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QOELET 1,2; 2,21-23
1,2 Vanità delle vanità — dice Qoèlet — vanità delle vanità, tutto è vanità. 2,21 Perché chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare i suoi beni a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è vanità e grande sventura.
22 Allora quale profitto c’è per l’uomo in tutta la sua fatica e in tutto l’affanno del suo cuore con cui si affatica sotto il sole? 23 Tutti i suoi giorni non sono che dolori e preoccupazioni penose, il suo cuore non riposa neppure di notte. Anche questo è vanità!
COMMENTO
Qoelet 1,2; 2,21-23
Tutto è vanità
Il libro da cui è riportata la presente lettura è designato con il nome (o appellativo) del suo presunto autore, in ebraico Qohelet, nome oggi in genere preferito alla sua traduzione greca Ekklesiastês, Ecclesiaste. Nel canone ebraico questo libro si situa nella sezione degli Scritti dove fa parte, insieme con Rut, Cantico dei cantici, Lamentazioni, Ester, dei cinque volumi (meghillôt) che nella liturgia ebraica vengono utilizzati nelle principali festività dell’anno.
Il Qohelet è un piccolo libro, pieno di dubbi, scritto da un autore disincantato, il quale riflette sul significato e sulla caducità della vita umana, mettendo in questione idee e luoghi comuni della tradizione biblica e soprattutto sapienziale. Esso suscita numerosi problemi circa le circostanze e modalità della sua composizione, ma soprattutto circa il suo contenuto che, mentre lo pone in stretta contiguità con Giobbe, lo allontana da gran parte della letteratura sapienziale e, più in genere, biblica. Il suo genere letterario si avvicina a quello di una raccolta di pensieri che ruotano intorno ad un certo tema, ma che mantengono in gran parte la loro autonomia.
Il libro si apre con il titolo e un prologo (Qo 1,1-11). L’autore passa poi a descrivere, nella prima parte del libro, la vanità di tutte le cose (1,12-6,9); in un breve brano che occupa la posizione centrale del libro, l’autore esprime i limiti di ogni essere umano (6,10-12). Egli poi, nella seconda parte del libro, mette a fuoco soprattutto i limiti della conoscenza umana (7,1 – 11,6). Lo scritto termina con una conclusione (11,7 – 12,8) e un epilogo (12,9-14). Il testo utilizzato dalla liturgia, l’unico di cui essa fa uso, è ricavato dal prologo (1,2) e dall’inizio della prima parte del libro (2,21-23).
La frase iniziale del brano liturgico è quella in cui si compendia tutta la riflessione dell’autore: «Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità: tutto è vanità» (1,2). Essa è una dichiarazione di principio: tutto è «vanità» (hebel). Questo termine significa propriamente «vapore», «alito» e designa qualcosa di vuoto, effimero, senza consistenza. La forma raddoppiata («vanità delle vanità»), usata in ebraico per indicare il superlativo, significa che si tratta di una vanità totale, senza eccezione o rimedio.
In questo versetto l’autore dice per la prima volta, dopo il titolo, il suo nome, Qohelet, che riappare altre sei volte nel seguito del libro (1,2.12; 7,27; 12,8.9.10) e non è mai utilizzato al di fuori di esso. Il suo significato è incerto. Dal punto di vista morfologico sembra un participio presente femminile qal del verbo qahal (convocare, adunare): se così fosse esso significherebbe «colui che raduna l’assemblea», ma non risulta che il verbo sia mai usato in questa forma. È più probabile invece che si tratti di un aggettivo sostantivato derivato da qahal (assemblea, riunione), il cui significato sarebbe «uomo dell’assemblea». È questo anche il significato del termine greco Ecclesiaste (da ekklesia, assemblea) con cui è stato tradotto.
Nel brano successivo riportato dalla liturgia, l’autore, dopo aver affermato di essere giunto al punto di disperare in cuor suo per tutta la fatica che aveva sostenuto sotto il sole (v. 20), ne dà questo motivo: «chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare la sua parte a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è vanità e un grande male» (v. 21). Se uno si impegna a fondo nella vita, può ottenere dei buoni risultati in campo materiale. Ma alla morte, tutto quello che ha accumulato non gli serve più, anzi deve lasciarlo magari a uno che invece non ha saputo impegnarsi nella vita e non ha messo da parte nulla. L’autore ritiene ciò una grande vanità.
L’autore aggiunge poi un altro motivo del suo pessimismo: «Infatti, quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole? Tutti i suoi giorni non sono che dolori e fastidi penosi; neppure di notte il suo cuore riposa. Anche questo è vanità!» (vv. 22-23). Anche durante la sua vita, l’uomo paga il suo successo in campo economico con preoccupazioni e affanni, al punto tale che perde persino la possibilità di riposare nella notte. Qoelet conclude che anche questo è una grande vanità, perché si sacrifica per le cose materiali quel poco di piacere che potrebbe avere in questa vita.
Linee interpretative
Il Qoelet è spesso accusato di pessimismo o di scetticismo. Oggi si afferma sempre più l’interpretazione che vede in questo strano personaggio un «predicatore della gioia». È vero, egli mette in discussione tanti luoghi comuni e critica come falsi tanti ideali che l’uomo si propone quaggiù. Spesso la sapienza non è apprezzata, specialmente quando si combina con la povertà, ma essa è pur sempre superiore alla stoltezza o alla forza (9,13-18). Pur senza eccedere, la giustizia deve essere ricercata (7,16-18). Il saggio è più forte di dieci potenti che governano la città, anche se non bisogna illudersi: nessuno è così giusto da non peccare mai (7,19-22). Come un saggio tradizionale, Qohelet raccomanda anche l’impegno attivo e dinamico in ogni campo, perché negli inferi non vi sarà più nulla (9,10). Egli si scaglia contro la pigrizia (10,14-20) e invita ad accettare il rischio e ad assumersi le proprie responsabilità (11,1-6).
Ma soprattutto egli esorta al godimento di tutto ciò che la vita presenta di buono e gradevole, nella convinzione che si tratta di un dono di Dio (cfr. 2,24; 3,12-13; 5,17; 8,15; 9,7-9; 11,7-9), anche se invita a tener sempre presente che anche questo è «vanità» (2,1). Qoelet concepisce l’esistenza dell’uomo come un essere nel tempo, come una possibilità che gli è data solo nello scorrere del presente, e che per ciascuno si concluderà nella morte. Ma, pur nella sua precarietà, l’uomo può sperimentare la sua esistenza terrena come un’esperienza di felicità.
In questa prospettiva bisogna capire lo spirito religioso del Qoelet. Egli presenta Dio come una realtà trascendente e misteriosa, che ha creato il mondo e lo dirige in un modo che per gli esseri umani è del tutto inintelligibile. Dio non è un dio lontano e nascosto o addirittura arbitrario, ma il Dio di Israele, che toglie all’uomo l’illusione di poter comprendere la propria vita senza mettere in conto il suo agire misterioso. Di fronte a lui l’uomo non può far altro che temerlo, cioè sottomettersi alla sua volontà. Dio agisce nel mondo con lo scopo di far sì che «si abbia timore di lui» (3,14). Dopo aver esortato il lettore a non essere troppo saggio o troppo stolto, egli afferma che chi teme Dio riesce in tutte le cose (7,16). Infine egli esprime la sua convinzione secondo cui «saranno felici coloro che temono Dio» (8,12-13).