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Ildefonso Schuster, Arcivescovo di Milano

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OTTANT’ANNI FA (1929, l’articolo è del 2009) L’ABATE DI SAN PAOLO FUORI LE MURA ILDEFONSO SCHUSTER DIVENTAVA ARCIVESCOVO DI MILANO

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OTTANT’ANNI FA L’ABATE DI SAN PAOLO FUORI LE MURA ILDEFONSO SCHUSTER DIVENTAVA ARCIVESCOVO DI MILANO

LASCIÒ UN GIARDINO FIORITO PER ANDARE A FARE UN «MESTIERACCIO»

DI INOS BIFFI

L’8 settembre 1929 – esattamente ottant’anni fa – nella festa della Natività di Maria, patrona del Duomo, faceva il suo ingresso a Milano come arcivescovo, l’abate di San Paolo fuori le Mura, Ildefonso Schuster.
La sua figura non era sconosciuta alla Chiesa ambrosiana che, dal 1926 al 1928, lo aveva visto operare, in una missione non facile, come visitatore apostolico dei seminari, quando anche si trattò di progettare e di iniziare la costruzione del nuovo seminario, fuori dalla città, sulla collina boscosa di Venegono Inferiore. Fu una scelta sapiente, per la preparazione nel silenzio e nello studio di quei preti ambrosiani che, una volta scesi nelle popolose parrocchie e nei polverosi oratori, sarebbero stati educatori illuminati e zelanti pastori d’anime. Ecco perché una sua alienazione aprirebbe una ferita profonda nella memoria e nell’identità della Chiesa ambrosiana.
Specialmente il clero era stato impressionato da quel monaco raccolto, rapido, dal profilo gentile. Ne aveva, in particolare, apprezzato la cultura liturgica – egli era il celebre autore dei diversi volumi del Liber Sacramentorum:  un commento al messale romano che ancora oggi si può rimeditare e gustare – tanto il monaco di San Paolo aveva saputo cogliere e illustrare l’anima della preghiera cristiana e lo spirito delle sue vetuste formule, che egli conosceva e spiegava ai seminaristi in modo eccellente. Certo, lo stile, distinto e rispettoso, era accompagnato da una lucida e ferma determinazione, che, d’altronde, rifletteva la risolutezza perentoria di Chi lo aveva mandato e del quale, non senza una prudente mediazione, traduceva le decisioni, ossia di Pio XI, che, dopo essere stato per qualche mese sulla cattedra di sant’Ambrogio, continuava tranquillamente ancora a governarla.
L’invio di Schuster alla sede di Milano era ovviamente dovuto a lui, che lo aveva nominato a quella Chiesa il 26 giugno del 1929, gli aveva imposto il cappello cardinalizio il 18 luglio e lo aveva ordinato vescovo il 21 luglio.
È difficile conoscere per quali ragioni Pio XI, che non si incantava facilmente ed era un lucido conoscitore di uomini, abbia inviato come arcivescovo sulla cattedra di sant’Ambrogio l’abate di San Paolo, che non appariva e, di fatto, non era un uomo di governo. A Roma presiedeva un gruppo di monaci, a Milano avrebbe trovato molte centinaia di presbiteri; la sua diocesi nel Lazio si riduceva a qualche piccola parrocchia, quella ambrosiana era sconfinata. Alla sua nomina, mordacemente, il cardinale vicario Pompili aveva osservato:  « Ma come potrà reggere l’arcidiocesi lombarda, quando non riesce a governare il pollaio di San Paolo? ». Di fatto non pochi anche a Milano rimasero perplessi.
Sarebbe interessante – e ora è possibile con l’accesso agli archivi vaticani del tempo – conoscere le valutazioni di Pio XI sulle varie iniziative pubbliche o « politiche » di Schuster. Forse non tutte le scelte dell’arcivescovo di Milano, che mostrava autonomia di giudizio e tempestività di decisioni, facilitate dal suo temperamento impulsivo e ostinato, erano condivise dal Papa, col quale era in frequente contatto. D’altronde, non mancavano vescovi intelligenti, suoi suffraganei, come quello di Bergamo, Adriano Bernareggi, o di Cremona, Giovanni Cazzani, o autorevoli sacerdoti milanesi e laici riflessivi, che, di là dalla buona fede del cardinale, giudicavano non totalmente prudenti certi suoi gesti. Ma qui viene in mente quanto affermava Newman di Cirillo d’Alessandria:  « Cirillo, lo so, è un santo »; questo però non vuol dire, aggiungeva, che lo sia stato in ogni momento della sua vita o che ogni suo gesto sia stato obiettivamente impeccabile.
Questo non va dimenticato, se non si vuol ridurre a puro e sterile panegirico la biografia di Schuster, com’è stato fatto e, si fa, abitualmente. Nell’ampio e fluido elogio funebre, tenuto il 2 settembre 1954 nel Duomo di Milano, il « Porporato Pontefice dei Veneti » – così Schuster aveva definito il patriarca Roncalli – delineava con ammirevole finezza il profilo spirituale e pastorale del cardinale, monaco e pastore, appartenente alla « fortissima razza dei cenobiti » e al novero dei « grandi Vescovi della Chiesa »:  « Un prodigio coram angelis et hominibus ». E affermava:  « Egli con intenzione retta, con cuore generoso, in vista del pubblico bene, pose talvolta la sua fiducia in chi cessò poi di meritarla:  ma non cessò per questo di essere oggetto della sua carità. Attentare su questo punto alla perfetta buona fede del cardinale Schuster, alla sua lealtà nobile e grande, alla purezza della sua pietà misericordiosa, è azione inqualificabile che la voce della coscienza riprova, e che la storia a sua volta saprà smentire ».
Mentre trascorreva gli ultimi suoi giorni a Venegono, il pensiero di Schuster riandava agli anni passati a Milano, e – come aveva scritto nell’epigrafe per il suo venticinquesimo di episcopato – ringraziava Dio di averlo tradotto « incolume attraverso le dittature, i bombardamenti e gli incendi di Milano »; di averlo fatto passare per « il fuoco e la tempesta »; e di averlo condotto, sostenuto dalla « devota fedeltà del gregge al tribolato pastore », sulla via della salvezza.
Un giorno – ricorda Giovanni Colombo nei Novissima verba, che sono le sue pagine più belle – « nel vano della finestra [il cardinale] guardava in faccia al tramonto. Un tramonto di fine agosto così malinconico che pareva d’autunno inoltrato. Il cielo era tutto di un monotono grigiore cinereo:  poco più su della collina morenica che costeggia a destra l’Olona, il sole morente traspariva con una chiazza sanguigna, come fa una ferita a fior di benda ». Era di recente avvenuta la canonizzazione di Pio X, che Schuster personalmente non si attendeva. A commento l’arcivescovo dichiarava:  « Non tutti gli atti del suo governo si dimostrarono in seguito pienamente opportuni e fecondi »; ma, « altra cosa è l’incidenza più o meno felice sul piano storico di un governo ecclesiastico, altra cosa è la santità che lo anima ». « Certo pensava anche a sé – osserva Colombo – e rispondeva a interrogativi intimi. Ma su un punto la testimonianza della sua coscienza non aveva perplessità:  d’aver cercato solo e sempre in ogni pensiero e in ogni atto il Signore ». Ed è esattamente questa insonne ricerca di Dio, in un totale distacco da ogni bene terreno, che ha unificato e resa splendida ed esemplare la vita di Schuster.
Egli era uscito dal suo monastero – monasterium meum!, come amava dire evocando san Gregorio Magno – per pura obbedienza all’imperiosa volontà di Pio XI. « Quando l’onore di Dio, il servizio della Chiesa ed il bene delle anime lo esigono o lo consigliano – avrebbe scritto in Un pensiero quotidiano al giorno sulla Regola di S. Benedetto – non ci deve trattenere l’amore del « loco natio » né alcuna altra nostalgia ».
La partenza dal cenobio aveva però causato in lui una profonda sofferenza. Chiudendo la sua prima lettera pastorale, confessava di lasciare « con cuore trafitto la mia vetusta abbazia di san Paolo e il giardino fiorito della sua piccola diocesi »; mentre chi lo accompagnava nella sua discesa da Montecassino per avviarsi a Milano ricorda che, dopo aver abbracciato e benedetto i suoi confratelli, « salito in auto, scoppiò in un pianto dirotto che non poté trattenere per qualche momento ». Anche a Milano, sino alla fine dei suoi giorni, il monastero continuò ad affascinarlo con struggente nostalgia.
Ma, se « il respiro della sua vita – come ancora diceva Roncalli nell’orazione funebre – fu la preghiera in esercizio quotidiano di pietà religiosa », questo non solo non lo distraeva dalla dedizione insonne e laboriosissima alla vita attiva qual è richiesta a un pastore d’anime di milioni di fedeli, ma ne costituiva lo stimolo e la risorsa. Amava dire:  « Fare l’arcivescovo di Milano è un mestieraccio ».
D’altra parte, sempre nella sua prima lettera pastorale aveva scritto di sentirsi inviato « per dirla con una frase dell’Apostolo:  « per immolarmi sul sacrificio vostro e sulla liturgia (divino servizio) della vostra Fede »":  vi rimase fedele dal primo momento fino all’ultimo dei suoi anni trascorsi come pastore della Chiesa ambrosiana. I decenni di vita contemplativa, la sua passione per il raccoglimento della cella e soprattutto per l’azione liturgica e per l’opus Dei col suo primato, non lo ritrassero mai da questa « immolazione », anche se imprimevano qualche linea di frettolosità e di impazienza non sempre gradita.
Avvertirono il suo « sacrificio » anzitutto i sacerdoti che, pure, non mancarono di sperimentare, all’inizio del suo episcopato, una severità eccessiva, che poteva in qualche caso diventare sommaria e sbrigativa:  una severità che, dopo la tragedia della guerra e la costatazione dello zelo del presbiterio ambrosiano, finì con lo sciogliersi in una paternità sempre più indulgente e dolce.
Quanto ai fedeli ambrosiani non ebbero, fin da subito, al solo vederlo, il minimo dubbio, né la più piccola esitazione:  per essi quella delicata figura, sempre rapida e raccolta, dagli occhi vivi e dal sorriso lieve, era la figura di un santo.
In particolare, questa santità traspariva nella « devozione » con cui celebrava. Il cardinale Giacomo Biffi ha colto perspicacemente questo aspetto:  « Non era un colosso, eppure la sua presidenza veniva percepita come qualcosa di determinante e di intenso. La gente semplice correva a contemplare quest’uomo esiguo e fragile che, nelle vesti del « liturgo », diventava un gigante. « Liturgo »:  ecco la parola giusta, anche se ovviamente nessuno dei semplici la conosceva. Dunque, un liturgista insigne, ma più che altro un « liturgo » imparagonabile.
« I suoi gesti erano sempre sciolti e misurati:  non c’era niente di teatrale nella sua attitudine. Eppure il suo era davvero uno spettacolo, al tempo stesso spontaneo e affascinante. Intento insieme e assorto, era agli occhi di tutti un testimone eloquente dell’invisibile. Nessuno era più sollecito di lui, che si muoveva entro i sacri misteri con la disinvoltura di chi si sente a casa. Non ci meraviglia allora che i milanesi accorressero in Duomo all’immancabile appuntamento domenicale ».
Del resto, egli, decenni prima del Vaticano ii, ebbe lucida e acuta la percezione della teologia della liturgia. Scriveva:  la Sacra Liturgia è « la preghiera speciale che è per eccellenza la preghiera della Chiesa »; essa è la preghiera « che direttamente sgorga dal cuore della Chiesa orante ».
Schuster si spense quasi improvvisamente il 30 agosto 1954 proprio nel suo seminario. Vi era arrivato, « stremato, smagrito, sofferente », cogliendo tutti di sorpresa:  non aveva fatto mai una vacanza, e i cinque lustri di episcopato lo avevano ormai tutto consumato. L’indomita fortezza del suo animo era sempre stata racchiusa in quel corpo esile, che più volte era comparso nei luoghi più remoti e impervi della diocesi – « come un lumicino preoccupato quasi più di nascondersi che di apparire », avrebbe detto il Patriarca Roncalli nell’epicedio; ma in quei giorni la sua figura ci appariva spossata oltre misura.
Sempre nei Novissima verba Giovanni Colombo, allora rettore maggiore dei seminari milanesi, ricorda:  « L’automobile dell’Arcivescovo si fermò davanti all’atrio del Seminario verso le 18 del 14 agosto. Non pioveva più, ma una bassa nuvolaglia copriva tutto il cielo e la campagna era macera di pioggia recente ».
Non era stato facile convincerlo a lasciare il torrido episcopio di Milano per salire a quel colle, dove il riposo e l’aria salubre si sperava avrebbero rinnovato le sue energie esauste. Ma non ebbe alcun giovamento.
Si spense dopo un’agonia – che ai presenti era parsa una liturgia – e dopo aver benedetto la sua Chiesa e aver chiesto perdono di quello che aveva fatto e non fatto.
Faceva « ancora buio », come quando Maria di Magdala andò al sepolcro:  era l’ora del canto del gallo, « l’araldo del giorno », come lo chiama sant’Ambrogio, quando « la stella lucifera dalla tenebra libera il cielo ». A quell’ora nel monastero di San Paolo, dove l’abate Schuster era sempre il primo ad apparire, si scioglieva « il labbro devoto » e si elevava « la santa primizia dei canti ». A quell’ora abitualmente l’arcivescovo incominciava, pregando, la sua giornata intensa. In quell’alba la sua giornata terrena era finita:  sorgeva « il Giorno che illumina giorni » per una lode ormai perenne.
Quasi subito, dopo quell’annunzio, si avviò un pellegrinaggio orante e ininterrotto al colle del seminario:  una fiumana di gente, come fosse avvenuto tacitamente un accordo in tutta la diocesi, saliva a venerare l’arcivescovo santo e, più che a pregare per lui, ad affidarsi alla sua intercessione.
La mattina nel trasporto a Milano avrebbe percorso, tra folle innumerevoli, la sua « via trionfale » – come l’ha denominata il cardinale Colombo, che nel secolo scorso fu a sua volta un grande arcivescovo di Milano insieme a Ferrari, a Schuster e a Montini – « addobbata di arazzi, illuminata dallo sfolgorio solare ».
È importante per una Chiesa che non si spenga e non si annebbi la memoria della sua storia, e soprattutto dei suoi pastori, specialmente quando questi si presentino con il pregio raro e splendido della santità. Ecco perché sarebbe segno di avvedutezza pastorale e di sensibilità spirituale riaccenderne le figure con impegnative e studiose memorie.

(L’Osservatore Romano 7-8 settembre 2009)

IL SANTUARIO DI ROMA: IL DIVINO AMORE

http://www.santuariodivinoamore.it/madonnadeldivinoamore.html

IL SANTUARIO DI ROMA: IL DIVINO AMORE dans Maria Vergine 06-Madonna-Divino-Amore

(nel testo c’è una clip, metto una immagine)

IL SANTUARIO DI ROMA: IL DIVINO AMORE

Descrizione dell’immagine della Madonna del Divino Amore
secondo la critica fatta nel 1940 quando l’affresco fu strappato dal vecchio muro

del Prof. CARLO DEL VECCHIO

Non sappiamo con certezza quando l’affresco sia stato eseguito, mancandoci a tutt’oggi uno studio ordinato e completo dì esso; comunque, ci sembra chiaro che le sue caratteristiche diano una indicazione abbastanza approssimativa, del periodo di tempo in cui questo dipinto può essere collocato, e cioè verso la fine del 1300 ed i primi anni del secolo seguente. Queste caratteristiche possiamo identificarle sia nella tecnica, sia nel tipo iconografico del soggetto, specie nelle linee che formano la somatica del viso della Madonna.
Si noti a questo proposito, la nobiltà dei lineamenti, i suoi grandi occhi tagliati a mandorla, il naso dritto, la bocca non troppo grande, il segno di graffito che circonda le parti principali delle figure e dei panneggi (graffito che gli antichi facevano con un grosso chiodo acuminato per delimitare, sull’intonaco fresco, i campi principali del disegno), le aureole bacellate che sicuramente erano dorate.
Se l’artista è ignoto, esso però apparteneva con ogni probabilità a quella scuola romana che seguiva fin dai secoli IX e X le linee maestre di una eccellenza della tradizione pittorica che affonda le sue radici nel passato. Questa romanità di origini si faceva notare anche nei mosaici, che pur conservando alcuni residuati di schermi bizantini, in Iacopo Torriti non disdegnò rinunciarsi nei modi stilistici usuali. L’artista a cui vogliamo alludere è Pietro Cavallini, che in quel secolo dominò incontrastato questa scuola. Egli fece più fresca rifluire la nota veristica ed umanitaria, affermandosi nei mosaici e negli affreschi, come il precursore della grande pittura che stava per fiorire in Toscana. L’arte del Cavallini è una ricerca di espressione umana e ideale ad un tempo, che ha già l’individualità del gusto occidentale mediterraneo, preludio della forma plastica di Giotto, del quale la critica moderna lo ritiene oggi suo maestro spirituale. Sebbene i più importanti cicli delle sue pitture murali siano andati perduti, come quello di S. Paolo e di S. Pietro, ci restano ancora oggi i lavori musivi di S. Maria in Trastevere, la Madonna di S. Crisogono ed altri, oltre un grande esempio di pittura in affresco, cioè la parte superiore del Giudizio Universale, che un fortuito caso riportò alla luce ed alla visione ammirata degli scopritori del nostro secolo (meno di 60 anni or sono) nel Coro delle Benedettine Olivetane, posto a ridosso della parete di fondo della Basilica di S. Cecilia.
Nel nostro dipinto della Madonna, sebbene rovinato dal tempo, vi si riscontrano parecchi elementi, come già si è detto, che lo pongono proprio nel ciclo di detta scuola romana. Non sarà stato certo il Cavallini ad eseguirlo, ma certamente uno di quei pittori, se pur più modesto, della sua sequela; anzi possiamo supporre che la figura centrale, la Madonna con il Bambino, sia stata opera di un artista, che fece poi terminare le figure dei due angeli, meno belli del gruppo centrale, da altri più di lui modesti, ma sempre operanti nella scia tracciata dal Cavallini.
L’affresco è molto deteriorato dal tempo perchè, essendo dipinto, come si è detto, sull’ esterno della torre principale del Castello, attraverso i secoli aveva subito tutte le intemperie del tempo ed i raggi distruttori del sole.
Dopo il primo miracolo (1740) fu rimosso dalla torre; come si usava allora fu tagliato o segato direttamente il rettangolo del muro medioevale a tufi, sul quale era l’intonaco affrescato, sorreggendo e legando il tutto con travetti di legno che tutt’ ora sono in loco.
Questa constatazione fu fatta nel 1940, quando il Rettore del Santuario D. Umberto Terenzi, preoccupato dello stato dell’intonaco che in molte parti presentava rigonfianti e sicuri accenni di distacco, minacciandone l’irreparabile caduta con relativa perdita del dipinto, decise provvidenzialmente di farlo completamente staccare, incaricando il prof. Buttinelli del Gabinetto del Restauro del Vaticano, di procedere al detto lavoro.
L’affresco, unitamente al suo intonaco, fu accuratamente strappato; vennero allora alla luce, nel retro di esso, i tufelli medioevali simili a quelli della Torre ed i travetti in legno che legano questo prezioso e storico rettangolo di muro.
Con molta attenzione tolti dal dipinto i vari restauri che per lungo tempo lo avevano deturpato, ultimo, quello eseguito nel 1914, ricomparve l’antica immagine, rovinatasi, ma molto più bella e nobile di quella che eravamo soliti vedere, ed il volto della Madonna si rivelò celestiale con la espressione luminosa dei grandi dolcissimi occhi. Non più il voluminoso cuscino sul quale poggiavano i piedi del Bambino, erroneamente dipinto dai malaccorti restauratori della fine del settecento e seguenti.
Questi lo fecero, quasi sicuramente, per camuffare il tratto d’intonaco che non risulta della medesima qualità dello antico, poi reintegrato perchè caduto. Non più sul braccio destro della Madonna, sul quale è seduto il Bambino Gesù, il panno di stoffa bianca che risulta essere invece parte del manto rosso di questi. La Madonna è in trono – giusta l’iconografia del tempo – ai due lati s’intravedono gli angoli di un cuscino rosso sul quale Essa è seduta; ha la tunica, come il manto del Bambino, di un rosso pompeiano; il manto di Lei è azzurro verdastro con sotto qualche riflesso rosso. La tunichetta che si vede alla spalla e nel braccio destro del Bambino, la cui mano alzata indica con il dito la Sua Mamma Celeste, è di tono scuro grigio verdastro.
Attenendoci agli schemi dell’iconografia antica, al disotto della mano destra della Madonna che sorregge il Bimbo, al posto del pesante cuscino dipinto sul vecchio restauro, dovevano esservi le ginocchia della Vergine, sulle quali poggiavano direttamente i piedini di Gesù. Il tutto risulta ben delineato in una ricostruzione curata dal sottoscritto che aveva seguito nel 1940 le fasi del distacco e dell’ultimo restauro, ricostruzione studiata in tutte le sue parti, compreso lo Spirito Santo, con riferimenti tratti da mosaici e pitture murali del Cavallini, ricostruzione che servì per la stampa delle nuove immagini.
Nel centro del fondo del dipinto vi è una cortina di tono giallo dorè invecchiato, fissata in alto con dei fermagli ad un arco ribassato. Ai lati della Vergine SS.ma due Angeli, con grandi ali in atto di venerazione: uno a sinistra di chi guarda, regge un aspersorio, l’altro a destra, un turibulo; vogliono indicare il primo le benedizioni di Dio sulla Madonna, e, per la Sua intercessione, sugli uomini; il secondo, la preghiera che nella S. Scrittura e nella Liturgia è simboleggiata appunto dall’incenso che sale al trono dell’ Altissimo:« in odore di soavità ». In quanto al colore delle tuniche degli angeli, possiamo osservare, che in quello che ha il turibolo si presenta di tonalità biancastre e fredde e sulla manica a metà del braccio sinistro una fascia azzurra, il manto un giallastro ocra, alquanto chiaro. La tunica dell’altro è meno fredda, con toni bianco giallastri, il manto in giallo ocra scura con qualche ombra brunastra. Le ali, pur indicandoci varietà di toni e di colori sono molto abrasate.
Il fondo generale sul quale si stagliano le figure è di un tono scuro verdastro, qua e là molto incerto e non uniforme, spesso abrasato; in basso all’altezza della mano destra della Madonna, s’intravedono due righe come l’inizio di una zoccolatura più oscura. Le aureole delle figure, come già si è detto, sono bacellate, quella del Bambino oltre alla baccellatura ha la croce greca; esse presentano nel loro fondo un rossastro, quasi fossero passate con bolo armeno per ricevere sopra la doratura che sicuramente in origine avevano; sul petto della Madonna, verso la spalla sinistra fanno capolino i resti di una stella. Per completare la descrizione, diremo ancora che la composizione in alto è chiusa da un arco ribassato che si prolunga ai lati con due spallette; l’ estradosso dell’arco ha tonalità di terra rossa qua e là abrasato facendo trasparire altri toni di fondo scuro.
Con il distacco dell’affresco fu eliminato il periodo di una completa distruzione del simulacro, fu rinforzato con malta su una grossa rete metallica sorretta da un robusto telaio, cosa che permise nei tragici momenti dell’ultima guerra e dei bombardamenti, il trasporto precauzionale della preziosa devota immagine a Roma, nella Chiesa di S. Ignazio, perchè fosse più vicina ai suoi diletti figli.
A questo punto, per dovere di verità storica, dobbiamo dichiarare che l’antico affresco vero e proprio è tutto compreso in quello che abbiamo fin qui descritto. Purtroppo, la parte sovrastante, che riguarda lo Spirito Santo, non è autentica. Infatti essa dopo attente osservazioni risulta opera grossolana, eseguita solo dopo che l’affresco col sottostante muro medioevale fu collocato nella Chiesa eretta nel 1744 nel centro del Castel di Leva: da tutto ciò, se ne può quasi certamente dedurre che l’autentico fosse andato perduto quando il muro fu tagliato dalla torre, e, di conseguenza poi, per non lasciare la figurazione della Madonna senza il suo principale attributo, fu ridipinto molto alla buona, inquadrando la colomba fra quei due drappi verdi che indicano chiaramente il cattivo gusto dell’antico, e forse, improvvisato restauratore. Comunque sia esso è oggi un elemento acquisito dalla iconografia di questo nostro Simulacro e, senza del quale non potremmo immaginarlo, poichè lo Spirito Santo rappresentato dalla colomba simbolica è proprio il Divino Amore che ha dato la sua mirabile qualifica a questa Madonna.
Per completare queste note generali sul dipinto e per essere fedeli alla cronaca, dobbiamo riferire che dopo il distacco del 1940 il Rettore del Santuario invitò ad esaminarlo il prof. Prandi Direttore del Gabinetto dei Restauri e Mons. Giovanni Fallani oggi Presidente della Commissione Pontificia di Arte Sacra, affiancati poi dal pubblicista Guido Guida; tutti furono d’accordo nell’intravvedere, sebbene in un maestro più modesto, l’impronta non spregevole della scuola romana del Cavallini. Essi osservando attentamente il dipinto, dopo aver rilevato le molte osservazioni ed apprezzamenti già sopra descritti, fecero anche attenzione ad una abrasatura che intaccava, sia pur leggermente, oltre il dipinto anche lo stesso intonaco, di andamento ricurvo verso il basso, sotto il ginocchio del Bambino. Tale abrasatura fece supporre provocata da un oggetto appeso dinanzi al dipinto e scendente dall’alto, che, con il vento, poteva facilmente dondolarsi, strusciando sull’affresco, ossia quel lume alimentato dalla pietà dei pastori e dei contadini, lampada di cui si parla in un documento epigrafico del 1741 e che fu certo richiamo al pellegrino, inducendolo a raccomandarsi alla Vergine SS.ma raffigurata in quella effige, per essere liberato dall’ira di un branco di cani pastori che lo circondavano e stavano per assalirlo.

Publié dans:Maria Vergine, ROMA - varie, SANTUARI |on 29 août, 2013 |Pas de commentaires »

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