Archive pour le 2 août, 2013

Ethiopian Iconography

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Publié dans:immagini sacre |on 2 août, 2013 |Pas de commentaires »

PRIMA LETTURA : QOELET 1,2; 2,21-23 – COMMENTO

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=Qoelet%201,2;%202,21-23

QOELET 1,2; 2,21-23

1,2 Vanità delle vanità — dice Qoèlet — vanità delle vanità, tutto è vanità. 2,21 Perché chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare i suoi beni a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è vanità e grande sventura.
22 Allora quale profitto c’è per l’uomo in tutta la sua fatica e in tutto l’affanno del suo cuore con cui si affatica sotto il sole? 23 Tutti i suoi giorni non sono che dolori e preoccupazioni penose, il suo cuore non riposa neppure di notte. Anche questo è vanità!

COMMENTO
Qoelet 1,2; 2,21-23
Tutto è vanità
Il libro da cui è riportata la presente lettura è designato con il nome (o appellativo) del suo presunto autore, in ebraico Qohelet, nome oggi in genere preferito alla sua traduzione greca Ekklesiastês, Ecclesiaste. Nel canone ebraico questo libro si situa nella sezione degli Scritti dove fa parte, insieme con Rut, Cantico dei cantici, Lamentazioni, Ester, dei cinque volumi (meghillôt) che nella liturgia ebraica vengono utilizzati nelle principali festività dell’anno.
Il Qohelet è un piccolo libro, pieno di dubbi, scritto da un autore disincantato, il quale riflette sul significato e sulla caducità della vita umana, mettendo in questione idee e luoghi comuni della tradizione biblica e soprattutto sapienziale. Esso suscita numerosi problemi circa le circostanze e modalità della sua composizione, ma soprattutto circa il suo contenuto che, mentre lo pone in stretta contiguità con Giobbe, lo allontana da gran parte della letteratura sapienziale e, più in genere, biblica. Il suo genere letterario si avvicina a quello di una raccolta di pensieri che ruotano intorno ad un certo tema, ma che mantengono in gran parte la loro autonomia.
Il libro si apre con il titolo e un prologo (Qo 1,1-11). L’autore passa poi a descrivere, nella prima parte del libro, la vanità di tutte le cose (1,12-6,9); in un breve brano che occupa la posizione centrale del libro, l’autore esprime i limiti di ogni essere umano (6,10-12). Egli poi, nella seconda parte del libro, mette a fuoco soprattutto i limiti della conoscenza umana (7,1 – 11,6). Lo scritto termina con una conclusione (11,7 – 12,8) e un epilogo (12,9-14). Il testo utilizzato dalla liturgia, l’unico di cui essa fa uso, è ricavato dal prologo (1,2) e dall’inizio della prima parte del libro (2,21-23).
La frase iniziale del brano liturgico è quella in cui si compendia tutta la riflessione dell’autore: «Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità: tutto è vanità» (1,2). Essa è una dichiarazione di principio: tutto è «vanità» (hebel). Questo termine significa propriamente «vapore», «alito» e designa qualcosa di vuoto, effimero, senza consistenza. La forma raddoppiata («vanità delle vanità»), usata in ebraico per indicare il superlativo, significa che si tratta di una vanità totale, senza eccezione o rimedio.
In questo versetto l’autore dice per la prima volta, dopo il titolo, il suo nome, Qohelet, che riappare altre sei volte nel seguito del libro (1,2.12; 7,27; 12,8.9.10) e non è mai utilizzato al di fuori di esso. Il suo significato è incerto. Dal punto di vista morfologico sembra un participio presente femminile qal del verbo qahal (convocare, adunare): se così fosse esso significherebbe «colui che raduna l’assemblea», ma non risulta che il verbo sia mai usato in questa forma. È più probabile invece che si tratti di un aggettivo sostantivato derivato da qahal (assemblea, riunione), il cui significato sarebbe «uomo dell’assemblea». È questo anche il significato del termine greco Ecclesiaste (da ekklesia, assemblea) con cui è stato tradotto.
Nel brano successivo riportato dalla liturgia, l’autore, dopo aver affermato di essere giunto al punto di disperare in cuor suo per tutta la fatica che aveva sostenuto sotto il sole (v. 20), ne dà questo motivo: «chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare la sua parte a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è vanità e un grande male» (v. 21). Se uno si impegna a fondo nella vita, può ottenere dei buoni risultati in campo materiale. Ma alla morte, tutto quello che ha accumulato non gli serve più, anzi deve lasciarlo magari a uno che invece non ha saputo impegnarsi nella vita e non ha messo da parte nulla. L’autore ritiene ciò una grande vanità.
L’autore aggiunge poi un altro motivo del suo pessimismo: «Infatti, quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole? Tutti i suoi giorni non sono che dolori e fastidi penosi; neppure di notte il suo cuore riposa. Anche questo è vanità!» (vv. 22-23). Anche durante la sua vita, l’uomo paga il suo successo in campo economico con preoccupazioni e affanni, al punto tale che perde persino la possibilità di riposare nella notte. Qoelet conclude che anche questo è una grande vanità, perché si sacrifica per le cose materiali quel poco di piacere che potrebbe avere in questa vita.

Linee interpretative
Il Qoelet è spesso accusato di pessimismo o di scetticismo. Oggi si afferma sempre più l’interpretazione che vede in questo strano personaggio un «predicatore della gioia». È vero, egli mette in discussione tanti luoghi comuni e critica come falsi tanti ideali che l’uomo si propone quaggiù. Spesso la sapienza non è apprezzata, specialmente quando si combina con la povertà, ma essa è pur sempre superiore alla stoltezza o alla forza (9,13-18). Pur senza eccedere, la giustizia deve essere ricercata (7,16-18). Il saggio è più forte di dieci potenti che governano la città, anche se non bisogna illudersi: nessuno è così giusto da non peccare mai (7,19-22). Come un saggio tradizionale, Qohelet raccomanda anche l’impegno attivo e dinamico in ogni campo, perché negli inferi non vi sarà più nulla (9,10). Egli si scaglia contro la pigrizia (10,14-20) e invita ad accettare il rischio e ad assumersi le proprie responsabilità (11,1-6).
Ma soprattutto egli esorta al godimento di tutto ciò che la vita presenta di buono e gradevole, nella convinzione che si tratta di un dono di Dio (cfr. 2,24; 3,12-13; 5,17; 8,15; 9,7-9; 11,7-9), anche se invita a tener sempre presente che anche questo è «vanità» (2,1). Qoelet concepisce l’esistenza dell’uomo come un essere nel tempo, come una possibilità che gli è data solo nello scorrere del presente, e che per ciascuno si concluderà nella morte. Ma, pur nella sua precarietà, l’uomo può sperimentare la sua esistenza terrena come un’esperienza di felicità.
In questa prospettiva bisogna capire lo spirito religioso del Qoelet. Egli presenta Dio come una realtà trascendente e misteriosa, che ha creato il mondo e lo dirige in un modo che per gli esseri umani è del tutto inintelligibile. Dio non è un dio lontano e nascosto o addirittura arbitrario, ma il Dio di Israele, che toglie all’uomo l’illusione di poter comprendere la propria vita senza mettere in conto il suo agire misterioso. Di fronte a lui l’uomo non può far altro che temerlo, cioè sottomettersi alla sua volontà. Dio agisce nel mondo con lo scopo di far sì che «si abbia timore di lui» (3,14). Dopo aver esortato il lettore a non essere troppo saggio o troppo stolto, egli afferma che chi teme Dio riesce in tutte le cose (7,16). Infine egli esprime la sua convinzione secondo cui «saranno felici coloro che temono Dio» (8,12-13).

4 AGOSTO 2013 – 18A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C – LECTIO DIVINA SU: LC 12,13-21

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/03-annoC/annoC/12-13/05-Ordinario/Omelie/18-Domenic-2013_C/18-Domenica-2013_C-JB.html

4 AGOSTO 2013  | 18A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C  |  PROPOSTA DI LECTIO DIVINA

LECTIO DIVINA SU: LC 12,13-21

In un’occasione uno sconosciuto cercava appoggio in Gesù perché lo aiutasse a dissipare una disputa familiare attorno ad una eredità, considerando l’accettazione sociale che aveva già ottenuto con le sue predicazioni e l’autorità che veniva concessa alle sue opinioni. A noi oggi, il fatto in sé ci può sembrare senza alcuna importanza. Tanto siamo abituati nel vedere di come si dividono le famiglie per i patrimoni da separare, ci sembra logico che Gesù evitava di pronunciarsi in una questione tanto familiare. Però se è vero che non volle entrare in una discussione tra fratelli, non lo è di meno che non lasciò passare l’opportunità per insegnare a tutti i suoi uditori il posto che i beni devono occupare nella vita. Non gli sembrò opportuno pacificare una famiglia, però non lasciò passare l’occasione per istruire le gente che lo seguiva. E non è che negava giustizia a chi la chiedeva; cercava, maggiormente, di liberarlo dalla febbre del possesso. Decisivo non è aumentare i beni che si hanno nella vita, ma mantenere la vita che si è ricevuto e il supporto di qualsiasi altro bene.
In quel tempo, 13 un tale disse a Gesù: « Maestro, di ‘a mio fratello che divida con me l’eredità ».
14 Egli rispose: « Uomo, chi mi ha costituito giudice o arbitro tra voi »?
15 E disse alla gente: « Ecco, fate attenzione alla cupidigia. Anche se si vive nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi averi ».
16 Disse loro una parabola:
« Un uomo ricco prevedeva un grande raccolto. 17 E cominciò a fare calcoli. « Che cosa farò non ho dove conservare il raccolto » 18E disse, « Ecco cosa farò: abbatterò i magazzini e ne costruirò di più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e il resto della mia raccolta. 19E quindi mi dirò: ecco, hai un patrimonio accumulato per molti anni, riposati, mangia, bevi e datti alla bella vita ». 20Ma Dio gli disse: « Stolto, questa notte la tua vita ti sarà richiesta. Le cose che hai preparato, di chi saranno »? 21Così sarà di chi accumula ricchezze per sé e non è ricco di fronte Dio ».

 1. LEGGERE: capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice
L’insegnamento di Gesù, questa volta, non nasce dalla sua volontà, ma è provocata da un litigio tra fratelli. Il motivo è banale e frequente: un’eredità messa in discussione stava ponendo in pericolo la vita fraterna. Uno di loro ricorre a Gesù come fosse un ‘giudice di pace’ (Lc 12,13), ciò attesta che gli si attribuisce un’autorità superiore e imparziale.
Gesù risponde in modo sorprendente: si dichiara incompetente per arbitrare questo conflitto familiare (Lc 12,14) e approfitta dell’occasione per, trascendendo l’aneddoto, dare una lezione a tutti sopra i beni e gli usi che si fanno di questi (Lc 12,15). Gesù non sta dirigendo la sua parola solamente ai suoi discepoli: il suo magistero investe tutti coloro che lo ascoltano.
L’insegnamento è composto di due parti: una seria avvertenza sopra l’ansia di possedere beni, che finiscono per possedere quelli che li hanno (Lc 12,15) e una parabola come spiegazione e fondamento (Lc 12,16-21). Il fatto, laconico e chiaro: avvisa contro il desiderio disordinato di possedere e ne dà la ragione. I beni che si posseggono in vita non assicurano il possesso della vita. E senza la vita, che bene si sostiene? La parabola ricrea una situazione che illumina il tutto e sviluppa l’insegnamento di Gesù: il latifondista ragiona saggiamente, perché prevede un buon raccolto. Però non pensa altro che possederne ancora di più. Perciò più che disporre dei beni, i suoi beni ‘dispongono’ di lui; possiede molto e sogna di possedere di più, non è padrone della sua vita; i suoi beni però non gli assicurano un giorno in più di vita. Potrà arricchire come vuole i suoi depositi, ma non allungherà di un giorno la sua vita. Possiede già molto, ma il suo possesso gli sembrerà sempre poco e vorrà di più. Non considera che quello che ha è più di quanto gli manca; e non si cura tanto di quello che già dispone, perché è grande il suo desiderio di possedere di più.
Chi non pone la sua sicurezza in Dio, non potrà assicurare i suoi beni e neppure un giorno in più, perché niente gli può assicurare la vita. Il suo bisogno sarà maggiore dei suoi granai: non bisogna riempire la nostra vita, quando ancora non la si possiede. Una vita votata a conservare e ad ammassare beni ‘per sé’ è fragile. Lasciarsi possedere da quello che già si possiede, porta a perdere quello che da sempre importa, Dio e i suoi beni. Il bene non è quello che ci manca, ma quello che Dio sarà disposto a concederci se Lui è stato il nostro unico bene. Davanti ad un Dio che pretende di essere il nostro unico Bene, non può che nascere il desiderio di tenerlo. E se lo si tiene, non si mantengono altri desideri e altri beni.

 2. MEDITARE: applicare alla vita quello che dice il testo!
Gesù si nega ad essere mediatore in una disputa tra fratelli, non per eludere una decisione controversa, ma per liberare i suoi interlocutori dal loro affanno di possesso. Non vuole entrare nella disputa perché non desidera processare nessuno: cerca che tutti si affidino alla giustizia di Dio. E’ vano affannarsi, dice, per quello che non può assicurare la propria esistenza; non è giudizioso perdere la vita, familiare in questo caso, per ciò che non può mantenerci in vita.
Il caso è che, senza cercarla, gli si è presentata a Gesù una situazione invidiabile; poche volte è stato tanto desiderato un suo intervento in un contesto che non esigeva un miracolo. Non chiedono a Gesù di mostrare il suo potere o la compassione, ma il suo giudizio e la sua imparzialità. Solamente quelli che lo richiedono dimostrano già l’accettazione di Gesù che, ora, tra il popolo era visto come un possibile buon mediatore tra fratelli. Per questo è tanto sorprendente il suo rifiuto. Non era ciò, pensava, il suo compito. E’ vero che Gesù, indica l’inutilità di lottare, per quanto può essere una buona ragione, per ciò che non assicura la propria esistenza; da già una risposta, indiretta ma efficace ai fratelli che litigano per un’eredità che, per quanto potesse valere, non assicurava il bene più prezioso che già avevano, la propria vita.
Gesù non vuole imporre il suo pensiero dando valore di obbligata adesione al suo insegnamento. Così, invece di risolvere un caso particolare, istruisce il suo gregge. Gesù voleva convincere tutti sul precario valore dei beni materiali. Non si accontentava di vincere la resistenza di uno per condividere col suo fratello i beni ereditati. Utilizzò il caso particolare come motivo di un insegnamento universale. Nulla può contribuire, come un’eredità, per buona che sia, alla pena di una divisione familiare; un’eredità paterna, pur preziosa che sia, non può compensare la perdita della fraternità. Non è quello che già si possiede, e neppure quello che ottiene, ma quanto si è, è questo perciò che ben merita lotta e fatica. Se la propria vita non dipende dalle proprie cose, serve ben poco sacrificarsi per tenerla.
Gesù rispose al fratello che implorava giustizia-solo giustizia!- che è meglio rinunciare ai beni che non sono dovuti che perdere la vita e la famiglia nell’intento di recuperarli. Gesù non pensava di ‘ristabilire’ la fratellanza distribuendo giustizia, volle, maggiormente, guarire la radice del cuore dell’uomo, patria della sua cupidigia. Di fatto, una volta che ha negato a uno il suo intervento, si dirige a tutti con un ‘altro’ tema: quello che veramente guarisce l’uomo e le sue relazioni cogli altri, non è tenere quello che a uno gli si deve, ma rinunciare a tenere più di quando già possiede. Non è, perciò, questione di tenere molto o poco, ma il desiderare di avere di più, al di là delle ricchezze che già si hanno…
A cosa ci servirebbe guadagnare quello che riteniamo nostro, se non abbiamo tempo di disporre di ciò? Perché vogliamo essere padroni di molte cose se non amiamo la nostra vita? È quello che pensa Gesù, se l’abbondanza dei beni non assicura la sopravvivenza, chi cerca giustizia per ottenerli non è sicuro di goderli. E’ precario fondare la propria esistenza sui beni che non possono garantirla; possedere le cose che appartengono ad altri, non è il miglior modo di mantenere la nostra vita. Accumulare quello che si deve condividere con gli altri ci farebbe sicuramente più ricchi, ma certamente ci renderebbe meno umani. Non siamo migliori per i beni che abbiamo, e neppure ci farebbe onore appropriarci di quello che appartiene al fratello.
Le cose che abbiamo, le persone con le quali viviamo, sono beni nella misura in cui sostengono la nostra vita, soddisfacendo le necessità più urgenti, sia di pane o di amore. Non è degno di essere rubato a nessuno quello che non assicura neppure un giorno alla nostra vita. Per tanto necessario che sia, nessun bene è tanto prezioso come la propria vita o la vita del fratello: possiamo rinunciare a tutto meno che a lei.
La posizione di Gesù non ‘tocca’ direttamente la quantità di beni che si posseggono, ma l’attitudine che ci spinge per possederli. Siano molti che pochi, i beni che si posseggono, alimentano il desiderio di possederne di più e di migliori. E questa ‘avidità’ porta a mettere in questione la nostra vita, bene supremo, perché non ci possono essere beni senza di lei; un bene prezioso, perché non c’è prezzo per ottenerla. Gesù scopre così la radice di questa insoddisfazione profonda che ci prende quando non arriviamo a possedere i beni che ambiamo, quando non possediamo quello che vorremmo avere. E ci da un criterio per ‘guarirci’ dall’ingordigia: valorizzare la vita come un bene gratuito è vivere apprezzando maggiormente quello che già si possiede, il più grande: il dono della vita, la si può gustare senza avere il desiderio di possedere altro.
Non è così, per disgrazia, come viviamo. Ci prende l’affanno di possedere. Vigiliamo per conservare quello che otteniamo e ci affanniamo per ottenere quello che non abbiamo. Ci affanniamo oggi per ottenere domani il di più, e non abbiamo imparato a vivere con quello che già abbiamo. Alimentiamo la nostra insicurezza accumulando beni, così a caso, senza tener conto che ci venga assicurata la giornata di domani… e anche quella di oggi. Non sono perciò i beni che ammucchiamo nella vita quello che ci deve dare fiducia, soprattutto se nell’intento di ottenerli impoveriamo gli altri o la gioia di vivere che si basa solo su quello che si accumula nella vita non ha futuro. Scarso è il piacere che nasce dall’abbondanza; i beni non soddisfano a chi pone in loro la propria felicità.
Con la parabola del ricco, Gesù in definitiva desiderava comunicare ai suoi uditori che ben poco serve il diventare padroni di molti beni se non si è padroni della propria vita. Per capire bene Gesù, bisogna mettere in conto che l’azione del ricco non fu solo logica, ma in parte anche lodevole. Il latifondista attua con capacità e diligenza, perché prevedendo un buon raccolto, prende le giuste misure: primo, ingrandirà i suoi magazzini, poi godrà delle sue ricchezze. Non è assurdo pensare di ingrandire granai, quando si avvicina un buon raccolto. Cercare il modo di non perdere nulla è il meno che si possa sperare in un proprietario giudizioso. Felicitarsi di quello che verrà, non è alimentare vane illusioni. Il latifondista regolò il tutto e si rallegrò per la ricchezza che stava arrivando. Era un uomo fortunato e non agiva con leggerezza. Gesù, viceversa, non vedeva così le cose. Colui che mette la sua fiducia in quello che ha ottenuto, chi affida la sua felicità nell’abbondanza, lascerà i suoi beni al fine della vita e si troverà senza proprietà e senza Dio.
Qualcosa di molto grave si nasconde in quest’attitudine del ricco, nonostante sia in apparenza tanto razionale, tanto che Gesù esprime parlando con la voce di Dio a Dio, qualcosa di inusuale che non è solito ribadire nelle sue parabole: la condanna: è sciocco colui che pone la sua felicità nel possesso delle cose; colui che si sente sicuro per il molto che possiede, senza pensare che non potrebbe per lui albeggiare un nuovo giorno.
I beni che facilmente si possono perdere non devono essere i beni maggiormente apprezzati, e neppure i più preziosi. Non tenere Dio come bene supremo, rendono inutili tutti i beni che si posseggono. Considerare un qualcosa che non sia Dio la ragione della felicità, è arrischiarsi a perderla. Non potrà assicurare i suoi beni, chi non assicura che Dio è il suo bene. La necessità di colui che ha molti beni è sempre maggiore dei suoi granai perché lascia riempire la sua vita di quanto ancora non ha; lasciarsi tuttavia possedere da quello che si possiede e da quello che si vorrebbe possedere, porta a perdere quello che da sempre ci appartiene: Dio e il suo bene. Il vero bene non è quello che ora desideriamo, ma quello che Dio sarà disposto concederci se Lui è stato il nostro unico bene.
Gesù critica la cupidigia del latifondista perché non solo consiste nel desiderare di più, ma anche quella di vivere meglio e solo. Il latifondista sognava un grande raccolto perché gli avrebbe permesso di darsi -lui solo- alla ‘grande’ vita. Accumulare ricchezza per se stesso lo impoverisce, perché lo priva del fratello bisognoso, perché rende più difficile la vita a quello che possiede di meno, perché crede di poter vivere e godere senza di lui. E’ sciocco colui che immagina i suoi beni oltre le proprie necessità, chi soddisfa i suoi desideri solo perché è grande il suo vuoto. Chi non pone la sua sicurezza in Dio, non potrà assicurare i suoi beni, e neppure un giorno in più alla sua vita. Davanti ad un Dio che pretende di essere il nostro unico bene, non può nascere il desiderio di tenerne altri. E se si ha lui come unico bene, non si possono mantenere né altri desideri né altri beni. La felicità del credente non sta nell’avere di più, ma nel sapersi maggiormente amato. Avendo Dio non sono necessarie tutte le cose e non ci mancherà la gioia di vivere.

  JUAN JOSE BARTOLOME sdb

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