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Veneziano Lorenzo (active 1356-1372), San Bartolomeo

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24 AGOSTO: SAN BARTOLOMEO APOSTOLO

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SAN BARTOLOMEO APOSTOLO

24 AGOSTO

PRIMO SECOLO DELL’ÈRA CRISTIANA

Apostolo martire nato nel I secolo a Cana, Galilea; morì verso la metà del I secolo probabilmente in Siria. La passione dell’apostolo Bartolomeo contiene molte incertezze: la storia della vita, delle opere e del martirio del santo è inframmezzata da numerosi eventi leggendari.Il vero nome dell’apostolo è Natanaele. Il nome Bartolomeo deriva probabilmente dall’aramaico «bar», figlio e «talmai», agricoltore. Bartolomeo giunse a Cristo tramite l’apostolo Filippo. Dopo la resurrezione di Cristo, Bartolomeo fu predicatore itinerante (in Armenia, India e Mesopotamia). Divenne famoso per la sua facoltà di guarire i malati e gli ossessi. Bartolomeo fu condannato alla morte Persiana: fu scorticato vivo e poi crocefisso dai pagani. La calotta cranica del martire Bartolomeo si trova dal 1238 nel duomo di San Bartolomeo, a Francoforte. Una delle usanze più note legate alla festa di San Bartolomeo é il pellegrinaggio di Alm: la domenica prima o dopo San Bartolomeo, gli abitanti della località austriaca di Alm si recano in pellegrinaggio a St. Bartholoma, sul Konigssee, nel Berchtesgaden. I primi pellegrinaggi risalgono al XV secolo e sono legati allo scioglimento di un voto perché cessasse un’epidemia di peste. (Avvenire)

Patronato: Diocesi Campobasso-Boiano
Etimologia: Bartolomeo = figlio del valoroso, dall’aramaico
Emblema: Coltello

Martirologio Romano: Festa di san Bartolomeo Apostolo, comunemente identificato con Natanaele. Nato a Cana di Galilea, fu condotto da Filippo a Cristo Gesù presso il Giordano e il Signore lo chiamò poi a seguirlo, aggregandolo ai Dodici. Dopo l’Ascensione del Signore si tramanda che abbia predicato il Vangelo del Signore in India, dove sarebbe stato coronato dal martirio.

S. Bartolomeo è uno dei dodici apostoli, cioè uno di quegli uomini che furono compagni di Simon Pietro per tutto il tempo che il Signore Gesù visse sulla terra, a partire dal battesimo di Giovanni Battista fino al giorno in cui fu assunto al cielo (Atti, 1, 21s.). Il suo nome compare in questa forma, subito dopo quello del suo amico Filippo, nelle tre liste che degli Apostoli riportarono i Sinottici (Mt. 10, 3; Mc. 3, 18; Lc. 6, 14). S. Giovanni l’evangelista ricorda invece con altri discepoli del Signore Natanaele di Cana di Galilea (Giov. 21,2). Gli studiosi attribuiscono oggi comunemente i due nomi ad una stessa persona. Il primo sarebbe patronimico e significa figlio di Tolmai; il secondo sarebbe nome proprio e significa dono di Dio.
Anche Bartolomeo esercitava il mestiere del pescatore. Difatti, quando S. Pietro, dopo la risurrezione, si accinse ad andare a pescare, Natanaele si associò agli altri cinque apostoli presenti, i quali esclamarono: « Veniamo anche noi con te ». Quella notte non presero niente. Sul far del giorno, Gesù si presentò sulla riva, ma i discepoli non sapevano che era Gesù. Egli disse loro: « Figliuoli, avete un po’ di companatico? ». Gli risposero « No ». E lui ad essi: « Gettate la rete a destra della barca e troverete ». La gettarono e non riuscirono più a tirarla per la gran quantità di pesce (Giov. 21, 2-6).
Probabilmente Bartolomeo faceva parte della cerchia del Battista. Gesù lo chiamò alla sua scuola, tramite Filippo, amico di lui, come aveva chiamato poco prima Simone, tramite Andrea, fratello di lui. Dopo la scelta dei primi discepoli Gesù volle andare in Galilea. Incontrò Filippo di Betsaida e gli disse: « Seguimi ». L’invito fu subito accolto. Filippo a sua volta incontrò Natanaele e gli comunicò la lieta notizia: « Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosé nella legge ed i profeti, Gesù, figlio di Giuseppe, di Nazareth ». Natanaele era forse un assiduo lettore della Bibbia. La doveva meditare sovente sotto il fico che ogni giudaico aveva cura di far sorgere accanto alla propria casa. Sembra però che fosse di temperamento incline al pessimismo. Lo si arguisce dalla sprezzante risposta che diede all’amico: « Da Nazareth può venire qualcosa di buono? ». Cana, la sua terra natia, distava appena otto chilometri dalla borgata che il Figlio di Dio aveva scelto come sua dimora terrena.
Natanaele sapeva che era formata da un’accolta di stamberghe semitrogloditiche e che non era neppure nominata in tutto l’Antico Testamento. Filippo, senza raffreddarsi per la scoraggiante risposta, si limitò a dirgli: « Vieni e vedi ». Appena Gesù scorse il diffidente figlio di Abramo non poté fare a meno di esclamare: « Guarda! Uno davvero Israelita, nel quale non c’è inganno! » (Giov. 1, 40-47).
A nessuno degli apostoli fu resa una testimonianza tanto onorifica e solenne. Natanaele stesso più che lusingato ne rimase stupito, motivo per cui gli chiese: « Donde mi conosci? ». Il Signore approfittò della sua meraviglia per dargli una prova, ancor più evidente della prima, della sua onniscienza. « Prima che Filippo ti chiamasse, gli disse, ti vidi mentre eri sotto il fico ». Non sappiamo che cosa vi stesse facendo. E’ facile che nel suo animo fosse accaduto qualcosa di grave e di determinante per la sua esistenza. Non è improbabile che pensasse al vero Messia, alla redenzione d’Israele, avendo udito strane voci che correvano in paese a proposito di Gesù tornato da Befania con i suoi primi apostoli. Il pio israelita, incapace di finzione, ne rimase sgomento e invaso ad un tratto da fervore esclamò: « Rabbi, tu sei il Figlio di Dio. Tu sei il re d’Israele! ». Aveva avuto dunque ragione l’amico Filippo di riconoscere in Gesù il Messia promesso dai profeti! Il Signore smorzò in parte quel suo eccessivo entusiasmo dicendogli: « Perché ti ho detto che ti ho visto sotto il fico, tu credi? Vedrai cose ben più grandi di queste ». Volgendosi poi a quanti lo seguivano aggiunse: « Vedrete il cielo aperto, e gli angeli di Dio ascendere e discendere sul Figlio dell’Uomo » (Ivi 1,48-51) permettersi al suo servizio, riconoscerlo loro Signore e avere cura della sua santissima umanità.
Tre giorni dopo il colloquio con Natanaele « ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea. La madre di Gesù era là. Alle nozze fu invitato anche Gesù con i suoi discepoli » (Ivi, 2, ls.), forse da Natanaele stesso. Non è improbabile che lo sposo o la sposa fossero suoi parenti o amici. Anche lui assistette così all’inizio delle « cose ben più grandi » predette dal Signore, alla conversione cioè dell’acqua in vino con cui il Messia « manifestò la sua gloria, e i suoi discepoli credettero in lui » (Ivi, 2, 11).
Dopo il ricordo della sua vocazione, questo apostolo si eclissa nel Vangelo per tutta la vita di Gesù. Anche dopo la Pentecoste si hanno vaghe tradizioni riguardo al suo apostolato. Eusebio riferisce che Panteno, il fondatore della scuola catechetica di Alessandria d’Egitto, nel suo viaggio in India (probabilmente era l’Etiopia o l’Arabia meridionale) verso la fine del secolo II, aveva incontrato comunità cristiane costituite dall’apostolo S. Bartolomeo, presso le quali aveva diffuso il Vangelo di S. Matteo in lingua ebraica. In seguito si sarebbe trasferito nell’Armenia maggiore, sostenendo non poche fatiche e superando non lievi difficoltà.
Secondo il Breviario romano in questa regione l’apostolo convertì alla fede cristiana il re Polimio e la sua sposa, nonché dodici città. Queste conversioni eccitarono l’invidia dei sacerdoti delle locali divinità, i quali riuscirono ad aizzare contro di lui in tal modo Astiage, fratello del re Polimio, che costui impartì l’ordine di scorticare vivo Bartolomeo e poi di decapitarlo. Gli artisti lo raffigurano abitualmente con sulle braccia il manto della propria pelle.
Una tradizione armena afferma che il corpo dell’apostolo fu sepolto ad Albanopoli, città in cui subì il martirio. Nel 507 l’imperatore Anastasio I lo fece trasferire a Daras, nella Mesopotamia, dove costruì in suo onore una splendida chiesa. Nel 580 una parte di quei resti mortali fu probabilmente trasferita a Lipari, al nord della Sicilia. Durante l’invasione dei saraceni le reliquie del santo furono trafugate nell’838 a Benevento finché nel 1000, per l’intervento dell’imperatore Ottone III, giunsero a Roma e furono composte nella basilica di S. Bartolomeo, nell’isola Tibertina. Nel 1238 il cranio dell’apostolo fu portato a Francoforte sul Meno dove è ancora venerato nel duomo a lui dedicato. S. Bartolomeo è considerato il protettore dei macellai, dei conciatori e dei rilegatori.

Autore: Guido Pettinati

Non è di quelli che accorrono appena chiamati, anche se poi sarà capace di donarsi totalmente a una causa; ha le sue idee, le sue diffidenze e i suoi pregiudizi. I vangeli sinottici lo chiamano Bartolomeo, e in quello di Giovanni è indicato come Natanaele. Due nomi comunemente intesi il primo come patronimico (BarTalmai, figlio di Talmai, del valoroso) e il secondo come nome personale, col significato di “dono di Dio”.
Da Giovanni conosciamo la storia della sua adesione a Gesù, che non è immediata come altre. Di Gesù gli parla con entusiasmo Filippo, suo compaesano di Betsaida: « Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe di Nazareth ». Basta questo nome – Nazareth – a rovinare tutto. La risposta di Bartolomeo arriva inzuppata in un radicale pessimismo: « Da Nazareth può mai venire qualcosa di buono? ». L’uomo della Betsaida imprenditoriale, col suo “mare di Galilea” e le aziende della pesca, davvero non spera nulla da quel paese di montanari rissosi.
Ma Filippo replica ai suoi pregiudizi col breve invito a conoscere prima di sentenziare: « Vieni e vedi ». Ed ecco che si vedono: Gesù e NatanaeleBartolomeo, che si sente dire: « Ecco davvero un Israelita in cui non c’è falsità ». Spiazzato da questa fiducia, lui sa soltanto chiedere a Gesù come fa a conoscerlo. E la risposta (« Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto il fico ») produce una sua inattesa e debordante manifestazione di fede: « Rabbi, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele! ». Quest’uomo diffidente è in realtà pronto all’adesione più entusiastica, tanto che Gesù comincia un po’ a orientarlo: « Perché ti ho detto che ti ho visto sotto il fico credi? Vedrai cose maggiori di questa ».
Troviamo poi Bartolomeo scelto da Gesù con altri undici discepoli per farne i suoi inviati, gli Apostoli. Poi gli Atti lo elencano a Gerusalemme con gli altri, « assidui e concordi nella preghiera ». E anche per Bartolomeo (come per Andrea, Tommaso, Matteo, Simone lo Zelota, Giuda Taddeo, Filippo e Mattia) dopo questa citazione cala il silenzio dei testi canonici.
Ne parlano le leggende, storicamente inattendibili. Alcune lo dicono missionario in India e in Armenia, dove avrebbe convertito anche il re, subendo però un martirio tremendo: scuoiato vivo e decapitato. Queste leggende erano anche un modo di spiegare l’espandersi del cristianesimo in luoghi remoti, per opera di sconosciuti. A tante Chiese, poi, proclamarsi fondate da apostoli dava un’indubbia autorità. La leggenda di san Bartolomeo è ricordata anche nel Giudizio Universale della Sistina: il santo mostra la pelle di cui lo hanno “svestito” gli aguzzini, e nei lineamenti del viso, deformati dalla sofferenza, Michelangelo ha voluto darci il proprio autoritratto.

Autore: Domenico Agasso

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TESTO E COMMENTO A ISAIA 66,18-21

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=Isaia%2066,18-21

TESTO E COMMENTO A ISAIA 66,18-21

TESTO

Così dice il Signore: 18 « Io verrò a radunare tutti i popoli e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria. 19 Io porrò in essi un segno e manderò i loro superstiti alle genti, ai lidi lontani che non hanno udito parlare di me e non hanno visto la mia gloria; essi annunzieranno la mia gloria alle nazioni.
20 Ricondurranno tutti i vostri fratelli da tutti i popoli come offerta al Signore, su cavalli, su carri, su portantine, su muli, su dromedari al mio santo monte di Gerusalemme, dice il Signore, come i figli di Israele portano l’offerta su vasi puri nel tempio del Signore. 21 Anche tra essi mi prenderò sacerdoti e leviti ».

COMMENTO A ISAIA 66,18-21

Una salvezza per tutti
Il testo liturgico è ricavato dalla terza parte del libro di Isaia, chiamato Terzo Isaia (Is 56-66), che consiste in una raccolta di oracoli composti dopo il ritorno dei giudei dall’esilio babilonese. Esso si trova al termine della quarta e ultima raccolta del libro (Is 63-66). Questa si apre con un brano apocalittico (63,1-6), cui fa seguito una lunga meditazione sulla storia di Israele (63,7 – 64,11); dopo una polemica nei confronti dell’idolatria di Israele (65,1-7) e un testo in cui si contrappone la salvezza dei giusti alla rovina dei malvagi (65,8-16), è affrontato il tema apocalittico della nuova creazione (65,17 – 66,24). Nel contesto di quest’ultima parte del libro, il testo liturgico porta un contributo notevole in quanto annunzia la riunione di tutti i popoli intorno al monte di Sion, divenuto centro universale e segno di salvezza per tutta l’umanità.
Il brano inizia con un oracolo in cui Dio stesso dice che cosa sta per fare: «Io verrò a radunare tutti i popoli e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria. Io porrò in essi un segno e manderò i loro superstiti alle genti di Tarsis, Put, Lud, Mesech e Ros, Tubal e di Grecia, ai lidi lontani che non hanno udito parlare di me e non hanno visto la mia gloria; essi annunzieranno la mia gloria alle nazioni» (vv. 18-19). Richiamandosi all’annunzio della venuta di JHWH per giudicare il mondo (cfr. v. 15), il testo sottolinea che la condanna dei popoli non costituisce l’unico scopo dell’intervento divino. Il Signore viene anzitutto per radunare tutti i popoli e tutte le lingue e promette anche a loro che vedranno la sua gloria, cioè avranno anche loro accesso alla salvezza. Il «segno» posto fra i popoli è probabilmente la presenza in mezzo ad essi dei giudei.
La lista dei popoli, ricavata da Ez 27,10-13; 38,2, contiene nomi che risvegliano l’immaginazione di terre lontane e lingue diverse. Essa serve a situare la promessa in un grandioso scenario geografico che rievoca l’universalità delle genti. Vengono nominate Tarsis, che si trova in Sardegna o nella Spagna meridionale, Put che è situata in Egitto, Lud in Asia Minore, Mesech, Ros e Tubal vicino al mar Nero e infine la Grecia e in particolare le colonie ionie sulla costa occidentale dell’Asia Minore e delle isole. Queste nazioni non hanno sentito parlare di JHWH e non sono ancora venute a contatto con lui. Perciò la presenza fra loro della diaspora giudaica è interpretata come uno strumento per portare nel mondo la conoscenza di JHWH. Questa affermazione è certamente in favore del proselitismo giudaico la cui attività si faceva sentire in tutto il mondo allora conosciuto.
L’autore spiega poi quale sarà la conseguenza dell’intervento divino: «Ricondurranno tutti i vostri fratelli da tutti i popoli come offerta al Signore, su cavalli, su carri, su portantine, su muli, su dromedari al mio santo monte di Gerusalemme, dice il Signore, come i figli di Israele portano l’offerta su vasi puri nel tempio del Signore» (v. 20). In questo versetto si riprende l’immagine del pellegrinaggio escatologico delle nazioni a Gerusalemme e al tempio. È questa una delle idee centrali del Terzo Isaia (cfr. Is 60,1-22; 62,1-9), che preannunzia la venuta a Gerusalemme delle nazioni straniere che portano i loro doni all’unico vero Dio. Qui invece le nazioni non portano doni materiali, ma riconducono alla loro terra tutti i giudei che erano ancora dispersi in tutte le parti del mondo.
Infine Dio indica in prima persona quello che intende fare: «Anche tra essi mi prenderò sacerdoti e leviti, dice il Signore» (v. 21). Questa conclusione è molto rivoluzionaria in quanto indica il superamento di un sacerdozio che appartiene unicamente al popolo di Israele ed è appannaggio della casta sacerdotale. Ormai tutti potranno essere ammessi al servizio del tempio, anche se appartengono a popolazioni straniere che per diritto non potevano entrare neppure nei cortili più interni del tempio.

Linee interpretative
Questo testo del Terzo Isaia, composto con ogni probabilità in un periodo che precede le guerre maccabaiche, dimostra una grande apertura universalistica. JHWH è il Dio di tutte le nazioni e si serve dei giudei sparsi in mezzo alle nazioni per farsi conoscere anche da loro. Di fronte alla rivelazione di JHWH le nazioni si mostrano anche più zelanti dei giudei stessi, in quanto sono proprio loro che prendono l’iniziativa di recarsi a Gerusalemme e portano con se i giudei ancora esitanti a mettersi in cammino.
Il pellegrinaggio delle nazioni al tempio di Gerusalemme resta il simbolo più significativo dell’universalismo giudaico, secondo il quale il popolo eletto è sempre al centro del progetto di Dio. Ma il fatto che anche dalle nazioni straniere vengono presi sacerdoti e leviti significa che la barriera etnica è ormai superata e le nazioni entrano a pieno titolo nel popolo di Dio degli ultimi tempi. Resta pur sempre però una visione in cui la salvezza si realizza mediante la conversione di tutte le nazioni a un’unica forma religiosa, quella di Israele. L’idea di una sinfonia di nazioni, religioni e culture che collaborano alla realizzazione di un mondo migliore senza perdere la propria identità non appare ancora all’orizzonte.

25 AGOSTO 2013 | 21A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C – (OMELIA) LECTIO DIVINA SU: LC 13,22-30

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 25 AGOSTO 2013  | 21A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C  |  PROPOSTA DI LECTIO DIVINA

LECTIO DIVINA SU: LC 13,22-30

Non credo che oggi domanderemmo a Gesù, di confrontarci con lui, sul numero di coloro che si salvano, come fece quello sconosciuto che lo incontrò verso Gerusalemme. Bisogna riconoscere che oggi la salvezza non è un tema che interessa, nemmeno ai cristiani. E non si capiscono bene le cause di questa situazione. Chissà, impegnati come siamo nel liberarci dei piccoli problemi che la vita quotidiana ci propone, probabilmente abbiamo perso di vista che, benché riusciamo a risolverli tutti, ci manca l’affrontare il più decisivo, l’unico che merita tutta la nostra attenzione, perché da esso dipende la nostra felicità per sempre. Potrebbe anche essere che, credendoci già buoni, solo per non essere notoriamente cattivi, che diamo per scontata la ricompensa dovuta ai nostri sforzi. È già una prova sufficiente vivere questa vita senza contare, con l’altra.
Non è raro che alcuni, certamente con la migliore intenzione, pensino di non doversi preoccupare troppo del nostro destino finale, dato che Dio è sufficientemente buono per scusarci quando noi non riusciamo ad esserlo. Non sono pochi quelli che oggi, per motivi diversi, danno per scontata la loro salvezza, perché, semplicemente, se la meritano…; almeno lo credono.

In quel tempo, 22Gesù, in viaggio verso Gerusalemme, passava per città e villaggi, insegnando.
23 Un tale gli chiese « Signore, sono pochi quelli che si salvano »?
Gesù gli disse:
24 « Sforzatevi di entrare per la porta stretta. Io vi dico che molti cercheranno di entrare ma non potranno.
25 Quando il padrone di casa si alza e chiude la porta, rimarrete fuori dalla porta a chiamare, dicendo: « Signore, aprici! » Ma egli vi dirà: « Io non so chi siate ». 26 Allora direte: ‘Abbiamo mangiato e bevuto con te, e tu hai insegnato nelle nostre piazze ». 27 Ma egli risponderà: « Io non so chi voi siate lontano da me, maledetti ». 28 E sarà pianto e stridore di denti quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, e voi vi vedrete, scacciati. 29E Verranno da oriente e da occidente, da nord e sud, e siederanno a mensa nel regno di Dio.
30 Badate: gli ultimi saranno primi, e i primi saranno ultimi ».
 1. LEGGERE: capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice

In cammino verso Gerusalemme, insegnando in ogni luogo in cui passa, Gesù è interpellato da un uditore anonimo: su quanti siano, se non sono molti, quelli che si salvano, (Lc 13,23). Luca approfitta di questo scenario, un Gesù di passaggio, un Gesù che insegna sempre, una domanda profondamente ‘religiosa’ per unire tre sentenze di Gesù sull’entrata nel regno (Lc 13,24.25-29.30). Bisogna notare che alla questione più teorica della salvezza risponde con un’immagine più accessibile della « porta stretta » e del « sedersi a tavola. »
A chi s’interessa al numero dei salvati risponde esortandolo a preoccuparsi della propria salvezza (Lc 13,23). Non è tanto facile come si potrebbe pensare. Decisivo non è se sono molti o pochi quelli che si salveranno, bensì se uno sta nel numero dei salvati. La propria salvezza non è un tema da discutere, bensì compito da affrontare. E bisognerà tenere in conto, avverte Gesù, che non la ottiene solo chi ci prova.
Spiegandosi meglio, Gesù ricorre ad una parabola nella quale partecipano coloro che lo ascoltano (Lc 13,25 -29). A chi la da per sicura, dato il grado di intimità raggiuto con Gesù, ricorda loro che la salvezza non dipende da quello che essi si credono, bensì da quello che vuole Dio. Convivere oggi con Cristo non avalla un futuro in sua compagnia. Per chi in realtà vuole entrare, ‘rimanere fuori’, è una possibilità da considerare.
Perché non entra chi lo desidera, ma chi è riconosciuto ed accolto dal suo Signore. Finché dipende da « Un altro », la nostra salvezza non è assicurata. E la cosa peggiore, la cosa più spiacevole è che altri più lontani, meno privilegiati, entreranno per primi.
Che gli ultimi precedano i primi deve essere un forte avvertimento a quanti si sentono troppo in regola con Dio (Lc 13,30). Chi è più lontano oggi dalla meta, ha migliori probabilità di arrivare a destinazione, serve a poco basarsi su un principio. Nessuno può essere sicuro del trionfo, se neanche i più vicini a lui devono illudersi di ottenerlo. Gesù non rende facili le cose ai buoni. E nessuno è troppo buono per, automaticamente, meritarsi il buono di Dio.

 2. MEDITARE: applicare alla vita quello che dice il testo!
Al tempo di Gesù la gente era certamente meno colta, meno fortunata. Viveva meno ed in condizioni peggiori di oggi. Per questo, probabilmente, percepivano poco il valore di questa vita e si informavano molto sull’altra. Poiché erano convinti che essi non potevano liberarsi da soli dei propri mali, erano più preoccupati di una salvezza definitiva che solo Dio poteva dar loro.
Siccome avevano poco da perdere in questa vita, li inquietava più potere perdersi anche nell’altra; riuscivano a vivere senza tante cose che noi abbiamo, ma non rinunciavano a vivere per sempre senza Dio.
Probabilmente, oggi non sono molti coloro che si preoccupano per la salvezza di tutti. Neanche gli autentici credenti danno per certo quel dono che non sarà mai meritato. Ci farebbe bene domandarci, più spesso e con maggior serietà, se saremo un giorno tra i salvati; vivremmo, senza dubbio, meglio la fragile vita che abbiamo.
Per quel motivo, richiama l’attenzione che Gesù non rispondesse ad una domanda ‘teologica’ tanto importante: dato che solo Dio salva, salverà molti o pochi? Più importante ancora che soddisfare la curiosità del suo interlocutore gli sembrò, senza dubbio, avvisarlo sul pericolo che correva chi non si sforzava: decisivo non è sapere il numero di coloro che si salveranno bensì se io sarò tra essi.
Con la sua risposta, invece di risolvere i dubbi, Gesù volle accrescere l’ansietà nel suo interlocutore al quale, curiosamente, importava più il numero dai salvati che la propria salvezza. Benché Gesù gli avesse garantito che la maggioranza si sarebbe salvata, ancora non gli ha assicurato la sua salvezza. Non bisogna fare della propria salvezza, una questione accademica, un argomento su cui discutere ed intrattenersi. La salvezza, almeno per Gesù, era un compito di tutta la vita. Se ha detto chiaramente qualcosa è che la propria salvezza, oltre che incerta, è estremamente difficile.
Sono i requisiti non la rendono facile: la porta è stretta, si richiede sforzo e, soprattutto, non dipende dalla voglia di entrare, bensì di essere accolti dal Signore. Se la via di accesso non è tanto transitabile come sarebbe desiderabile, se né l’impegno né il lavoro personale sono sufficienti, « entrare nel regno » sarà sempre grazia concessa, non merito guadagnato. Se non dipende dal mio desiderio né dal mio sforzo essere riconosciuto ed accolto finalmente da Dio, tutto quello che faccio con Lui e per Lui non me lo merita: Egli sarà sempre per me sorpresa e dono, mai salario meritato.
Se né l’essere stati suoi discepoli, essendo stati da lui istruiti mentre si conviveva con lui, mi assicura di non « rimanere fuori », senza lui, per sempre, perché non mi domando se sarò salvato? Perché do per certo quello che non dipende da me ed è solo grazia? Che cosa potrò fare oggi per meritare una grazia che non è sicura nemmeno per coloro che ascoltarono Gesù e si sedettero a tavola con lui?
Per approfondire ciò, Gesù ricorre al linguaggio simbolico; non trova migliore modo per parlare di Dio e dell’altra vita. Chi desidera entrare in qualche posto, deve sforzarsi molto di più, quanto meno ampio sia l’accesso. Gesù non dice che la porta che conduce a Dio sia stretta; invita, piuttosto, a scegliere l’accesso meno ampio per arrivare a lui.
In realtà è un modo strano di incoraggiare chi lo ascolta! Ma, almeno, non c’inganna con false promesse. Quello che più desideriamo ha una via di accesso angusta, rende difficoltosa la strada; arrivati alla meta, tanto più la godremo quanto meno comodo sia stato il raggiungerla.
Sembra che Dio voglia che lo apprezziamo prima di darcela per sempre, rendendoci laborioso l’incontro con Lui; è come se Dio volesse farci meritare la pena che soffriamo seguendolo. In realtà, quello che Dio vuole è alleviare il dispiacere che sentiamo ogni volta che lo cerchiamo: essendoci Lui dietro la porta, ci preoccupa se è stretta? Più ancora, se realmente vogliamo essere sicuri che ci sta aspettando dopo questa vita, non fuggiamo le difficoltà di questa vita. Lo disse Gesù: se non tentate di entrare per la porta stretta, non sarete capaci di entrare. La selezione è nelle nostre mani.
Con la parabola del padrone che non riconosce chi chiama da fuori, ricorda a quanti danno per scontato la benevolenza divina che non dovrebbero farsi troppe illusioni: non per il fatto di essere buono, Dio è ignorante. Quelli che rimasero fuori quando il signore della casa chiuse la porta non gli erano estranei, furono considerati estranei; erano stati amici e compagni, ma non arrivarono ad essere suoi ospiti; mangiarono e vissero vicino al loro amico, ma non li ha ammessi nella sua casa. E non è che facessero cose brutte; l’unica cosa che non fecero è essere vicino a lui nel momento in cui chiudeva la sua casa.
A chi riuscì ad entrare non importò che la porta fosse stretta, purché rimanesse ancora aperta; chi rimase fuori della casa dell’amico – e del suo cuore -, non si lamentò che la cosa stretta era la porta, bensì che era già chiusa. La cosa unica che sa dire il signore della casa è che non riconosce come amico chi è rimasto fuori della sua casa. La lezione è tanto evidente che nemmeno Gesù la commenta. Non ci fa nessun bene illuderci che le buone relazioni con Dio ci assicurino trovarci un giorno con Lui e avere come nostra casa il cielo. Convivere oggi con Gesù non garantisce un futuro in sua compagnia. Dare per sicura l’amicizia con Dio è il modo migliore per incominciare a perderla. Chi era intimo col suo signore come con un amico, vedrà che altri sono preferiti; un’amicizia che può perdersi, è un’amicizia preziosa; è meglio non abbandonare una casa alla quale è possibile non ritornare. Se è possibile che Dio non ci riconosca per sempre, solo perché lo abbiamo lasciato per un momento, dobbiamo stare vicino a Lui in tutti i momenti della nostra vita. Qualunque sacrificio varrà la pena, se vale la vita eterna nella sua casa.
Ed affinché non rimanesse ombra di dubbio, Gesù conclude la sua esortazione con un avvertimento tanto insolito come ingiusto. Gli ultimi saranno primi, quelli sottovalutati i migliori, gli sconosciuti, intimi nel regno di Dio. Coloro che sono più lontani dalla meta hanno migliori probabilità di arrivare alla destinazione, a poco serve stare ben saldi su un principio; nessuno può essere sicuro del trionfo, se neanche i più vicini a lui possono credere che l’otterranno. Gesù non rende le cose facili ai buoni. E nessuno è troppo buono per, automaticamente, meritare Dio. In fondo è di questo che si tratta. Non piacque sicuramente ai suoi uditori che Gesù facesse loro notare che, altri, venuti da lontano, si sarebbero seduti insieme ai patriarchi e ai profeti di Israele nel banchetto del regno. Per gli uditori dell’evangelista, questo grave avvertimento di Gesù era una triste, ed innegabile, realtà: erano stati accolti nel regno quelli che meno se lo aspettavano.
E coloro che pensavano di averne diritto, con tutta una storia di salvezza alle spalle, furono lasciati fuori. Per noi oggi, ‘cristiani di vecchia data’, la sentenza di Gesù è, contemporaneamente, grave avvertenza e semplice constatazione: non ci salveremo perché vogliamo, bensì perché qualcuno lo vuole; è grazia del Signore, bisognerà vivere sentendosi premiati ed avvicinandoci a Lui. Se non basta la convivenza come discepolo né l’intimità di commensale per ‘guadagnarselo’, il nostro sforzo non potrà conoscere limite né la speranza di ottenerla. Finché non ci lasceranno entrare per la porta stretta, non saremo in salvo. Abbiamo creduto che, per credere nella bontà di Dio non è necessario essere buoni noi; ci siamo illusi che Dio farà anche la parte che ci corrisponde, quando l’abbiamo lasciata incompiuta; ci stiamo perdonando le nostre mancanze prima che Dio lo faccia ed evitiamo di riconoscerlo. La salvezza, e Dio, ci aspettano dietro una porta angusta, in una situazione che opprime, dopo una disgrazia inaspettata. Cercare Dio tra le cose facili e passeggere suppone un errore senza speranza. Gesù prevenne i suoi uditori ebrei e, apparentemente, non ebbe molto successo. Con una sentenza finale, tanto proverbiale quanto enigmatica, Gesù risolve il problema. Non si tratta di sentirsi primo o ultimo, perché da tutti e due i gruppi usciranno i salvati. Si tratta, assicura Gesù, che non esiste preferenza né posto privilegiato: quello che è tra i primi, non è sicuro di entrare; quello che è tra gli ultimi, potrà essere ricevuto. Non è quello che siamo noi, né dove ci troviamo, quello che assicura la nostra salvezza, bensì quello che Dio vuole essere per noi e dove Egli ci vuole trovare. Vivere oggi nella sua grazia è la migliore maniera, la più utile, per ingraziarcelo per sempre e perché ci lasci entrare nel suo regno e cenare alla sua mensa.
Gesù ci ha avvisato oggi. Avrà più fortuna ora che allora il suo avviso? Sarebbe meglio fosse così. È troppo quello che ci giochiamo pensando che l’indubbia bontà di Dio non ci obbliga ad essere migliori. Un Dio che si può perdere tanto facilmente, è un Dio che bisogna curare meglio, è un Dio al quale bisogna badare di più. Non ha senso rimanere fuori, e per sempre, dalla sua presenza, per non essere stati sempre vicino a Lui; sarebbe un deplorevole errore, tanto deplorevole da deplorarlo per tutta un’eternità, coloro che, essendo stati tanto tempo i primi, arrivino ad essere ultimi nel regno di Dio. Dipende da noi.

JUAN JOSE BARTOLOME sdb,

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