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San Luca Evangelista

San Luca Evangelista dans immagini sacre St_Luke

 

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1 SETTEMBRE 2013 – 22A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C – LECTIO DIVINA SU: LC 14,1.7-14

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1 SETTEMBRE 2013  | 22A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C  |  PROPOSTA DI LECTIO DIVINA

LECTIO DIVINA SU: LC 14,1.7-14

Sempre in cammino verso gli uomini, senza una casa propria in cui riposarsi, Gesù era solito andare ovunque lo invitassero. Era ospite di persone influenti così come di noti peccatori; non negava a nessuno la sua compagnia nè la parola di Dio. Oggi il passo del Vangelo ci ricorda una di queste occasioni; un sabato un importante fariseo l’aveva invitato a mangiare. La sua presenza in casa di un fariseo importante creò un certo scompiglio fra i presenti che non smettevano di osservarlo. Ben presto egli si accorse di come gli invitati cercavano i migliori posti liberi: tutti pensavano di essere degni di grande distinzione. Un comportamento così sconsiderato lo spinse ad impartire loro una lezione. In realtà Gesù non pretendeva insegnare loro la buona educazione, non era suo compito fare da maestro di buoni costumi. Voleva invece, mostrare loro l’inadeguatezza di un comportamento che cerca il proprio onore prima di quello di Dio e del rispetto del prossimo. E aggiunse anche un ammonimento: non si devono fare favori spinti dalla segreta illusione di essere ricompensati.

1 Un Sabato, Gesù entrò nella casa di uno dei capi dei farisei per mangiare, ed essi lo osservavano.
7 Notando che gli ospiti sceglievano i primi posti, propose loro questa parabola:
8 « Quando sei invitato ad un matrimonio, non sederti nel posto principale, non capiti che sia invitato un altro più importante di te; 9allora verrà chi ha invitato te e l’altro e ti dirà: ‘cedi il posto a lui. « Poi, umiliato, andrai a occupare l’ultimo posto. 10 Al contrario, quando ti invitano, vai a sederti nell’ultimo posto, in modo che quando arriva colui che ti ha invitato, ti dica, ‘Amico, vai più avanti ». Così sarai onorato di fronte a tutti i commensali. 11 Poiché chi si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato « .
12 E disse a colui che lo aveva invitato:
« Quando offri un pranzo o una cena, non chiamare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi tuoi vicini, perché corrispondono invitandoti, e così sarai ripagato.
13 Quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; 14 sarai beato, perché non possono ripagarti; sarai pagato alla risurrezione dei giusti ».
 1. LEGGERE: capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice

Per la quinta volta Luca presenta Gesù ospite di una famiglia: il primo fu un pubblicano (Lc 5,29), poi un fariseo (Lc 7,36), dopo Marta e Maria (Lc 10,38) e un altro fariseo (Lc 11, 37; adesso uno dei farisei più in vista. L’ambiente familiare e il mangiare insieme sono « cattedra » di un Gesù vicino agli uomini, che se lo meritino o no. Richiama l’attenzione che si lasci invitare più dai farisei che dagli amici o dai discepoli. In questa scena il narratore fornisce una motivazione: sebbene l’invito fosse a mangiare, la vera intenzione era insidiarlo. Gesù non si trova tra amici ma non si spaventa nè li evita. Si mostra loro come è, maestro di vita.
Ed è un semplice dettaglio che ha osservato (Lc 14,7), un episodio di vita, che forse era diventato irrilevante per molti dalle tante volte in cui era stato ripetuto, ciò che gli dà il via per una lezione inaspettata, o meglio due. Gesù argomenta con la vita per correggere un comportamento che si ripete abitualmente. Anche se Luca presenta le parole d Gesù come una parabola, esse sono in realtà una doppia educazione di tipo sapienziale. La prima parte è rivolta a tutti gli invitati; la seconda solo a colui che li ha invitati.
Agli invitati si indica come comportarsi nella scelta dei posti (Lc 14,8-11). A chi invita come deve scegliere le persone (Lc 14,12-14). In entrambe si va contro a ciò che è visto some normale e sembra logico. Il primo insegnamento sembra una semplice lezione di cortesia, con una certa dose di calcolo e furbizia. Però la conclusione eleva il racconto a principio di vita: cercare la propria gloria è la via per rimanere senza di essa (Ez 21,31). Più esigente e inconsueta è la lezione che dà a chi invita: è un incredibile, e poco ragionevole, richiamo alla generosità e al disinteresse. Chi invita deve scegliere chi è povero, socialmente insignificante e insolvente. Chi fa il bene deve rinunciare ad aspettarselo. Coloro che danno senza speranza di essere ricompensati oggi possono sperare nella propria ricompensa nell’ultimo giorno.

 2. MEDITARE: APPLICARE ALLA VITA QUELLO CHE DICE IL TESTO!
Gesù insegnava sempre. La maggior parte delle volte sceglieva lui i suoi uditori, altre volte lo cercavano per ascoltarlo, e, come ricorda oggi il Vangelo, non sempre con buone intenzioni. Anche quando non era ben visto o preso in giro Gesù predicava il Vangelo. Chi porta il Vangelo e Dio nel cuore non spreca nessuna occasione per parlare del proprio « tesoro ». Non ha bisogno di stare fra i suoi, ben visto, per essere quello che è stato chiamato ad essere e fare quello per cui è stato inviato. Non c’è bisogno oggi di evangelizzatori che come Gesù, parlino di Dio dove non si parla di Lui? Dio merita di esere annunciato anche dove il suo rappresentante non è ospite gradito.
E per trovare temi attraverso cui parlare di Dio a gente non ben disposta, non importa conoscere o fare analisi della situazione; basterà osservare come ci si comporta. Nel comportamento dell’ascoltatore del Vangelo, l’evangelista perspicace scopre ciò che deve annunciare come salvezza, così che, a chi manca Dio, lascia intravedere il vuoto e la solitudine in cui vive. Non sarà che non fissiamo molto il nostro sguardo sul nostro mondo, che non lo osserviamo da vicino e così non ci è amico e per questo ci mancano motivi per parlare di Dio? La nostra negligenza e noncuranza personale sta impedendo agli altri di sentirsi contemplati da Dio e amati da Lui.
Ebbene, invitato a pranzo, Gesù osserva il comportamento degli invitati e da quello prende spunto per il suo insegnamento; non pretende di tenere una lezione di galateo, ma ricavare lo spunto per esporre le norme che devono essere alla base delle relazioni fra gli uomini. Qualcosa di così semplice, e spesso ricorrente, come il desiderio evidente di occupare i primi posti ad un banchetto offrì a Gesù l’occasione per evangelizzare. Non ebbe bsogno di motivi migliori. A chi ha voglia di evangelizzare non mancheranno mai le occasioni. L’invitato non deve considerarsi degno dell’invito, visto che non deve essere mai reso; nemmeno deve cercare posti che non gli siano stati assegnati perchè non si è meritato l’ospitalità ricevuta; l’invito è un dono immeritato, nessun salario è dovuto. Colui che invita non deve calcolare se il suo invito sarà un giorno ricambiato dai suoi ospiti; l’invito dev’essere un’offerta gratuita, non un investimento a lunga scadenza; invitando chi non può pagare sarà Dio incaricato a risarcirlo. In entrambe i casi, il comportamento di Dio, che invita tutti – e senza che nessuno lo meriti – e che in più invita senza speranza che possano ricompensarlo è la ragione del comportamento elogiato da Gesù: secondo lui gli uomini devono imitare il comportamento di Dio nelle cose ordinarie della vita.
Bisogna ammirare il valore di Gesù che si mette ad insegnare a chi non glielo aveva chiesto. Anche se l’occasione non era la più propizia, attorniato com’era di persone che non smettevano di osservarlo, davanti ad una scena così triste, reagisce sicuro di se stesso e mostra la stoltezza di chi pensa solo ad accumulare onori che ha bisogno di sottrarre al proprio prossimo. Noi, fossimo stati invitati, probabilmente avremmo fatto finta di non vedere o provato a giustificare un simile comportamento sempre che non fossimo incappati nello stesso modo di fare. Se Gesù non lascia passare l’accaduto è perchè vede in esso qualcosa di più serio che non una semplice corsa per ottenere privilegi a qualunque costo. E l’avvertimento che fa loro, va molto al di là di ciò che ha osservato: coloro che si credono più degni possono smarrire Dio. Fare il bene a chi lo può contraccambiare non è un buon affare, infatti, ci fa perdere il banchetto nel regno.
La parabola, sebbene sembri alludere a ciò che sta vivendo Gesù in casa dei suoi ospiti, in realtà si riferisce alla relazione del credente con Dio. Potrebbe sembrare che Gesù dia utili consigli agli invitati e ai padroni di casa; in realtà sta parlando di Dio e del suo volere. Il comportamento di Dio che invita tutti, senza che lo meritino e che in più invita senza speranza che possano ricompensarlo, è la ragione del comportamento elogiato da Gesù. Secondo lui gli uomini devono imitare il comportamento di Dio nella loro vita quotidiana. Come il figlio imita il padre, così il credente deve conoscere e imitare le scelte di Dio. Il fatto osservato serve quindi come scusa per correggere la tentazione di credersi migliori, più degni, solo perchè ci sono altri peggiori, meno onorati. Non conviene che davanti a Dio i buoni si distinguano per ambire posti migliori di quelli che hanno ricevuto. Essere stati invitati e già un onore sufficiente; avere Dio come padrone di casa basta già per vivere soddisfatti. Che Dio abbia pensato a ciascuno, dandogli un posto alla sua festa, deve bastare per placare il nostro bisogno di gloria e potere. Davanti a Dio noi siamo buoni per il posto che occupiamo non per il bene che facciamo o che meritiamo; è Dio che ci fa buoni invitandoci a godere della sua compagnia e della sua mensa. Desiderare altri beni significa rendere male ciò che è già concesso: cercare posti migliori significa considerare come non buoni quelli che Dio ci ha assegnato.
Chi non merita l’ospitalità che riceve non deve cercare posti che non gli siano stati assegnati. L’invito è un dono immeritato, non un compenso dovuto. Quando riceviamo un dono e lo consideriamo dovuto, perdiamo l’occasione di sentirci grati e di rispondere riconoscenti. Cercarsi il posto nella vita che uno pensa di meritare significa vivere senza riconoscere la grazia di essere invitati. Convivere con altri richiede vivere con umiltà, accettando ciò che uno è, conformarsi al posto che gli spetta, riservando i restanti per gli altri. La chiesa oggi, le nostre comunità sempre, hanno bisogno di cristiani che si accontentino di occupare quello che si offre loro senza desiderare ciò che è destinato ad altri. Senza umiltà non è possibile sperimentare la gratuità e il vivere in comune. Essere umile significa accettare di buon grado ciò che Dio, attraverso la vita, pensa di darci; desiderare qualcosa di più ci rende infelici oggi, e domani rimarremo umiliati.
Non accontentarsi di ciò che Dio ha disposto per noi sarebbe inoltre fargli un affronto; come l’invitato sconsiderato che non si stanca fino a che non migliora la propria posizione, lascia così ai posti peggiori colui che l’ha invitato; trattiamo Dio così quando non contenti dell’invito che ci offre continuiamo a cercare privilegi, forse più invitanti perchè onorevoli ma che Dio non pensò adeguati abbastanza per concederli a noi. Il rischio che corrono coloro che si credono buoni, è pensare che Dio non è stato abbastanza buono con loro o che meritano di più; finiranno, come già li ha avvertiti Gesù, per cadere nel ridicolo di vedersi privati di quanto hanno usurpato. Quello che il credente riceve da Dio è già buono e abbondante; ambire ad onorificenze maggiori, posti migliori, maggiore dignità significa cercare di fare un torto a Dio e a coloro che condividono con noi i loro doni e la loro copagnia.
Chi si riconosce amato da Dio è libero dalla vanagloria e dall’invidia. Chi sa che Dio lo stima, non ha bisogno di trionfi e riconoscimenti per sentirsi stimato sopra tutti e apprezzato senza merito; potrà rinunciare alla ricerca di onori che dovrebbe ottenere negandoli al suo prossimo e non gli comporterà fatica sopportare che altri ricevano onori che lui non ha. Al credente, per non ambire a privilegi maggiori e fortune migliori, basta essere sicuro dell’amore che Dio ha per lui. Probabilmente l’insoddisfazione con cui viviamo la nostra vita cristiana, il logorio che ci causa vivere con persone che ottengono di più o vivono meglio nascono dalla scarsa consapevolezza che abbiamo dell’amore che Dio ci offre. Se avessimo fede in lui, ci avanzerebbe tutto ciò che non è Lui e che a Lui conduce.
In casa del fariseo Gesù non limita il suo insegnamento ad alcuni invitati noncuranti; senza ricorrere a parabole, affinchè sia più chiara la sua posizione, avverte il padrone di casa del pericolo di invitare coloro che possono ricambiare. Contro ogni logica, e in contraddizione con quello che siamo soliti fare, Gesù pensa che l’invito debba essere un’offerta gratuita, non un investimento a lungo termine; invitando chi non può pagare, Dio si prende la responsabilità di ricompensare; colui che dà a chi non può restituire, ha in Dio l’incaricato di farlo. Non sembra essere una norma di comportamento ragionevole regalare a chi, oltre a non meritarlo, non è oggettivamente in condizioni da poter ricambiare il favore; fare il bene a chi non potrà essere buono con noi è uno spreco senza senso. Non è questo ciò che pensa Gesù: la gratitudine più assoluta deve regnare nelle relazioni fra le persone che attendono il regno di Dio. La certezza che sta per arrivare li libera dal desiderio di avere riconoscimenti: il bene fatto intenzionalmente sapendo che non si ricava niente per questo, il dono che si fa libero da interessi e senza necessità di restituzione, fa bene a chi lo fa e lo fa bene. E promette Gesù, il bene ben fatto, un giorno avrà ricompensa, nel giorno della risurrezione dei giusti. Il Dio buono è incapace di dimenticare chi ha fatto il bene per il bene, gratuitamente.
La logica di Gesù non può essere più evidente, ma le esigenze che ne derivano sono del tutto inconsuete. È normale che chi è stato invitato una volta si senta obbligato ad invitare a sua volta; lo facciamo tutti; non farlo sarebbe cattiva educazione quando non ingratitudine. A nessuno di noi invece passerebbe per la testa invitare sconosciuti, o peggio mendicanti malati e disabili; questo è precisamente ciò che Gesù vuole far capire ai suoi ospiti: se inviti chi poi ricambierà di tasca propria, il debito della sua bontà non perdura, la sua generosità è già stata ricompensata; solo quando non ci può essere restituito il bene compiuto ingrandiamo il tesoro nel regno dei cieli. Gesù vuole che chi fa il bene sappia a chi lo fa; i poveri, che non hanno nulla, gli invalidi che non posso disporre di quello che hanno devono essere preferiti ai familiari e agli amici da cui si spera sempre uguale trattamento e stessa generosità.
Una simile norma di comportamento, messa in pratica con rigore, metterebbe in pericolo la vita sociale e la pace familiare: qualcosa che Gesù certamente non promuove. Non vuole riempire di sconosciuti e di bisognosi le nostre case nei momenti di maggiore intimità o nei loro giorni migliori. Però questo non significa che le sue parole non siano una regola di vita cristiana. Quello che vuole vedere nei suoi ospiti è ciò che vuole trovare nei suoi discepoli: generosità senza calcoli e altruismo disinteressato. Fare il bene non può diventare un investimento a breve termine; la bontà non si elargisce perchè produca benefici sicuri; cercare riconoscimento e ricompense perchè si è stati buoni significherebbe perdere la possibilità di conoscere la bontà di Dio. Chi è buono perchè lo riconoscano o perchè lo paghino perde la ricompensa che Dio ha preparato per i buoni.
Fare il bene senza rendere debitori coloro a cui lo facciamo è ciò che Gesù si aspetta dai suoi. Il cristiano non calcola il bene che fa in funzione dei beni che potrà aspettarsi; investire in bontà per lui è sempre a fondo perduto. E affinchè non ci siano nè tentazione di contare su una ricompensa, per minima che sia, dovremo essere buoni con chi non può esserlo con noi, non perchè sono cattivi ma perchè non hanno niente di buono. Non assomiglia a Gesù la bontà che non sia gratuita, i beni che non rinunciano ad essere divisi. E non lo sarà nemmeno per noi; visto che solo il bene che rinuncia ad essere ricambiato è il bene che un giorno ci farà meritare Dio e i suoi beni per sempre. Non soddisfatto di chiederci di accontentarci di ciò che abbiamo ricevuto, Gesù esige da noi che diamo senza aspettarci un riconoscimento. Chi ha detto che essere discepoli di Gesù è un passatempo facile?

JUAN JOSE BARTOLOME sdb

Publié dans:LECTIO |on 30 août, 2013 |Pas de commentaires »

OMELIA XXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C: UMILTÀ: VIRTÙ ALLEGRA

 http://www.atma-o-jibon.org/italiano10/omelie364.htm

 LE OMELIE DI DON GIUSEPPE CAVALLI   (29 agosto 2010)

XXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C

Sir 3, 17-20.28-29 Sal 67 Eb 12, 18-19.22-24a Lc 14, 1.7-14

UMILTÀ: VIRTÙ ALLEGRA

Uno dei grandi predicatori dei primi tempi, Gregorio Magno, scrive un lungo libro intitolato La regola, una specie di elenco di norme per la vita dei seguaci di Gesù. Era una novità che il Papa scrivesse una cosa riguardante non i particolari, ma tutto il modo di portare avanti la vita cristiana di tutti coloro che credevano. Questo libro è poi diventato un po’ un trattato di morale sul quale confrontarsi per fare l’esame di coscienza e il suo uso, quasi quotidiano, da parte dei buoni cristiani è durato circa mille anni.
La regola n. 9 riguarda l’umiltà e Gregorio Magno dice: ci sono persone che, messi gli occhi su di un posto importante nel mondo, fanno la faccia da umili, si fanno piccole, si mettono d’accordo con tutti, abbassano la testa, sembrano addirittura diminuire la loro statura per apparire come persone delle quali ci si può fidare. Questi tali, però, quando poi riescono a raggiungere il posto ambito, diventano degli autentici prepotenti. Sono arrivati e allora, altro che umiltà! Altro che tranquillità! C’è da temerli, prima di tutto perché sono dei prepotenti, ma poi perché sono falsi. Hanno voluto raggiungere quel posto e, una volta ottenutolo, fanno quello che vogliono: gli altri non contano niente.
Va poi avanti e dice: ma tu, non sei per caso una di queste persone? Ma tu, anche se non lo fai per raggiungere dei grandi posti, non è forse vero che qualche volta, mentre preghi, ti fai piccolo piccolo, per poi farti grande una volta che sei riuscito ad ottenere, o dal Signore o da qualche amico, quello che tu prima chiedevi e che, invece, senza fartene accorgere troppo, pretendevi?
Siate piccoli, siate umili, siate capaci di occupare bene il posto che il Signore vi ha affidato. Se il tuo è un posto importante nel mondo, fa’ attenzione, perché devi essere umile più di quelli che non hanno posti importanti. Se non è un posto importante, sta’ tranquillo e fa’ quello che devi: quando il Signore ti giudicherà, giudicherà come hai occupato il posto che lui ti ha affidato. Quando il Signore sceglie qualcuno perché diventi la prima persona nel mondo cristiano, va a cercare proprio quella ragazzina che forse aveva sedici anni e non si aspettava niente. Le chiede tutto quello che doveva chiedere per poter entrare nel mondo. La conosciamo tutti la storia di Maria: non contava niente, ma il Signore aveva bisogno di lei. E allora ci pensa lui a farla grande, a darle la grande grazia di fare la madre, a farla addirittura guida del Salvatore che doveva crescere per imparare a vivere nel mondo.
Un autore inglese, Clive Staples Lewis, un cristiano anglicano, scrive un libro che sembra da ridere, una favola per bambini e che, invece, è un libro per tutti, per gli adulti. Si intitola Le lettere di Berlicche. Berlicche è un demonietto un po’ inesperto al quale è stato affidato un personaggio. Ogni tanto, deve riferire quello che è riuscito a fare con il personaggio che deve tentare, scrivendo una lettera ad un grande demonio nell’Inferno. Sono, ovviamente, lettere inventate, ma tanto attraenti.
Una persona riesce ad essere umile e il povero Berlicche non sa come fare a tentarla, è una persona che veramente si è fatta piccola. « Tu non ti spaventare: dalle ragione, dille che ha fatto bene a diventare umile, dille che ha fatto bene a sembrare piccola, a non contare niente. Mostrale quello che ha fatto come in uno specchio, in modo che si possa rallegrare di essere umile, che se ne possa vantare. Quando dirà: «Io sono veramente umile, oh come sono brava, oh come sono riuscita, oh come ho fatto veramente la volontà di Dio!», allora avrai vinto! Allora sarai un autentico tentatore ».
Il vantarsi, il sentirsi soddisfatto, il credere di aver raggiunto con i propri meriti un bel posto di virtù e di santità, vuol proprio dire non essere umili, dare importanza a sé e non a quello che si deve fare.
Vedete, l’umiltà è una virtù che ha questa caratteristica: se riusciamo a possederla, siamo sempre gioiosi. Perché diremo sempre: io sono al mio posto, riesco a fare quello che il Signore vuole, che io non conti niente. Allora saremo sempre degli ottimisti. Guai a noi se cominciamo a vedere che sbagliamo sempre tutto, guai a noi se cominciamo a dire che non contiamo niente, guai a noi se diciamo che non abbiamo trovato il nostro posto… Perché allora non facciamo più la volontà del Signore, ma pensiamo a noi stessi. Dovremmo imparare a chiedere al Signore: « Cosa devo fare? Qual è il mio posto? Quello che ho fatto l’ho fatto male? Signore, perdonami, ma aiutami a guardare avanti, aiutami a raggiungere veramente quello che tu vuoi! ». Virtù di umiltà vuol dire allegria.
Torniamo alla pagina del Vangelo: Gesù è invitato a pranzo. La gente lo guarda e Lui guarda intorno, alla gente. Gesù, in questo momento, sta facendo un discorso importante, in parte con le parole, ma in parte con i fatti.
Prima di tutto mi pare che ci sia uno sguardo di fede. Gesù guarda la gente che è lì seduta e dice: qualcuno crede nella mia presenza, qualcuno crede nella presenza del Padre, nel suo valore. Vede che c’è anche gente che cerca soprattutto di guadagnarsi i primi posti. Saranno stati i posto vicini agli sposi, i posti più in evidenza, i posti vicino alle persone importanti per avvicinarle. Allora c’è un bel discorso: quando sei invitato a nozze, non cercare i primi posti…
Poi c’è un altro sguardo che mi pare importante: lo sguardo della carità. Fa’ in modo di decidere tu di dare dei pranzi, di fare dei bei gruppi di persone e pensa – dice Gesù – ad invitare o ad avvicinare i più poveri, non i ricchi perché poi ti invitino loro. Quando dai un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi…
Ieri sera, con un gruppetto di persone che frequentano non soltanto la chiesa ma anche la sacrestia, siamo andati in un posto non lontano da qui dove ci sono poveri che chiedono l’elemosina, dove ci sono delle persone che hanno un mestiere, ma poi hanno perduto il lavoro e non sanno che cosa fare, dove ci sono persone che non sanno dove andare a dormire, che non sanno dove andare a mangiare. (Anche noi li aiutiamo con qualche forte sussidio, prendendo i soldi da quelli che offrite voi, ma adesso non vi sto dicendo queste cose per chiedervi soldi). Siamo andati là perché, andando là, si conoscono queste persone. Sapeste come erano bravi! C’era qualcuno che diceva « Io so fare delle pizze … »; un altro diceva: « Io ho imparato a fare il cameriere e adesso lo faccio bene! ». Gente che si metteva a servire, che ci salutava, che si sentiva che voleva bene a noi che andavamo lì per fare un po’ di festa tra noi, ma anche per essere un pochino in loro compagnia. Mi pareva che fosse, anche se non proprio alla lettera, quello che dice il Signore. Lui dice: « Invitali », noi invece ci siamo fatti invitare, siamo andati là e abbiamo pagato la nostra quota. Qualcuno forse direbbe: ma vai a far festa in un ristorante, vai nella casa di qualcuno …! Noi, invece, siamo andati a far festa là. Mi pareva che fosse veramente un modo di vivere, di realizzare, di crescere così come ci dice il Signore.
Dopo lo sguardo di fede, dopo l’esercizio della carità, c’è anche qualche cosa che riguarda l’avvenire: la speranza. Così riceverai la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti. Che bello! Il Signore non guarderà se sappiamo bene tutto, non ci premierà se abbiamo dei bei vestiti, se abbiamo fatto grandi riverenze a delle persone importanti. Ci premierà se avremo saputo incontrare quelli che lui ha considerato i primi beati del suo Regno. Beati i poveri… Loro avranno il regno. Facciamoci poveri anche noi e farci poveri vuol dire anche farci umili, saper occupare bene il nostro posto.
Il Vangelo è un libro profetico, non è un libro di raccontini. Ci sono le parabole, ce n’è una per pagina, però non sono raccontate perché sappiamo a nostra volta raccontarle, ma perché riusciamo a viverle. Entriamoci dentro alle pagine del Vangelo! Il Signore parlava a gente che viveva duemila anni fa, gente che faceva parte di un altro popolo e che aveva un altro tipo di cultura: gli Ebrei di quel tempo, pescatori, pastori, agricoltori. Ma parla a me, con altre parole che io devo capire e sentire perché il Signore, un giorno, possa dare anche a me uno sguardo che mi invita a vivere di fede; perché possa dire anche a me: bene, hai avuto una buona attività di carità nella tua vita; perché anche a me dica: un giorno avrai una ricompensa.
Che il Signore ci aiuti a sentirlo, non soltanto con l’udito ma con il cuore e, sentendolo, possiamo poi vivere ciò che ci suggerisce.

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