Jesus and his disciples

http://www.padresalvatore.altervista.org/Salmo16.htm
SALMO 16 (15) FIDUCIA, OLTRE LA MORTE.
Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio.
Ho detto a Dio: «Sei tu il mio Signore,
senza di te non ho alcun bene».
Per i santi, che sono sulla terra,
uomini nobili, è tutto il mio amore.
Si affrettino altri a costruire idoli:
io non spanderò le loro libagioni di sangue
né pronunzierò con le mie labbra i loro nomi.
Il Signore è mia parte di eredità e mio calice:
nelle tue mani è la mia vita.
Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi,
è magnifica la mia eredità.
Benedico il Signore che mi ha dato consiglio;
anche di notte il mio cuore mi istruisce.
Io pongo sempre innanzi a me il Signore,
sta alla mia destra, non posso vacillare.
Di questo gioisce il mio cuore,
esulta la mia anima;
anche il mio corpo riposa al sicuro,
perché non abbandonerai la mia vita nel sepolcro,
né lascerai che il tuo santo veda la corruzione.
Mi indicherai il sentiero della vita,
gioia piena nella tua presenza,
dolcezza senza fine alla tua destra.
VERSIONE DI D.M. TUROLDO
Fa’ che il tuo cuore sia la mia custodia,
ove riponga tranquillo la fiducia, Signore.
Ho detto a Dio: Signore,
tu sei il mio unico bene.
Non più simulacri di santi,
potenze profane adorate sulla terra:
sequela di idolo, di un dio straniero,
molta pena con sé comporta.
Non più verserò le lor libagioni di sangue,
né il lor nome infetti più la mia bocca.
E’ lui, il Signore, la mia porzione,
mio calice, mio destino.
Delizioso è quanto mi hai dato in sorte,
veramente splendida è la mia eredità.
Benedico il Signore che la mente m’ispira
e i reni miei illumina pure la notte.
Sono fissi al Signore gli occhi miei per sempre,
con lui a fianco, incertezza non scuote.
Gioiscono cuore e sensi per questo e tripudiano:
tutto il mio essere riposa sicuro.
Non è da te abbandonare una vita agli Inferi,
lasciare che la fossa inghiotti un fedele.
Tu la via alla vita m’insegnerai:
oh, la gioia al vedere il tuo volto,
solo gioia lo starti vicino!
IL SAL 16 (15) È UN SALMO DI FIDUCIA.
La speranza che esso esprime, la potremmo chiamare “neotestamentaria”, perché sa sfidare il limite invalicabile dello Sheol e della stessa morte.
La tradizione cristiana ha considerato il Sal 16 messianico. L’Apostolo Pietro, dopo la Pentecoste, utilizzò i vv. 8-11 nella sua apologia del Cristo risorto (At 2,25-28.31); e Paolo, argomentò in modo analogo, citando lo stesso salmo, nel suo discorso nella sinagoga d’Antiochia di Pisidia (At 13,35).
In questa prospettiva il salterio monastico utilizza questo salmo per i primi vespri della Domenica, anticipando, con ciò, il mistero della risurrezione che si celebra nella Pasqua settimanale.
Il Salterio romano usa il salmo 15 (16) per la compieta del giovedì, ponendo l’accento sul tema della fiducia, presente nel salmo e nell’ora liturgica celebrata.
Il lezionario dei Santi lo applica a san Francesco e ad altri Santi Religiosi che hanno scelto Dio come “unico bene”.
Il testo liturgico attuale deriva dalla versione greca dei LXX, secondo l’uso degli Atti degli Apostoli. Anche così, possiamo dare a questo salmo il titolo “Il canto della mistica” (G. F. RAVASI), perché narra un’esperienza assolutizzante di Dio, quale, appunto fu quella di Francesco d’Assisi.
Stando al testo ebraico, cui si rifà la versione di TUROLDO, l’esperienza religiosa descritta dal salmo, è più tormentata e sofferta, perché è la narrazione della crisi di fede di un levita che è ritornato al suo Dio, dopo un periodo d’apostasia e di sincretismo. “I santi”, cui si sono versate “libagioni di sangue”, sono i Baal il cui culto prevedeva anche il sacrificio cruento dei primogeniti.
Più che un salmo francescano, risulta essere, allora, una confessione agostiniana. Il Salmista potrebbe dire con il Vescovo d’Ippona: “Tardi t’amai Bellezza sempre antica e sempre nuova. Tardi t’amai!”.
“Adonai, tu sei il mio TOV”
Dio tu sei il mio bene, la bontà che mi avvolge, la bellezza che mi affascina (v. 2). Dio è ora percepito come “il bene”, “la Bontà”, nel senso precisato da Gesù nella risposta al “giovane ricco” in Mc 10,18 e Mt 1917. Chi ha incontrato il Signore, scopre che tutti gli altri valori possono e debbono essere “venduti” per Lui (Mc 10,21).
“Adonai, tu sei il mio TOV!” Tradotto in latino: “O Bonitas!”. È l’esclamazione con cui il fondatore della Certosa, san Bruno, esprimeva la sua esperienza di Dio. È l’esperienza che lo Spirito Santo cerca di suggerire ad ognuno di noi.
Non più… non più… non più… (v. 3-4).
Il sì radicale detto a Dio suppone la rinuncia a tutto ciò che non è Dio. Richiede uno stacco definitivo dal passato idolatrico e sincretista (cf. 1Re 14,22-24) che hanno portato (forse) il sacerdote che prega nel salmo, fino alle “libagioni di sangue”, cioè al sacrificio cruento dei primogeniti (cf. Sal 106,35-38). La crisi, superata con una vera conversione, è stata molto più terribile di quella descritta da un altro Levita, nel Sal 73,28.
Adesso, però, anche la sola invocazione dei nomi dei Baal (che è una forma d’adesione all’idolo), sarà evitata. Ora la sua bocca canterà soltanto le lodi del Dio d’Israele.
“Il Signore è mia parte d’eredità” (v. 5).
È questo il corrispettivo dell’appartenenza reciproca (l’Alleanza) rinnovata tra il Signore e l’orante.
“Il Signore… i reni miei illumina pure la notte” (v. 7).
Dio è un patner serio. Da adesso in poi guida il suo fedele e fa in modo che la sua coscienza ( i “reni” come sede dell’emotività) suggerisca azioni conformi alla Legge divina. La stessa trasmissione della vita (altro significato dei reni) è guidata e protetta dall’intervento personale di Dio.
“Il Signore, sta alla mia destra” (v. 8).
A differenza dei Baal di cui toccavi solo un simulacro, l’invisibile Jhwh è un Dio di cui percepisci la presenza e la cui vicinanza non t’atterrisce, anzi ti dà pace e serenità.
“Non abbandonerai la mia vita nello Sheol” (v. 9).
L’uomo è fatto di fango ed è votato alla morte (cf. Gen 3,19); tuttavia se nei confronti di Dio è un fedele (chasid), il Signore lo strapperà dalle fauci dello Sheol. Così la morte non potrà dichiarare di aver vinto definitivamente sul credente. La fossa (Ebraico: shachat), non sarà automaticamente “corruzione” (Greco: diaphtorà, come traduce la LXX, ripresa dai testi citati dagli Atti degli Apostoli).
Oh, la gioia al vedere il tuo volto! (v. 11b).
Vedere il volto di Dio è un modo per dire di essere nel Tempio, dove c’è gioia e delizia, sempre.
“Senza fine alla tua destra” (v. 11c).
È Cristo che canta. Lui che s’è assiso, per sempre, alla destra del Padre, in nostro favore (cf. Rm 8,34; Eb 10,12; 1Pt 3,22).
Preghiera
Dio, fonte d’ogni intelligenza e luce che illumini i cuori,
se tu ci accompagni nel nostro cammino,
a nessun’incertezza soccomberemo:
e quando saremo al termine del lungo viaggio,
riposeremo senza fine in te,
che sei la sola ragione della nostra gioia. Amen.
(David Maria Turoldo)
30 GIUGNO 2013 | 13A DOMENICA – TEMPO ORDINARIO C | OMELIA DI APPRODONDIMENTO
MI INDICHERAI IL SENTIERO DELLA VITA
Il brano di oggi apre una lunga sezione del vangelo di Luca che presenta con insistenza Gesù insieme con i suoi discepoli in viaggio verso Gerusalemme. Qui si compirà l’evento centrale della storia della salvezza, cioè la sua morte – risurrezione – ascensione e l’effusione dello Spirito Santo.
« Si diresse decisamente verso Gerusalemme ». Queste parole indicano la decisione che Gesù prende ferma e irrevocabile, anche se sofferta, di percorrere fino in fondo la via tracciata dal Padre, per attuare il suo disegno di amore. Lungo il cammino incontra il rifiuto dei Samaritani, come già aveva sperimentato quello dei suoi concittadini di Nazaret. Il rifiuto di Gesù da parte dei sanaritani è dato per un motivo politico e razziale, a lui del tutto estraneo. Gesù ha provato personalmente che cosa significa vedersi negare l’ospitalità perché straniero, ma all’intolleranza dei samaritani egli non risponde, come avrebbero voluto i discepoli, con un castigo, bensì con la comprensione. Non condivide la loro reazione e i loro propositi violenti, li rimprovera aspramente. Propone agli uomini di accoglierlo, ma non forza la libertà di nessuno.
« Mentre andavano per la strada ». In questo quadro di una comunità itinerante abbiamo un’immagine viva della Chiesa di tutti i tempi. I membri di questa comunità Gesù vuole legarli a sé in un rapporto esistenziale sempre più profondo e e più vero. Quali sono le condizioni, ci possiamo chiedere, che pone a chi intende essere suo discepolo? Ce lo rivela il senso delle tre scene che si susseguono. Il verbo « seguire » le collega strettamente. Nella prima scena l’iniziativa parte dall’uomo: un tale propone la sua candidatura a discepolo. Stupisce il fatto che Gesù non la approvi con entusiasmo. Al contrario, sembra scoraggiarlo. Lo invita a calcolare i rischi dell’impresa. E’ come se gli dicesse: Pensaci bene! Io sono un « senza fissa dimora », meno sicuro delle volpi e degli uccelli, che un posto per ripararsi l’hanno; non so nemeno dove dormirò di notte. Sono un « ricercato », un braccato. La mia è una situazione precaria, senza alleanze né protezioni. Non ti posso offrire nessuna garanzia sociale. Se decidi di seguirmi, condividendo la mia destinazione, non ti devi fare illusioni; devi essere pronto allo sradicamento più totale, all’insicurezza quotidiana. Però… avrai me, sarai con me! Solo Io dovrò bastarti, e ti basterò. Quale tesoro più grande?
Seconda scena: l’iniziativa parte da Gesù, che chiama uno a diventare suo discepolo. Il chiamato manifesta la sua disponibilità, ma per il momento ha l’obbligo della legge di assistere il vecchio padre. Glielo impone un comandamento del Decalogo: « Onora tuo padre e tua madre ». La risposta di Gesù è dura e sorprendente: « Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va’ e annunzia il Regno di Dio » Quando si tratta di seguire Gesù, i doveri più sacri verso i genitori, che la legge di Dio imponeva nella forma più categorica, vengono meno. Il rapporto con Lui vale più di ogni altro legame. C’è un’opera molto più importante e urgente: in Gesù è arrivato il Regno di Dio e occorre annunziarlo senza esitazione né ritardi. Il Regno, cioè l’irruzione definitiva dell’amore di Dio che salva l’uomo e fa tutto nuovo, è una novità assoluta. Con ciò Gesù, non intende abolire un importante dettato della legge, né correggerla. Afferma però che è arrivato qualcosa che la supera. È venuto il Regno di Dio, il cui primato non ammette dilazioni. Certamente si tratta di un linguaggio paradossale. Non è questione di seppellire o no i propri cari. È questione di accorgersi che è arrivata una novità del tutto speciale e incominciare ad orientare il proprio vivere su di essa.
Nella terza scena uno si candida al discepolato, ma con una disponibilità condizionata: « Ti seguirò, Signore, ma prima lascia che io mi congedi da quelli di casa ». Eliseo, chiamato da Elia come abbiamo ascoltato nella prima lettura, ottiene di andare a salutare i suoi e di organizzare una festa. Gesù è molto più esigente: una volta preso l’impegno con Lui, non si deve più guardare indietro rimpiangendo o riprendendosi il dono di sé. L’adesione a Gesù è senza ripensamenti nostalgici, vissuta in fedeltà totale alla sua persona. Con un linguaggio volutamente paradossale e provocatorio Gesù desidera comunicarci una convinzione, una certezza: per il suo discepolo Egli è l’unico valore che conta nella vita. Gesù non si accontenta di occupare un angolino, ma vuole l’intero spazio della nostra esistenza. Non possiamo, seguendo la propria personale vocazione, dare la vita a Cristo in prova e nemmeno col contagocce, la sequela è esigente e totalizzante.
Questa pretesa che Gesù ha, che rivendica nei suoi confronti un amore prioritario ed esclusivo, ha una spiegazione: Egli sa di essere per l’umanità l’unica fonte di pienezza e di felicità. Il Vangelo, prima di essere una dottrina o un insieme di regole morali, è una Persona, Gesù. Quindi non si può essere veri cristiani senza un rapporto personale con Gesù. E ciò perché essendo Gesù il Figlio di Dio, Dio si rivela e si dona pienamente e totalmente solamente in Lui. Le esigenze così radicali, che Gesù manifesta, e chiede non sono soltanto rivolte a una categoria di discepoli, ma sono proposte a tutti. La modalità di vivere l’appartenenza a Cristo varia, ma la relazione con Lui deve essere vissuta da ogni discepolo con lo stesso grado e intensità d’amore.
Il Vangelo non ci riferisce la risposta dei tre ai quali Gesù ha rivolto il suo appello. Il motivo principale, forse, è che quei tre sono icona di ognuno di noi e tocca proprio a ciascuno di noi prendere la decisione nei confronti di Gesù. Sceglierlo e risceglierlo perché niente e nessuno sia preferito a Lui: è un’impresa impossibile? Gesù sa di poterla chiedere. Sa che è il prezzo alto della felicità, ed è pronto, come sempre, a donarci tutto il suo aiuto amorevole e misericordioso.
Luca DESSERAFINO sdb
CONCELEBRAZIONE EUCARISTICA PER L’IMPOSIZIONE DEL PALLIO A 20 ARCIVESCOVI METROPOLITI
OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II
SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO – MERCOLEDÌ, 29 GIUGNO 1994
1. “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16, 16) parole di Pietro. “Io sono Gesù, che tu perseguiti” (At 9, 5) parole di Gesù a Saulo.
Queste due frasi offrono una chiave interpretativa dell’odierna solennità. La prima fu pronunciata nei pressi di Cesarea di Filippo da Simone, figlio di Giona, il futuro apostolo Pietro. La professione di fede nella sua divina figliolanza divenne la pietra sulla quale Cristo edificò la sua Chiesa. Proprio per questo Simone, fin dal suo primo incontro col Maestro, fu da Lui chiamato “Pietro”: “ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)” (Gv 1, 42), cioè Roccia, Pietra. Nei pressi di Cesarea di Filippo, dopo la confessione di fede, Gesù ripete la stessa cosa: “Tu sei Pietro (cioè Pietra) e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa” (Mt 16, 18). “Beato te, perché né la carne né il sangue ti hanno rivelato la mia divinità, ma il Padre mio che sta nei cieli” (cf. Mt 16, 17). Soltanto Dio poteva rivelare il Cristo, perché solo il Padre conosce il Figlio (cf. Mt 11, 27). Confessando la divinità di Cristo, Pietro partecipa all’eterna conoscenza che il Padre celeste ha del Figlio suo. In tale partecipazione sta l’essenza della fede: la fede di Pietro e la fede della Chiesa. La Chiesa si edifica costantemente su questa fede, come su una pietra.
2. Anche la fede di Paolo proviene da Cristo. Saulo di Tarso, discepolo del grande Gamaliele, fariseo, non aveva conosciuto Cristo durante la sua vita terrena, ma aveva su di Lui le stesse opinioni dei membri del Sinedrio, che lo avevano condannato a morte e consegnato nelle mani di Pilato: per loro Gesù di Nazaret era un ingannatore. Saulo pensava allo stesso modo e perseguitava i discepoli e i confessori di Gesù di Nazaret con grande convinzione.
Gamaliele, per parte sua, era favorevole ad una posizione moderata: era stato, infatti, uno di coloro che avrebbero voluto impedire la condanna a morte di Gesù. S’era pronunciato anche in difesa degli Apostoli, e in particolare di Pietro, per evitare la loro condanna. Era stato lui a dire ai membri del Sinedrio: “Se . . . questa dottrina o questa attività è di origine umana, verrà distrutta; ma se essa viene da Dio, non riuscirete a sconfiggerli; non vi accada di trovarvi a combattere contro Dio!” (At 5, 38-39).
Ma Saulo non condivideva su questo la posizione del suo maestro Gamaliele. Non ammetteva che fosse d’origine divina la dottrina predicata dagli Apostoli di Cristo. Fariseo, “irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge” (Fil 3, 6), egli era deciso a perseguitare i cristiani, a gettarli in prigione e a punirli perfino con la morte, come nel caso di Stefano, il primo diacono martire, alla cui lapidazione era stato presente (cf. At 7, 58).
Per lo stesso scopo, Paolo era partito da Gerusalemme per Damasco, sapendo che anche in quella città la dottrina degli Apostoli aveva dei seguaci. Ed ecco, ormai presso le mura della città, abbagliato da una grande luce, cadde da cavallo, e in quel bagliore che lo accecava udì le parole: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?” (At 9, 4). Egli, che non vedeva nulla, domandò: “Chi sei, o Signore?”. E la voce: “Io sono Gesù, che tu perseguiti” (At 9, 5). Saulo perseguitava Gesù nei suoi discepoli: era persecutore della Chiesa nascente. Gli fu rivelato che, facendo così, perseguitava Gesù stesso e che non era leggenda né invenzione la risurrezione del Signore dopo la sua crocifissione e sepoltura. Il Risorto in persona gli apparve sulla strada di Damasco, gli parlò, vivo e presente, ordinandogli: “Orsù, alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare” (At 9, 6). E davvero, a Damasco fu comunicato a Saulo ciò che doveva fare. Ricevette il battesimo nel nome di Gesù Cristo, che lo chiamò “uno strumento eletto”: Colui che aveva chiamato Simone “Pietra”, chiamò Paolo “strumento eletto” per portare il suo nome dinanzi ai popoli e alle nazioni di tutta la terra (cf. At 9, 15).
3. Oggi carissimi riflettiamo sul cammino percorso da entrambi gli Apostoli, un cammino terminato proprio qui, a Roma. Fu un itinerario che condusse Pietro dapprima in prigione a Gerusalemme, dove fu gettato da Erode, e da dove il Signore lo strappò miracolosamente; quell’itinerario condusse poi Pietro attraverso Antiochia, fino a Roma, come leggiamo negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere di san Paolo. Il cammino di Paolo invece fu diverso: si sviluppò lungo la rotta dei quattro memorabili viaggi apostolici. In precedenza egli si era preparato ad annunziare Cristo con un periodo di solitudine: prima nella città natale di Tarso, poi nel deserto arabo, prendendo quindi contatto con Pietro e altri Apostoli, per verificare se la sua comprensione del Vangelo era giusta (cf. Gal 2, 2). Questo fariseo, illuminato dallo Spirito sulle ricchezze del mistero di Cristo, giunse a conclusioni profonde e decisive, anzitutto circa la giustificazione. Non la sola obbedienza alla Legge, come prima riteneva, ma la fede in Cristo è fonte della giustificazione; e come prima era stato pronto a combattere per difendere ogni prescrizione pur minima dell’Antica Legge, così ora si opponeva a coloro che tentavano di imporne l’osservanza ai cristiani convertiti dal paganesimo. Per sostenere questo fondamentale principio egli non rifuggì dall’opporsi allo stesso Pietro, che si era mostrato troppo condiscendente nei riguardi dei giudaizzanti.
Il Vangelo di Cristo costituisce una novità assoluta. La Nuova Alleanza, pur essendo stata preparata nell’Antica e pur costituendo la diretta eredità di Abramo e di Mosè, è tuttavia qualcosa di radicalmente nuovo. Dio, che aveva parlato nell’Antico Testamento per mezzo dei Patriarchi e dei Profeti, alla fine ha parlato per mezzo del Figlio ed ora il Verbo di Dio-Figlio è la fonte della verità salvifica (cf. Eb 1, 1-2). Così insegnava Paolo in tutti i suoi viaggi. Così insegnava visitando le sinagoghe dell’Asia Minore; così insegnava percorrendo le città greche; così in particolare parlò all’Areopago di Atene. Per questo fu perseguitato e flagellato dai suoi ex fratelli nella fede; per questo su di lui incombeva la pena di morte, quando tornò a Gerusalemme e si recò sulla soglia del tempio. Ma, dovunque, il Signore gli stava vicino infondendogli forza, affinché per suo mezzo si compisse l’annuncio del Vangelo e lo potessero ascoltare tutte le nazioni (cf. 2 Tm 4, 17).
4. Paolo, maestro delle nazioni, e Pietro, al quale il Signore affidò le chiavi del Regno dei cieli, si incontrarono finalmente a Roma. Cristo aveva legato i destini di questi due Apostoli, giunti a Lui per vie così diverse. Entrambi furono condotti da Cristo alla capitale dell’Impero, che diverrà il centro della sua Chiesa. Qui giunse per l’uno e per l’altro il giorno in cui il loro sangue doveva essere sparso in sacrificio. E così, da allora, Roma è rimasta la città della testimonianza definitiva degli Apostoli Pietro e Paolo, il luogo del loro martirio: una morte che – grazie a quella di Cristo – genera nuova vita.
Ogni anno, in questo giorno, la Chiesa diffusa su tutta la terra fa memoria di tali eventi. Sono qui convenuti venti Metropoliti di varie parti del mondo, per ricevere il pallio, segno dell’unione con la Sede di Pietro nella stessa fede della Chiesa. Nell’accoglierli con un abbraccio fraterno, saluto con affetto le Chiese ad essi affidate. È bene che questa solennità dei santi Apostoli Pietro e Paolo sia divenuta in tal modo espressione dell’universale unità della Chiesa, edificata sulla roccia della loro fede, confermata con la testimonianza suprema del sangue.
Tutti noi riceviamo oggi con gioia la Delegazione ortodossa guidata dal Metropolita di Helioupolis e Theira, Athanasios, che il Patriarca ecumenico, Sua Santità Bartolomeo I, ha fraternamente inviato a questa Chiesa di Roma per unirsi a noi nella celebrazione dei Santi Pietro e Paolo dopo averci guidato quest’anno nella Via Crucis al Colosseo con le sue meditazioni sul mistero della morte e della risurrezione di Gesù. Nel rivolgere a ciascuno dei Delegati un cordiale saluto, esprimo l’auspicio d’incontrare personalmente il Patriarca ecumenico in questa stessa Basilica, per pregare insieme con lui il Signore affinché, per l’intercessione dei Santi Pietro e Paolo, ci conceda di raggiungere presto la piena comunione.
Con venerazione ricordiamo oggi anche l’Apostolo Andrea, fratello di san Pietro, la cui tradizione è singolarmente viva nella Chiesa di Costantinopoli. Andrea condusse Simone da Gesù. Fu lui a dirgli: “Abbiamo trovato il Messia” (Gv 1, 41) e Pietro lo seguì. Proprio allora Cristo gli disse: “Ti chiamerai Cefa” (Gv 1, 42).
Cefa-Pietro è sempre disposto ad andare da Cristo seguendo suo fratello Andrea; è pronto ad andare da Cristo seguendo tutti i fratelli nel ministero apostolico. Il Signore gli ha manifestato che, se egli deve guidare e confermare gli altri, deve anche essere pronto ad ascoltarli.
5. Crediamo che oggi Cristo prega per Pietro in modo particolare, come gli aveva promesso nell’ora della prova suprema: prega per Pietro, perché non venga meno la sua fede (cf. Lc 22, 32). Questa festa, che accomuna gli apostoli Pietro e Paolo, serva a consolidare la fede della Chiesa. Serva a proclamare la gloria del Signore, il Cristo crocifisso e risorto. Poiché “Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché [ . . .] ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore a gloria di Dio Padre” (Fil 2, 9-11).
Amen!
http://www.piccoloeremodellequerce.it/Mostra%20Tralucere%20L’Infinito/Catalogo/contributi07.htm
PAOLO E I COLORI DELL’INFINITO
suor Maria Pia Giudici
Chi ha detto che l’icona è una finestra aperta sull’infinito sa bene quanto sia importante, oggi, cogliere il tralucere dell’infinito attraverso una narrazione che non è di parole, ma appunto d’icone. Perché la banalizzazione delle immagini, in una società dove il re denaro regola le leggi della vita subordinandole a quelle del supermercato, diventa anche spesso banalizzazione del sacro, del nostro stesso rapporto con Dio.
È dunque di grande importanza, in un anno dedicato a S. Paolo, comunicare quel che di folgorante è nella figura dell’apostolo delle genti, raccontando la sua stessa vita attraverso una serie d’icone in cui traluce l’infinito del Suo Amore per Dio e per quanti a Dio egli ha condotto.
Il racconto si snoda dentro lo stile dell’iconografia, che è profondo, spirituale e pacato nello stesso tempo. Il pathos del martirio di Stefano (a cui Paolo assiste come ebreo persuaso della necessità di perseguitare i cristiani), la drammaticità dell’episodio-fulcro della vita di Paolo che è il suo venir disarcionato da cavallo mentre è colpito da quella Parola «Io sono Gesù che tu perseguiti»: tutto questo le icone raccontano, lasciando tralucere la divina irruzione della “chiamata”. Essa fa, del persecutore Paolo, l’uomo nuovo, il “vaso d’elezione” colmo di Spirito Santo, colui che potrà dire di sé: «Il mio vivere è Cristo» ritmando i propri giorni dentro l’esperienza delle persecuzioni e di folle sempre più numerose da evangelizzare.
Davvero Paolo «vien posto come luce per le genti» e Dio stesso si compiace di rivelargli il mistero del Figlio Unigenito che egli, è chiamato ad annunciare ai pagani. Nel discorso forte e luminoso dell’icona, diventa eloquente questo aspetto della vita di Paolo.
Ebreo di nascita, raffinato cultore del Primo Testamento, non rinnega né la circoncisione né gli scritti di Mosè e dei Profeti, ma, quando è afferrato da Cristo Gesù, succede qualcosa che la luce, i colori, le forme dell’icona vengono esprimendo.
Un superamento (non una cancellazione!) è in atto. Come dice Andrè Choraqui, un grande pensatore ebreo dei nostri giorni: «In lui non c’è più né giudeo né greco, né uomo né donna, né libero né schiavo, né ricco né povero. Tutto, in lui, è “uno” per il miracolo dell’amore crocifisso di cui Gesù rappresenta la perfetta incarnazione»1.
Il susseguirsi delle icone scandisce un crescendo della vita di Paolo che diventa sempre più quella di un uomo capace di compiere prodigi (a Listra risana il paralitico) e di sopportare le sassate (pure a Listra viene colpito a sangue con pietre).
Anche l’itineranza apostolica di Paolo viene narrata dalle icone. Samotracia, la Macedonia e perfino Atene, la più rappresentativa sede della raffinata cultura greca, divengono tappa del percorso di evangelizzazione.
« Tralucere l’Infinito – Vita e Teologia dell’Apostolo Paolo »
Roma, Santuario del Divino Amore, 20-28 giugno 2009
Bovalino, 26 luglio – 2 agosto
Eremo di Montestella (Pazzano), 6-20 agosto
Caulonia, Chiesa S. Maria dei Minniti, 25-29 agosto
Un’esperienza d’arte e di fede
di suor Renata Bozzetto e suor Rossana Leone
Ringraziamenti
Dalla Calabria, una pastorale della bellezza
Il messaggio del Vescovo di Locri-Gerace
L’Icona e la gente di Calabria
tra storia e spiritualità
di Gianni Carteri
L’Icona e il riflesso dorato del Sud
di Diego Andreatta
L’Icona ‘dice’ la Parola
di Alessandra Trinca
PAOLO E I COLORI DELL’INFINITO
di suor Maria Pia Giudici
Traluce lo splendore di una vita permeata dall’amore di Cristo nella bellezza dell’icona che rivela un Paolo dove il lavoro è ancora a misura del suo essere uomo: un uomo dove l’evangelizzazione non cancella la comune fatica di chi si guadagna il pane con il proprio impegno lavorativo, e dove l’impegno artigianale non soffoca e avvilisce l’ardore dell’annunciare Cristo; anzi serve ad armonizzare le persone a misura dell’uomo vero, sano di mente e di cuore.
Nella casa Paolo spezza il pane eucaristico e quello che sostenta il corpo alimentando la fraternità.
A Troade Paolo risuscita un ragazzo, Eutico, rassicurando i parenti: «Non vi turbate, è ancora in vita».
L’invidia e la gelosia però sono in agguato contro l’operato di Paolo che, pure fra le lacrime, non cessa di esortare i neo-cristiani.
La vita gli è dura. I suoi avversari si presentano al governatore per accusarlo, ma un angelo, nottetempo, lo incoraggia a “non temere” esortandolo a «comparire davanti a Cesare».
L’apostolo delle genti affronta il mare e giunge a Roma, dove gli è concesso «di abitare per suo conto ma con i soldati di guardia».
Con l’icona che s’intitola «Ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede» gli splendidi colori proclamano quel tralucere d’infinito che irradia dalla consapevolezza di Paolo che, come dice l’ultima icona rappresentante il volto dell’apostolo, è l’uomo pienamente «conquistato da Gesù Cristo».
Il susseguirsi delle icone ci offre poi altri coinvolgimenti che portano in profondità la nostra riflessione sulla vita di Paolo.
La relazionalità di Paolo, che è una cosa sola con l’urgenza del suo ardere comunicando fuoco d’amore, viene espressa nel presentare Lidia, la donna ospitale, Iunia e Andronico, Barnaba suo collaboratore, Timoteo suo figlio spirituale e continuatore del suo operare.
E infine, il racconto iconografico, ci offre alcuni fondamentali aspetti della personalità di Paolo: il buon soldato di Cristo che come il Maestro deve lottare contro il male, l’atleta che entra fino in fondo nelle regole del giocarsi la vita per Cristo, l’agricoltore che si affatica perché la terra del suo evangelizzare porti frutto, ed infine ancora due altri traguardi di forme e colori per esaltare Paolo figlio di Dio nella fede di Cristo Crocifisso – Risorto; Paolo, la cui vita è la Parola di Cristo vivo.
Infine è nel fuoco e nel vento di Pentecoste che lo Spirito Santo stesso si fa garante di una santità che è tralucere d’infinito anche per noi, oggi, in cammini di autenticità umana e cristiana, su sentieri di comunione e di pace.
http://www.popoli.info/EasyNe2/Primo_piano/Carlo_Maria_Martini_al_cuore_della_Parola.aspx
CARLO MARIA MARTINI, AL CUORE DELLA PAROLA
22 dicembre 2012
L’anno che sta per terminare è stato quello dell’addio al cardinale Carlo Maria Martini, morto il 31 agosto. Nel numero di ottobre Popoli ha pubblicato un servizio speciale con numerosi ricordi e commenti. Rendiamo ora disponibile online l’articolo di Silvano Fausti: confratello di Martini, biblista, Fausti è stato per lungo tempo confessore del cardinale. «Ascoltato da persone non credenti e criticato dai credenti nelle proprie idee»: così l’autore definisce padre Carlo Maria, un evangelizzatore insieme antico e attuale, in dialogo con la cultura post-moderna, sempre in ascolto delle Scritture.
Il Concilio Vaticano II ha portato belle novità ma anche nuovi problemi. Così dice qualcuno, ma dimentica che la realtà, sempre nuova, è un problema solo per chi la nega. Padre Carlo Maria Martini ha osato viverla con coraggio e intelligenza. Ha superato il gap culturale dei 200 anni che ci separa dal mondo, per trasmettere oggi la «buona notizia». Scrive il vescovo di Lugano: «È morto un padre della Chiesa». Un monte cresce nella sua imponenza di mano in mano che ci si allontana: con il passare del tempo vedremo crescere l’eredità che padre Carlo Maria lascia alla Chiesa.
L’ALFABETO DI OGGI
I primi cristiani sono dei giudei in mezzo a una cultura diversa. Con Paolo, libero di farsi «tutto a tutti» (leggi la Lettera ai Galati, l’inno più bello alla libertà), il cristianesimo si apre ai pagani. Così, in pochi secoli di persecuzioni subìte (non fatte!), guadagna all’amore del Padre il mondo pagano. La cultura postmoderna è diversa dalla nostra più di quanto lo fosse il paganesimo. Noi cristiani stiamo scomparendo perché ne ignoriamo l’alfabeto; purtroppo ci sforziamo di insegnarle il nostro invece di imparare il suo. Non vediamo la bellezza di ciò che Dio va compiendo sotto i nostri occhi: oggi è possibile il compimento della libertà dell’uomo, frutto maturo della tradizione ebraico-cristiana. E la osteggiamo ostinatamente!
I Padri della Chiesa, come Paolo, hanno tradotto il messaggio evangelico nelle nuove culture. Così fecero anche i cristiani caldei del Medio Oriente, i copti d’Etiopia, quelli di san Tommaso in India. E lo stesso, secoli dopo, faranno i gesuiti Roberto De Nobili, ancora in India, e Matteo Ricci in Cina. Chi ama e conosce la tradizione, non è mai «tradizionalista». Fa piuttosto come i Padri che stanno a fondamento della tradizione: espongono le cose antiche in parole nuove, perché tutti capiscano. I tradizionalisti, al contrario, spiegano le cose nuove in parole desuete, perché nessuno capisca. Sapere è potere! È grande la responsabilità della conoscenza: può aprire o chiudere la porta della verità a chi ancora non la sa (cfr Mt 23,13).
Radice d’inculturazione è la fede in Dio e non nelle proprie idee su Dio. È stoltezza credere alle proprie idee: sono da capire, non da credere! È sapienza capirle e modificarle, in dialogo con la realtà e con le prospettive altrui. In questo padre Carlo Maria è stato maestro, ascoltato da persone non credenti e criticato dai credenti nelle proprie idee. Non a caso Isaia, citato da Paolo, dice: «Il bel nome di Dio è bestemmiato per causa vostra» (Rm 2,24). L’ateismo è frutto della falsa immagine di Dio che presentiamo con parole e fatti.
Dio non è un pacchetto di idee in formato tascabile, da consegnare mediante catechismi. Dio non si chiude in formule, ma si narra attraverso ciò che ha fatto e fa in noi e fuori di noi. Dio è un mistero, costantemente all’opera per realizzare il suo progetto di «raccapezzare» ogni cosa in Cristo ed essere tutto in tutti. Padre Carlo Maria aveva l’umiltà di ascoltare ogni voce, sapendo che Dio parla, oltre che nella Parola, in ogni realtà e nel cuore di ogni uomo. Fu grande maestro perché rimase sempre «discepolo», desideroso di imparare da tutti. Da qui il suo rispetto per ogni diversità, impronta del Dio sempre diverso. Questo è l’humus del discernimento, che fa vedere Dio in tutte le cose e tutte le cose in Dio, anche il mondo post-moderno.
EDUCARE ALLA RESPONSABILITÀ
Frutto di questa fede è lo stile del suo servizio alla diocesi di Milano. Il «pastore bello», dice Gesù nel «recinto» del tempio, non fa come i ladri e i briganti. Costoro tengono le pecore al chiuso, per essere munte, tosate e infine date al «sacro macello». Gesù invece le «scaccia fuori» da ogni recinto (Gv 10,16), per farne non «un solo ovile», bensì un solo gregge libero. E lui, l’Agnello, che espone, dispone e depone le vita per le sue pecore, è il «pastore bello» che le porta a pascoli di vita. Il ministero pastorale di padre Carlo Maria non era un comandare, con norme e divieti, ma un educare a conoscenza, libertà e responsabilità. Per questo alla «pastorale dei grandi eventi» preferiva la formazione quotidiana, fondata sulla Parola e mirata alla pratica.
La «pastorale dei grandi eventi» è antica. È sorta su iniziativa di Pietro dopo la prima giornata messianica. Ma Gesù, alla sua proposta – «Tutti ti cercano» – risponde: «Andiamocene altrove» (Mc 1,35ss). Questa pastorale, oggi in auge, è simile al censimento che fece Davide per contare di quanti «militanti» poteva disporre. Erano 800mila nel nord e 500mila nel sud. Tutti conoscono il risultato di tale azione (leggi 2Sam 24,1ss). Non a caso il declino del cristianesimo inizia con l’abbandono dell’umile formazione di base (penso al lavoro dell’Azione cattolica!) per una spettacolarizzazione di cristianità che mostra i muscoli.
La «Chiesa-evento» partorisce vento, come dice Isaia: «Abbiamo sentito i dolori quasi dovessimo partorire: era solo vento; non abbiamo partorito salvezza al paese, non sono nati abitanti nel mondo» (Is 26,18). Mentre una pastorale fondata su Parola, discernimento e testimonianza farà rinascere la Chiesa: «Di nuovo vivranno i tuoi morti, risorgeranno i loro cadaveri» (Is 26,19).
Lo stile di Martini è significativo per la Chiesa universale. Superando la tendenza a condannare il mondo, padre Carlo Maria è stato per noi ciò che Paolo è stato nella prima Chiesa. Vicino a un Pietro, ci vuole sempre un Paolo: la profezia impedisce che la Chiesa punti sull’autoconservazione, annullando il disegno in vista del quale Dio l’ha creata. Il profeta non pensa a cosa serve all’istituzione, ma a cosa serve l’istituzione. Paolo sa rimproverare a viso aperto Pietro, quando non cammina secondo la verità del Vangelo (Gal 2,11-14).
Nei momenti critici si reagisce con la paura o con il coraggio. Nel primo caso si distrugge la Chiesa dal di dentro, nel secondo la si apre al mondo al quale è inviata. Il mondo non è nemico – contendente della nostra mondanità -, ma luogo di figli di Dio, che attendono testimonianza di amore fraterno. Solo così tutti riconosceranno il Signore, venuto per salvare, non per giudicare, ciò che era perduto. Bisogna guardare il mondo con l’occhio di Dio, che tanto lo ha amato da dare per lui il Figlio.
UNA CHIESA DIMISSIONARIA?
Martini soffriva per la poca fede e il poco coraggio di una Chiesa «dimissionaria» dalla propria missione. Deve «aggiornarsi» per non dare contro-testimonianza. Bisogna che riconosca, ad esempio, i diritti dell’uomo, da rispettare anche al suo interno, sia per gli uomini sia, soprattutto, per le donne. Per questo è da smontare la nostra struttura piramidale, così assurda per il cristiano: «Non così tra voi», dice Gesù ai suoi (Mc 10,43).
È necessario passare dall’uniformità all’eterogeneità in comunione: siamo di pari dignità, tutti figli di Dio e fratelli nella nostra diversità. Il sacerdozio ministeriale è a servizio di quello comune, non viceversa. I vescovi poi dovrebbero avere lo Spirito di Gesù e non mimare i potenti del mondo in gesti, abbigliamenti e parole. Sarebbe meglio farli eleggere dai sacerdoti: sarebbe forse più facile che venisse scelto non uno che vuol far carriera (vera piaga di ogni istituzione), ma chi è più zelante, intelligente e servizievole. Ogni conferenza episcopale potrebbe scegliere chi la rappresenti presso la Chiesa universale. In questo modo cesserebbe lo «scisma» tra capo e corpo della Chiesa; e si farebbe terra bruciata a persone che nella Curia sarebbe meglio che non ci fossero. Infine, perché non smettere di considerare proprio «appannaggio» la legge naturale, proprietà di tutti, per dedicarci a testimoniare il Vangelo, che va in cerca di ciò che per la legge è perduto?
Chiudo con un ricordo personale. Per molti anni ho avuto il privilegio di frequentare, ogni quindici giorni, padre Carlo Maria. Argomento del nostro stare insieme era leggere, in modo continuativo, alcuni testi della Bibbia, soprattutto le lettere di Paolo. Mi colpiva il suo rapporto con la Parola. Innanzitutto l’ascoltava, lasciandosi interpellare dalle sue provocazioni, e poi la provocava con domande attuali per ascoltare cosa avrebbe risposto. Era un vero dialogo, non da testo a testa, ma da persona a persona, come due che reciprocamente si apprezzano e amano. Vedevo in lui lo «scriba diventato discepolo del regno»: dal suo tesoro estraeva cose nuove e cose antiche. Attraverso la Parola trovava la novità delle cose antiche, colte nel loro frutto, e l’antichità delle cose nuove, colte nella loro radice.
Silvano Fausti SJ
http://www.parrocchiadiformigine.it/gm/l_varie/chi_e_l_apostolo_pietro.pdf
CHI È PIETRO?
1. INTRODUZIONE GENERALE ALLA CONOSCENZA DEL PERSONAGGIO!
Pietro è un personaggio biblico del Nuovo Testamento, il cui nome originario era Simone, uno dei dodici Apostoli di Gesù Cristo, considerato primo Papa nella storia della Chiesa. Di questa persona importante si hanno abbondanti notizie biografiche nei Vangeli Sinottici, con i quali condividono la tradizione giovannea, negli Atti degli Apostoli e nella letteratura paolina. Pietro occupa, con certezza, uno spazio di primo piano nella Storia Sacra, riconosciuto e testimoniato da tutta la tradizione neo testamentaria, infatti, il suo nome compare sempre al primo posto negli elenchi degli Apostoli (cfr. Matteo 10,3; Marco 3,18; Luca 6,15; Atti degli Apostoli 1,13).
Pietro è definito il «discepolo storico» di Gesù, poiché testimone autorevole della sua risurrezione e, il garante dell’autenticità della tradizione cristiana. La figura dell’Apostolo acquista, poi, una notevole importanza nel corso degli eventi della Chiesa, fin dai primi secoli, per il ruolo primario della sede romana che a lui stesso si richiama. Originario di Betsaida con il fratello Andrea esercitava la professione di pescatore presso il lago di Galilea. Verosimilmente era sposato e, prima di seguire Gesù, incontrò il gruppo dei discepoli di Giovanni Battista. (Giovanni 1,40). Accompagnato da Gesù dal fratello Andrea, gli fu tramutato il nome in Pietro (tradotto dall’ebraico «Kefa» = pietra; cfr. Giovanni 1,42). Il nome di Pietro, ricevuto da Gesù, era, verosimilmente, da porre in rapporto con un aspetto del suo carattere, prima di divenire simbolo di quel primato che Gesù Cristo stesso gli riconobbe all’interno del gruppo dei Dodici, costituendolo fondamento e caposaldo della Chiesa nascente (Matteo 16,13-20). Accolto l’invito di Gesù, Pietro pertanto si mise al suo seguito e, in occasione della prima pesca miracolosa, fu invitato da Gesù stesso ad abbandonare le reti per divenire un pescatore di uomini (Luca 5,11). Con Giacomo (il Maggiore) e Giovanni (l’Evangelista), fu incluso da Gesù nel gruppo più ristretto dei Dodici, osservatore della risurrezione della figlia di Giairo (cfr. Marco 5,37; Luca 8,51), della Trasfigurazione del Signore (Matteo 17,1; Marco 9,2; Luca 9,28.54) e della sua agonia al Getsemani (Matteo 26,36; Marco 14,33). Durante l’Ultima Cena, Gesù gli affidò il compito di confermare nella fede i suoi fratelli (Luca 22,32),
nonostante questo, in occasione della Passione di Cristo, Pietro rinnegò il suo Maestro. Pietro, pentito, pianse amaramente il suo tradimento (Matteo 26,69-75; Marco 14,66-72; Luca 22,55-62; Giovanni 18,17.25-27) e beneficiato della prima manifestazione del Cristo risorto (Luca 24,12; Giovanni 18,17.25-27), ebbe in consegna tutto il suo gregge (Giovanni 21, 15-17). Il ruolo e la figura di Pietro conservati e tramandati nei testi evangelici sono integrati nell’ambito della Chiesa delle origini, in particolare negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere dell’Apostolo delle Genti (San Paolo). Il ruolo dinamico e di guida di Pietro, all’interno del gruppo degli Apostoli appare esplicitamente fin dall’inizio, dopo la Pentecoste tenne il discorso programmatico, primo modello degli annunci missionari e, prese l’iniziativa di nominare il successore di Giuda Iscariota (Atti degli Apostoli 1,15-26). Ancora Pietro proclamò per la prima volta, pubblicamente, il messaggio della Risurrezione di Cristo a Israele (Atti 2,14-36) e anche fuori dalle mura di Gerusalemme (Atti 3,12-26; 4,8-12; 5,29-32; 10,34-43). Inoltre, Pietro operò miracoli prodigiosi (Atti 3,1-10; 5,1-11.15; 9,32-42); fu oggetto di attenzione divina e ricevette visioni (Atti 5,17-21; 10,9-48; 12,6-11). Pietro fu altresì il portavoce della comunità di Gerusalemme (Atti 8,14-25; 11,1-8) e, punto di mezzo all’interno della Chiesa gerosolimitana (Atti 15,7-11). 3 Infine, Pietro assunse un ruolo decisivo in occasione del Concilio di Gerusalemme (Atti 15) e nell’apertura missionaria ai pagani (Atti 11,17). A iniziare dal capitolo quindicesimo degli Atti degli Apostoli, sebbene la figura di Pietro scompaia per cedere il posto a Paolo, la sua autorità era, tuttavia, serenamente e unanimemente riconosciuta, come testimonia lo stesso Paolo, il quale nelle sue Lettere si avvale delnome di Cefa o Pietro (Galati 2,7.8) e, in nessun caso quello di Simone, pressoché a comprovare la stima e il riconoscimento di un incarico assegnato (a Pietro) esplicitamente da Gesù Cristo. L’autorità di Pietro era vitale in tutte le grandi città conquistate dalla fede cristiana; s’impose a Gerusalemme accanto a quella di Giacomo, ad Antiochia, a Corinto, dove vi era un gruppo che si richiamava direttamente a Pietro (1°Corinti 1,12; 3,22), infine a Roma dove secondo la tradizione asserita nel novantasei da Clemente, egli avrebbe subito il martirio nella persecuzione di Nerone, insieme a Paolo. La Chiesa Cattolica ne celebra la festa il ventinove giugno, insieme all’Apostolo delle Genti (San Paolo). La catechesi di Pietro, centrata sulla figura di Cristo, il figlio di Dio vivente (Matteo 16,16; Marco8,29; Luca 9,20), secondo la professione di fede dello stesso Apostolo, s’inserisce nell’alveo della predicazione primitiva cristiana e trova larga eco nel Vangelo di Marco. ’immediatezza dello stile dell’evangelista Marco fa presumere che egli abbia trascritto i discorsi di Pietro mentre l’Apostolo stesso parlava; altri discorsi attribuiti a Pietro, come abbiamo già rilevato, sono contenuti negli Atti degli Apostoli. A Pietro, inoltre, si attribuiscono la composizione di due Lettere del Nuovo Testamento, ritenute «canoniche» da tutta la tradizione cristiana che le annovera tra le cosiddette Lettere Cattoliche. Le due Lettere presentano però forti dissomiglianze tra loro, sia a livello contenutistico, linguistico e stilistico. La Prima Lettera di Pietro, scritta in buon greco, si presenta come una composizione poco unitaria, anche se la lingua e il pensiero sono assolutamente coerenti. E’ scritta ai cristiani di origine pagana dell’Asia Minore da Pietro, Apostolo di Gesù Cristo (1,1) che egli considera nella loro qualifica di battezzati (1,3.12.23) e nella loro situazione di perseguitati. Anche se la questione è dibattuta, non sembrano esserci giustificazioni affidabili contro la tradizionale attribuzione della Lettera a Pietro, il quale l’avrebbe dettata a un suo collaboratore che scriveva e pensava in greco, durante il suo soggiorno a Roma, poco prima della sua morte. Il genere letterario della Prima Lettera di Pietro è di una Lettera con «prescritto», «proemio», «saluti finali» e, «augurio», anche se qualche esegeta ha preferito identificarla come un’omelia, o come una liturgia battesimale. La struttura letteraria dell’epistola (che appare un intreccio di esortazioni morali), può essere articolata in tre parti, comprese tra un «prologo» (1,1-12), costituito da un «prescritto» (1,1-2), un «proemio» (1,3-12), un «epilogo» che contiene i saluti finali. La «prima parte» (1,3-2,10) è un’esortazione affettuosa alla santità e un invito insistente ad agire secondo la loro condizione di figli di Dio. La «seconda parte» (2,11-4,6) considera i doveri del cristiano, specialmente, di quelli imposti dalla situazione sociale e familiare di ciascuno. La «terza parte» contiene degli avvertimenti che riguardano la vita interna delle comunità, le tribolazioni del tempo presente e il giudizio futuro.
La Seconda Lettera di Pietro, tra le più brevi del Nuovo Testamento, è considerevolmente diversa dalla Prima Lettera e questo fatto, unito a quello della sua posticipata inclusione nel Canone del Nuovo Testamento, ha portato i biblisti a escludere la sua effettiva attribuzione a Pietro. La Lettera, scritta con uno stile altisonante, solenne, da uno scrittore che comprova di avere una buona cultura ellenistica, intende difendere l’ortodossia dei suoi destinatari giudeocristiani, con un’aspra polemica contro i maestri bugiardi, ingannatori (cfr. 2,1) e va collocata in ambiente apocalittico, con incognite scaturite da attese escatologiche deluse (cfr. 3). La struttura letteraria non è unitaria, anche se unico, originale, è il tema e il contenuto della Lettera, ossia, la difesa dell’escatologia. 4
2. Deduzioni utili … per l’approfondimento!
Pietro è il primo del gruppo dei Dodici, è stato posto dallo stesso Gesù Cristo come suo vicario nella Chiesa, fino al compimento ultimo. Nel Nuovo Testamento sono molti i dati che riferiscono di Pietro, dalla sua chiamata a seguire il maestro (Giovanni 1,35-42) al cambiamento di nome da Simone a quello di Pietroroccia. Leggendo la Sacra Scrittura, possiamo scorgere una sorta di trasformazione radicale di quest’uomo, in altre parole, provenendo dal gruppo dei tre discepoli (favoriti) che seguono Gesù sul Monte Tabor (Matteo 17,1), diviene l’uomo che, a nome di tutti, professa la fede nella «messianicità» di Gesù Cristo (Marco 8,29). Pietro è indicato, nella prima professione di fede, come il primo al quale Gesù risorto appare (1°Corinti 15), quindi, non ci sono nemmeno incertezze sul suo primato tra i Dodici all’indomani di Pasqua (Galati 1,18), anche se è Pietro stesso che si pone in ricerca della via di comunicazione migliore da inseguire perché il Vangelo sia annunciato a proprio a tutti (Atti degli Apostoli 10-15; Galati 2). Dallo stesso Gesù risorto, Pietro è chiamato a seguirlo, senza tentennamenti o richiesta di spiegazioni. Quest’ultimo aspetto è indicazione di un Amore che si abbandona totalmente al Signore e, che è in grado di amare, più degli altri, in forza della missione affidatagli (Giovanni 21,15-23). Dall’insieme dei dati neo-testamentari, Pietro è segnalato come una personalità forte, ma allo stesso tempo combattuta, capace di grandi slanci, ciò nondimeno di momenti paurosi. Pietro, è altresì in grado di riconoscere il proprio peccato, ciò nonostante è anche cosciente di essere posto da Gesù stesso a guida della prima comunità dei cristiani. Poiché deve «confermare nella fede» i fratelli (Luca 22,31), la sua funzione importante (missione) è estesa, tramandata dai suoi subentranti (i pontefici), fino al ritorno del Signore!
3. Analisi
Come abbiamo già accennato, sono molte le citazioni bibliche che vedono come persona di primo piano la figura di Pietro, esaltata nella sua funzione importante di, roccia sicura, solida, costituita dal Cristo per la sua Chiesa! Ciò nonostante, Pietro è altresì un personaggio individuato nella sua fragilità di essere umano che, non pensa secondo l’Altissimo, ma, secondo gli esseri umani, come riporta il Vangelo di Matteo (16, 21-27). E’ davvero impossibile tracciare un profilo umano completo, quello del primo degli Apostoli in poco spazio, basti pensare alla semplice presenza del suo nome (tradotto dal greco «Pétros» per centocinquantaquattro volte, ventisette volte come «Simone», nove volte dall’aramaico in «kefa» = pietra). Forse è meglio iniziare da quella sorta di «alba della vocazione apostolica» che, ha come sfondo il Lago di Tiberiade, attraversato numerosissime volte in barca, in compagnia dell’assiduo fratello Andrea e, prendendo come spunto le stesse parole pronunciate da Gesù di Nazareth: «Seguitemi, vi farò pescatori di uomini». A quelle parole di Gesù, gli stessi discepoli, abbandonate le reti, istantaneamente lo seguirono (cfr. Matteo 4,20). 5 Iniziava, in questo modo, il grande «giorno apostolico» che avrebbe sperimentato tanti eventi narrati dai Vangeli. Anche questa giornata, come qualunque altro giorno ha il suo «mezzogiorno», stavolta però a Cesarea di Filippo, a seguito della domanda del Signore: « … voi chi dite che io sia?». Pietro, senza alcun tentennamento, risponde prontamente: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Seguono a questo punto le parole di Gesù che, renderanno Simone il primo nella lista dei Dodici Apostoli: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa … (cfr. Matteo 16, 13-19)». Quindi, sono tre i segni di riconoscimento, applicati all’Apostolo. Il primo è quello della pietraroccia, evocata nel nome stesso Pietro – Kefa e, segno di stabilità e sicurezza. L’Apostolo rende riconoscibile, nella storia, la fondazione primaria e divina di Cristo, sulla quale si basa la comunità cristiana. Il secondo segno di riconoscimento è rappresentato dalle «chiavi» che, sono l’emblema di autorità giuridica, ciò nondimeno, anche d’insegnamento. Il terzo è raffigurato, invece, dall’immagine di «legare» e, di «sciogliere», ovverosia quella di «rimettere i peccati», nel nome del Signore ma anche l’ammonire, l’esortare, il formare nella fede, i fratelli. La stessa esistenza di Pietro, tuttavia, conosce sbandamenti pericolosi. Basti riflettere un istante sul tempo della crisi personale, dell’oscurità culminata nel tradimento, chi non ricorda il rinnegamento perpetuato per ben tre volte, nel cortile del palazzo del sommo sacerdote, proprio mentre Gesù era processato. Oggi, questo comportamento si chiamerebbe facilmente «voltafaccia». « … Pietro intanto se ne stava seduto fuori, nel cortile. Una giovane serva gli si avvicinò e disse: «Anche tu eri con Gesù, il Galileo!». Ma egli negò davanti a tutti dicendo: «Non capisco che cosa dici». Mentre usciva verso l’atrio, lo vide un’altra serva e disse ai presenti: «Costui era con Gesù, il Nazareno». Ma egli negò di nuovo, giurando: «Non conosco quell’uomo!». Dopo un poco, i presenti si avvicinarono e dissero a Pietro: «È vero, anche tu sei uno di loro: infatti il tuo accento ti tradisce!. Allora egli cominciò a imprecare e a giurare: «Non conosco quell’uomo!». E subito un gallo cantò. E Pietro si ricordò della parola di Gesù, che aveva detto: «Prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte». E, uscito fuori, pianse amaramente … (Matteo 26, 69-75)». Dall’abisso oscuro di quella notte, tuttavia Pietro si alzerà nuovamente, non soltanto con le lacrime del suo pentimento sincero, ma anche con la triplice dichiarazione d’amore, pronunciata innanzi al Cristo risorto, proprio sul litorale di quello stesso lago dove incontrato Gesù per la prima volta: «Signore, tu sai che io ti amo». Ed è così che egli riceve di nuovo, stavolta in forma ufficiale, il compito di pascere gli agnelli del gregge della Chiesa che nasce (cfr. Giovanni 21, 15-19). Gesù Cristo, in questa stessa circostanza, farà intravedere a Pietro anche il suo destino ultimo terreno, vale a dire, quello del martirio con il quale egli avrebbe glorificato l’Altissimo. «Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: Seguimi. (Giovanni 21,19)». A questo punto l’Apostolo annunzierà, al mondo
intero, la parola di quel Risorto che egli per primo aveva incontrato all’alba di Pasqua, come registrano sia Giovanni (20,1-10) che lo stesso Paolo (1° Corinzi 15,5). Sarà poi Pietro a intervenire, influentemente, negli avvenimenti importantissimi della Chiesa delle origini, a iniziare dalla Pentecoste, fino al Concilio di Gerusalemme, secondo la narrazione offerta dagli «Atti degli Apostoli» che ci riserva (unitamente alle due Lettere che recano il nome di Pietro) una vivace rappresentazione della sua azione apostolica. 6
4. La fede di Pietro
I dialoghi biblici che frequentemente intercorrono tra Pietro e il Signore sono sostanzialmente uno scambio di attestati messianici» tra Pietro e Gesù: in altre parole possiamo leggere dei discorsi di «Pietro su Gesù» e di «Gesù su Pietro».
Si riassume così, in Gesù e Pietro, la struttura biblica essenziale: un discorso di Dio sull’uomo e un discorso dell’essere vivente su Dio. Il contenuto essenzialmente cristologico della fede di Pietro, eletto come portavoce degli altri apostoli nella risposta alla domanda di Gesù, ha una portata molto smisurata! Gesù non è solo il Cristo messia ma anche «il Figlio del Dio vivente». Ad esempio, la stessa puntualizzazione di Gesù: « … il Padre mio te l’ha rivelato … » è un’importante approvazione di quanto in quel momento Pietro comunichi sotto l’ispirazione dello Spirito. Pietro, è il modello di credente fedele che è tale per la rivelazione del Padre, per Grazia e, che mediante la fede conosce nella carne e nella storia «il Cristo, il Figlio dei Dio vivente». Per questa ragione Pietro è la pietra sulla quale Gesù Cristo edifica la sua chiesa, la prima pietra a essere collocata! Ugualmente tutti i fedeli, come dirà lo stesso Pietro (1°Pt 2,4), sono pietre viventi di quell’edificio spirituale che è la Chiesa di Cristo! La chiesa delle origini, concentrandosi nella lettura del Nuovo Testamento, ha riconosciuto a Pietro, su indicazione di Gesù (Beato te, Simone), la chiamata ad adempiere nella comunità tre compiti essenziali riassunti in tre espressioni figurate: la pietra, le chiavi, il legare e sciogliere. E’ importante riflettere su questi tre simboli e ad attribuire non soltanto a Pietro, bensì a tutta la
chiesa, per risaltare che non si tratta di concessioni esclusive soltanto di Pietro (anche se a lui competono alla radice), ma di prestazioni d’opera che un uomo esercita a beneficio di tutta la comunità! Ciò nonostante, se tutti i fedeli, ancor’oggi, non cooperano alla costruzione dell’edificio della fede, se ciascuno di noi non confessa la fede e non diviene pietra, non potrà mai veder realizzata la casa del Signore, la Gerusalemme celeste da edificare per tutte le genti. Questo «ministero» affidato a Pietro non raggiunge i suoi effetti in forma meccanica ogni volta che qualcuno siede sul trono di San Pietro, bensì, si basa su una profonda fede e su un amore fedele! Tutto questo deve essere sostenuto dalla preghiera di tutta la chiesa, perché Pietro ha, ancor’oggi, una funzione molto articolata e faticosa.
Rimanere fedeli credenti, è dunque una delle caratteristiche della vocazione cristiana, edificata sulla «roccia» della «fede di Pietro» e, sulla dedizione alla chiamata dei Signore, testimoniata e vissuta alla condotta di Pietro. Di fronte alle prove e cocenti delusioni, non può esistere altra via migliore che quella della preghiera comunitaria! L’essere riuniti nel nome di Cristo costituisce la prima e migliore confessione di fede che apre (alla rivelazione del Padre) oltre ogni veduta umana. «Simon Pietro, servo e apostolo di Gesù Cristo, a coloro ai quali il nostro Dio e salvatore Gesù
Cristo, nella sua giustizia, ha dato il medesimo e prezioso dono della fede: grazia e pace siano concesse a voi in abbondanza mediante la conoscenza di Dio e di Gesù Signore nostro (2° Pietro 2,1)». 7
5. Riferimenti biblici
(È UNO SCHEMA, NON LO METTO)
6. Alcune tappe rilevanti della vita di Pietro e, le relative «attualizzazioni»
(ANCHE QUESTO LO SALTO, POTETE CERCARLO SUL SITO)