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SOLENNITÀ DI PENTECOSTE – OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI (2011)

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CAPPELLA PAPALE NELLA SOLENNITÀ DI PENTECOSTE

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Basilica Vaticana

Domenica, 12 giugno 2011

Cari fratelli e sorelle!

Celebriamo oggi la grande solennità della Pentecoste. Se, in un certo senso, tutte le solennità liturgiche della Chiesa sono grandi, questa della Pentecoste lo è in una maniera singolare, perché segna, raggiunto il cinquantesimo giorno, il compimento dell’evento della Pasqua, della morte e risurrezione del Signore Gesù, attraverso il dono dello Spirito del Risorto. Alla Pentecoste la Chiesa ci ha preparato nei giorni scorsi con la sua preghiera, con l’invocazione ripetuta e intensa a Dio per ottenere una rinnovata effusione dello Spirito Santo su di noi. La Chiesa ha rivissuto così quanto è avvenuto alle sue origini, quando gli Apostoli, riuniti nel Cenacolo di Gerusalemme, «erano perseveranti e concordi nella preghiera, insieme ad alcune donne e a Maria, la madre di Gesù, e ai fratelli di lui» (At 1,14). Erano riuniti in umile e fiduciosa attesa che si adempisse la promessa del Padre comunicata loro da Gesù: «Voi, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo…riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi» (At 1,5.8).
Nella liturgia della Pentecoste, al racconto degli Atti degli Apostoli sulla nascita della Chiesa (cfr At 2,1-11), corrisponde il salmo 103 che abbiamo ascoltato: una lode dell’intera creazione, che esalta lo Spirito Creatore il quale ha fatto tutto con sapienza: «Quante sono le tue opere, Signore! Le hai fatte tutte con saggezza; la terra è piena delle tue creature…Sia per sempre la gloria del Signore; gioisca il Signore delle sue opere» (Sal 103,24.31). Ciò che vuol dirci la Chiesa è questo: lo Spirito creatore di tutte le cose, e lo Spirito Santo che Cristo ha fatto discendere dal Padre sulla comunità dei discepoli, sono uno e il medesimo: creazione e redenzione si appartengono reciprocamente e costituiscono, in profondità, un unico mistero d’amore e di salvezza. Lo Spirito Santo è innanzitutto Spirito Creatore e quindi la Pentecoste è anche festa della creazione. Per noi cristiani, il mondo è frutto di un atto di amore di Dio, che ha fatto tutte le cose e del quale Egli si rallegra perché è “cosa buona”, “cosa molto buona” come dice il racconto della creazione (cfr Gen 1,1-31). Dio perciò non è il totalmente Altro, innominabile e oscuro. Dio si rivela, ha un volto, Dio è ragione, Dio è volontà, Dio è amore, Dio è bellezza. La fede nello Spirito Creatore e la fede nello Spirito che il Cristo Risorto ha donato agli Apostoli e dona a ciascuno di noi, sono allora inseparabilmente congiunte.
La seconda Lettura e il Vangelo odierni ci mostrano questa connessione. Lo Spirito Santo è Colui che ci fa riconoscere in Cristo il Signore, e ci fa pronunciare la professione di fede della Chiesa: “Gesù è Signore” (cfr 1 Cor 12,3b). Signore è il titolo attribuito a Dio nell’Antico Testamento, titolo che nella lettura della Bibbia prendeva il posto del suo impronunciabile nome. Il Credo della Chiesa è nient’altro che lo sviluppo di ciò che si dice con questa semplice affermazione: “Gesù è Signore”. Di questa professione di fede san Paolo ci dice che si tratta proprio della parola e dell’opera dello Spirito. Se vogliamo essere nello Spirito Santo, dobbiamo aderire a questo Credo. Facendolo nostro, accettandolo come nostra parola, accediamo all’opera dello Spirito Santo. L’espressione “Gesù è Signore” si può leggere nei due sensi. Significa: Gesù è Dio, e contemporaneamente: Dio è Gesù. Lo Spirito Santo illumina questa reciprocità: Gesù ha dignità divina, e Dio ha il volto umano di Gesù. Dio si mostra in Gesù e con ciò ci dona la verità su noi stessi. Lasciarsi illuminare nel profondo da questa parola è l’evento della Pentecoste. Recitando il Credo, noi entriamo nel mistero della prima Pentecoste: dallo scompiglio di Babele, da quelle voci che strepitano una contro l’altra, avviene una radicale trasformazione: la molteplicità si fa multiforme unità, dal potere unificatore della Verità cresce la comprensione. Nel Credo che ci unisce da tutti gli angoli della Terra, che, mediante lo Spirito Santo, fa in modo che ci si comprenda pur nella diversità delle lingue, attraverso la fede, la speranza e l’amore, si forma la nuova comunità della Chiesa di Dio.
Il brano evangelico ci offre poi una meravigliosa immagine per chiarire la connessione tra Gesù, lo Spirito Santo e il Padre: lo Spirito Santo è rappresentato come il soffio di Gesù Cristo risorto (cfr Gv 20,22). L’evangelista Giovanni riprende qui un’immagine del racconto della creazione, là dove si dice che Dio soffiò nelle narici dell’uomo un alito di vita (cfr Gen 2,7). Il soffio di Dio è vita. Ora, il Signore soffia nella nostra anima il nuovo alito di vita, lo Spirito Santo, la sua più intima essenza, e in questo modo ci accoglie nella famiglia di Dio. Con il Battesimo e la Cresima ci è fatto questo dono in modo specifico, e con i sacramenti dell’eucaristia e della Penitenza esso si ripete di continuo: il Signore soffia nella nostra anima un alito di vita. Tutti i Sacramenti, ciascuno in maniera propria, comunicano all’uomo la vita divina, grazie allo Spirito Santo che opera in essi.
Nella liturgia di oggi cogliamo ancora un’ulteriore connessione. Lo Spirito Santo è Creatore, è al tempo stesso Spirito di Gesù Cristo, in modo però che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono un solo ed unico Dio. E alla luce della prima Lettura possiamo aggiungere: lo Spirito Santo anima la Chiesa. Essa non deriva dalla volontà umana, dalla riflessione, dall’abilità dell’uomo o dalla sua capacità organizzativa, poiché se così fosse essa già da tempo si sarebbe estinta, così come passa ogni cosa umana. La Chiesa invece è il Corpo di Cristo, animato dallo Spirito Santo. Le immagini del vento e del fuoco, usate da san Luca per rappresentare la venuta dello Spirito Santo (cfr At 2,2-3), ricordano il Sinai, dove Dio si era rivelato al popolo di Israele e gli aveva concesso la sua alleanza; “il monte Sinai era tutto fumante – si legge nel Libro dell’Esodo –, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco” (19,18). Infatti Israele festeggiò il cinquantesimo giorno dopo Pasqua, dopo la commemorazione della fuga dall’Egitto, come la festa del Sinai, la festa del Patto. Quando san Luca parla di lingue di fuoco per rappresentare lo Spirito Santo, viene richiamato quell’antico Patto, stabilito sulla base della Legge ricevuta da Israele sul Sinai. Così l’evento della Pentecoste viene rappresentato come un nuovo Sinai, come il dono di un nuovo Patto in cui l’alleanza con Israele è estesa a tutti i popoli della Terra, in cui cadono tutti gli steccati della vecchia Legge e appare il suo cuore più santo e immutabile, cioè l’amore, che proprio lo Spirito Santo comunica e diffonde, l’amore che abbraccia ogni cosa. Allo stesso tempo la Legge si dilata, si apre, pur diventando più semplice: è il Nuovo Patto, che lo Spirito “scrive” nei cuori di quanti credono in Cristo. L’estensione del Patto a tutti i popoli della Terra è rappresentata da san Luca attraverso un elenco di popolazioni considerevole per quell’epoca (cfr At 2,9-11). Con questo ci viene detta una cosa molto importante: che la Chiesa è cattolica fin dal primo momento, che la sua universalità non è il frutto dell’inclusione successiva di diverse comunità. Fin dal primo istante, infatti, lo Spirito Santo l’ha creata come la Chiesa di tutti i popoli; essa abbraccia il mondo intero, supera tutte le frontiere di razza, classe, nazione; abbatte tutte le barriere e unisce gli uomini nella professione del Dio uno e trino. Fin dall’inizio la Chiesa è una, cattolica e apostolica: questa è la sua vera natura e come tale deve essere riconosciuta. Essa è santa, non grazie alla capacità dei suoi membri, ma perché Dio stesso, con il suo Spirito, la crea, la purifica e la santifica sempre.
Infine, il Vangelo di oggi ci consegna questa bellissima espressione: «I discepoli gioirono al vedere il Signore» (Gv 20,20). Queste parole sono profondamente umane. L’Amico perduto è di nuovo presente, e chi prima era sconvolto si rallegra. Ma essa dice molto di più. Perché l’Amico perduto non viene da un luogo qualsiasi, bensì dalla notte della morte; ed Egli l’ha attraversata! Egli non è uno qualunque, bensì è l’Amico e insieme Colui che è la Verità che fa vivere gli uomini; e ciò che dona non è una gioia qualsiasi, ma la gioia stessa, dono dello Spirito Santo. Sì, è bello vivere perché sono amato, ed è la Verità ad amarmi. Gioirono i discepoli, vedendo il Signore. Oggi, a Pentecoste, questa espressione è destinata anche a noi, perché nella fede possiamo vederLo; nella fede Egli viene tra di noi e anche a noi mostra le mani e il fianco, e noi ne gioiamo. Perciò vogliamo pregare: Signore, mostrati! Facci il dono della tua presenza, e avremo il dono più bello: la tua gioia. Amen!

Pentecoste! Trionfo dello Spirito Santo!

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19 maggio 2013 | 8a Domenica: Pentecoste – Anno C |  Omelia di approfondimento

L’INCARNAZIONE DELLO SPIRITO SANTO

Pentecoste! Trionfo dello Spirito Santo!

Dio, nella lontananza dei tempi, alitò il suo spirito su una massa inerte di fango, e il genere umano iniziò la sua meravigliosa avventura.
Nella pienezza dei tempi, Gesù fece piovere il suo Spirito sugli Apostoli e la Chiesa diede il suo primo palpito di vita: la « nuova umanità » iniziò la sua presenza in mezzo agli uomini.
Grazie a questo Spirito, Gesù si rende presente nella nostra vita quotidiana. E’ lo Spirito che permette a Gesù di donarsi a noi come luce, forza, cibo e bevanda per le nostre anime assetate d’infinito.
Si deve allo Spirito Santo la radicale trasformazione degli Apostoli nell’intelletto, nella volontà, nelle capacità, nel coraggio, in tutto. L’opera iniziata da Gesù comincia ad aver successo proprio con la venuta dello Spirito Santo.
La Pentecoste è la festa dell’irruzione dello Spirito sulla terra, nella Chiesa. Ma non è soltanto festa di quei fortunati Apostoli, è la nostra festa.
Nelle pagine del Vangelo Gesù promette il dono dello Spirito agli Apostoli, non come prerogativa occasionale, ma come fatto permanente della Chiesa: « In verità ti dico, se uno non sarà rinato dall’acqua e dallo Spirito Santo, non potrà entrare nel regno di Dio » (Gv. 3,5). La nuova nascita dell’uomo (allusione al Battesimo) deve avvenire dunque nell’acqua e nello Spirito Santo: non è questione di carismi straordinari, ma di un dono promesso a tutti i credenti.
Anche il discorso dell’Eucaristia si conclude con un significativo accenno allo Spirito: « E’ lo Spirito che vivifica: la carne non giova a nulla. Le parole che io vi dico sono Spirito e vita » (Gv. 6,64). Nel dono del corpo e del sangue di Gesù lo Spirito determina la comprensione e l’uso: o tutto si riceve nello Spirito o non si capisce nulla.
L’importanza che Gesù attribuisce allo Spirito, dimostra che si tratta di un dono duraturo.
Lo Spirito è presente nella Chiesa come continuatore dell’opera di Gesù: « Egli vi guiderà verso tutta la verità, perché non vi parlerà da se stesso; ma dirà tutto quello che ascolta e vi farà conoscere l’avvenire » (Gv. 16,13 ss).
Non dubitiamo di questa presenza nella Chiesa e nei singoli cristiani. La Pentecoste non è solo un episodio storico: è un accadimento di tutti i giorni e di tutti i discepoli di Gesù.
Lo Spirito Santo si mescola all’uomo: lo riscalda, come fa il fuoco con l’acqua sino a portarla all’ebollizione, o col ferro sino a renderlo incandescente, senza aggiungere particelle speciali.
L’uomo può sempre sottrarsi a questa azione o ritardarla con la sua resistenza: ha la capacità di opporsi, di rifiutare, di accettare solo parzialmente.
Stiamo attenti a non mortificare la Spirito Santo in noi!
Lo Spirito è per ogni cristiano. Infatti per ogni cristiano ogni giorno è Pentecoste, perché ogni giorno – se il peccato non vi si oppone – il cristiano riceve la grazia dello Spirito Santo. Per questo Egli è « il dolce Ospite dell’anima » (SEQUENZA)
Quello che accadde allora, si ripete silenziosamente in ciascuno di noi: non c’è la cornice, ma il quadre rimane ed è lo stesso.
Il Vescovo nell’Ordinazione dei Sacerdoti ripete le parole della Pentecoste di Giovanni: « Ricevete lo Spirito : a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, a chi li riterrete saranno ritenuti ».
Sulla bocca di Gesù il soffio dello Spirito è connesso col dono della pace, con la remissione dei peccati e la consegna missionaria: « Come il Padre ha mandato me, così io mando voi ».
Tutta la Chiesa dipende dallo Spirito Santo. Con lo Spirito tutto si capisce e si accetta. Senza Spirito calano dubbi e nubi da ogni parte. Senza lo Spirito non si è capaci né di pregare né di credere. « Nessuno può dire Signore Gesù, se non nello Spirito Santo (1 Cor. 12,3).
E’ tale l’importanza della Pentecoste, a volerne far senza, non si capirebbe neppure il Cristianesimo. Se la storia della salvezza si fosse fermata all’Ascensione, non avremmo la Chiesa, perché non ci sarebbe stata la predicazione degli Apostoli, l’evangelizzazione e la conversione del mondo.
Senza lo Spirito Santo non ci sarebbero stati la fortezza dei Martiri, né l’olocausto della verginità, né le profonde intuizioni dei Padri della Chiesa. E’ Lui che illumina, assiste e fortifica i legittimi pastori, n rende infallibile il Magistero. E’ Lui che con l’effusione dei suoi doni produce sempre nuove meraviglie di santità e di grazia.
Questa è la Chiesa. Questa la sua perenne Pentecoste. Noi dobbiamo sentire tutta la fierezza di appartenere a questo corpo. Dobbiamo però sforzarci di esserne sempre delle membra vive, che contribuiscono efficacemente allo sviluppo di tutto l’insieme. Dobbiamo preoccuparci di crescere sempre nella vita che circola in questo Corpo, per opera dello Spirito Santo.
Viviamo in un momento ed in una società, in cui si sentono tante lamentele. Secondo alcuni non c’è più nulla che vada bene: nella Chiesa, nella vita politica, nella vita sociale, nei costumi, nella stampa, negli spettacoli, nella moda.
E’ stato giustamente detto: « E meglio accendere un fiammifero che maledire le tenebre ».
La società siamo noi, la Chiesa siamo noi. Invece di piangere sulle piaghe della società, dobbiamo chiederci se lavoriamo decisamente per migliorarla. Dobbiamo aver fiducia nello Spirito Santo, che opera in questo mondo, se trova anime aperte ai suoi doni.
La festa odierna è opportuna per prendere coscienza degli intimi rapporti che legano ciascuno di noi allo Spirito Santo.
« Egli è l’origine e il principio dell’incarnazione di Gesù in ogni cristiano, come fu l’origine e il principio dell’incarnazione di Gesù nel seno della Vergine Maria. L’abitazione dello Spirito Santo in noi è verità di fede come l’Incarnazione.
L’incarnazione storica continua e si compie in una spiritualizzazione dell’umanità intera.
La Pentecoste ha rivelato che Dio si era incarnato, non per trentatré anni, ma per sempre. Che aveva condiviso con noi la sostanza della sua vita (cioè il suo Spirito d’amore) per sempre. La Pentecoste è l’inizio di una presenza irrevocabile di Gesù, senza fine, nel mondo. Dove?
Nell’umanità di ciascuno di no. E’ là che adesso continua il lavoro d’Incarnazione, di Redenzione. Incarnazione di Dio, Redenzione del mondo.
Sotto certi aspetti l’inabitazione dello Spirito di Gesù nei cuori è qualcosa di più importante dell’Incarnazione storica. La Pentecoste è un avvenimento più formidabile del Natale. L’Incarnazione è Dio che diventa uomo, un uomo. La Pentecoste è gli uomini che sono chiamati a diventare Dio. Dio non soltanto si è curvato verso di noi, ma ci vuole sollevare fino a Lui.
La manifestazione dello Spirito è assai più strepitosa di quella del Figlio. L’Incarnazione infatti si compì oscuramente, di notte, in una stalla. La Pentecoste invece esplose in pieno giorno, di fronte a centinaia di persone che furono testimoni della trasformazione.
Non era più Dio che, nella sofferenza, diventava uomo, era un intero gruppo di uomini che, nella luce e nella gioia, diventavano Dio! « Farete cose più grandi di me »: l’annuncio di Gesù alludeva alla Chiesa (LOUIS EVELY).
Nonostante tutte queste meravigliose realtà, lo Spirito Santo continua – purtroppo – ad essere il grande sconosciuto, il grande dimenticato da tanti cristiani, ma anche da molti religiosi.
Se vogliamo raggiungere presto la santità, stiamo attenti a non sbagliare indirizzo… Non rivolgiamoci, per esempio, a… Santa Zita o ad altri Santi… ma rivolgiamoci al Santo per eccellenza, allo Spirito Santo…

Un giorno Sant’ ANGELA MERICI pregava fervidamente sulla tomba di San Francesco d’Assisi chiedendo di vincere i tanti ostacoli che vede frapporsi alla sua santità.
Udì una voce: – Tu hai fatto ricorso al mio servo Francesco; ma ti indico un altro mezzo più efficace.
- Chi sei tu? – chiese Angela.
- Io sono lo Spirito Santo. Sono venuto per darti la gioia che non hai, e la santità di cui hai bisogno. Sappi che io ti amo, e ho stabilito in te la mia dimora; perciò cerca in me solo il tuo riposo.
Pensando ai suoi peccati, la Santa si sentì indegna della visita divina, e credette che fosse una sua illusione: – Se foste veramente lo Spirito Santo – disse, riavendosi dallo stupore – non mi parlereste così, perché sono indegna; e poi io dovrei provare una gioia tale, da morirne…
- Non sono io padrone dei miei doni? – replicò soavemente la voce misteriosa. – Io dò la mia grazia e i miei doni a chi voglio….
Sant’ ANGELA sentì una ineffabile effusione della grazia, e non ebbe più alcun dubbio.

Cari Fratelli e Sorelle, per ottenere la santità, non sbagliamo indirizzo: rivolgiamoci allo Spirito Santo. Ma il segreto per attirare in noi lo Spirito Santo è sempre la devozione alla Madonna: Ella infatti è la Sua Sposa Immacolata. Perciò la Madonna è come la divina calamita dello Spirito Santo.
« Ubi Maria, ibi Spiritus:
dove c’è la Madonna, ivi c’è lo Spirito Santo ».
E quindi sappiamoci regolare! Rivolgiamoci a Lei!

   D. SEVERINO GALLO sdb, (+ 2007) 

Our Lady of China

Our Lady of China dans immagini sacre Chinalady

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Publié dans:immagini sacre |on 16 mai, 2013 |Pas de commentaires »

SALMO 35 (36) LA MALIZIA DEL MALVAGIO E LA BONTÀ DI DIO

http://www.perfettaletizia.it/bibbia/salmi/salmo35.htm

SALMO 35 (36)  LA MALIZIA DEL MALVAGIO E LA BONTÀ DI DIO

Al maestro del coro. Di Davide, servo del Signore
Oracolo del peccato nel cuore del malvagio:
non c’è paura di Dio davanti ai suoi occhi;
 perché egli s’illude con se stesso, davanti ai suoi occhi,
nel non trovare la sua colpa e odiarla.
 Le sue parole sono cattiveria e inganno,
rifiuta di capire, di compiere il bene.
 Trama cattiveria nel suo letto,
si ostina su vie non buone,
non respinge il male.
 Signore, il tuo amore è nel cielo,
la tua fedeltà fino alle nubi,
 la tua giustizia è come le più alte montagne,
il tuo giudizio come l’abisso profondo:
uomini e bestie tu salvi, Signore.
 Quanto è prezioso il tuo amore, o Dio!
Si rifugiano gli uomini all’ombra delle tue ali,
 si saziano dell’abbondanza della tua casa:
tu li disseti al torrente delle tue delizie.
 È in te la sorgente della vita,
alla tua luce vediamo la luce.
 Riversa il tuo amore su chi ti riconosce,
la tua giustizia sui retti di cuore.
 Non mi raggiunga il piede dei superbi
e non mi scacci la mano dei malvagi.
 sono caduti i malfattori:
abbattuti, non possono rialzarsi.

COMMENTO
 L’esordio del salmo presenta il buio del cuore dell’empio. Poche parole, ma bastanti e soprattutto capaci di attivare un profonda riflessione, per un discernimento degli uomini.
Il salmo presenta come di fronte all’empio il giusto può resistere solo se si rifugia in Dio, che è fedele e la cui giustizia, cioè la base del suo giudizio sull’uomo non è bassa come quella degli uomini, ma perfetta. Egli guarda il cuore dell’uomo che ha creato libero, ma anche orientato a lui, guarda ai benefici che ha dato all’uomo, alle grazie che gli ha concesso. Il suo giudizio è “come l’abisso profondo (il mare) » poiché Dio coglie le profondità del cuore.
Il salmo è centrato sulla grazia.
Essa viene presentata dal salmo come azione che protegge l’uomo, come fa un uccello con i suoi nati; ed è un proteggere che dà “ombra”, cioè pace e refrigerio.
La grazia è l’abbondanza di bene che l’uomo trova nella casa di Dio. La casa di Dio nel Vecchio Testamento è il tempio dove veniva diffusa la Parola e dove si compivano i sacrifici. Per noi è la chiesa dove l’abbondanza è il Cristo, che annuncia per mezzo della Chiesa la sua Parola, e dove è presente realmente sotto le specie del pane e del vino. Cristo, salvezza ed elevazione a Dio dell’uomo, è la grande abbondanza di Dio.
La grazia è ancora espressa come un torrente di delizie; un torrente di acqua che scaturisce dalla sorgente di vita, che è Dio. L’immagine del torrente ci porta al fluire della grazia dello Spirito Santo (Cf. Ap 22,1).
“Alla tua luce vediamo la luce” dice il salmo, paragonando la grazia alla luce. Per mezzo della grazia (luce) si coglie la luce, cioè la Parola che dona la conoscenza di Dio.
“Riversa il tuo amore su chi ti riconosce”; si riconosce Dio mediante la “luce che fa vedere la luce”. Chi riconosce Dio come Dio misericordioso e provvido il suo amore riceve l’onda del suo amore. Ma non solo riceve il suo amore, ma Dio lo fa capace di amarlo, cioè di corrispondere all’Amore con amore. Non si ama ciò che non si conosce, ma la conoscenza si eleverà ancora per l’esperienza dell’Amore, producendo sempre maggiore intensità di corrispondenza d’amore.
Il salmo termina con l‘invocazione del giusto ad essere difeso dagli empi. E, infine, usando il tempo presente, esprime la certezza che questo avverrà: “Sono caduti i malfattori, abbattuti, non possono rialzarsi”.

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PAPA FRANCESCO – UDIENZA GENERALE 15.5.13 sullo « Spirito Santo »

http://www.vatican.va/holy_father/francesco/audiences/2013/documents/papa-francesco_20130515_udienza-generale_it.html

PAPA FRANCESCO

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 15 maggio 2013   

Cari fratelli e sorelle buongiorno!

oggi vorrei soffermarmi sull’azione che lo Spirito Santo compie nel guidare la Chiesa e ciascuno di noi alla Verità. Gesù stesso dice ai discepoli: lo Spirito Santo «vi guiderà a tutta la verità» (Gv 16,13), essendo Egli stesso «lo Spirito di Verità» (cfr Gv 14,17; 15,26; 16,13).
Viviamo in un’epoca in cui si è piuttosto scettici nei confronti della verità. Benedetto XVI ha parlato molte volte di relativismo, della tendenza cioè a ritenere che non ci sia nulla di definitivo e a pensare che la verità venga data dal consenso o da quello che noi vogliamo. Sorge la domanda: esiste veramente “la” verità? Che cos’è “la” verità? Possiamo conoscerla? Possiamo trovarla? Qui mi viene in mente la domanda del Procuratore romano Ponzio Pilato quando Gesù gli rivela il senso profondo della sua missione: «Che cos’è la verità?» (Gv 18,37.38). Pilato non riesce a capire che “la” Verità è davanti a lui, non riesce a vedere in Gesù il volto della verità, che è il volto di Dio. Eppure, Gesù è proprio questo: la Verità, che, nella pienezza dei tempi, «si è fatta carne» (Gv 1,1.14), è venuta in mezzo a noi perché noi la conoscessimo. La verità non si afferra come una cosa, la verità si incontra. Non è un possesso, è un incontro con una Persona.
Ma chi ci fa riconoscere che Gesù è “la” Parola di verità, il Figlio unigenito di Dio Padre? San Paolo insegna che «nessuno può dire: “Gesù è Signore!” se non sotto l’azione dello Spirito Santo» (1Cor 12,3). E’ proprio lo Spirito Santo, il dono di Cristo Risorto, che ci fa riconoscere la Verità. Gesù lo definisce il “Paraclito”, cioè “colui che ci viene in aiuto”, che è al nostro fianco per sostenerci in questo cammino di conoscenza; e, durante l’Ultima Cena, Gesù assicura ai discepoli che lo Spirito Santo insegnerà ogni cosa, ricordando loro le sue parole (cfr Gv 14,26).
Qual è allora l’azione dello Spirito Santo nella nostra vita e nella vita della Chiesa per guidarci alla verità? Anzitutto, ricorda e imprime nei cuori dei credenti le parole che Gesù ha detto, e, proprio attraverso tali parole, la legge di Dio – come avevano annunciato i profeti dell’Antico Testamento – viene inscritta nel nostro cuore e diventa in noi principio di valutazione nelle scelte e di guida nelle azioni quotidiane, diventa principio di vita. Si realizza la grande profezia di Ezechiele: «vi purificherò da tutte le vostre impurità e da tutti i vostri idoli, vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo… Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme» (36,25-27). Infatti, è dall’intimo di noi stessi che nascono le nostre azioni: è proprio il cuore che deve convertirsi a Dio, e lo Spirito Santo lo trasforma se noi ci apriamo a Lui.
Lo Spirito Santo, poi, come promette Gesù, ci guida «a tutta la verità» (Gv 16,13); ci guida non solo all’incontro con Gesù, pienezza della Verità, ma ci guida anche “dentro” la Verità, ci fa entrare cioè in una comunione sempre più profonda con Gesù, donandoci l’intelligenza delle cose di Dio. E questa non la possiamo raggiungere con le nostre forze. Se Dio non ci illumina interiormente, il nostro essere cristiani sarà superficiale. La Tradizione della Chiesa afferma che lo Spirito di verità agisce nel nostro cuore suscitando quel “senso della fede” (sensus fidei) attraverso il quale, come afferma il Concilio Vaticano II, il Popolo di Dio, sotto la guida del Magistero, aderisce indefettibilmente alla fede trasmessa, la approfondisce con retto giudizio e la applica più pienamente nella vita (cfr Cost. dogm. Lumen gentium, 12). Proviamo a chiederci: sono aperto all’azione dello Spirito Santo, lo prego perché mi dia luce, mi renda più sensibile alle cose di Dio? Questa è una preghiera che dobbiamo fare tutti i giorni: «Spirito Santo fa’ che il mio cuore sia aperto alla Parola di Dio, che il mio cuore sia aperto al bene, che il mio cuore sia aperto alla bellezza di Dio tutti i giorni». Vorrei fare una domanda a tutti: quanti di voi  pregano ogni giorno lo Spirito Santo? Saranno pochi, ma noi dobbiamo soddisfare questo desiderio di Gesù e pregare tutti i giorni lo Spirito Santo, perché ci apra il cuore verso Gesù.
Pensiamo a Maria che «serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19.51). L’accoglienza delle parole e delle verità della fede perché diventino vita, si realizza e cresce sotto l’azione dello Spirito Santo. In questo senso occorre imparare da Maria, rivivere il suo “sì”, la sua disponibilità totale a ricevere il Figlio di Dio nella sua vita, che da quel momento è trasformata. Attraverso lo Spirito Santo, il Padre e il Figlio prendono dimora presso di noi: noi viviamo in Dio e di Dio. Ma la nostra vita è veramente animata da Dio? Quante cose metto prima di Dio?
Cari fratelli e sorelle, abbiamo bisogno di lasciarci inondare dalla luce dello Spirito Santo, perché Egli ci introduca nella Verità di Dio, che è l’unico Signore della nostra vita. In quest’Anno della fede chiediamoci se concretamente abbiamo fatto qualche passo per conoscere di più Cristo e le verità della fede, leggendo e meditando la Sacra Scrittura, studiando il Catechismo, accostandosi con costanza ai Sacramenti. Ma chiediamoci contemporaneamente quali passi stiamo facendo perché la fede orienti tutta la nostra esistenza. Non si è cristiani “a tempo”, soltanto in alcuni momenti, in alcune circostanze, in alcune scelte. Non si può essere cristiani così, si è cristiani in ogni momento! Totalmente! La verità di Cristo, che lo Spirito Santo ci insegna e ci dona, interessa per sempre e totalmente la nostra vita quotidiana. Invochiamolo più spesso, perché ci guidi sulla strada dei discepoli di Cristo. Invochiamolo tutti i giorni. Vi faccio questa proposta: invochiamo tutti i giorni lo Spirito Santo, così lo Spirito Santo ci avvicinerà a Gesù Cristo.

Kazan Mother of God

Kazan Mother of God dans immagini sacre kazan_mother_of_god
http://travelmaven.wordpress.com/2008/10/17/rochester-ny-tradition-in-transition-russian-icons-memorial-art-gallery/

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IL BALLO DELL’OBBEDIENZA ( MADELEINE DELBREL, 1949 )

http://www.atma-o-jibon.org/italiano4/preg_delbrel7.htm

IL BALLO DELL’OBBEDIENZA   

( MADELEINE DELBREL, 1949 )

Noi abbiamo suonato il flauto
e voi non avete danzato!

È il 14 Luglio,
tutti si apprestano a danzare.
Dappertutto, dopo mesi, dopo anni, il mondo danza.
Ondate di guerra, ondate di ballo.

C’è proprio molto rumore.
La gente seria è a letto.
I Religiosi recitano il Mattutino di Sant’Enrico, Re.
E io, penso all’altro Re.
Al Re Davide, che danzava davanti all’Arca.

Perché, se ci sono molti Santi che non amano danzare,
ce ne sono molti altri che hanno avuto bisogno di danzare,
tanto erano felici di vivere:
Santa Teresa con le sue nacchere,
San Giovanni della Croce con un Bambino Gesù tra le braccia,
e San Francesco, davanti al Papa.

Se noi fossimo contenti di te, Signore,
non potremmo resistere
a questo bisogno di danzare che irrompe nel mondo,
e indovineremmo facilmente
quale danza ti piace farci danzare,
sposando i passi che la tua Provvidenza ha segnato.

Perché io penso che tu forse ne abbia abbastanza
della gente che, sempre, parla di servirti
con l’aria da capitano,
di conoscerti con aria da professore,
di raggiungerti con regole sportive,
di amarti come ci si ama in un matrimonio invecchiato.

Un giorno, in cui avevi un po’ voglia d’altro,
hai inventato San Francesco,
e ne hai fatto il tuo giullare.
Spetta a noi ora di lasciarci inventare,
per essere gente allegra, che danza la propria vita con te.

Per essere un buon danzatore, con te come con tutti,
non occorre sapere dove la danza conduce.
Basta seguire,
essere gioioso,
essere leggero,
e soprattutto non essere rigido.

Non occorre chiederti spiegazioni
sui passi che ti piace fare.
Bisogna essere come un prolungamento,
vivo ed agile, di te.
E ricevere da te la trasmissione del ritmo, che l’orchestra scandisce.

Non bisogna volere avanzare a tutti i costi,
ma accettare di girarsi, di andare di fianco.
Bisogna sapersi fermare e sapere scivolare,
invece di camminare.
Ma non sarebbero che passi senza senso,
se la musica non ne facesse un’armonia.

Ma noi dimentichiamo la musica del tuo Spirito,
e facciamo della nostra vita un esercizio di ginnastica;
dimentichiamo che fra le tue braccia la vita è danza,
che la tua Santa Volontà
è di una inconcepibile fantasia,
e che non c’è monotonia e noia,
se non per le anime vecchie,
che fanno tappezzeria,
nel ballo gioioso del tuo amore.

Signore, Vieni a invitarci!
Siamo pronti a danzarti questa corsa da fare,
questi conti, il pranzo da preparare, questa veglia
in cui avremo sonno.
Siamo pronti a danzarti la danza del lavoro,
quella del caldo, e quella del freddo, più tardi.
Se certe arie sono spesso in minore, non ti diremo
che sono tristi;
se altre ci fanno un poco ansimare, non ti diremo
che sono logoranti.
E se qualcuno ci urta, la prenderemo in ridere;
sapendo bene che questo capita sempre, quando si danza.

Signore, insegnaci il posto
che tiene, nel romanzo eterno,
avviato fra te e noi,
il ballo singolare della nostra obbedienza.

Rivelaci la grande orchestra dei tuoi disegni;
in essa, quel che tu permetti
dà suoni strani,
nella serenità di quel che tu vuoi.

Insegnaci a indossare ogni giorno
la nostra condizione umana,
come un vestito da ballo che ci farà amare, da te,
tutti i suoi dettagli,
come indispensabili gioielli.

Facci vivere la nostra vita,
non come un gioco di scacchi dove tutto è calcolato,
non come un match dove tutto è difficile,
non come un teorema rompicapo,
ma come una festa senza fine,
in cui l’incontro con te si rinnova,
come un ballo,
come una danza,
fra le braccia della tua grazia,
nella musica universale dell’amore.

Signore, Vieni a invitarci!

Publié dans:preghiere |on 15 mai, 2013 |Pas de commentaires »

OSEA: L’ESILIO NELLA TERRA PROMESSA.

http://www.dossetti.com/attivita/meditazioni/med.osea.html#01

OSEA: L’ESILIO NELLA TERRA PROMESSA.

MEDITAZIONE DI PINO STANCARI

capitoli | L’esilio nell’esilio | L’esilio nella Terra Promessa | Finalmente nella Terra Promessa | L’esilio dei Patriarchi | Osea: la storia, la vicenda personale, la profezia | È in corso una lite | Una terra di idolatria | Il ritorno in Egitto | Nel grembo della gravidanza

L’esilio nell’esilio
Abbiamo concentrato l’attenzione sugli avvenimenti che si svolgono a Kades, l’oasi in cui si compiono eventi drammatici di cui ci parla il libro dei Numeri. C’è già un esilio che si presenta a noi come impreparazione all’ingresso, un esilio antecedente allo stesso ingresso. Ci rendiamo conto che l’ingresso nella terra non sia affatto scontato o non è semplice conseguenza delle promesse con cui il Signore si è manifestato ai patriarchi. Coloro che sono sul punto di entrare sono impreparati all’incontro con il dono che per loro è stato gratuitamente preparato e che ora viene loro gratuitamente concesso. Sono impreparati ad entrare, sono già in esilio. E quel lungo itinerario che dovrà essere compiuto secondo il racconto biblico nel corso di 40 anni, tempo di una generazione, è già da comprendere nel senso di una teologia dell’esilio. Una generazione in realtà rappresentativa di ogni altra generazione. Siamo sempre, generazione dopo generazione, noi popolo di Dio in procinto di entrare, bisognosi di essere sottratti a quello stato di impreparazione che ancora ci impedisce di entrare, perché non siamo predisposti a immergerci nella esperienza del dono che gratuitamente ci è stato promesso e che finalmente gratuitamente ci viene consegnato. torna su

L’esilio nella Terra Promessa
Vorrei prendere contatto con una fase ulteriore della storia della salvezza, quando oramai da alcuni secoli il popolo si è insediato nella terra promessa, non più promessa, perché ormai è terra ereditata, conquistata, abitata. L’alleanza tra Dio e il suo popolo raggiunge la sua realizzazione più completa, perché quella relazione di amore, che è stata istituita una volta per tutte, si può collocare adesso nell’ambiente preciso, la terra di Israele. Sono passati alcuni secoli. Non bisogna mai dimenticare che l’incontro con quella terra è da intendere nella prospettiva del giardino, del ritorno alla vita, dell’ingresso nella vita, perché gli uomini che sono esuli dalla vita debbono essere rieducati. Per questo il Signore si è rivelato come guida che apre la strada verso la terra e la terra è sacramento anticipativo di quel giardino: si entra nella terra per entrare nella vita, per essere ricondotti dopo la lunga e dolorosa esperienza dell’esilio alla pienezza della vita.
L’esilio rimane l’elemento che concorre a definire dall’interno la vicenda di un popolo che, quando ancora sta per entrare in quella terra già l’ha perduta, e, quando finalmente sarà entrato in quella terra, già sta sperimentando gli effetti di una corruzione drammatica, per cui il rapporto con quella terra ormai abitata si traduce in un rapporto tristemente, amaramente conflittuale. torna su

Finalmente nella Terra Promessa
Quella terra, finalmente abitata, è divenuta in modo irreparabile la terra del grande fallimento. Siamo di nuovo al tema dell’esilio.

Sondiamo alcune pagine del libro di Osea.
Nei secoli che seguono all’ingresso della terra la situazione è ancora oscura ed informe. Le tribù sono insediate ma sono ancora in una fase di precarietà molto evidente. Intorno all’anno 1000 a.C. si giunge alla fondazione del regno. Con la istituzione monarchica l’insediamento nella terra assume una forma oggettiva, istituzionale. Tant’è vero che gli storici tenderebbero a raccontare la storia del popolo di Israele da Davide in poi, dall’anno 1000 in poi. Tutto quello che riguarda le fasi storiche antecedenti è frutto di una ricostruzione da Davide in poi. Questo popolo abita quella terra e non è più separabile la storia di quel popolo dalla storia di quella terra. Le promesse si compiono, dunque il Signore che ha fatto alleanza con il suo popolo lo ha introdotto nella terra e adesso l’insediamento in essa è esplicitato mediante la fondazione del regno. In quella terra emerge in modo sempre più vistoso, e in modo sempre più commovente, la presenza della città, Gerusalemme.
Tutto questo sempre in vista del giardino, per ritornare alla vita perduta. Dall’esilio gli uomini debbono essere tirati fuori per essere rieducati alla vita. Per questo la terra e quindi la città. Appaiono molti elementi di incertezza e di ambiguità di cui noi siamo consapevoli. Esiste una realtà oggettiva per cui il popolo è ormai identificato in relazione a quella terra e non esiste un popolo indipendentemente da quella terra, non esiste una relazione fra il Signore e il suo popolo indipendentemente da quella terra. L’alleanza è confermata dal momento che il popolo abita nella terra. Questa dimora assume oramai la forma di una monarchia organizzata con tanto di capitale a cui ci si volge carichi di affetti intensissimi: Gerusalemme.
Sullo sfondo la ricostruzione del passato. E’ proprio nel corso di questi secoli che vengono ricostruite le vicende dei patriarchi, di Abramo, Giacobbe, ecc. Reminiscenze che vengono man mano convogliate all’interno di composizioni narrative che unificano, sistemano, ricostruiscono la storia dell’antefatto rispetto alla situazione contemporanea: quella di chi abita quella terra. La storia dell’antefatto è la storia di coloro che hanno ricevuto le promesse in vista della terra. Se noi oggi abitiamo in questa terra è perché siamo il punto di arrivo di una storia cominciata allora, quando i progenitori accolsero e custodirono le promesse: la storia dei patriarchi. torna su

L’esilio dei Patriarchi
Nell’ambito della storia patriarcale che noi leggiamo in Gen 12-50, ci sono due casi veramente esemplari di esilio. Il primo è quello di Giacobbe, esule dalla terra di Canaan. Egli vive per un lungo periodo nelle regioni dell’alta Mesopotamia perché deve allontanarsi dalla terra di Canaan, minacciato a morte da suo fratello Esaù. Giacobbe ha carpito da Esaù la benedizione che gli era dovuta. Si è sostituito ad Esaù per prendere su di sé la benedizione del primogenito. Primo caso di esilio: Giacobbe.

Secondo caso di esilio, anch’esso clamoroso: Giuseppe che discende in Egitto.
Il lungo percorso compiuto da Giacobbe diventa esemplare per quanto riguarda una intensa e radicale esperienza di conversione. Giacobbe in esilio è coinvolto in una grandiosa avventura che mette in movimento le realtà più profonde dell’animo umano e fa di lui, Giacobbe, l’esemplare dell’uomo convertito. Attraverso l’esilio si impone l’intensità, l’autenticità, la radicalità di un cammino di conversione.
Questa storia del passato viene ripensata, richiamata, ricostruita da coloro che oramai sono insediati nella terra. Nel corso di quei secoli il contatto con la terra acquista un significato sempre più provocatorio, sempre più destabilizzante. Quel che dovrebbe essere un modo di dimorare in un contesto definito e rasserenante diventa invece esperienza di una ebollizione incessante e crocifiggente. La relazione con la terra non è una relazione facile, acquista anzi aspetti sempre più dolorosi, sempre più amari, sempre più strazianti, fino al momento in cui la terra sarà perduta. Nel frattempo il popolo si spezza, ci sono due regni, uno scisma, complicazioni di vario genere, rapporti con altri popoli. torna su

Osea: la storia, la vicenda personale, la profezia
Siamo alla metà dell’VIII sec. a. C., nel regno del nord, il regno d’Israele. Osea è un personaggio che appartiene a una categoria sociale piuttosto qualificata, probabilmente un aristocratico. E’ un momento ancora di benessere, per quanto riguarda la vita della gente che abita nel regno settentrionale, che peraltro è la componente più prosperosa di quello che era stato il regno di Davide e di Salomone, anche la popolazione è più numerosa, le tribù del nord hanno un loro prestigio. E’ vero che il regno di Giuda, più piccolo, più modesto, vanta il prestigio della capitale Gerusalemme, là dove Davide ha trasportato l’arca e là dove Salomone ha costruito il tempio. E a Gerusalemme continuano a regnare i discendenti di Davide, mentre per quanto riguarda il regno d’Israele la situazione politica è più indeterminata, più dipendente dalle situazioni di forza, così come man mano si impongono. Dinastie diverse si avvicendano nel corso di quei secoli. Nel secolo in cui vive Osea c’è ancora una sostanziale stabilità, ma passeranno pochi anni e il crollo sarà inevitabile.
Nell’anno 742 a.C. il gran re di Assiria impone al regno d’Israele una imposta di mille talenti d’argento. E’ l’inizio della fine. Passeranno una decina d’anni e già le tribù dell’estremo nord saranno inglobate nel territorio dell’impero. Passerà un’altra decina d’anni, 721, Samaria, la capitale del regno d’Israele, sarà distrutta e il regno d’Israele cancellato. L’impero Assiro non scherza: preme, dilaga in modo da non ammettere repliche, non accettare rinvii o adattamenti. Il regno di Giuda sopravvive ancora per precipitare in un altro vortice catastrofico.
Osea è coinvolto nella vicenda del suo popolo in modo tale da divenire testimone di un conflitto di cui la gran parte dei suoi contemporanei non si rende ancora minimamente conto. Passeranno pochi decenni e i fatti si imporranno da sé, ma Osea ha una percezione acutissima e dolorosissima del conflitto che compromette la relazione tra il Signore e il suo popolo. Là dove questa relazione è compromessa, là dove l’alleanza tra Dio e il suo popolo è svuotata di contenuti, là è in questione la terra.
Osea è testimone di un esilio mentre ancora abita nella terra. Situazione paradossale, eppure è una situazione che si riproporrà nella storia della salvezza con altre caratteristiche, con altre testimonianze, altri linguaggi.
Osea è coinvolto in questa grande vicenda del suo popolo in forza di una sua vicenda personale che compromette la stabilità della sua famiglia. Egli ha sposato una donna che lo ha tradito, una donna che generato figli di adulterio, figli di prostituzione. Una storia di amore, che assume forme amarissime, dolorosissime. E’ la storia di un amore tradito, negato, corrotto.
Attraverso quel suo vissuto personale e familiare, Osea è chiamato a accogliere una vocazione profetica. Non è soltanto un suo vissuto personale e familiare, Osea è profeta, ossia testimone di una vicenda che riguarda la relazione tra il Signore e il suo popolo, la storia dell’alleanza, la storia di un amore tradito. torna su

E’ in corso una lite
Ed ecco. E’ in corso una lite. In ebraico si dice: rib. Il Signore rivendica quello che è suo, perché il Signore si è impegnato in una relazione di amore che è stata rifiutata. E’ in corso una lite.
I contemporanei di Osea non se ne rendono conto. Siamo in uno stato di generale corruzione, la terra è divenuta l’ambiente in cui l’idolatria prospera in maniera sfacciata, spudorata.
I contemporanei di Osea non se ne rendono conto, ma Osea è profeta. Osea coglie in questa vicenda l’urgenza, la tensione, il fremito, l’ebollizione di una lite. Egli è in grado di interpretare la vicenda della sua generazione come una esperienza di esilio, quando ancora l’esilio nei fatti non ha avuto luogo. Ma quello stato di lite che mette in discussione il valore radicale di un rapporto di amore, che è stato compromesso, quello stato di lite già si impone come esperienza di esilio. E’ l’antico esilio dalla vita che è ancora l’esilio di oggi, in cui i fatti considerati nella loro apparenza esteriore ci inviterebbero di essere a nostro agio ben insediati nella terra che ci è stata donata. In realtà quell’esilio dalla vita è proprio il dato che emerge dal di dentro delle contraddizioni a cui non possiamo più sfuggire e mentre ancora siamo dimoranti in questa terra, già l’abbiamo perduta, perché abbiamo tradito un impegno di amore per il quale il Signore onnipotente si era manifestato a noi e per il quale noi ci eravamo offerti.

Capitolo 1, versetto 2:
«Quando il Signore cominciò a parlare a Osea, gli disse: « Và, prenditi in moglie una prostituta e abbi figli di prostituzione, poiché il paese non fa che prostituirsi allontanandosi dal Signore »».
E’ in questione la terra. Nella relazione tra il Signore e il suo popolo c’è di mezzo la terra. L’alleanza di amore tra il Signore e il suo popolo passa attraverso quella terra che è stata promessa e che è stata donata. Quel rapporto di amore che è stato trasformato in un tradimento di amore, la terra è intrensicamente corrotta, è una dimora contaminata, infetta, è una dimora che si sta sfilacciando dall’interno, si trasforma in uno sconquasso terribile in un crollo insopportabile.
«Ascoltate la parola del Signore, o Israeliti, poiché il Signore ha un processo (rib) con gli abitanti del paese».
Il Signore ha deciso di litigare con voi. La dimora è vuota, ha già tutte le caratteristiche di un vero e proprio esilio, anzi di un esilio quanto mai esasperato poiché sono coinvolte le fibre più nascoste dell’animo umano: compromessi i sentimenti, inquinati gli affetti. Il Signore ha una lite, sta perseguendo una sua intenzione giudiziaria contro gli abitanti del paese. E prosegue:
«Non c’è infatti sincerità né amore del prossimo, né conoscenza di Dio nel paese».
I capi di imputazione vengono elencati in modo lineare e martellante: non c’è sincerità, non c’è amore del prossimo, non c’è conoscenza di Dio nel paese. Si aggiunge una sequenza di 7 delitti: «Si giura, si mentisce, si uccide, si ruba, si commette adulterio, si fa strage e si versa sangue su sangue». 3+7 una specie di decalogo alla rovescia, un decalogo ribaltato.

«Per questo è in lutto il paese».
E’ in questione la terra: la terra è contaminata, ha assorbito un contagio che viene riproposto con una progressione travolgente. «Per questo è in lutto il paese e chiunque vi abita langue insieme con gli animali della terra e con gli uccelli del cielo; perfino i pesci del mare periranno».
Un languore generale di tutti i viventi, una spossatezza della vita. Abitando nella terra abbiamo disimparato a vivere. Di fatto abitiamo nella terra, come no! Anzi i dati oggettivi per il momento danno un risalto glorioso a questa realtà. Eppure abitare in questa terra si traduce in una esperienza di languore, di stanchezza, di amarezza, di avvilimento. Cosa c’è da considerare? Quel che i contemporanei non considerano, ma che invece Osea mette subito in evidenza, è che questa è la storia di un amore tradito. Lo sa bene lui, proprio per quel che gli è capitato nel suo vissuto personale. torna su

Una terra di idolatria
cap. 5, vv. 1-7: «Ascoltate questo, o sacerdoti, state attenti, gente d’Israele, o casa del re, porgete l’orecchio».
Questa sentenza viene indirizzata a tutto il popolo con le autorità religiose e civili.
«Poiché contro di voi si fa il giudizio. Voi foste infatti un laccio in Mizpà, una rete tesa sul Tabor e una fossa profonda a Sittìm; ma io sarò una frusta per tutti costoro».
Episodi della storia passata di cui viene sommariamente rievocato qualche particolare che ci sfugge. Si tratta di episodi che già esprimevano delle ambiguità. Adesso la perversione a cui alludevano quegli eventi trascorsi esplode in modo incontenibile: io sarò una frusta per tutti costoro. E prosegue: «Io conosco Efraim». Efraim è tribù che svolge un ruolo dominante nel regno d’Israele. Efraim e Manasse sono figli di Giuseppe. La casa di Giuseppe è il nucleo centrale delle tribù che compongono il regno d’Israele. Efraim è dire lo stesso regno di Israele, ma dire Efraim è dire proprio le classi dominanti, gli uomini di governo, l’anima del paese divenuto regno e costituito da un pezzo oramai come realtà civile e politica su molti fronti.
«Io conosco Efraim e non mi è ignoto Israele. Ti sei prostituito, Efraim! Si è contaminato Israele».
Questo è il punto: ti sei svenduto per un altro amore. Questa prostituzione è già l’esilio. Questo stato di prostituzione compromette il rapporto con la terra, fa di questa dimora nella terra, una disgrazia, una maledizione:
«ti sei prostituito, Efraim, si è contaminato Israele. Non dispongono le loro opere per far ritorno al loro Dio»
Attenzione al verbo ritornare. Là dove di generazione in generazione la strada della conversione, la strada del ritorno era costantemente indicata, quella strada è rimasta deserta.
«Non dispongono le loro opere per far ritorno al loro Dio, poiché uno spirito di prostituzione è fra loro e non conoscono il Signore».
Non c’è ritorno. Il Signore conosce Efraim, il Signore è perfettamente consapevole di questo mancato appuntamento. Là dove ti è stata indicata la strada per tornare al Signore tuo Dio, tu non ti sei fatto vivo. Non ti sei presentato, assente, latitante, imboscato. E insiste:
«L’arroganza d’Israele testimonia contro di lui, Israele ed Efraim cadranno per le loro colpe e Giuda soccomberà con loro. Con i loro greggi e i loro armenti andranno in cerca del Signore, ma non lo troveranno».
Ci sono ancora tentativi di approfittare delle ricchezze a disposizione: greggi ed armenti per impostare un certo culto religioso, a suo modo generosissimo, ma inconcludente. Anzi abusivo.
«Con i loro greggi e i loro armenti andranno in cerca del Signore, ma non lo troveranno: egli si è allontanato da loro».
Qui è usato un verbo interessante, è il verbo che si usa per indicare il gesto di togliere il sandalo. In Deuteronomio si parla di quel che dev’essere il comportamento del parente stretto nel caso che qualcuno muoia senza lasciare figli. La vedova dev’essere sposata perché nasca un figlio che porti il nome del defunto. E se quel tale non si assume il compito che la legge gli assegna, gli viene tolto il sandalo, è un segno di disonore, è lo scalzato. E’ questo stesso verbo. Ma in questo caso è proprio il Signore onnipotente, proprio lui, che si è allontanato da loro, si è per così dire tolto il sandalo, si rifiuta di subentrare come sposo di una ipotetica vedova. Si è allontanato da loro:
«Sono stati sleali verso il Signore, generando figli bastardi: un conquistatore li divorerà insieme con i loro campi».
Invece dell’interlocutore che si assume la responsabilità di accogliere coloro che sono sbandati, appare sulla scena in modo così clamoroso e devastante l’ombra di un intruso, di un seduttore, di un divoratore. torna su

Il ritorno in Egitto
cap. 8. Il popolo non torna, non si converte. Osea, quanto più prende in considerazione gli eventi e li interpreta dal di dentro del suo stesso vissuto personale così potentemente crocefisso negli affetti, che cosa scopre? Scopre che mentre è vero che il popolo non si converte al Signore, il popolo ritorna in Egitto. Un primo oracolo fino al v. 6, e un secondo oracolo fino al v. 14.
«Dá  fiato alla tromba! Come un’aquila sulla casa del Signore… perché hanno trasgredito la mia alleanza e rigettato la mia legge. Essi gridano verso di me: « Noi ti riconosciamo Dio d’Israele! »». E’ tutta una menzogna. Il popolo vanta un atteggiamento di fedeltà, di appartenenza, che è del tutto fallace. Israele ha rigettato il bene. E’ la storia di un amore tradito, già lo sappiamo.
«Hanno creato dei re che io non ho designati».
Il popolo si è aggrappato alle proprie presunzioni di autonomia politica:
«hanno scelto capi a mia insaputa. Con il loro argento e il loro oro si sono fatti idoli ma per loro rovina. Ripudio il tuo vitello, o Samaria!».
I templi di Betel e Dan, uno meridionale e l’altro settentrionale, furono fatti costruire appositamente da Geroboamo I, perchè la popolazione evitasse il riferimento al tempio di Gerusalemme. Essi sono qui riproposti come esempio di ricaduta nell’idolatria. L’immagine del vitello d’oro.
«La mia ira divampa contro di loro; fino a quando non si potranno purificare i figli di Israele? Esso è opera di un artigiano, esso non è un dio: sarà ridotto in frantumi il vitello di Samaria».
Un mucchio di cocci, solo questo ne rimarrà. A che cosa servono questi cocci? C’è di mezzo non soltanto una devozione deviata, c’è di mezzo una coscienza politica che è intrensicamente idolatrica. E allora il secondo oracolo:
«E poiché hanno seminato vento raccoglieranno tempesta. Il loro grano sarà senza spiga, se germoglia non darà farina, e se ne produce, la divoreranno gli stranieri. Israele è stato inghiottito: si trova ora in mezzo alle nazioni come un vaso spregevole. Essi sono saliti fino ad Assur, asino selvaggio, che si aggira solitario; Efraim si è acquistato degli amanti. Se ne acquistino pure fra le nazioni, io li metterò insieme e fra poco cesseranno di eleggersi re e governanti».
La sparizione è prossima, il regno oramai si è consumato, è una storia svuotata, è una storia che svapora, e per di più provocando degli effetti di asfissia, di soffocamento devastanti. Qui si muore, qui si svuota tutto. E aggiunge:
«Efraim ha moltiplicato gli altari, ma gli altari sono diventati per lui un’occasione di peccato».
E’ un popolo religiosissimo: ma gli altari sono diventati per lui un’occasione di peccato. Gli atti religiosi si moltiplicano, ma per ottenere nessun altro risultato che l’evidenza di una estraneità crescente nel rapporto con il Signore.
«Ho scritto numerose leggi per lui, ma esse sono considerate come una cosa straniera».
Ecco, questo è il punto: e più si dedicano alle loro devozioni religiose, più siamo estranei, dice il Signore.
«Essi offrono sacrifici e ne mangiano le carni, ma il Signore non li gradisce; si ricorderà della loro iniquità e punirà i loro peccati: dovranno tornare in Egitto». torna su

Nel grembo della gravidanza
Ci siamo, non c’è conversione? C’è conversione all’Egitto: dovranno tornare in Egitto. Quando Osea dichiara questa sentenza, certamente sta rievocando l’immagine dell’Egitto come il luogo del supremo castigo, il luogo della schiavitù e dell’impurità. Ritornare in Egitto significa sprofondare nell’abisso dell’infamia. Ma è anche vero che l’Egitto è stato grembo nel quale si è compiuta una gravidanza. Questo ritorno all’Egitto, che certamente ha tutte le caratteristiche di un disastro straziante, si configura come il ritorno ad un grembo che è fecondo per una nuova nascita. Non c’è alternativa a questa regressione, anche se è proprio questo ritorno all’Egitto la premonizione di un nuovo inizio. Non c’è altra conversione praticabile.
«Israele ha dimenticato il suo creatore, si è costruito palazzi; Giuda ha moltiplicato le sue fortezze. Ma io manderò il fuoco sulle loro città e divorerà le loro cittadelle».
Questo esilio è già in atto, questo è quello che sta avvenendo, noi stiamo tornando in Egitto. Noi che non ci convertiamo, stiamo tornando in Egitto. In realtà stiamo ancora qui, Samaria è ancora in piedi, il regno funziona, anzi a metà dell’VIII secolo a.C. ha avuto un momento di espansione di potenza, di benessere, ma noi siamo già in Egitto. Noi stiamo precipitando nell’abisso infernale che si chiama Egitto. Ci siamo dentro. Per questo in realtà siamo in conflitto, sempre e dappertutto, siamo così contorti e così malconci, siamo così sospirosi e così angosciati, siamo così amareggiati e avviliti, così intimamente consapevoli di essere dentro una storia sbagliata, perché storia di un amore tradito. Siamo in lite, stiamo in Egitto, siamo già in esilio.

L’Egitto: è il grembo di una nuova nascita.
Capitolo 9,1-9.
«Non darti alla gioia, Israele, non far festa con gli altri popoli, perché hai praticato la prostituzione, abbandonando il tuo Dio, hai amato il prezzo della prostituzione su tutte le aie da grano». Segno di benessere, l’aia, che contiene il raccolto.
«L’aia e il tino non li nutriranno e il vino nuovo verrà loro a mancare».
Insieme con tanta abbondanza una carestia. Paradossale contraddizione. Insieme con quel sensazionale benessere, un malessere inguaribile.
«Non potranno restare nella terra del Signore, ma Efraim ritornerà in Egitto e in Assiria mangeranno cibi immondi».

Di nuovo, siamo già in esilio, in Egitto.
«Non faranno più libazioni di vino al Signore, i loro sacrifici non gli saranno graditi. Pane di lutto sarà il loro pane, coloro che ne mangiano diventano immondi. Il loro pane sarà tutto per loro, ma non entrerà nella casa del Signore. Che farete nei giorni delle solennità, nei giorni della festa del Signore? Ecco sono sfuggiti alla rovina, l’Egitto li accoglierà, Menfi sarà la loro tomba. I loro tesori d’argento passeranno alle ortiche e nelle loro tende cresceranno i pruni».
Ci troviamo qui alle prese con una situazione che oramai è disgustosa, insopportabile: la terra è contaminata, il popolo è immondo, un tuffo nella morte. E ancora:
«Sono venuti i giorni del castigo, sono giunti i giorni del rendiconto, Israele lo sappia: un pazzo è il profeta, l’uomo ispirato vaneggia a causa delle tue molte iniquità, per la gravità del tuo affronto».
Anche i profeti fanno un pessimo servizio, perché sono profeti che vagheggiano situazioni positive a poco prezzo e di pronto impiego e invece sono degli imbroglioni. Israele lo sappia: un pazzo è il profeta.

«Sentinella di Efraim è il profeta con il suo Dio».
Ecco il profeta sentinella: Osea. A Osea è capitato questo: di essere sentinella. Gli è capitato questo non perché gli è caduta la famosa tegola sulla testa, ma perché attraverso la sua vicenda personale così drammatica, il Signore lo ha educato nel discernimento della storia contemporanea.
«Sentinella di Efraim è il profeta con il suo Dio; ma un laccio gli è teso su tutti i sentieri, – tutti gli sono ostili – ostilità fin nella casa del suo Dio. Sono corrotti fino in fondo, come ai giorni di Gàbaa (un episodio del libro dei Giudici): ma egli si ricorderà della loro iniquità, farà il conto dei loro peccati».
In 9,1-9 il ritorno all’Egitto si configura come sprofondamento in uno stato di infernale corruzione, che ha tutte le caratteristiche di una condanna, di un castigo a cui non si può sfuggire.

«Quando Israele era giovinetto, io l’ho amato».
Qui vengono rievocati i fatti di un tempo, quando Israele è stato tirato fuori dall’Egitto. Questo è dunque l’altro versante del ritorno all’Egitto, di cui Osea ci sta parlando. Perché ritornare in Egitto significa sprofondare nell’abisso infernale? Ritornare in Egitto significa ritornare nel grembo da cui siamo stati partoriti.
«Quando Israele era giovinetto». Non è stata una storia facile e lineare. Qui viene ricostruita tappa per tappa.
«dall’Egitto ho chiamato mio figlio».
Questo versetto viene citato nel vangelo dell’infanzia secondo Matteo.
«Ma più li chiamavo, più si allontanavano da me; immolavano vittime ai Baal, agli idoli bruciavano incensi».
Una ritrosia crescente, benché insistente, calorosa, inesauribile la chiamata con cui il Signore si è rivolto a quel ragazzino che era ancora prigioniero dell’Egitto: più li chamavo, più si allontanavano da me.

E insiste:
«Ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro».

Una pedagogia che si è sviluppata lentamente, con gesti sempre più delicati, sempre più premurosi, eppure crescente l’insofferenza di quell’adolescente che voleva ritirare la mano, che rifiutava le cure ricevute.
«Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare. Ritornerà al paese d’Egitto». Questa è la conversione. La conversione per Israele che ripiomba nell’inferno egiziano:
«Assur sarà il suo re, perché non hanno voluto convertirsi». Ritorneranno perché non hanno voluto ritornare, si convertiranno all’Egitto, una conversione alla rovescia, ma già noi sappiamo che questo sprofondare all’indietro, in realtà è un precipitare nel grembo del Dio vivente, precipitare nelle viscere della misericordia. E’ la testimonianza di Osea che adesso nei versetti seguenti raggiunge la sua pienezza definitiva, la sua maturità più autorevole.
«La spada farà strage nelle loro città, sterminerà i loro figli, demolirà le loro fortezze. Il mio popolo è duro a convertirsi». Non ci sono vincoli di amore che riescano a convincerlo. E’ ribelle, recalcitra, non vuole saperne, non si converte, non ritorna, non cede, non si arrende:
«chiamato a guardare in alto nessuno sa sollevare lo sguardo. Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele?».
Certo non guardi in alto, precipiti in basso. Precipita nelle viscere del Dio vivente.
«Come potrei trattarti al pari di Admà, ridurti allo stato di Zeboìm?» che è come dire Sodoma e Gomorra. «Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione».
Più il Signore ha a che fare con questa storia sbagliata, più il Signore porta in sé l’esperienza dolorosa di questo rifiuto, più si dilata lo spazio della sua intimità.
«Il mio cuore si commuove dentro di me il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Efraim».
Ritorni in Egitto e ritorni in Egitto per scoprire che io non ritorno per distruggere Efraim:
«perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò nella mia ira».
Tu che ritorni in Egitto, tu sprofondi nella santità della mia passione di amore. Una passione più forte del furore.
«Seguiranno il Signore ed egli ruggirà come un leone: quando ruggirà, accorreranno i suoi figli dall’occidente, accorreranno come uccelli dall’Egitto, come colombe dall’Assiria e li farò abitare nelle loro case. Oracolo del Signore».
Un ruggito che, mentre fa tremare, produce attrazione. Ma intanto l’esilio è già in corso. L’esilio è questa vicenda di un amore rifiutato, è storia di una lite che determina l’effetto di uno sgretolamento, di uno sfascio, di un crollo, di una sconfitta. E’ il ritorno all’Egitto; è il tempo dell’esilio, il tempo nel quale, mentre stiamo scivolando nell’inferno dell’Egitto di ieri, che è poi l’Egitto di oggi, e che sempre ci accompagna come minaccia angosciosissima, scopriamo di essere caduti nelle viscere della misericordia senza limiti del Dio vivente. Siamo immersi nella rivelazione della sua santità.

Basilica di Santa Maria Maggiore in Roma, Arco Trionfale e Catino

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Publié dans:immagini sacre |on 14 mai, 2013 |Pas de commentaires »

CHI È L’AUTORE DEL VANGELO DI GIOVANNI?

http://www.toscanaoggi.it/Rubriche/Risponde-il-teologo/Chi-e-l-autore-del-Vangelo-di-Giovanni

CHI È L’AUTORE DEL VANGELO DI GIOVANNI?

Leggendo il libro del Santo Padre «Gesù di Nazaret», il capitolo su Giovanni l’Evangelista  mi ha confuso… ho sempre creduto che l’autore del quarto Vangelo fosse Giovanni, il discepolo tanto amato… perchè tanti interrogativi?

Risponde don Stefano Tarocchi, docente di Sacra Scrittura
Il Vangelo di Giovanni, ultimo fra i quattro Vangeli, ha sempre attratto l’attenzione dei suoi lettori come il Vangelo spirituale, il Vangelo teologico. La data della sua composizione (intorno agli anni ’90, nella città di Efeso) e la stessa struttura ne fanno un elemento unico nel panorama del Nuovo Testamento.
Almeno fino a qualche generazione fa, esso era ritenuto pacificamente un Vangelo scritto da un testimone diretto, un discepolo, a differenza degli scritti di Marco e di Luca, che non erano stati discepoli di Gesù. Le differenze con i Sinottici erano spiegate con l’intenzione dell’evangelista di completare le narrazioni di questi ultimi, omettendo quelle parti su cui essi si erano già dilungati.
Di conseguenza non fu sempre rispettato il carattere peculiare del Quarto Vangelo, ad esempio fino a negarne totalmente la storicità. Fu affermato che Giovanni si sarebbe servito dei Sinottici, ma ricostruendo alla sua maniera le loro narrazioni, o viceversa che avrebbe usato delle fonti totalmente non storiche.
Il suo autore presunto, «Giovanni, il figlio di Zebedeo», già secondo la tradizione della Chiesa antica (Papia di Gerapoli, Ireneo di Lione, ecc.) è stato ritenuto così vicino alla persona di Gesù da potersi fregiare del titolo di «prediletto» e così rendere una testimonianza unica sui gesti compiuti da Gesù.
È noto, infatti, che nel Quarto Vangelo spicca la figura misteriosa di un discepolo, definito il «discepolo prediletto». Nell’ultima cena questi siede accanto a Gesù, cui chiede il nome del traditore (13,23-25). Il «discepolo prediletto» è accanto alla madre di Gesù nell’ora della croce (19,26-27). Il «discepolo prediletto» corre con Simon Pietro al sepolcro (20,1-8) e partecipa alla pesca sul mare di Tiberiade, quando riconosce il Signore (21,6-7). Il «discepolo prediletto», infine, segue Gesù e Simon Pietro, quando riceve il mandato pastorale: di lui Gesù afferma a Pietro che egli rimarrà in vita fino alla sua venuta (21,20-23).
Per la verità, un altro «discepolo», anonimo, compare nella scena della vocazione dei discepoli di Giovanni (1,35-38.40). E, ancora, nel momento della passione, Simon Pietro segue Gesù con un «altro discepolo», di nuovo anonimo, che lo introduce  al sommo sacerdote (18,15-16), con il cui ambiente sembra avere dimestichezza. Ma non pare si tratti del «discepolo prediletto», da cui lo dividono non pochi dettagli. Per di più si afferma che questo «discepolo prediletto» ha «scritto» lo stesso Vangelo: «Questo è il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e li ha scritti; e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera» (21,24).
Non ci si è fermati a pensare al solo Giovanni di Zebedeo nello sforzo di dare un volto a questa misteriosa figura, di cui non c’è traccia nella tradizione evangelica extra-giovannea: alcuni hanno pensato ad altri personaggi del Nuovo Testamento: Lazzaro, o Giovanni Marco (ovvero Marco, autore del Vangelo omonimo), per esempio. Altri hanno sostenuto che il «discepolo prediletto» non sia una persona in carne ed ossa ma un simbolo ed un modello del discepolo perfetto. Si può tuttavia osservare come la stessa Madre di Gesù, senza essere chiamata per nome, è presente in alcune scene che si trovano solo in questo Vangelo (l’episodio di Cana e la scena della crocifissione: 2,3-12; 19,25-27), ma a nessuno verrebbe in mente di negarne l’esistenza reale.
Altri, infine, hanno concepito una teoria più complessa: il «discepolo prediletto», che durante il ministero di Gesù si trovava in secondo piano tra tutti gli altri, tanto che i Sinottici lo ignorano, avrebbe assunto un ruolo molto importante nella «comunità giovannea» (= il gruppo da cui ha avuto origine il Vangelo), di cui è probabilmente all’origine, tanto da poter competere con lo stesso Pietro nell’essere discepolo (cap. 21).
Non tutti concordano con questa interpretazione, anche se suggestiva. Personalmente ritengo che la tradizione antica, che pensa al «discepolo prediletto» come Giovanni di Zebedeo, anche se non senza problemi, sia da considerarsi la più probabile. Questo non significa che le due figure del «discepolo prediletto» e dell’«evangelista» (= colui che materialmente ha scritto il Vangelo) coincidano.
Se, infatti, il Quarto Vangelo dice con chiarezza che il «prediletto» è «il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e li ha scritti» (21,24), è pur vero che nella «prima finale» del Vangelo (20,30-31) si parla dello scrivere in maniera più generica, come pure nella scena della crocifissione si accenna in maniera diversa alla stessa testimonianza: «Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera ed egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate» (19,35).
Chi scrive il Vangelo ha un legame profondo con il «discepolo prediletto», senza essere stato un testimone oculare; è forse un suo discepolo, ed appartiene alla «comunità giovannea». Costui ha profondi legami con la geografia, anche minuta della Palestina, e delle istituzioni del giudaismo. All’interno della comunità giovannea egli vive tutto il travaglio del progressivo distacco dal mondo giudaico, mentre si va affinando la comprensione della figura di Gesù, accentuandone la dimensione divina.
Dobbiamo, in ultimo, pensare ad una composizione finale – o persino ad un diverso altro autore – che completa il Vangelo, senza alterare nulla, e vi aggiunge il capitolo 21, dopo la morte del «discepolo prediletto». Secondo altri studiosi, sarebbe stato proprio l’«evangelista» a far trovare un posto nel Quarto Vangelo al «discepolo prediletto», oscurando la figura di Giovanni di Zebedeo, per sostituirla con la figura misteriosa che si incontra nelle sue pagine. Se così fosse, la successiva identificazione tradizionale del «prediletto» con il figlio di Zebedeo avrebbe un’ulteriore giustificazione. Infatti, «con un’ironia degna del vangelo stesso» – come ha scritto uno studioso -, alla fine del II secolo Giovanni di Zebedeo avrebbe assunto di nuovo il ruolo dal quale era stato estromesso.

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