Archive pour juillet, 2013

Sant’ Ignazio di Loyola

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31 LUGLIO: SANT’IGNAZIO DI LOYOLA

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 31 LUGLIO: SANT’IGNAZIO DI LOYOLA

UFFICIO DELLE LETTURE

PRIMA LETTURA         

Dalla seconda lettera ai Corinzi di san Paolo, apostolo 10, 1 – 11, 6
Apologia dell’Apostolo

    Fratelli, ora io stesso, Paolo, vi esorto per la dolcezza e la mansuetudine di Cristo, io davanti a voi così meschino, ma di lontano così animoso con voi; vi supplico di far in modo che non avvenga che io debba mostrare, quando sarò tra voi, quell’energia che ritengo di dover adoperare contro alcuni che pensano che noi camminiamo secondo la carne. In realtà, noi viviamo nella carne ma non militiamo secondo la carne. Infatti le armi della nostra battaglia non sono carnali, ma hanno da Dio la potenza di abbattere le fortezze, distruggendo i ragionamenti e ogni baluardo che si leva contro la conoscenza di Dio, e rendendo ogni intelligenza soggetta all’obbedienza al Cristo. Perciò siamo pronti a punire qualsiasi disobbedienza, non appena la vostra obbedienza sarà perfetta.
    Guardate le cose bene in faccia: se qualcuno ha in se stesso la persuasione di appartenere a Cristo, si ricordi che se lui è di Cristo lo siamo anche noi. In realtà, anche se mi vantassi di più a causa della nostra autorità, che il Signore ci ha dato per vostra edificazione e non per vostra rovina, non avrò proprio da vergognarmene. Non sembri che io vi voglia spaventare con le lettere! Perché «le lettere – si dice – sono dure e forti, ma la sua presenza fisica è debole e la parola dimessa». Questo tale rifletta però che quali noi siamo a parole per lettera, assenti, tali saremo anche con i fatti, di presenza.
    Certo noi non abbiamo l’audacia di uguagliarci o paragonarci ad alcuni di quelli che si raccomandano da sé; ma mentre si misurano su di sé e si paragonano con se stessi, mancano di intelligenza. Noi invece non ci vanteremo oltre misura, ma secondo la norma della misura che Dio ci ha assegnato, sì da poter arrivare fino a voi; né ci innalziamo in maniera indebita, come se non fossimo arrivati fino a voi, perché fino a voi siamo giunti col vangelo di Cristo. Né ci vantiamo indebitamente di fatiche altrui, ma abbiamo la speranza, col crescere della vostra fede, di crescere ancora nella vostra considerazione, secondo la nostra misura, per evangelizzare le regioni più lontane della vostra, senza vantarci alla maniera degli altri delle cose già fatte da altri.
    Pertanto chi si vanta, si vanti nel Signore (Ger 9, 23); perché non colui che si raccomanda da sé viene approvato, ma colui che il Signore raccomanda.
    Oh, se poteste sopportare un po’ di follia da parte mia! Ma, certo, voi mi sopportate. Io provo infatti per voi una specie di gelosia divina, avendovi promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo. Temo però che, come il serpente nella sua malizia sedusse Eva, così i vostri pensieri vengano in qualche modo traviati dalla loro semplicità e purezza nei riguardi di Cristo. Se infatti il primo venuto vi predica un Gesù diverso da quello che vi abbiamo predicato noi o se si tratta di ricevere uno Spirito diverso da quello che avete ricevuto o un altro vangelo che non avete ancora sentito, voi siete ben disposti ad accettarlo. Ora io ritengo di non essere in nulla inferiore a questi «superapostoli»! E se anche sono un profano nell’arte del parlare, non lo sono però nella dottrina, come vi abbiamo dimostrato in tutto e per tutto davanti a tutti.

SECONDA LETTURA         

Dagli «Atti» raccolti da Ludovico Consalvo dalla bocca di sant’Ignazio
(Cap. 1, 5-9; Acta SS. Iulii, 7, 1868, 647)
Provate gli spiriti se sono da Dio

    Essendo stato appassionato divoratore di romanzi e d’altri libri fantasiosi sulle imprese mirabolanti di celebri personaggi, quando cominciò a sentirsi in via di guarigione, Ignazio domandò che gliene fossero dati alcuni tanto per ingannare il tempo. Ma nella casa, dove era ricoverato, non si trovò alcun libro di quel genere, per cui gliene furono dati due intitolati «Vita di Cristo» e «Florilegio di santi», ambedue nella lingua materna.
    Si mise a leggerli e rileggerli, e man mano che assimilava il loro contenuto, sentiva nascere in sé un certo interesse ai temi ivi trattati. Ma spesso la sua mente ritornava a tutto quel mondo immaginoso descritto dalle letture precedenti. In questo complesso gioco di sollecitazioni si inserì l’azione di Dio misericordioso.
    Infatti, mentre leggeva la vita di Cristo nostro Signore e dei santi, pensava dentro di sé e così si interrogava: «E se facessi anch’io quello che ha fatto san Francesco; e se imitassi l’esempio di san Domenico?». Queste considerazioni duravano anche abbastanza a lungo avvicendandosi con quelle di carattere mondano. Un tale susseguirsi di stati d’animo lo occupò per molto tempo. Ma tra le prime e le seconde vi era una differenza. Quando pensava alle cose del mondo era preso da grande piacere; poi subito dopo quando, stanco, le abbandonava, si ritrovava triste e inaridito. Invece quando immaginava di dover condividere le austerità che aveva visto mettere in pratica dai santi, allora non solo provava piacere mentre vi pensava, ma la gioia continuava anche dopo.
    Tuttavia egli non avvertiva né dava peso a questa differenza fino a che, aperti un giorno gli occhi della mente, incominciò a riflettere attentamente sulle esperienze interiori che gli causavano tristezza e sulle altre che gli portavano gioia.
    Fu la prima meditazione intorno alle cose spirituali. In seguito, addentratosi ormai negli esercizi spirituali, costatò che proprio da qui aveva cominciato a comprendere quello che insegnò ai suoi sulla diversità degli spiriti.

31 LUGLIO: SANT’ IGNAZIO DI LOYOLA SACERDOTE

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SANT’ IGNAZIO DI LOYOLA SACERDOTE

31 LUGLIO

AZPEITIA, SPAGNA, C. 1491 – ROMA, 31 LUGLIO 1556

Il grande protagonista della Riforma cattolica nel XVI secolo, nacque ad Azpeitia, un paese basco, nel 1491. Era avviato alla vita del cavaliere, la conversione avvenne durante una convalescenza, quando si trovò a leggere dei libri cristiani. All’abbazia benedettina di Monserrat fece una confessione generale, si spogliò degli abiti cavallereschi e fece voto di castità perpetua. Nella cittadina di Manresa per più di un anno condusse vita di preghiera e di penitenza; fu qui che vivendo presso il fiume Cardoner decise di fondare una Compagnia di consacrati. Da solo in una grotta prese a scrivere una serie di meditazioni e di norme, che successivamente rielaborate formarono i celebri Esercizi Spirituali. L’attività dei Preti pellegrini, quelli che in seguito saranno i Gesuiti, si sviluppa un po’in tutto il mondo. Il 27 settembre 1540 papa Paolo III approvò la Compagnia di Gesù. Il 31 luglio 1556 Ignazio di Loyola morì. Fu proclamato santo il 12 marzo 1622 da papa Gregorio XV. (Avvenire)

Etimologia: Ignazio = di fuoco, igneo, dal latino

Emblema: IHS (monogramma di Cristo)
Martirologio Romano: Memoria di sant’Ignazio di Loyola, sacerdote, che, nato nella Guascogna in Spagna, visse alla corte del re e nell’esercito, finché, gravemente ferito, si convertì a Dio; compiuti gli studi teologici a Parigi, unì a sé i primi compagni, che poi costituì nella Compagnia di Gesù a Roma, dove svolse un fruttuoso ministero, dedicandosi alla stesura di opere e alla formazione dei discepoli, a maggior gloria di Dio.

Il primo scritto che racconta la vita, la vocazione e la missione di s. Ignazio, è stato redatto proprio da lui, in Italia è conosciuto come “Autobiografia”, ed egli racconta la sua chiamata e la sua missione, presentandosi in terza persona, per lo più designato con il nome di “pellegrino”; apparentemente è la descrizione di lunghi viaggi o di esperienze curiose e aneddotiche, ma in realtà è la descrizione di un pellegrinaggio spirituale ed interiore.
Il grande protagonista della Riforma cattolica nel XVI secolo, nacque ad Azpeitia un paese basco, nell’estate del 1491, il suo nome era Iñigo Lopez de Loyola, settimo ed ultimo figlio maschio di Beltran Ibañez de Oñaz e di Marina Sanchez de Licona, genitori appartenenti al casato dei Loyola, uno dei più potenti della provincia di Guipúzcoa, che possedevano una fortezza padronale con vasti campi, prati e ferriere.
Iñigo perse la madre subito dopo la nascita, ed era destinato alla carriera sacerdotale secondo il modo di pensare dell’epoca, nell’infanzia ricevé per questo anche la tonsura.
Ma egli ben presto dimostrò di preferire la vita del cavaliere come già per due suoi fratelli; il padre prima di morire, nel 1506 lo mandò ad Arévalo in Castiglia, da don Juan Velázquez de Cuellar, ministro dei Beni del re Ferdinando il Cattolico, affinché ricevesse un’educazione adeguata; accompagnò don Juan come paggio, nelle cittadine dove si trasferiva la corte allora itinerante, acquisendo buone maniere che tanto influiranno sulla sua futura opera.
Nel 1515 Iñigo venne accusato di eccessi d’esuberanza e di misfatti accaduti durante il carnevale ad Azpeitia e insieme al fratello don Piero, subì un processo che non sfociò in sentenza, forse per l’intervento di alti personaggi; questo per comprendere che era di temperamento focoso, corteggiava le dame, si divertiva come i cavalieri dell’epoca.
Morto nel 1517 don Velázquez, il giovane Iñigo si trasferì presso don Antonio Manrique, duca di Najera e viceré di Navarra, al cui servizio si trovò a combattere varie volte, fra cui nell’assedio del castello di Pamplona ad opera dei francesi; era il 20 maggio 1521, quando una palla di cannone degli assedianti lo ferì ad una gamba.
Trasportato nella sua casa di Loyola, subì due dolorose operazioni alla gamba, che comunque rimase più corta dell’altra, costringendolo a zoppicare per tutta la vita.
Ma il Signore stava operando nel plasmare l’anima di quell’irrequieto giovane; durante la lunga convalescenza, non trovando in casa libri cavallereschi e poemi a lui graditi, prese a leggere, prima svogliatamente e poi con attenzione, due libri ingialliti fornitagli dalla cognata.
Si trattava della “Vita di Cristo” di Lodolfo Cartusiano e la “Leggenda Aurea” (vita di santi) di Jacopo da Varagine (1230-1298), dalla meditazione di queste letture, si convinse che l’unico vero Signore al quale si poteva dedicare la fedeltà di cavaliere era Gesù stesso.
Per iniziare questa sua conversione di vita, decise appena ristabilito, di andare pellegrino a Gerusalemme dove era certo, sarebbe stato illuminato sul suo futuro; partì nel febbraio 1522 da Loyola diretto a Barcellona, fermandosi all’abbazia benedettina di Monserrat dove fece una confessione generale, si spogliò degli abiti cavallereschi vestendo quelli di un povero e fece il primo passo verso una vita religiosa con il voto di castità perpetua.
Un’epidemia di peste, cosa ricorrente in quei tempi, gl’impedì di raggiungere Barcellona che ne era colpita, per cui si fermò nella cittadina di Manresa e per più di un anno condusse vita di preghiera e di penitenza; fu qui che vivendo poveramente presso il fiume Cardoner “ricevé una grande illuminazione”, sulla possibilità di fondare una Compagnia di consacrati e che lo trasformò completamente.
In una grotta dei dintorni, in piena solitudine prese a scrivere una serie di meditazioni e di norme, che successivamente rielaborate formarono i celebri “Esercizi Spirituali”, i quali costituiscono ancora oggi, la vera fonte di energia dei Gesuiti e dei loro allievi.
Arrivato nel 1523 a Barcellona, Iñigo di Loyola, invece di imbarcarsi per Gerusalemme s’imbarcò per Gaeta e da qui arrivò a Roma la Domenica delle Palme, fu ricevuto e benedetto dall’olandese Adriano VI, ultimo papa non italiano fino a Giovanni Paolo II.
Imbarcatosi a Venezia arrivò in Terrasanta visitando tutti i luoghi santificati dalla presenza di Gesù; avrebbe voluto rimanere lì ma il Superiore dei Francescani, responsabile apostolico dei Luoghi Santi, glielo proibì e quindi ritornò nel 1524 in Spagna.
Intuì che per svolgere adeguatamente l’apostolato, occorreva approfondire le sue scarse conoscenze teologiche, cominciando dalla base e a 33 anni prese a studiare grammatica latina a Barcellona e poi gli studi universitari ad Alcalà e a Salamanca.
Per delle incomprensioni ed equivoci, non poté completare gli studi in Spagna, per cui nel 1528 si trasferì a Parigi rimanendovi fino al 1535, ottenendo il dottorato in filosofia.
Ma già nel 1534 con i primi compagni, i giovani maestri Pietro Favre, Francesco Xavier, Lainez, Salmerón, Rodrigues, Bobadilla, fecero voto nella Cappella di Montmartre di vivere in povertà e castità, era il 15 agosto, inoltre promisero di recarsi a Gerusalemme e se ciò non fosse stato possibile, si sarebbero messi a disposizione del papa, che avrebbe deciso il loro genere di vita apostolica e il luogo dove esercitarla; nel contempo Iñigo latinizzò il suo nome in Ignazio, ricordando il santo vescovo martire s. Ignazio d’Antiochia.
A causa della guerra fra Venezia e i Turchi, il viaggio in Terrasanta sfumò, per cui si presentarono dal papa Paolo III (1534-1549), il quale disse: “Perché desiderate tanto andare a Gerusalemme? Per portare frutto nella Chiesa di Dio l’Italia è una buona Gerusalemme”; e tre anni dopo si cominciò ad inviare in tutta Europa e poi in Asia e altri Continenti, quelli che inizialmente furono chiamati “Preti Pellegrini” o “Preti Riformati” in seguito chiamati Gesuiti.
Ignazio di Loyola nel 1537 si trasferì in Italia prima a Bologna e poi a Venezia, dove fu ordinato sacerdote; insieme a due compagni si avvicinò a Roma e a 14 km a nord della città, in località ‘La Storta’ ebbe una visione che lo confermò nell’idea di fondare una “Compagnia” che portasse il nome di Gesù.
Il 27 settembre 1540 papa Polo III approvò la Compagnia di Gesù con la bolla “Regimini militantis Ecclesiae”.
L’8 aprile 1541 Ignazio fu eletto all’unanimità Preposito Generale e il 22 aprile fece con i suoi sei compagni, la professione nella Basilica di S. Paolo; nel 1544 padre Ignazio, divenuto l’apostolo di Roma, prese a redigere le “Costituzioni” del suo Ordine, completate nel 1550, mentre i suoi figli si sparpagliavano per il mondo.
Rimasto a Roma per volere del papa, coordinava l’attività dell’Ordine, nonostante soffrisse dolori lancinanti allo stomaco, dovuti ad una calcolosi biliare e a una cirrosi epatica mal curate, limitava a quattro ore il sonno per adempiere a tutti i suoi impegni e per dedicarsi alla preghiera e alla celebrazione della Messa.
Il male fu progressivo limitandolo man mano nelle attività, finché il 31 luglio 1556, il soldato di Cristo, morì in una modestissima camera della Casa situata vicina alla Cappella di Santa Maria della Strada a Roma.
Fu proclamato beato il 27 luglio 1609 da papa Paolo V e proclamato santo il 12 marzo 1622 da papa Gregorio XV.
Si completa la scheda sul Santo Fondatore, colonna della Chiesa e iniziatore di quella riforma coronata dal Concilio di Trento, con una panoramica di notizie sul suo Ordine, la “Compagnia di Gesù”.
Le “Costituzioni” redatte da s. Ignazio fissano lo spirito della Compagnia, essa è un Ordine di “chierici regolari” analogo a quelli sorti nello stesso periodo, ma accentuante anche nella denominazione scelta dal suo Fondatore, l’aspetto dell’azione militante al servizio della Chiesa.
La Compagnia adattò lo spirito del monachesimo, al necessario dinamismo di un apostolato da svolgersi in un mondo in rapida trasformazione spirituale e sociale, com’era quello del XVI secolo; alla stabilità della vita monastica sostituì una grande mobilità dei suoi membri, legati però a particolari obblighi di obbedienza ai superiori e al papa; alle preghiere del coro sostituì l’orazione mentale.
Considerò inoltre essenziale la preparazione e l’aggiornamento culturale dei suoi membri. È governata da un “Preposito generale”.
I gradi della formazione dei sacerdoti gesuiti, comprendono due anni di noviziato, gli aspiranti sono detti ‘scolastici’, gli studi approfonditi sono inframezzati dall’ordinazione sacerdotale (solitamente dopo il terzo anno di filosofia), il giovane gesuita verso i 30 anni diventa professo ed emette i tre voti solenni di povertà, castità e obbedienza, più in quarto voto di obbedienza speciale al papa; accanto ai ‘professi’ vi sono i “coadiutori spirituali” che emettono soltanto i tre voti semplici.
Non c’è un ramo femminile né un Terz’Ordine. La spiritualità della Compagnia si basa sugli ‘Esercizi Spirituali’ di s. Ignazio e si contraddistingue per l’abbandono alla volontà di Dio espresso nell’assoluta obbedienza ai superiori; in una profonda vita interiore alimentata da costanti pratiche spirituali, nella mortificazione dell’egoismo e dell’orgoglio; nello zelo apostolico; nella totale fedeltà alla Santa Sede.
I Gesuiti non possono possedere personalmente rendite fisse, consentite solo ai Collegi e alle Case di formazione; i professi fanno anche il voto speciale di non aspirare a cariche e dignità ecclesiastiche.
Come attività, in origine la Compagnia si presentava come un gruppo missionario a disposizione del pontefice e pronto a svolgere qualsiasi compito questi volesse affidargli per la “maggior gloria di Dio”.
Quindi svolsero attività prevalentemente itinerante, facendo fronte alle più urgenti necessità di predicazione, di catechesi, di cura di anime, di missioni speciali, di riforma del clero, operante nella Controriforma e nell’evangelizzazione dei nuovi Paesi (Oriente, Africa, America).
Nel 1547, s. Ignazio affidò alla sua Compagnia, un ministero inizialmente non previsto, quello dell’insegnamento, che diventò una delle attività principali dell’Ordine e uno dei principali strumenti della sua diffusione e della sua forza, lo testimoniano i prestigiosi Collegi sparsi per il mondo.
Alla morte di s. Ignazio, avvenuta come già detto nel 1556, la Compagnia contava già mille membri e nel 1615, con la guida dei vari Generali succedutisi era a 13.000 membri, diffondendosi in tutta Europa, subendo anche i primi martiri (Campion, Ogilvie, in Inghilterra).
Ma soprattutto ebbe un’attività missionaria di rilievo iniziata nel 1541 con s. Francesco Xavier, inviato in India e nel Giappone, dove i successivi gesuiti subirono come gli altri missionari, sanguinose persecuzioni.
Più duratura fu la loro opera in Cina con padre Matteo Ricci (1552-1610) e in America Meridionale, specie in Brasile, con le famose ‘riduzioni’. Più sfortunata fu l’opera dei Gesuiti in America Settentrionale, in cui furono martiri i santi Giovanni de Brebeuf, Isacco Jogues, Carlo Garnier e altri cinque missionari.
Col passare del tempo, nei secoli XVII e XVIII i Gesuiti con la loro accresciuta potenza furono al centro di dispute dottrinarie e di violenti conflitti politico-ecclesiatici, troppo lunghi e numerosi da descrivere in questa sede; che alimentarono l’odio di tanti movimenti antireligiosi e l’astio dei Domenicani, dei sovrani dell’epoca e dei parlamentari e governi di vari Stati.
Si arrivò così allo scioglimento prima negli Stati di Portogallo, Spagna, Napoli, Parma e Piacenza e infine sotto la pressione dei sovrani europei, anche allo scioglimento totale della Compagnia di Gesù nel 1773, da parte di papa Clemente XIV.
I Gesuiti però sopravvissero in Russia sotto la protezione dell’imperatrice Caterina II; nel 1814 papa Pio VII diede il via alla restaurazione della Compagnia.
Da allora i suoi membri sono stati sempre presenti nelle dispute morali, dottrinarie, filosofiche, teologiche e ideologiche, che hanno interessato la vita morale e istituzionale della società non solo cattolica.
Nel 1850 sorse la prestigiosa e diffusa rivista “La Civiltà Cattolica”, voce autorevole del pensiero della Compagnia; altre espulsioni si ebbero nel 1880 e 1901 interessanti molti Stati europei e sud americani.
Nell’annuario del 1966 i Gesuiti erano 36.000, divisi in 79 province nel mondo e 77 territori di missione. In una statistica aggiornata al 2002, la Compagnia di Gesù annovera tra i suoi figli 49 Santi di cui 34 martiri e 147 Beati di cui 139 martiri; a loro si aggiungono centinaia di Servi di Dio e Venerabili, avviati sulla strada di un riconoscimento ufficiale della loro santità o del loro martirio.
L’alto numero di martiri, testimonia la vocazione missionaria dei Gesuiti, votati all’affermazione della ‘maggior gloria di Dio’, nonostante i pericoli e le persecuzioni a cui sono andati incontro, sin dalla loro fondazione.

Autore: Antonio Borrelli

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Our Lady of America

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Publié dans:immagini sacre |on 30 juillet, 2013 |Pas de commentaires »

GESU’ PARLA IN PARABOLE

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Meditazioni/06-07/02-Parabole_di_Gesu-1.html

 GESU’ PARLA IN PARABOLE

Le parabole narrate da Gesù sono un contenuto particolarmente caratteristico dei Vangeli. Di per sé, il termine parabola indica la curva che un oggetto descrive quando si sposta nello spazio. In senso figurato, la parabola è una forma di discorso che vuole affermare e illustrare una verità, usando un paragone, che non è di solito un oggetto o una persona, ma un fatto, un avvenimento.
Il motivo per cui si usa la forma della parabola è solitamente quello di spiegare una verità non tanto con un ragionamento, ma con un esempio, che illumina la mente e la fantasia di chi ascolta e gli facilita la comprensione. I ragionamenti sono astratti, i racconti sono concreti; comprendendo meglio la concretezza della narrazione, si giunge ad afferrare con maggiore precisione l’insegnamento.

Gesù spiega perché usa le parabole
Possiamo pensare che Gesù abbia talvolta usato la parabola per farsi capire meglio dagli uditori, ma il vero motivo per cui Gesù usava le parabole ce lo indica egli stesso. Ne parlano Matteo (13,10-17), Marco (4,10-12) e Luca (8,9-10). Essi attribuiscono a Gesù questa spiegazione, data in occasione della prima parabola che egli narra e che si riferisce al seminatore che getta il seme in diversi terreni, ricavandone frutti più o meno copiosi. Seguiamo il testo di Matteo (da notare che tutti e tre i Sinottici pongono il motivo tra il racconto della parabola e la spiegazione che ne darà Gesù):

Si avvicinarono a Gesù i discepoli e gli dissero:
«Perché parli loro1 per mezzo di parabole?”. Rispose Gesù: “Perché a voi è dato conoscere i segreti del Regno dei Cieli, mentre a quelli non è dato. Infatti, a chi ha sarà dato e avrà in abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quel poco che pure ha. Per questo parlo loro per mezzo di parabole: essi guardano senza vedere e ascoltano senza intendere né capire”. Così si realizza per loro la profezia di Isaia che dice: “Ascolterete ma senza comprendere; guarderete ma senza vedere. Perché la mente di questo popolo si è fatta ottusa; si sono turati gli orecchi e hanno chiuso gli occhi per non dover vedere con gli occhi, udire con le orecchie, capire con la mente e ritornare a me (dice il Signore). Io li avrei guariti!”.
Beati invece voi, perché i vostri occhi vedono e le vostre orecchie intendono! Ve l’assicuro, molti profeti e molti giusti, pur desiderandolo, non hanno veduto ciò che voi vedete e non hanno udito ciò che voi udite».

Accogliere per comprendere
Gesù è venuto sulla terra per dirci tutta la verità su Dio e sul Regno di Dio. In fondo, siamo stati creati proprio per questo! Siamo stati fatti “a immagine e somiglianza di Dio” (cf Genesi 1,26), proprio per poter comprendere il perché della nostra esistenza e del nostro stesso destino, e per poter giungere, così, a partecipare alla stessa vita di Dio, vedendolo “faccia a faccia”. Ma un dono così grande, diciamo pure infinito – che spiega tutta la creazione e tutta la storia – non può essere dato se non a chi dimostra di volerlo accogliere con cuore sincero e generoso. Ecco perché Gesù – è ancora Matteo che ce lo riferisce – si esprime così rivolgendosi al Padre: “Ti benedico, Padre, Signore del cielo e della terra,perché hai nascosto queste cose (i Misteri del Regno dei Cieli) ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, è così che tu hai voluto nella tua benevolenza” (Matteo 11,25-26).
Gesù è venuto nel mondo per rivelarci i Misteri di Dio, ma molti esseri umani – nel loro orgoglio e nella loro presunzione – hanno chiuso gli occhi davanti alla verità. Per questo motivo il Signore non ha potuto accoglierli. Ancora oggi, c’è tantissima gente che si permette di giudicare Dio e di accettarlo solo e in quanto essi, povere creature, lo giudicano credibile. È questo l’immenso dramma della storia. Se la verità di Dio stenta a diffondersi, non è a motivo della infinita superiorità dei Misteri, ma per la cocciutaggine dei superbi che non accettano i paradossi di Dio, cioè quegli insegnamenti che – per la loro infinita superiorità – noi non riusciamo a comprendere, se non siamo piccoli e umili.
Di fronte a questa opposizione, che fu già presente in vari momenti della storia di Israele e che fu combattuta dai profeti, non ultimo Isaia, di cui Gesù stesso cita le parole, Gesù ha un solo modo di reagire: si rivolge ai piccoli e agli umili, e questi lo accolgono.

La pedagogia delle parabole
Analizziamo la mente e il cuore di coloro che si fidano solo di se stessi e non accettano la verità come regola del sapere e dell’agire: essi cercano solo di emergere e di affermarsi; nel giudicare fatti e parole si lasciano guidare dalla propria presunzione e si danno ragione da se stessi. Non accettano di lasciarsi guidare da Dio.
Le parabole – attraverso il racconto di fatti facilmente riconoscibili – mettono in evidenza la logica della verità, cioè la logica di Dio sommo Bene e unico Creatore, la logica che è alla base e nel cuore di tutto il creato, e dell’agire dell’uomo retto (che accoglie Dio con tutto il suo essere).
Così, accettando gli insegnamenti offertici dalle parabole, noi arriviamo a penetrare nel Cuore di Cristo, a partecipare ai doni di Dio! Le parabole non sono un sotterfugio per nascondere le verità difficilmente accettabili! Al momento buono, Gesù parla senza parabole, con estrema chiarezza e senza timore di crearsi dei nemici (che lo condurranno fino alla morte di croce). Ma prima occorre preparare il terreno e suggerire sincere, gioiose e generose disposizioni.
Anche l’affermazione di Gesù «A chi ha sarà dato e sarà dato in abbondanza, e a chi non ha sarà tolto anche quel poco che crede di avere» deve farci riflettere: tutto il vero, il giusto, il buono, a noi è “dato”, non siamo noi a conquistarcelo con i nostri mezzi! È così bello riconoscere il “dono” di Dio… e lodarlo e benedirlo in eterno!
Con questo animo, riusciremo a entrare non solo nel cuore di ogni parabola, ma nel cuore stesso di Cristo, che nelle parabole ci dà una viva immagine della sua sapienza e del suo amore!

Don Rodolfo Reviglio

1 Gesù distingue due tipi di uditori: i suoi discepoli (gruppo più ristretto, cioè gli apostoli e altri che lo seguivano di frequente) e la folla, nella quale erano presenti e attivi gli scribi e i farisei.

« DALLA MATERNITÀ DI MARIA È DIFESA LA SALVEZZA DELL’UOMO »

http://www.zenit.org/it/articles/dalla-maternita-di-maria-e-dipesa-la-salvezza-dell-uomo

« DALLA MATERNITÀ DI MARIA È DIFESA LA SALVEZZA DELL’UOMO »

OMELIA DELL’ARCIVESCOVO CREPALDI IN OCCASIONE DELLA SOLENNITÀ DI MARIA SANTISSIMA MADRE DI DIO

Trieste, 02 Gennaio 2013 (Zenit.org)

Pubblichiamo di seguito il testo dell’omelia che l’Arcivescovo di Trieste, mons. Giampaolo Crepaldi, ha pronunciato ieri mattina nella cattedrale di San Giusto nel corso della Celebrazione Eucaristica nella Solennità di Maria Santissima Madre di Dio.

***
Carissimi fratelli e sorelle,
In questa giornata di festa, la Chiesa ci invita ad onorare la Vergine Maria con il titolo di Madre di Dio. « Dio mandò il suo Figlio, nato da donna » (Gal 4,4): senza Maria non avremmo avuto Gesù. Egli ci viene offerto, donato, non solo dal Padre, ma anche dalla Vergine. A questo riguardo, San Bernardo di Chiaravalle scrisse una straordinaria meditazione: « Hai udito, Vergine, che concepirai e partorirai un figlio; hai udito che questo avverrà non per opera di un uomo, ma per opera dello Spirito Santo. L’angelo aspetta la risposta; deve fare ritorno a Dio che l’ha inviato…
Tutto il mondo è in attesa, prostrato alle tue ginocchia: dalla tua bocca dipende la consolazione dei miseri, la redenzione dei prigionieri, la liberazione dei condannati, la salvezza di tutti i figli di Adamo, di tutto il genere umano… O Vergine, dà presto la risposta… Apri, Vergine beata, il cuore alla fede, le labbra all’assenso, il grembo al Creatore. Ecco che colui al quale è volto il desiderio di tutte le genti batte fuori alla porta.
Non sia, che mentre tu sei titubante, egli passi oltre e tu debba, dolente, ricominciare a cercare colui che ami. Levati su, corri, apri! Levati con la fede, corri con la devozione, apri con il tuo assenso. “Eccomi”, dice, “sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Lc 1, 38) ». Dalla maternità di Maria è dipesa la salvezza dell’uomo. La libera accettazione di quella maternità è stata la porta della salvezza. Liberamente Dio ha chiesto, si potrebbe dire, il permesso a Maria per entrare nel mondo e, da quel momento, si è anche manifestata in pienezza la suprema dignità della donna.
Carissimi, la generazione di Gesù è stata la ragion d’essere di tutta la vita di Maria. In questo modo, Essa ci indica il motivo profondo del vivere: nessuno vive per se stesso, né muore per se stesso, ma abbiamo la vita per offrirla nell’amore. E non c’è amore più grande che far amare questo Bambino che è l’origine e la salvezza di tutto e di tutti. Contemplando la divina maternità di Maria, la Chiesa riscopre che anche oggi Gesù deve essere generato nel mondo.
La maternità di Maria continua nella maternità della Chiesa, chiamata a generare figli che siano ad immagine e somiglianza del Figlio di Maria, Gesù Cristo nostro Signore. Molti presumono di poter trovare Cristo da soli, al di fuori del compito generativo e materno della Chiesa. Si tratta di una illusione erronea, perché solo la Chiesa possiede i beni necessari e indispensabili, come la Parola e i sacramenti, per generarci alla vita cristiana e per farci Figli di Dio.
Il brano del Vangelo che è stato proclamato oggi ci avverte appunto che la fede non nasce dalla ricerca dell’uomo, bensì dallo stupore di un evento: « Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori ». Nel Natale e nella festa della maternità di Maria, tutti siamo invitati allo stupore, alla meraviglia, per qualcosa che “occhio non aveva visto, né orecchio aveva mai udito”.
Carissimi fratelli e sorelle, la Chiesa ama e venera Maria, perché sa che porla al centro dell’attenzione è la via maestra per giungere al Gesù reale, vero uomo e vero Dio. Questa santa verità è particolarmente significativa in questa Giornata dedicata dalla Chiesa alla Pace. Per l’occasione il Santo Padre Benedetto XVI ha reso pubblico un suo Messaggio dove, tra l’altro, mette in risalto il senso profondo dell’Incarnazione di Gesù e il compito generativo e materno della Chiesa.
Scrive il Papa: « Dio stesso, mediante l’incarnazione del Figlio e la redenzione da Lui operata, è entrato nella storia facendo sorgere una nuova creazione e una nuova alleanza tra Dio e l’uomo (cfr Ger 31,31-34), dandoci la possibilità di avere un cuore nuovo e uno spirito nuovo (cfr Ez 36,26). Proprio per questo, la Chiesa è convinta che vi sia l’urgenza di un nuovo annuncio di Gesù Cristo, primo e principale fattore dello sviluppo integrale dei popoli e anche della pace. Gesù, infatti, è la nostra pace, la nostra giustizia, la nostra riconciliazione (cfr Ef 2,14; 2 Cor 5,18). L’operatore di pace, secondo la beatitudine di Gesù, è colui che ricerca il bene dell’altro, il bene pieno dell’anima e del corpo, oggi e domani » (n. 3).
Ringraziamo Maria, porta della redenzione dell’umanità, nuova Eva, madre della nuova creazione in Gesù Cristo. Ringraziamo Dio Padre che, nella pienezza del tempo, mandò suo Figlio, nato da donna, « perché ricevessimo l’adozione a figli » (Gal 4,5). Davvero il bambino di Betlemme è divenuto benedizione di Dio per tutti gli uomini. Ci sostenga Maria, la Madre di Dio, a porre dinanzi al Figlio suo Gesù gli eventi che accadranno nell’anno appena iniziato, implorandola a rendere pronta la Santa Madre Chiesa di Trieste a generare in ogni circostanza il Cristo, Salvatore del mondo e Principe della Pace.

Publié dans:Maria Vergine |on 30 juillet, 2013 |Pas de commentaires »

Statua raffigurante Santa Marta

Statua raffigurante Santa Marta dans immagini sacre 225px-St_Martha_penitents_MNMA_Cl22763

http://it.wikipedia.org/wiki/Marta_di_Betania

 

 

Publié dans:immagini sacre |on 29 juillet, 2013 |Pas de commentaires »

29 LUGLIO: SANTA MARTA DI BETANIA

http://www.santiebeati.it/dettaglio/23750

SANTA MARTA DI BETANIA

29 LUGLIO

SEC. I

Marta è la sorella di Maria e di Lazzaro di Betania. Nella loro casa ospitale Gesù amava sostare durante la predicazione in Giudea. In occasione di una di queste visite conosciamo Marta. Il Vangelo ce la presenta come la donna di casa, sollecita e indaffarata per accogliere degnamente il gradito ospite, mentre la sorella Maria preferisce starsene quieta in ascolto delle parole del Maestro. L’avvilita e incompresa professione di massaia è riscattata da questa santa fattiva di nome Marta, che vuol dire semplicemente «signora». Marta ricompare nel Vangelo nel drammatico episodio della risurrezione di Lazzaro, dove implicitamente domanda il miracolo con una semplice e stupenda professione di fede nella onnipotenza del Salvatore, nella risurrezione dei morti e nella divinità di Cristo, e durante un banchetto al quale partecipa lo stesso Lazzaro, da poco risuscitato, e anche questa volta ci si presenta in veste di donna tuttofare. I primi a dedicare una celebrazione liturgica a S. Marta furono i francescani, nel 1262. (Avvenire)

Patronato: Casalinghe, Domestiche, Albergatori, Osti, Cuochi, Cognate
Etimologia: Marta = palma, dall’aramaico o variante di Maria

Emblema: Chiavi, Mestolo, Scopa, Drago
Martirologio Romano: Memoria di santa Marta, che a Betania vicino a Gerusalemme accolse nella sua casa il Signore Gesù e, alla morte del fratello, professò: «Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo».

Marta è la sorella di Maria e di Lazzaro di Betania, un villaggio a circa tre chilometri da Gerusalemme. Nella loro casa ospitale Gesù amava sostare durante la predicazione in Giudea. In occasione di una di queste visite compare per la prima volta Marta. Il Vangelo ce la presenta come la donna di casa, sollecita e indaffarata per accogliere degnamente il gradito ospite, mentre la sorella Maria preferisce starsene quieta in ascolto delle parole del Maestro. Non ci stupisce quindi il rimprovero che Marta muove a Maria: « Signore, non t’importa che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti ».
L’amabile risposta di Gesù può suonare come rimprovero alla fattiva massaia: « Marta, Marta, tu t’inquieti e ti affanni per molte cose; una sola è necessaria: Maria invece ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta ». Ma rimprovero non è, commenta S. Agostino: « Marta, tu non hai scelto il male; Maria ha però scelto meglio di te ». Ciononostante Maria, considerata il modello evangelico delle anime contemplative già da S. Basilio e S. Gregorio Magno, non sembra che figuri nel calendario liturgico: la santità di questa dolce figura di donna è fuori discussione, poiché le è stata confermata dalle stesse parole di Cristo; ma è Marta soltanto, e non Maria né Lazzaro, a comparire nel calendario universale, quasi a ripagarla delle sollecite attenzioni verso la persona del Salvatore e per proporla alle donne cristiane come modello di operosità.
L’avvilita e incompresa professione di massaia è riscattata da questa santa fattiva di nome Marta, che vuol dire semplicemente « signora ». Marta ricompare nel Vangelo nel drammatico episodio della risurrezione di Lazzaro, dove implicitamente domanda il miracolo con una semplice e stupenda professione di fede nella onnipotenza del Salvatore, nella risurrezione dei morti e nella divinità di Cristo, e durante un banchetto al quale partecipa lo stesso Lazzaro, da poco risuscitato, e anche questa volta ci si presenta in veste di donna tuttofare. La lezione impartitale dal Maestro non riguardava, evidentemente, la sua encomiabile laboriosità, ma l’eccesso di affanno per le cose materiali a scapito della vita interiore. Sugli anni successivi della santa non abbiamo alcuna notizia storicamente accertabile, pur abbondando i racconti leggendari. I primi a dedicare una celebrazione liturgica a S. Marta furono i francescani, nel 1262, il 29 luglio, cioè otto giorni dopo la festa di S. Maria Maddalena, impropriamente identificata con sua sorella Maria.

Publié dans:Santi |on 29 juillet, 2013 |Pas de commentaires »

GIOVANNI PAOLO II – UDIENZA GENERALE 1987 : (SULLA SAPIENZA, ANTICO E NUOVO TESTAMENTO)

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/1987/documents/hf_jp-ii_aud_19870422_it.html

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 22 aprile 1987

(SULLA SAPIENZA, ANTICO E NUOVO TESTAMENTO)

1. Nell’Antico Testamento si sviluppò e fiorì una ricca tradizione di dottrina sapienziale. Sul piano umano essa manifesta la sete dell’uomo di coordinare i dati delle sue esperienze e delle sue conoscenze per orientare la propria vita nel modo più proficuo e saggio. Da questo punto di vista Israele non si discosta dalle forme sapienziali presenti in altre culture dell’antichità, ed elabora una propria sapienza di vita, che abbraccia i vari settori dell’esistenza: individuale, familiare, sociale, politico.
Questa medesima ricerca sapienziale, però, non fu mai disgiunta dalla fede nel Signore, Dio dell’esodo, e ciò era dovuto alla convinzione, sempre presente nella storia del popolo eletto, che solo in Dio risiedeva la sapienza perfetta. Per questo il “timore del Signore”, cioè l’orientamento religioso e vitale verso di lui, fu ritenuto il “principio”, il “fondamento”, la “scuola” della vera sapienza (Pr 1, 7; 9, 10; 15, 33).
2. Sotto l’influsso della tradizione liturgica e profetica il tema della sapienza si arricchisce di un singolare approfondimento giungendo a permeare tutta quanta la Rivelazione. Dopo l’esilio infatti, si comprende sempre più chiaramente che la sapienza umana è un riflesso della sapienza divina, che Dio “ha diffuso su tutte le sue opere, su ogni mortale, secondo la sua generosità” (Sir 1, 7-8). Il momento più alto dell’elargizione della sapienza avviene con la rivelazione al popolo eletto, al quale il Signore fa conoscere la sua parola (Dt 30, 14). Anzi la sapienza divina, conosciuta nella forma più piena di cui l’uomo è capace, è la Rivelazione stessa, la “Torah”, “il libro dell’alleanza del Dio altissimo” (Sir 24, 22).
3. La sapienza divina appare, in questo contesto, come il disegno misterioso di Dio che è all’origine della creazione e della salvezza. Essa è la luce che tutto illumina, la parola che rivela, la forza d’amore che congiunge Dio alla sua creazione e al suo popolo. La sapienza divina non è considerata una dottrina astratta, ma una persona che proviene da Dio: è vicina a lui “fin dal principio” (Pr 8, 23), è la sua delizia nel momento della creazione del mondo e dell’uomo, durante la quale si diletta davanti a lui (cf. Pr 8, 22-31).
Il testo del Siracide riprende questo motivo e lo sviluppa delineando la sapienza divina che trova il suo luogo di “riposo” in Israele e si stabilisce in Sion (Sir 24, 3-12), indicando in tal modo che la fede del popolo eletto costituisce la via più sublime per entrare in comunione con il pensiero e il disegno di Dio. Ultimo frutto veterotestamentario di questo approfondimento è il Libro della Sapienza, redatto poco prima della nascita di Gesù. In esso la sapienza divina è definita “emanazione della potenza di Dio, riflesso della luce perenne, uno specchio senza macchia dell’attività di Dio e un’immagine della sua bontà”, fonte dell’amicizia divina e della stessa profezia (Sap 7, 25-27).
4. A questo livello di simbolo personalizzato del disegno divino, la Sapienza è una figura con cui si prospetta l’intimità della comunione con Dio e l’esigenza di una risposta personale d’amore. La Sapienza appare perciò come la sposa (Pr 4, 6-9), la compagna della vita (Pr 6, 22; 7,4). Essa, con le motivazioni profonde dell’amore, invita l’uomo alla sua comunione e quindi alla comunione con il Dio vivente. Questa comunione è descritta con l’immagine liturgica del banchetto: “Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato per voi” (Pr 9,5): un’immagine che l’apocalittica riprenderà per indicare la comunione eterna con Dio, quando egli stesso avrà eliminato la morte per sempre (Is 25, 6-7).
5. Alla luce di questa tradizione sapienziale possiamo meglio comprendere il mistero di Gesù Messia. Già un testo profetico del Libro di Isaia parla dello spirito del Signore che si poserà sul Re–Messia e caratterizza questo spirito anzitutto come “spirito di sapienza e intelligenza” e infine come “spirito di conoscenza e di timore del Signore” (Is 11, 2).
Nel Nuovo Testamento sono vari i testi che presentano Gesù ricolmo della divina sapienza. Il Vangelo dell’infanzia secondo san Luca insinua il ricco significato della presenza di Gesù fra i dottori nel tempio, dove “tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza” (Lc 2, 47), e riassume la vita nascosta a Nazaret con le note parole: “E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini” (Lc 2, 52).
Durante gli anni del ministero di Gesù il suo insegnamento suscitava sorpresa e stupore: “E molti ascoltando rimanevano stupiti e dicevano: “Donde gli vengono queste cose? Che sapienza è mai questa che gli è stata data?”” (Mc 6, 2).
Questa sapienza, che proveniva da Dio, conferiva a Gesù un particolare prestigio; “egli infatti insegnava come uno che ha autorità e non come gli scribi” (Mt 7, 29), per questo egli si presenta come colui che “è più di Salomone” (Mt 12, 42). Essendo Salomone la figura ideale di chi ha ricevuto la sapienza divina, ne segue che in queste parole Gesù appare esplicitamente come la vera Sapienza rivelata agli uomini.
6. Questa identificazione di Gesù con la Sapienza è affermata con singolare profondità dall’apostolo Paolo. Il Cristo, egli scrive, “per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione” (1 Cor 1, 30). Gesù, anzi, è la “sapienza che non è di questo mondo… che Dio ha preordinato prima dei secoli per la nostra gloria” (1 Cor 2, 6-7). La “Sapienza di Dio” è identificata con il Signore della gloria che è stato crocifisso. Nella croce e nella risurrezione di Gesù si rivela dunque, in tutto il suo fulgore il disegno misericordioso di Dio, che ama e perdona l’uomo al punto di renderlo una nuova creatura. La sacra Scrittura parla anche di un’altra sapienza che non viene da Dio, la “sapienza di questo mondo”, l’orientamento dell’uomo che rifiuta di aprirsi al mistero di Dio, che presume di essere l’artefice della propria salvezza. Ai suoi occhi la croce appare una stoltezza o una debolezza, ma chi ha la fede in Gesù, Messia e Signore, sperimenta con l’Apostolo che “ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1 Cor 1, 25).
7. Il Cristo è contemplato sempre più profondamente come la vera “Sapienza di Dio”. Così egli è proclamato, con chiaro riferimento al linguaggio dei libri sapienziali, “immagine del Dio invisibile”, “generato prima di ogni creatura”, colui per mezzo del quale tutte le cose sono state create e nel quale sussistono (cf. Col 1, 15-17); egli, in quanto Figlio di Dio, è “irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e tutto sostiene con la potenza delta sua parola” (Eb 1, 3).
La fede in Gesù, Sapienza di Dio, conduce a una “conoscenza piena” della volontà divina, “con ogni sapienza e intelligenza spirituale”, e rende possibile comportarsi “in maniera degna del Signore, per piacergli in tutto, portando frutto in ogni opera buona e crescendo nella conoscenza di Dio” (Col 1, 9-10).
8. Dal canto suo l’evangelista Giovanni, richiamandosi alla Sapienza descritta nella sua intimità con Dio, parla del Verbo che era in principio, presso Dio, e confessa che “il Verbo era Dio” (Gv 1, 1). La sapienza, che l’Antico Testamento era giunto a equiparare alla parola di Dio, viene ora identificata con Gesù, il Verbo che “si è fatto carne e ha posto la sua tenda in mezzo a noi” (Gv 1, 14). Come la Sapienza anche Gesù, Verbo di Dio, invita al banchetto della sua parola e del suo corpo, perché egli è “il pane della vita” (Gv 6, 48) dona l’acqua viva dello Spirito (Gv 4, 10; 7, 37-39) ha “parole di vita eterna” (Gv 6, 68). In tutto questo Gesù è veramente “più di Salomone”, perché non solo compie in modo pieno la missione della Sapienza di mostrare e comunicare la via, la verità e la vita, ma egli stesso è “la via, la verità e la vita” (Gv 14, 6), è la rivelazione somma di Dio nel mistero della sua paternità (Gv 1, 18; 17, 6).
9. Questa fede in Gesù, rivelatore del Padre, costituisce l’aspetto più sublime e consolante della lieta novella. Questa è appunto la testimonianza che ci giunge dalle prime comunità cristiane, nelle quali continuava a risuonare l’inno di lode che Gesù aveva innalzato al Padre, benedicendolo perché nel suo beneplacito aveva rivelato “queste cose” ai piccoli.
La Chiesa è cresciuta lungo i secoli con questa fede: “Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11, 27). In definitiva Dio, rivelandoci il Figlio mediante lo Spirito, ci manifesta il suo disegno, la sua sapienza, la ricchezza della sua grazia “riversata su di noi con ogni sapienza e intelligenza” (Ef 1, 8).

Gesù insegna ai discepoli il Padre Nostro

Gesù insegna ai discepoli il Padre Nostro dans immagini sacre jesus-teaching-how-to-pray
http://www.pointwithinacircle.com/

Publié dans:immagini sacre |on 27 juillet, 2013 |Pas de commentaires »
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