimento del mio Dio. Attratto a te dalla tua bellezza, ne ero distratto subito dopo dal mio peso, che mi precipitava gemebondo sulla terra. Era, questo peso, la mia consuetudine con la carne; ma portavo con me il tuo ricordo (7, 17, 23).

Santa Monica

Santa Monica dans immagini sacre 8_27_Monica

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VITA DI PREGHIERA – UN PENSIERO A SANTA MONICA

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VITA DI PREGHIERA – UN PENSIERO A SANTA MONICA

lunedì 27 agosto 2007

Un caro saluto a te che mi leggi!
Il pensiero di stamattina, rivolge lo sguardo verso una donna e mamma, perché il calendario universale ricorda Santa Monica, delineata dal figlio Agostino (Santo) nelle sue « Confessioni » come una madre cristiana e contemplativa.
Ho postato come titolo « Vita di preghiera », perché santa Monica è stata una donna di preghiera e la sua preghiera l’ha trasformata in vita quotidiana.
La sua stessa vita è stata elogiata, e continua ad esserlo, dalla parola di Dio (vedi Sir 26,1-21). La stessa Parola di Dio che preghiamo, ci descrive santa Monica come una donna virtuosa, un dono del Signore, l’ornamento più bello della casa.
Quale invito per tutti davanti una così grande santa della Chiesa cattolica? Una delle cose a prima impatto nella vita di questa donna è quello della preghiera fiduciosa. Ella andava alla Fonte per apprendere il modo di come pregare e la sua preghiera è diventata un gettare sempre le proprie speranze nel Signore (Sal 54,23) confidare sempre in Lui (Sal 36,3; 61,9).
Tanti possono essere gli ostacoli nella nostra quotidianità, ma nulla è impossibile a Dio, nulla è impossibile se ricaviamo quella forza necessaria dalla preghiera, dal quel « rapporto intimo di amicizia » (Santa Teresa d’Avila) con il Signore.
Questo rapporto conduce a vivere d’amore fino a morire d’amore, direbbe Santa Teresa di Lisieux. Quest’amore è una continua conversione del cuore che si fa ricerca del volto di Dio in tutte le situazioni della nostra storia, della nostra società.
L’umiltà è un’altro insegnamento di vita di preghiera di Santa Monica, dove possiamo trovare il vero incontro con Dio e non saremo più noi a pregare, ma saremo mossi dallo Spirito Santo. La preghiera dell’umile è quella che trasforma dentro e fuori di noi, perché penetra le nubi e giunge al cuore di Dio. Essa è simile a quella di un figlio che si solleva dalla sua miseria per gettarsi con fiducia fra le braccia del Padre.
Ascoltiamo l’invito che sgorga dal cuore (aggiungiamo: di una madre come Santa Monica), dalla stessa Parola di Dio: « Cercate il mio volto! Il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto! » (Sal 27,8-9).
Buona preghiera!

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27 AGOSTO: SANTA MONICA (331-387) : MADRE DI TANTE LACRIME

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27 AGOSTO: SANTA MONICA (331-387)

MONICA: MADRE DI TANTE LACRIME

MOLTE MAMME DI OGGI NON VIVONO TEMPI FACILI.
Non è stato facile nemmeno per Monica, la santa che ricordiamo nel mese di agosto. Anche lei ha dovuto tribolare non poco per il figlio Agostino.
Con un figlio adolescente in casa è difficile dormire sempre sonni tranquilli. Questo perché alcuni comportamenti dei figli sono fonte di apprensione e di preoccupazioni, di angoscia e di lacrime.
Educare un figlio o una figlia adolescente nella civiltà contadina e pre-industriale riservava meno problemi di oggi. La nostra società post-moderna (e qualcuno aggiunge anche post-cristiana) si qualifica per la sua forte connotazione consumistica. E nel grande mare del consumismo i giovani nuotano molto bene, grazie al sostegno finanziario dei genitori, spesso acriticamente generosi. Con i soldi facili (talvolta troppo facili) a portata di mano e con una personalità ancora non strutturata in quanto a valori e forza di volontà, l’adolescente cade più facilmente vittima dell’uso e dell’abuso del fumo, dell’alcol e della droga, dei divertimenti aggressivi e pericolosi, dei comportamenti devianti sfocianti, talvolta, nella prostituzione e nell’Aids. E i primi a essere angosciati e distrutti da queste tragedie sono i genitori.
Alcune mamme versano lacrime per i figli persi perché vittime delle sette pseudo religiose, o schiavi dei giochi d’azzardo, o diventati succubi delle cattive compagnie che li porteranno alla devianza sociale e ai guai con la legge. Altre piangono per i figli in carcere per propria colpa o all’ospedale per malattie incurabili di cui non hanno colpa.
Aspettate il prossimo fine settimana con la cosiddetta “febbre del sabato sera”, e ci sarà qualche mamma che in ansia aspetterà il ritorno del figlio o della figlia dalla discoteca (lo “sballo” settimanale). Purtroppo qualcuna cambierà la propria ansia in lacrime e dolore: il figlio che aspetta non tornerà più perché è già entrato nelle statistiche delle “vittime del sabato sera”.
A tutte queste mamme in difficoltà Monica, madre anche lei, può essere di aiuto e di conforto, di speranza e di esempio. Il figlio Agostino riconobbe che grande merito della propria conversione era della madre, grazie alle sue continue preghiere e alle tante lacrime versate. Si riferiva a questo fatto quando, nelle famose Confessioni, scrisse: “Non è possibile che un figlio di tante lacrime perisca”. E le tante lacrime erano di Monica e quel figlio che non poteva perire era lui stesso, Agostino.

MONICA VINSE IL VINO E CONVERTÌ IL MARITO
Monica nacque a Tagaste nell’odierna Algeria del nord, nell’anno 331, da genitori cristiani, ma che non erano eccessivamente preoccupati di dare una seria educazione cristiana ai figli (come molti genitori oggi). Se nel caso di Agostino l’educatrice alla fede e alla vita cristiana di ogni giorno fu la madre Monica, per quest’ultima fu invece la nutrice di famiglia, che aveva già tenuto in braccio suo padre.
Questa donna era quindi parte della famiglia, ben voluta, di ottima condotta e saggezza. E possiamo immaginare anche un po’ anziana. Agostino fa un grande elogio di lei: “Era energica nel punire con santa severità quando era opportuno e ricca di saggezza nell’istruire”. La dottrina del permissivismo in educazione, seguita da non pochi genitori ed educatori di oggi, non faceva parte del bagaglio di questa nutrice: era severa ma con saggezza, correggeva ma con tatto, sapeva anche punire ma con giustizia. Nei migliori trattati di pedagogia non deve mancare un capitolo sui “castighi” e giustamente. Questo anche perché il peccato originale e le sue conseguenze sono una verità di fede, e non è stato ancora cancellato (o superato) dalla tecnologia moderna. Del resto di castighi ne parlava un super educatore come Don Bosco, che di ragazzi se ne intendeva. Dice Agostino che la nutrice di sua madre era saggia nell’istruire e coscienziosa quando doveva correggerla.
Monica non era nata santa, lo diventò con pazienza, con costanza ed umiltà. Nella sua vita non riscontriamo, come in altre sante, una partenza bruciante sulla strada della perfezione evangelica fin da fanciulla. Aveva i propri difetti e difficoltà che seppe superare. Un esempio: a Monica piaceva il vino. E non poco. L’aveva raccontato lei stessa, nella sua grande umiltà, al figlio Agostino. Questo è segno di santità: “Quando i genitori credendola sobria, le ordinavano secondo i costumi, di andare ad attingere vino, ella, prima di versare il vino nel fiasco… ne beveva un pochino”. Solo un po’, naturalmente. All’inizio. Ma bevi oggi, bevi domani, la debolezza era diventata un’abitudine negativa, una schiavitù (oggi si direbbe una dipendenza).
La nutrice, alla quale non sfuggiva nulla e che aveva intuito tutto, ebbe il coraggio di intervenire. Un giorno, bisticciando con la ragazza le rinfacciò quella debolezza chiamandola “ubriacona”. Qualche “padroncina” di oggi avrebbe minacciato rappresaglie feroci o addirittura il licenziamento per quella “vecchia domestica” che osava tanto e non si faceva gli affari suoi. Monica invece accettò la verità anche se le faceva male, riconobbe l’abitudine non lodevole, e se ne liberò. Anche questo è santità.

TANTE PREGHIERE E LACRIME PER IL FIGLIO AGOSTINO
Nel 353 Monica andò sposa ad un certo Patrizio, romano, dal quale avrà tre figli. Questi non era cristiano, aveva un carattere un po’ violento e non era nemmeno un buon esempio di fedeltà. Una donna meno forte e convinta nella fede cristiana avrebbe invocato subito la separazione o il divorzio. Monica no, voleva rimanere fedele al proprio matrimonio (“nella buona e nella cattiva sorte”) ma senza chiudere gli occhi sulle “malefatte” del suo compagno di vita.
E così la seconda battaglia che lei vinse, dopo il vino, fu quella del marito. Battaglia paziente, dolorosa, lunga, ma vittoriosa: riuscì infatti a guadagnare al Signore anche lui. Questi morirà nel 371, dopo essere diventato buon cristiano grazie alla preghiera incessante, alle lacrime e alla pazienza della moglie Monica. Scrisse Agostino: “Così non ebbe più da piangere quelle sue infedeltà che aveva dovuto tollerare quando egli non era ancora credente”. Anche questo è santità.
Ma la più grande sofferenza e nello stesso tempo la più grande gioia a Monica arriveranno dal figlio Agostino. Lei stessa l’aveva educato cristianamente, con la parola e con l’esempio, gli aveva messo nel cuore e sulle labbra fin da bambino il nome di Gesù, che nonostante tutte le peripezie filosofiche ed esistenziali, non dimenticherà mai.
Già qualche anno prima della morte del marito, quel figlio tanto intelligente le dava molte preoccupazioni. Sarà lei stessa che nel 371 lo manderà a Cartagine a proseguire gli studi. E sarà nello stesso anno che Agostino incomincerà la convivenza (come si vede era molto “moderno”) con una donna, dalla quale, l’anno dopo, avrà anche un figlio, Adeodato. Questa scelta fuori dal matrimonio fu per Monica un duro colpo: vedeva infatti il figlio allontanarsi dagli insegnamenti che gli aveva dato e anche dalle regole della propria fede cristiana (era nel frattempo passato all’eresia manichea). Per questi motivi, tornato a Tagaste lei, pur tra le lacrime, in un primo tempo non volle riaverlo in casa, finché confortata da un sogno, lo riammise presso di sé.

AGOSTINO CONVERTITO: MISSIONE COMPIUTA
Nel 375 Agostino si trasferì a Cartagine per insegnarvi eloquenza, mentre dopo l’incontro col vescovo manicheo Fausto, cominciava la sua crisi filosofica. Monica continuò sempre a invitarlo al ritorno alla vera fede, e non cesserà mai di pregare, tra le lacrime, per la conversione del figlio.
Questi invece, con uno stratagemma, riuscì a sfuggirle, imbarcandosi nottetempo per Roma (383), dove, dopo aver superato una lunga malattia, cominciò ad insegnare eloquenza e retorica. Finché ottenne un posto, tramite il prefetto  di Roma Simmaco, a Milano.
Forse Agostino credeva che più andava verso nord, più la madre rimaneva… lontana. E si sbagliava di grosso. Monica non aveva ormai nessun interesse, nessuna preoccupazione, nessun obiettivo terreno che la sua conversione. E questo amore, anche se tra le lacrime, non si lasciava spaventare dalle distanze e dai disagi che comportavano i viaggi di allora. E così Monica, per amore del figlio prodigo, fuggito lontano, dopo aver viaggiato con il mare in tempesta, arrivò nell’anno 385 a Milano, accompagnata da Navigio, fratello di Agostino.
Qui la Mano Provvidenziale di Dio li aspettava entrambi con l’incontro con il vescovo della città, Ambrogio “un uomo di Dio”, e un “vescovo noto in tutto il mondo”. Tutti e due seguirono le sue omelie, tutte e due rimasero molto bene impressionati (anche se Agostino all’inizio badava più alla forma retorica che alla sostanza). Ambrogio predicava, Monica pregava (e faceva opere di carità), Agostino pensava, e passava di crisi in crisi e di filosofia in filosofia, dal manicheismo allo scetticismo, dai neo accademici e ai neoplatonici. La grazia di Dio intanto, per vie misteriose come sempre, lavorava su tutti.
La tanto sospirata conversione di Agostino arrivò alla fine del 386, e con il battesimo suo (e del figlio Adeodato) per mano del vescovo Ambrogio nella Pasqua del 387. Questo era il sigillo sul grande travaglio di Agostino nella sua ricerca della verità, e la fine delle tante preghiere e lacrime di Monica per lui. Missione compiuta. Non aveva altri obiettivi terreni. Il Paradiso, questa volta, non poteva più attendere.
Alcuni mesi dopo il battesimo infatti progettarono di tornare in patria. Arrivati ad Ostia tutti e due, madre e figlio convertito, ebbero la famosa estasi di cui si parla nelle Confessioni. Era un piccolo saggio (di Dio) e assaggio per loro di vita eterna, che cambiò la prospettiva di vita per entrambi. Così Agostino riferisce le ultime parole della madre: “C’era una cosa sola per la quale desideravo rimanere un poco su questa terra: vederti cristiano cattolico prima di morire. Dio me lo ha concesso abbondantemente, perché ti vedo divenuto suo servo che addirittura disprezza la felicità terrena. Che cosa dunque sto a fare qui?”. Infatti moriva poco dopo, sempre a Ostia, all’età di 56 anni, mentre Agostino ne aveva 33, e stava per cominciare la sua prodigiosa opera. Grazie alla perseveranza, alla pazienza, al coraggio, alle preghiere e alle “tante lacrime” di una grande donna e di una grande madre, Monica.
MARIO SCUDU sdb

NULLA È LONTANO DA DIO
Pochi giorni dopo l’estasi di Ostia (piccolo assaggio della Patria definitiva o Paradiso) Monica colpita dalla febbre, si mise a letto, e si preparò all’incontro con Dio, che lei desiderava con tutte le forze. Non aveva nessuna preoccupazione né di morire né di essere lontano dalla sua terra, dove aveva preparato con cura la propria tomba accanto al marito. Fece solo una raccomandazione ai presenti: si ricordassero di lei nell’Eucarestia. Alla domanda se non aveva paura di lasciare il proprio corpo in terra straniera, così lontana dalla propria patria, lei rispose: “Nulla è lontano da Dio, e non c’è da temere che alla fine del mondo egli non ritrovi il luogo da cui risuscitarmi” (Dalle Confessioni 9).
Pochi giorni prima che lei morisse… accadde, credo per misteriosa disposizione delle tue vie, che ci trovassimo lei ed io soli… C’era un grande silenzio… Parlavamo, fra noi, soavissimamente, dimentichi del passato e protesi verso l’avvenire. Ci domandavamo, davanti alla presenza della verità e cioè di te, o Signore, quale fosse mai quella vita eterna dei beati che “nessun occhio vide, nessun orecchio udì, che rimane inaccessibile alla mente umana”. Aprivamo avidamente il nostro cuore al fluire celeste della tua fonte, la fonte della vita, che è in te, per esserne un poco irrorati, per quanto era possibile alla nostra intelligenza, e poterci così formare un’idea di tanta sublimità.
Eravamo giunti alla conclusione che qualsiasi piacere dei sensi del corpo, anche nel maggior splendore fisico, non solo non deve essere paragonato alla felicità di quella vita, ma nemmeno nominato; ci rivolgemmo poi con maggior intensità d’affetto verso l’“Ente in sé”, ripercorrendo a poco a poco tutte le creature materiali fin su al cielo da cui il sole, la luna e le stelle mandano la loro luce sulla terra. E la nostra vista interiore si spinse più in alto, nella contemplazione, nell’esaltazione, nell’ammirazione delle tue opere; e arrivammo al pensiero umano, e passammo oltre, per raggiungere le regioni infinite della tua inesauribile fecondità, nelle quali nutri Israele con il cibo della verità, dove la vita è la sapienza che dà l’essere a tutte le cose presenti, passate e future: ed essa non ha successione, ma è come fu, come sarà, sempre. Anzi meglio, non esiste in lei un “fu”, un “sarà”, ma solo “è”, perché è eterna: il fu e il sarà non appartengono all’eternità. E mentre parlavamo e anelavamo ad essa la cogliemmo un poco con lo slancio del cuore e sospirando vi lasciammo unite le primizie dello spirito per ridiscendere al suono delle nostre labbra, dove la parola trova il suo inizio e la sua fine. Quale possibilità di confronto tra essa e il tuo Verbo, che permane in se stesso, e non invecchia e rinnova tutto? (Confessioni X).

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Veneziano Lorenzo (active 1356-1372), San Bartolomeo

Veneziano Lorenzo (active 1356-1372), San Bartolomeo dans immagini sacre Veneziano_Lorenzo-Saint_Bartholomew

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Publié dans:immagini sacre |on 23 août, 2013 |Pas de commentaires »

24 AGOSTO: SAN BARTOLOMEO APOSTOLO

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SAN BARTOLOMEO APOSTOLO

24 AGOSTO

PRIMO SECOLO DELL’ÈRA CRISTIANA

Apostolo martire nato nel I secolo a Cana, Galilea; morì verso la metà del I secolo probabilmente in Siria. La passione dell’apostolo Bartolomeo contiene molte incertezze: la storia della vita, delle opere e del martirio del santo è inframmezzata da numerosi eventi leggendari.Il vero nome dell’apostolo è Natanaele. Il nome Bartolomeo deriva probabilmente dall’aramaico «bar», figlio e «talmai», agricoltore. Bartolomeo giunse a Cristo tramite l’apostolo Filippo. Dopo la resurrezione di Cristo, Bartolomeo fu predicatore itinerante (in Armenia, India e Mesopotamia). Divenne famoso per la sua facoltà di guarire i malati e gli ossessi. Bartolomeo fu condannato alla morte Persiana: fu scorticato vivo e poi crocefisso dai pagani. La calotta cranica del martire Bartolomeo si trova dal 1238 nel duomo di San Bartolomeo, a Francoforte. Una delle usanze più note legate alla festa di San Bartolomeo é il pellegrinaggio di Alm: la domenica prima o dopo San Bartolomeo, gli abitanti della località austriaca di Alm si recano in pellegrinaggio a St. Bartholoma, sul Konigssee, nel Berchtesgaden. I primi pellegrinaggi risalgono al XV secolo e sono legati allo scioglimento di un voto perché cessasse un’epidemia di peste. (Avvenire)

Patronato: Diocesi Campobasso-Boiano
Etimologia: Bartolomeo = figlio del valoroso, dall’aramaico
Emblema: Coltello

Martirologio Romano: Festa di san Bartolomeo Apostolo, comunemente identificato con Natanaele. Nato a Cana di Galilea, fu condotto da Filippo a Cristo Gesù presso il Giordano e il Signore lo chiamò poi a seguirlo, aggregandolo ai Dodici. Dopo l’Ascensione del Signore si tramanda che abbia predicato il Vangelo del Signore in India, dove sarebbe stato coronato dal martirio.

S. Bartolomeo è uno dei dodici apostoli, cioè uno di quegli uomini che furono compagni di Simon Pietro per tutto il tempo che il Signore Gesù visse sulla terra, a partire dal battesimo di Giovanni Battista fino al giorno in cui fu assunto al cielo (Atti, 1, 21s.). Il suo nome compare in questa forma, subito dopo quello del suo amico Filippo, nelle tre liste che degli Apostoli riportarono i Sinottici (Mt. 10, 3; Mc. 3, 18; Lc. 6, 14). S. Giovanni l’evangelista ricorda invece con altri discepoli del Signore Natanaele di Cana di Galilea (Giov. 21,2). Gli studiosi attribuiscono oggi comunemente i due nomi ad una stessa persona. Il primo sarebbe patronimico e significa figlio di Tolmai; il secondo sarebbe nome proprio e significa dono di Dio.
Anche Bartolomeo esercitava il mestiere del pescatore. Difatti, quando S. Pietro, dopo la risurrezione, si accinse ad andare a pescare, Natanaele si associò agli altri cinque apostoli presenti, i quali esclamarono: « Veniamo anche noi con te ». Quella notte non presero niente. Sul far del giorno, Gesù si presentò sulla riva, ma i discepoli non sapevano che era Gesù. Egli disse loro: « Figliuoli, avete un po’ di companatico? ». Gli risposero « No ». E lui ad essi: « Gettate la rete a destra della barca e troverete ». La gettarono e non riuscirono più a tirarla per la gran quantità di pesce (Giov. 21, 2-6).
Probabilmente Bartolomeo faceva parte della cerchia del Battista. Gesù lo chiamò alla sua scuola, tramite Filippo, amico di lui, come aveva chiamato poco prima Simone, tramite Andrea, fratello di lui. Dopo la scelta dei primi discepoli Gesù volle andare in Galilea. Incontrò Filippo di Betsaida e gli disse: « Seguimi ». L’invito fu subito accolto. Filippo a sua volta incontrò Natanaele e gli comunicò la lieta notizia: « Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosé nella legge ed i profeti, Gesù, figlio di Giuseppe, di Nazareth ». Natanaele era forse un assiduo lettore della Bibbia. La doveva meditare sovente sotto il fico che ogni giudaico aveva cura di far sorgere accanto alla propria casa. Sembra però che fosse di temperamento incline al pessimismo. Lo si arguisce dalla sprezzante risposta che diede all’amico: « Da Nazareth può venire qualcosa di buono? ». Cana, la sua terra natia, distava appena otto chilometri dalla borgata che il Figlio di Dio aveva scelto come sua dimora terrena.
Natanaele sapeva che era formata da un’accolta di stamberghe semitrogloditiche e che non era neppure nominata in tutto l’Antico Testamento. Filippo, senza raffreddarsi per la scoraggiante risposta, si limitò a dirgli: « Vieni e vedi ». Appena Gesù scorse il diffidente figlio di Abramo non poté fare a meno di esclamare: « Guarda! Uno davvero Israelita, nel quale non c’è inganno! » (Giov. 1, 40-47).
A nessuno degli apostoli fu resa una testimonianza tanto onorifica e solenne. Natanaele stesso più che lusingato ne rimase stupito, motivo per cui gli chiese: « Donde mi conosci? ». Il Signore approfittò della sua meraviglia per dargli una prova, ancor più evidente della prima, della sua onniscienza. « Prima che Filippo ti chiamasse, gli disse, ti vidi mentre eri sotto il fico ». Non sappiamo che cosa vi stesse facendo. E’ facile che nel suo animo fosse accaduto qualcosa di grave e di determinante per la sua esistenza. Non è improbabile che pensasse al vero Messia, alla redenzione d’Israele, avendo udito strane voci che correvano in paese a proposito di Gesù tornato da Befania con i suoi primi apostoli. Il pio israelita, incapace di finzione, ne rimase sgomento e invaso ad un tratto da fervore esclamò: « Rabbi, tu sei il Figlio di Dio. Tu sei il re d’Israele! ». Aveva avuto dunque ragione l’amico Filippo di riconoscere in Gesù il Messia promesso dai profeti! Il Signore smorzò in parte quel suo eccessivo entusiasmo dicendogli: « Perché ti ho detto che ti ho visto sotto il fico, tu credi? Vedrai cose ben più grandi di queste ». Volgendosi poi a quanti lo seguivano aggiunse: « Vedrete il cielo aperto, e gli angeli di Dio ascendere e discendere sul Figlio dell’Uomo » (Ivi 1,48-51) permettersi al suo servizio, riconoscerlo loro Signore e avere cura della sua santissima umanità.
Tre giorni dopo il colloquio con Natanaele « ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea. La madre di Gesù era là. Alle nozze fu invitato anche Gesù con i suoi discepoli » (Ivi, 2, ls.), forse da Natanaele stesso. Non è improbabile che lo sposo o la sposa fossero suoi parenti o amici. Anche lui assistette così all’inizio delle « cose ben più grandi » predette dal Signore, alla conversione cioè dell’acqua in vino con cui il Messia « manifestò la sua gloria, e i suoi discepoli credettero in lui » (Ivi, 2, 11).
Dopo il ricordo della sua vocazione, questo apostolo si eclissa nel Vangelo per tutta la vita di Gesù. Anche dopo la Pentecoste si hanno vaghe tradizioni riguardo al suo apostolato. Eusebio riferisce che Panteno, il fondatore della scuola catechetica di Alessandria d’Egitto, nel suo viaggio in India (probabilmente era l’Etiopia o l’Arabia meridionale) verso la fine del secolo II, aveva incontrato comunità cristiane costituite dall’apostolo S. Bartolomeo, presso le quali aveva diffuso il Vangelo di S. Matteo in lingua ebraica. In seguito si sarebbe trasferito nell’Armenia maggiore, sostenendo non poche fatiche e superando non lievi difficoltà.
Secondo il Breviario romano in questa regione l’apostolo convertì alla fede cristiana il re Polimio e la sua sposa, nonché dodici città. Queste conversioni eccitarono l’invidia dei sacerdoti delle locali divinità, i quali riuscirono ad aizzare contro di lui in tal modo Astiage, fratello del re Polimio, che costui impartì l’ordine di scorticare vivo Bartolomeo e poi di decapitarlo. Gli artisti lo raffigurano abitualmente con sulle braccia il manto della propria pelle.
Una tradizione armena afferma che il corpo dell’apostolo fu sepolto ad Albanopoli, città in cui subì il martirio. Nel 507 l’imperatore Anastasio I lo fece trasferire a Daras, nella Mesopotamia, dove costruì in suo onore una splendida chiesa. Nel 580 una parte di quei resti mortali fu probabilmente trasferita a Lipari, al nord della Sicilia. Durante l’invasione dei saraceni le reliquie del santo furono trafugate nell’838 a Benevento finché nel 1000, per l’intervento dell’imperatore Ottone III, giunsero a Roma e furono composte nella basilica di S. Bartolomeo, nell’isola Tibertina. Nel 1238 il cranio dell’apostolo fu portato a Francoforte sul Meno dove è ancora venerato nel duomo a lui dedicato. S. Bartolomeo è considerato il protettore dei macellai, dei conciatori e dei rilegatori.

Autore: Guido Pettinati

Non è di quelli che accorrono appena chiamati, anche se poi sarà capace di donarsi totalmente a una causa; ha le sue idee, le sue diffidenze e i suoi pregiudizi. I vangeli sinottici lo chiamano Bartolomeo, e in quello di Giovanni è indicato come Natanaele. Due nomi comunemente intesi il primo come patronimico (BarTalmai, figlio di Talmai, del valoroso) e il secondo come nome personale, col significato di “dono di Dio”.
Da Giovanni conosciamo la storia della sua adesione a Gesù, che non è immediata come altre. Di Gesù gli parla con entusiasmo Filippo, suo compaesano di Betsaida: « Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe di Nazareth ». Basta questo nome – Nazareth – a rovinare tutto. La risposta di Bartolomeo arriva inzuppata in un radicale pessimismo: « Da Nazareth può mai venire qualcosa di buono? ». L’uomo della Betsaida imprenditoriale, col suo “mare di Galilea” e le aziende della pesca, davvero non spera nulla da quel paese di montanari rissosi.
Ma Filippo replica ai suoi pregiudizi col breve invito a conoscere prima di sentenziare: « Vieni e vedi ». Ed ecco che si vedono: Gesù e NatanaeleBartolomeo, che si sente dire: « Ecco davvero un Israelita in cui non c’è falsità ». Spiazzato da questa fiducia, lui sa soltanto chiedere a Gesù come fa a conoscerlo. E la risposta (« Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto il fico ») produce una sua inattesa e debordante manifestazione di fede: « Rabbi, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele! ». Quest’uomo diffidente è in realtà pronto all’adesione più entusiastica, tanto che Gesù comincia un po’ a orientarlo: « Perché ti ho detto che ti ho visto sotto il fico credi? Vedrai cose maggiori di questa ».
Troviamo poi Bartolomeo scelto da Gesù con altri undici discepoli per farne i suoi inviati, gli Apostoli. Poi gli Atti lo elencano a Gerusalemme con gli altri, « assidui e concordi nella preghiera ». E anche per Bartolomeo (come per Andrea, Tommaso, Matteo, Simone lo Zelota, Giuda Taddeo, Filippo e Mattia) dopo questa citazione cala il silenzio dei testi canonici.
Ne parlano le leggende, storicamente inattendibili. Alcune lo dicono missionario in India e in Armenia, dove avrebbe convertito anche il re, subendo però un martirio tremendo: scuoiato vivo e decapitato. Queste leggende erano anche un modo di spiegare l’espandersi del cristianesimo in luoghi remoti, per opera di sconosciuti. A tante Chiese, poi, proclamarsi fondate da apostoli dava un’indubbia autorità. La leggenda di san Bartolomeo è ricordata anche nel Giudizio Universale della Sistina: il santo mostra la pelle di cui lo hanno “svestito” gli aguzzini, e nei lineamenti del viso, deformati dalla sofferenza, Michelangelo ha voluto darci il proprio autoritratto.

Autore: Domenico Agasso

Publié dans:Santi, SANTI APOSTOLI |on 23 août, 2013 |Pas de commentaires »

TESTO E COMMENTO A ISAIA 66,18-21

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=Isaia%2066,18-21

TESTO E COMMENTO A ISAIA 66,18-21

TESTO

Così dice il Signore: 18 « Io verrò a radunare tutti i popoli e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria. 19 Io porrò in essi un segno e manderò i loro superstiti alle genti, ai lidi lontani che non hanno udito parlare di me e non hanno visto la mia gloria; essi annunzieranno la mia gloria alle nazioni.
20 Ricondurranno tutti i vostri fratelli da tutti i popoli come offerta al Signore, su cavalli, su carri, su portantine, su muli, su dromedari al mio santo monte di Gerusalemme, dice il Signore, come i figli di Israele portano l’offerta su vasi puri nel tempio del Signore. 21 Anche tra essi mi prenderò sacerdoti e leviti ».

COMMENTO A ISAIA 66,18-21

Una salvezza per tutti
Il testo liturgico è ricavato dalla terza parte del libro di Isaia, chiamato Terzo Isaia (Is 56-66), che consiste in una raccolta di oracoli composti dopo il ritorno dei giudei dall’esilio babilonese. Esso si trova al termine della quarta e ultima raccolta del libro (Is 63-66). Questa si apre con un brano apocalittico (63,1-6), cui fa seguito una lunga meditazione sulla storia di Israele (63,7 – 64,11); dopo una polemica nei confronti dell’idolatria di Israele (65,1-7) e un testo in cui si contrappone la salvezza dei giusti alla rovina dei malvagi (65,8-16), è affrontato il tema apocalittico della nuova creazione (65,17 – 66,24). Nel contesto di quest’ultima parte del libro, il testo liturgico porta un contributo notevole in quanto annunzia la riunione di tutti i popoli intorno al monte di Sion, divenuto centro universale e segno di salvezza per tutta l’umanità.
Il brano inizia con un oracolo in cui Dio stesso dice che cosa sta per fare: «Io verrò a radunare tutti i popoli e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria. Io porrò in essi un segno e manderò i loro superstiti alle genti di Tarsis, Put, Lud, Mesech e Ros, Tubal e di Grecia, ai lidi lontani che non hanno udito parlare di me e non hanno visto la mia gloria; essi annunzieranno la mia gloria alle nazioni» (vv. 18-19). Richiamandosi all’annunzio della venuta di JHWH per giudicare il mondo (cfr. v. 15), il testo sottolinea che la condanna dei popoli non costituisce l’unico scopo dell’intervento divino. Il Signore viene anzitutto per radunare tutti i popoli e tutte le lingue e promette anche a loro che vedranno la sua gloria, cioè avranno anche loro accesso alla salvezza. Il «segno» posto fra i popoli è probabilmente la presenza in mezzo ad essi dei giudei.
La lista dei popoli, ricavata da Ez 27,10-13; 38,2, contiene nomi che risvegliano l’immaginazione di terre lontane e lingue diverse. Essa serve a situare la promessa in un grandioso scenario geografico che rievoca l’universalità delle genti. Vengono nominate Tarsis, che si trova in Sardegna o nella Spagna meridionale, Put che è situata in Egitto, Lud in Asia Minore, Mesech, Ros e Tubal vicino al mar Nero e infine la Grecia e in particolare le colonie ionie sulla costa occidentale dell’Asia Minore e delle isole. Queste nazioni non hanno sentito parlare di JHWH e non sono ancora venute a contatto con lui. Perciò la presenza fra loro della diaspora giudaica è interpretata come uno strumento per portare nel mondo la conoscenza di JHWH. Questa affermazione è certamente in favore del proselitismo giudaico la cui attività si faceva sentire in tutto il mondo allora conosciuto.
L’autore spiega poi quale sarà la conseguenza dell’intervento divino: «Ricondurranno tutti i vostri fratelli da tutti i popoli come offerta al Signore, su cavalli, su carri, su portantine, su muli, su dromedari al mio santo monte di Gerusalemme, dice il Signore, come i figli di Israele portano l’offerta su vasi puri nel tempio del Signore» (v. 20). In questo versetto si riprende l’immagine del pellegrinaggio escatologico delle nazioni a Gerusalemme e al tempio. È questa una delle idee centrali del Terzo Isaia (cfr. Is 60,1-22; 62,1-9), che preannunzia la venuta a Gerusalemme delle nazioni straniere che portano i loro doni all’unico vero Dio. Qui invece le nazioni non portano doni materiali, ma riconducono alla loro terra tutti i giudei che erano ancora dispersi in tutte le parti del mondo.
Infine Dio indica in prima persona quello che intende fare: «Anche tra essi mi prenderò sacerdoti e leviti, dice il Signore» (v. 21). Questa conclusione è molto rivoluzionaria in quanto indica il superamento di un sacerdozio che appartiene unicamente al popolo di Israele ed è appannaggio della casta sacerdotale. Ormai tutti potranno essere ammessi al servizio del tempio, anche se appartengono a popolazioni straniere che per diritto non potevano entrare neppure nei cortili più interni del tempio.

Linee interpretative
Questo testo del Terzo Isaia, composto con ogni probabilità in un periodo che precede le guerre maccabaiche, dimostra una grande apertura universalistica. JHWH è il Dio di tutte le nazioni e si serve dei giudei sparsi in mezzo alle nazioni per farsi conoscere anche da loro. Di fronte alla rivelazione di JHWH le nazioni si mostrano anche più zelanti dei giudei stessi, in quanto sono proprio loro che prendono l’iniziativa di recarsi a Gerusalemme e portano con se i giudei ancora esitanti a mettersi in cammino.
Il pellegrinaggio delle nazioni al tempio di Gerusalemme resta il simbolo più significativo dell’universalismo giudaico, secondo il quale il popolo eletto è sempre al centro del progetto di Dio. Ma il fatto che anche dalle nazioni straniere vengono presi sacerdoti e leviti significa che la barriera etnica è ormai superata e le nazioni entrano a pieno titolo nel popolo di Dio degli ultimi tempi. Resta pur sempre però una visione in cui la salvezza si realizza mediante la conversione di tutte le nazioni a un’unica forma religiosa, quella di Israele. L’idea di una sinfonia di nazioni, religioni e culture che collaborano alla realizzazione di un mondo migliore senza perdere la propria identità non appare ancora all’orizzonte.

25 AGOSTO 2013 | 21A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C – (OMELIA) LECTIO DIVINA SU: LC 13,22-30

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/03-annoC/annoC/12-13/05-Ordinario/Omelie/21-Domenica-2013_C/21-Domenica-2013_C-JB.html

 25 AGOSTO 2013  | 21A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C  |  PROPOSTA DI LECTIO DIVINA

LECTIO DIVINA SU: LC 13,22-30

Non credo che oggi domanderemmo a Gesù, di confrontarci con lui, sul numero di coloro che si salvano, come fece quello sconosciuto che lo incontrò verso Gerusalemme. Bisogna riconoscere che oggi la salvezza non è un tema che interessa, nemmeno ai cristiani. E non si capiscono bene le cause di questa situazione. Chissà, impegnati come siamo nel liberarci dei piccoli problemi che la vita quotidiana ci propone, probabilmente abbiamo perso di vista che, benché riusciamo a risolverli tutti, ci manca l’affrontare il più decisivo, l’unico che merita tutta la nostra attenzione, perché da esso dipende la nostra felicità per sempre. Potrebbe anche essere che, credendoci già buoni, solo per non essere notoriamente cattivi, che diamo per scontata la ricompensa dovuta ai nostri sforzi. È già una prova sufficiente vivere questa vita senza contare, con l’altra.
Non è raro che alcuni, certamente con la migliore intenzione, pensino di non doversi preoccupare troppo del nostro destino finale, dato che Dio è sufficientemente buono per scusarci quando noi non riusciamo ad esserlo. Non sono pochi quelli che oggi, per motivi diversi, danno per scontata la loro salvezza, perché, semplicemente, se la meritano…; almeno lo credono.

In quel tempo, 22Gesù, in viaggio verso Gerusalemme, passava per città e villaggi, insegnando.
23 Un tale gli chiese « Signore, sono pochi quelli che si salvano »?
Gesù gli disse:
24 « Sforzatevi di entrare per la porta stretta. Io vi dico che molti cercheranno di entrare ma non potranno.
25 Quando il padrone di casa si alza e chiude la porta, rimarrete fuori dalla porta a chiamare, dicendo: « Signore, aprici! » Ma egli vi dirà: « Io non so chi siate ». 26 Allora direte: ‘Abbiamo mangiato e bevuto con te, e tu hai insegnato nelle nostre piazze ». 27 Ma egli risponderà: « Io non so chi voi siate lontano da me, maledetti ». 28 E sarà pianto e stridore di denti quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, e voi vi vedrete, scacciati. 29E Verranno da oriente e da occidente, da nord e sud, e siederanno a mensa nel regno di Dio.
30 Badate: gli ultimi saranno primi, e i primi saranno ultimi ».
 1. LEGGERE: capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice

In cammino verso Gerusalemme, insegnando in ogni luogo in cui passa, Gesù è interpellato da un uditore anonimo: su quanti siano, se non sono molti, quelli che si salvano, (Lc 13,23). Luca approfitta di questo scenario, un Gesù di passaggio, un Gesù che insegna sempre, una domanda profondamente ‘religiosa’ per unire tre sentenze di Gesù sull’entrata nel regno (Lc 13,24.25-29.30). Bisogna notare che alla questione più teorica della salvezza risponde con un’immagine più accessibile della « porta stretta » e del « sedersi a tavola. »
A chi s’interessa al numero dei salvati risponde esortandolo a preoccuparsi della propria salvezza (Lc 13,23). Non è tanto facile come si potrebbe pensare. Decisivo non è se sono molti o pochi quelli che si salveranno, bensì se uno sta nel numero dei salvati. La propria salvezza non è un tema da discutere, bensì compito da affrontare. E bisognerà tenere in conto, avverte Gesù, che non la ottiene solo chi ci prova.
Spiegandosi meglio, Gesù ricorre ad una parabola nella quale partecipano coloro che lo ascoltano (Lc 13,25 -29). A chi la da per sicura, dato il grado di intimità raggiuto con Gesù, ricorda loro che la salvezza non dipende da quello che essi si credono, bensì da quello che vuole Dio. Convivere oggi con Cristo non avalla un futuro in sua compagnia. Per chi in realtà vuole entrare, ‘rimanere fuori’, è una possibilità da considerare.
Perché non entra chi lo desidera, ma chi è riconosciuto ed accolto dal suo Signore. Finché dipende da « Un altro », la nostra salvezza non è assicurata. E la cosa peggiore, la cosa più spiacevole è che altri più lontani, meno privilegiati, entreranno per primi.
Che gli ultimi precedano i primi deve essere un forte avvertimento a quanti si sentono troppo in regola con Dio (Lc 13,30). Chi è più lontano oggi dalla meta, ha migliori probabilità di arrivare a destinazione, serve a poco basarsi su un principio. Nessuno può essere sicuro del trionfo, se neanche i più vicini a lui devono illudersi di ottenerlo. Gesù non rende facili le cose ai buoni. E nessuno è troppo buono per, automaticamente, meritarsi il buono di Dio.

 2. MEDITARE: applicare alla vita quello che dice il testo!
Al tempo di Gesù la gente era certamente meno colta, meno fortunata. Viveva meno ed in condizioni peggiori di oggi. Per questo, probabilmente, percepivano poco il valore di questa vita e si informavano molto sull’altra. Poiché erano convinti che essi non potevano liberarsi da soli dei propri mali, erano più preoccupati di una salvezza definitiva che solo Dio poteva dar loro.
Siccome avevano poco da perdere in questa vita, li inquietava più potere perdersi anche nell’altra; riuscivano a vivere senza tante cose che noi abbiamo, ma non rinunciavano a vivere per sempre senza Dio.
Probabilmente, oggi non sono molti coloro che si preoccupano per la salvezza di tutti. Neanche gli autentici credenti danno per certo quel dono che non sarà mai meritato. Ci farebbe bene domandarci, più spesso e con maggior serietà, se saremo un giorno tra i salvati; vivremmo, senza dubbio, meglio la fragile vita che abbiamo.
Per quel motivo, richiama l’attenzione che Gesù non rispondesse ad una domanda ‘teologica’ tanto importante: dato che solo Dio salva, salverà molti o pochi? Più importante ancora che soddisfare la curiosità del suo interlocutore gli sembrò, senza dubbio, avvisarlo sul pericolo che correva chi non si sforzava: decisivo non è sapere il numero di coloro che si salveranno bensì se io sarò tra essi.
Con la sua risposta, invece di risolvere i dubbi, Gesù volle accrescere l’ansietà nel suo interlocutore al quale, curiosamente, importava più il numero dai salvati che la propria salvezza. Benché Gesù gli avesse garantito che la maggioranza si sarebbe salvata, ancora non gli ha assicurato la sua salvezza. Non bisogna fare della propria salvezza, una questione accademica, un argomento su cui discutere ed intrattenersi. La salvezza, almeno per Gesù, era un compito di tutta la vita. Se ha detto chiaramente qualcosa è che la propria salvezza, oltre che incerta, è estremamente difficile.
Sono i requisiti non la rendono facile: la porta è stretta, si richiede sforzo e, soprattutto, non dipende dalla voglia di entrare, bensì di essere accolti dal Signore. Se la via di accesso non è tanto transitabile come sarebbe desiderabile, se né l’impegno né il lavoro personale sono sufficienti, « entrare nel regno » sarà sempre grazia concessa, non merito guadagnato. Se non dipende dal mio desiderio né dal mio sforzo essere riconosciuto ed accolto finalmente da Dio, tutto quello che faccio con Lui e per Lui non me lo merita: Egli sarà sempre per me sorpresa e dono, mai salario meritato.
Se né l’essere stati suoi discepoli, essendo stati da lui istruiti mentre si conviveva con lui, mi assicura di non « rimanere fuori », senza lui, per sempre, perché non mi domando se sarò salvato? Perché do per certo quello che non dipende da me ed è solo grazia? Che cosa potrò fare oggi per meritare una grazia che non è sicura nemmeno per coloro che ascoltarono Gesù e si sedettero a tavola con lui?
Per approfondire ciò, Gesù ricorre al linguaggio simbolico; non trova migliore modo per parlare di Dio e dell’altra vita. Chi desidera entrare in qualche posto, deve sforzarsi molto di più, quanto meno ampio sia l’accesso. Gesù non dice che la porta che conduce a Dio sia stretta; invita, piuttosto, a scegliere l’accesso meno ampio per arrivare a lui.
In realtà è un modo strano di incoraggiare chi lo ascolta! Ma, almeno, non c’inganna con false promesse. Quello che più desideriamo ha una via di accesso angusta, rende difficoltosa la strada; arrivati alla meta, tanto più la godremo quanto meno comodo sia stato il raggiungerla.
Sembra che Dio voglia che lo apprezziamo prima di darcela per sempre, rendendoci laborioso l’incontro con Lui; è come se Dio volesse farci meritare la pena che soffriamo seguendolo. In realtà, quello che Dio vuole è alleviare il dispiacere che sentiamo ogni volta che lo cerchiamo: essendoci Lui dietro la porta, ci preoccupa se è stretta? Più ancora, se realmente vogliamo essere sicuri che ci sta aspettando dopo questa vita, non fuggiamo le difficoltà di questa vita. Lo disse Gesù: se non tentate di entrare per la porta stretta, non sarete capaci di entrare. La selezione è nelle nostre mani.
Con la parabola del padrone che non riconosce chi chiama da fuori, ricorda a quanti danno per scontato la benevolenza divina che non dovrebbero farsi troppe illusioni: non per il fatto di essere buono, Dio è ignorante. Quelli che rimasero fuori quando il signore della casa chiuse la porta non gli erano estranei, furono considerati estranei; erano stati amici e compagni, ma non arrivarono ad essere suoi ospiti; mangiarono e vissero vicino al loro amico, ma non li ha ammessi nella sua casa. E non è che facessero cose brutte; l’unica cosa che non fecero è essere vicino a lui nel momento in cui chiudeva la sua casa.
A chi riuscì ad entrare non importò che la porta fosse stretta, purché rimanesse ancora aperta; chi rimase fuori della casa dell’amico – e del suo cuore -, non si lamentò che la cosa stretta era la porta, bensì che era già chiusa. La cosa unica che sa dire il signore della casa è che non riconosce come amico chi è rimasto fuori della sua casa. La lezione è tanto evidente che nemmeno Gesù la commenta. Non ci fa nessun bene illuderci che le buone relazioni con Dio ci assicurino trovarci un giorno con Lui e avere come nostra casa il cielo. Convivere oggi con Gesù non garantisce un futuro in sua compagnia. Dare per sicura l’amicizia con Dio è il modo migliore per incominciare a perderla. Chi era intimo col suo signore come con un amico, vedrà che altri sono preferiti; un’amicizia che può perdersi, è un’amicizia preziosa; è meglio non abbandonare una casa alla quale è possibile non ritornare. Se è possibile che Dio non ci riconosca per sempre, solo perché lo abbiamo lasciato per un momento, dobbiamo stare vicino a Lui in tutti i momenti della nostra vita. Qualunque sacrificio varrà la pena, se vale la vita eterna nella sua casa.
Ed affinché non rimanesse ombra di dubbio, Gesù conclude la sua esortazione con un avvertimento tanto insolito come ingiusto. Gli ultimi saranno primi, quelli sottovalutati i migliori, gli sconosciuti, intimi nel regno di Dio. Coloro che sono più lontani dalla meta hanno migliori probabilità di arrivare alla destinazione, a poco serve stare ben saldi su un principio; nessuno può essere sicuro del trionfo, se neanche i più vicini a lui possono credere che l’otterranno. Gesù non rende le cose facili ai buoni. E nessuno è troppo buono per, automaticamente, meritare Dio. In fondo è di questo che si tratta. Non piacque sicuramente ai suoi uditori che Gesù facesse loro notare che, altri, venuti da lontano, si sarebbero seduti insieme ai patriarchi e ai profeti di Israele nel banchetto del regno. Per gli uditori dell’evangelista, questo grave avvertimento di Gesù era una triste, ed innegabile, realtà: erano stati accolti nel regno quelli che meno se lo aspettavano.
E coloro che pensavano di averne diritto, con tutta una storia di salvezza alle spalle, furono lasciati fuori. Per noi oggi, ‘cristiani di vecchia data’, la sentenza di Gesù è, contemporaneamente, grave avvertenza e semplice constatazione: non ci salveremo perché vogliamo, bensì perché qualcuno lo vuole; è grazia del Signore, bisognerà vivere sentendosi premiati ed avvicinandoci a Lui. Se non basta la convivenza come discepolo né l’intimità di commensale per ‘guadagnarselo’, il nostro sforzo non potrà conoscere limite né la speranza di ottenerla. Finché non ci lasceranno entrare per la porta stretta, non saremo in salvo. Abbiamo creduto che, per credere nella bontà di Dio non è necessario essere buoni noi; ci siamo illusi che Dio farà anche la parte che ci corrisponde, quando l’abbiamo lasciata incompiuta; ci stiamo perdonando le nostre mancanze prima che Dio lo faccia ed evitiamo di riconoscerlo. La salvezza, e Dio, ci aspettano dietro una porta angusta, in una situazione che opprime, dopo una disgrazia inaspettata. Cercare Dio tra le cose facili e passeggere suppone un errore senza speranza. Gesù prevenne i suoi uditori ebrei e, apparentemente, non ebbe molto successo. Con una sentenza finale, tanto proverbiale quanto enigmatica, Gesù risolve il problema. Non si tratta di sentirsi primo o ultimo, perché da tutti e due i gruppi usciranno i salvati. Si tratta, assicura Gesù, che non esiste preferenza né posto privilegiato: quello che è tra i primi, non è sicuro di entrare; quello che è tra gli ultimi, potrà essere ricevuto. Non è quello che siamo noi, né dove ci troviamo, quello che assicura la nostra salvezza, bensì quello che Dio vuole essere per noi e dove Egli ci vuole trovare. Vivere oggi nella sua grazia è la migliore maniera, la più utile, per ingraziarcelo per sempre e perché ci lasci entrare nel suo regno e cenare alla sua mensa.
Gesù ci ha avvisato oggi. Avrà più fortuna ora che allora il suo avviso? Sarebbe meglio fosse così. È troppo quello che ci giochiamo pensando che l’indubbia bontà di Dio non ci obbliga ad essere migliori. Un Dio che si può perdere tanto facilmente, è un Dio che bisogna curare meglio, è un Dio al quale bisogna badare di più. Non ha senso rimanere fuori, e per sempre, dalla sua presenza, per non essere stati sempre vicino a Lui; sarebbe un deplorevole errore, tanto deplorevole da deplorarlo per tutta un’eternità, coloro che, essendo stati tanto tempo i primi, arrivino ad essere ultimi nel regno di Dio. Dipende da noi.

JUAN JOSE BARTOLOME sdb,

Beata Vergine Maria Regina

Beata Vergine Maria Regina dans immagini sacre

http://blog-by-the-sea.typepad.com/blog_bythesea/mary/

Publié dans:immagini sacre |on 22 août, 2013 |Pas de commentaires »
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