Santa Rita da Cascia

http://www.santiebeati.it/dettaglio/32950
SANTA RITA DA CASCIA VEDOVA E RELIGIOSA
22 MAGGIO – MEMORIA FACOLTATIVA
ROCCAPORENA, PRESSO CASCIA, PERUGIA, C. 1381 – CASCIA, PERUGIA, 22 MAGGIO 1447/1457
La tradizione ci racconta che, portata alla vita religiosa, fu data in sposa ad un uomo brutale e violento che, convertito da lei, venne in seguito ucciso per una vendetta. I due figli giurarono di vendicarlo e Rita, non riuscendo a dissuaderli, pregò Dio farli piuttosto morire. Quando ciò si verificò, Rita si ritirò nel locale monastero delle Agostiniane di Santa Maria Maddalena. Qui condusse una santa vita con una particolare spiritualità in cui veniva privilegiata la Passione di Cristo. Durante un’estasi ricevette una speciale stigmata sulla fronte, che le rimase fino alla morte. La sua esistenza di moglie di madre cristiana, segnata dal dolore e dalle miserie umane, è ancora oggi un esempio.
Patronato: Donne maritate infelicemente, Casi disperati
Etimologia: Rita = accorc. di Margherita
Martirologio Romano: Santa Rita, religiosa, che, sposata con un uomo violento, sopportò con pazienza i suoi maltrattamenti, riconciliandolo infine con Dio; in seguito, rimasta priva del marito e dei figli, entrò nel monastero dell’Ordine di Sant’Agostino a Cascia in Umbria, offrendo a tutti un sublime esempio di pazienza e di compunzione.
Fra le tante stranezze o fatti strepitosi che accompagnano la vita dei santi, prima e dopo la morte, ce n’è uno in particolare che riguarda s. Rita da Cascia, una delle sante più venerate in Italia e nel mondo cattolico, ed è che essa è stata beatificata ben 180 anni dopo la sua morte e addirittura proclamata santa a 453 anni dalla morte.
Quindi una santa che ha avuto un cammino ufficiale per la sua canonizzazione molto lento (si pensi che sant’Antonio di Padova fu proclamato santo un anno dopo la morte), ma nonostante ciò s. Rita è stata ed è una delle più venerate ed invocate figure della santità cattolica, per i prodigi operati e per la sua umanissima vicenda terrena.
Rita ha il titolo di “santa dei casi impossibili”, cioè di quei casi clinici o di vita, per cui non ci sono più speranze e che con la sua intercessione, tante volte miracolosamente si sono risolti.
Nacque intorno al 1381 a Roccaporena, un villaggio montano a 710 metri s. m. nel Comune di Cascia, in provincia di Perugia; i suoi genitori Antonio Lottius e Amata Ferri erano già in età matura quando si sposarono e solo dopo dodici anni di vane attese, nacque Rita, accolta come un dono della Provvidenza.
La vita di Rita fu intessuta di fatti prodigiosi, che la tradizione, più che le poche notizie certe che possediamo, ci hanno tramandato; ma come in tutte le leggende c’è alla base senz’altro un fondo di verità.
Si racconta quindi che la madre molto devota, ebbe la visione di un angelo che le annunciava la tardiva gravidanza, che avrebbero ricevuto una figlia e che avrebbero dovuto chiamarla Rita; in ciò c’è una similitudine con s. Giovanni Battista, anch’egli nato da genitori anziani e con il nome suggerito da una visione.
Poiché a Roccaporena mancava una chiesa con fonte battesimale, la piccola Rita venne battezzata nella chiesa di S. Maria della Plebe a Cascia e alla sua infanzia è legato un fatto prodigioso; dopo qualche mese, i genitori, presero a portare la neonata con loro durante il lavoro nei campi, riponendola in un cestello di vimini poco distante.
E un giorno mentre la piccola riposava all’ombra di un albero, mentre i genitori stavano un po’ più lontani, uno sciame di api le circondò la testa senza pungerla, anzi alcune di esse entrarono nella boccuccia aperta depositandovi del miele. Nel frattempo un contadino che si era ferito con la falce ad una mano, lasciò il lavoro per correre a Cascia per farsi medicare; passando davanti al cestello e visto la scena, prese a cacciare via le api e qui avvenne la seconda fase del prodigio, man mano che scuoteva le braccia per farle andare via, la ferita si rimarginò completamente. L’uomo gridò al miracolo e con lui tutti gli abitanti di Roccaporena, che seppero del prodigio.
Rita crebbe nell’ubbidienza ai genitori, i quali a loro volta inculcarono nella figlia tanto attesa, i più vivi sentimenti religiosi; visse un’infanzia e un’adolescenza nel tranquillo borgo di Roccaporena, dove la sua famiglia aveva una posizione comunque benestante e con un certo prestigio legale, perché a quanto sembra ai membri della casata Lottius, veniva attribuita la carica di ‘pacieri’ nelle controversie civili e penali del borgo.
Già dai primi anni dell’adolescenza Rita manifestò apertamente la sua vocazione ad una vita religiosa, infatti ogni volta che le era possibile, si ritirava nel piccolo oratorio, fatto costruire in casa con il consenso dei genitori, oppure correva al monastero di Santa Maria Maddalena nella vicina Cascia, dove forse era suora una sua parente.
Frequentava anche la chiesa di S. Agostino, scegliendo come suoi protettori i santi che lì si veneravano, oltre s. Agostino, s. Giovanni Battista e Nicola da Tolentino, canonizzato poi nel 1446. Aveva tredici anni quando i genitori, forse obbligati a farlo, la promisero in matrimonio a Fernando Mancini, un giovane del borgo, conosciuto per il suo carattere forte, impetuoso, perfino secondo alcuni studiosi, brutale e violento.
Rita non ne fu entusiasta, perché altre erano le sue aspirazioni, ma in quell’epoca il matrimonio non era tanto stabilito dalla scelta dei fidanzati, quando dagli interessi delle famiglie, pertanto ella dovette cedere alle insistenze dei genitori e andò sposa a quel giovane ufficiale che comandava la guarnigione di Collegiacone, del quale “fu vittima e moglie”, come fu poi detto.
Da lui sopportò con pazienza ogni maltrattamento, senza mai lamentarsi, chiedendogli con ubbidienza perfino il permesso di andare in chiesa. Con la nascita di due gemelli e la sua perseveranza di rispondere con la dolcezza alla violenza, riuscì a trasformare con il tempo il carattere del marito e renderlo più docile; fu un cambiamento che fece gioire tutta Roccaporena, che per anni ne aveva dovuto subire le angherie.
I figli Giangiacomo Antonio e Paolo Maria, crebbero educati da Rita Lottius secondo i principi che le erano stati inculcati dai suoi genitori, ma essi purtroppo assimilarono anche gli ideali e regole della comunità casciana, che fra l’altro riteneva legittima la vendetta.
E venne dopo qualche anno, in un periodo non precisato, che a Rita morirono i due anziani genitori e poi il marito fu ucciso in un’imboscata una sera mentre tornava a casa da Cascia; fu opera senz’altro di qualcuno che non gli aveva perdonato le precedenti violenze subite.
Ai figli ormai quindicenni, cercò di nascondere la morte violenta del padre, ma da quel drammatico giorno, visse con il timore della perdita anche dei figli, perché aveva saputo che gli uccisori del marito, erano decisi ad eliminare gli appartenenti al cognome Mancini; nello stesso tempo i suoi cognati erano decisi a vendicare l’uccisione di Fernando Mancini e quindi anche i figli sarebbero stati coinvolti nella faida di vendette che ne sarebbe seguita.
Narra la leggenda che Rita per sottrarli a questa sorte, abbia pregato Cristo di non permettere che le anime dei suoi figli si perdessero, ma piuttosto di toglierli dal mondo, “Io te li dono. Fà di loro secondo la tua volontà”. Comunque un anno dopo i due fratelli si ammalarono e morirono, fra il dolore cocente della madre.
A questo punto inserisco una riflessione personale, sono del Sud Italia e in alcune regioni, esistono realtà di malavita organizzata, ma in alcuni paesi anche faide familiari, proprio come al tempo di s. Rita, che periodicamente lasciano sul terreno morti di ambo le parti. Solo che oggi abbiamo sempre più spesso donne che nell’attività malavitosa, si sostituiscono agli uomini uccisi, imprigionati o fuggitivi; oppure ad istigare altri familiari o componenti delle bande a vendicarsi, quindi abbiamo donne di mafia, di camorra, di ‘ndrangheta, di faide familiari, ecc.
Al contrario di s. Rita che pur di spezzare l’incipiente faida creatasi, chiese a Dio di riprendersi i figli, purché non si macchiassero a loro volta della vendetta e dell’omicidio.
S. Rita è un modello di donna adatto per i tempi duri. I suoi furono giorni di un secolo tragico per le lotte fratricide, le pestilenze, le carestie, con gli eserciti di ventura che invadevano di continuo l’Italia e anche se nella bella Valnerina questi eserciti non passarono, nondimeno la fame era presente.
Poi la violenza delle faide locali aggredì l’esistenza di Rita Lottius, distruggendo quello che si era costruito; ma lei non si abbatté, non passò il resto dei suoi giorni a piangere, ma ebbe il coraggio di lottare, per fermare la vendetta e scegliere la pace. Venne circondata subito di una buona fama, la gente di Roccaporena la cercava come popolare giudice di pace, in quel covo di vipere che erano i Comuni medioevali. Esempio fulgido di un ruolo determinante ed attivo della donna, nel campo sociale, della pace, della giustizia.
Ormai libera da vincoli familiari, si rivolse alle Suore Agostiniane del monastero di S. Maria Maddalena di Cascia per essere accolta fra loro; ma fu respinta per tre volte, nonostante le sue suppliche. I motivi non sono chiari, ma sembra che le Suore temessero di essere coinvolte nella faida tra famiglie del luogo e solo dopo una riappacificazione, avvenuta pubblicamente fra i fratelli del marito ed i suoi uccisori, essa venne accettata nel monastero.
Per la tradizione, l’ingresso avvenne per un fatto miracoloso, si narra che una notte, Rita come al solito, si era recata a pregare sullo “Scoglio” (specie di sperone di montagna che s’innalza per un centinaio di metri al disopra del villaggio di Roccaporena), qui ebbe la visione dei suoi tre santi protettori già citati, che la trasportarono a Cascia, introducendola nel monastero, si cita l’anno 1407; quando le suore la videro in orazione nel loro coro, nonostante tutte le porte chiuse, convinte dal prodigio e dal suo sorriso, l’accolsero fra loro.
Quando avvenne ciò Rita era intorno ai trent’anni e benché fosse illetterata, fu ammessa fra le monache coriste, cioè quelle suore che sapendo leggere potevano recitare l’Ufficio divino, ma evidentemente per Rita fu fatta un’eccezione, sostituendo l’ufficio divino con altre orazioni.
La nuova suora s’inserì nella comunità conducendo una vita di esemplare santità, praticando carità e pietà e tante penitenze, che in breve suscitò l’ammirazione delle consorelle. Devotissima alla Passione di Cristo, desiderò di condividerne i dolori e questo costituì il tema principale delle sue meditazioni e preghiere.
Gesù l’esaudì e un giorno nel 1432, mentre era in contemplazione davanti al Crocifisso, sentì una spina della corona del Cristo conficcarsi nella fronte, producendole una profonda piaga, che poi divenne purulenta e putrescente, costringendola ad una continua segregazione.
La ferita scomparve soltanto in occasione di un suo pellegrinaggio a Roma, fatto per perorare la causa di canonizzazione di s. Nicola da Tolentino, sospesa dal secolo precedente; ciò le permise di circolare fra la gente.
Si era talmente immedesimata nella Croce, che visse nella sofferenza gli ultimi quindici anni, logorata dalle fatiche, dalle sofferenze, ma anche dai digiuni e dall’uso dei flagelli, che erano tanti e di varie specie; negli ultimi quattro anni si cibava così poco, che forse la Comunione eucaristica era il suo unico sostentamento e fu costretta a restare coricata sul suo giaciglio.
E in questa fase finale della sua vita, avvenne un altro prodigio, essendo immobile a letto, ricevé la visita di una parente, che nel congedarsi le chiese se desiderava qualcosa della sua casa di Roccaporena e Rita rispose che le sarebbe piaciuto avere una rosa dall’orto, ma la parente obiettò che si era in pieno inverno e quindi ciò non era possibile, ma Rita insisté.
Tornata a Roccaporena la parente si recò nell’orticello e in mezzo ad un rosaio, vide una bella rosa sbocciata, stupita la colse e la portò da Rita a Cascia, la quale ringraziando la consegnò alle meravigliate consorelle.
Così la santa vedova, madre, suora, divenne la santa della ‘Spina’ e la santa della ‘Rosa’; nel giorno della sua festa questi fiori vengono benedetti e distribuiti ai fedeli.
Il 22 maggio 1447 (o 1457, come viene spesso ritenuto) Rita si spense, mentre le campane da sole suonavano a festa, annunciando la sua ‘nascita’ al cielo. Si narra che il giorno dei funerali, quando ormai si era sparsa la voce dei miracoli attorno al suo corpo, comparvero delle api nere, che si annidarono nelle mura del convento e ancora oggi sono lì, sono api che non hanno un alveare, non fanno miele e da cinque secoli si riproducono fra quelle mura.
Per singolare privilegio il suo corpo non fu mai sepolto, in qualche modo trattato secondo le tecniche di allora, fu deposto in una cassa di cipresso, poi andata persa in un successivo incendio, mentre il corpo miracolosamente ne uscì indenne e riposto in un artistico sarcofago ligneo, opera di Cesco Barbari, un falegname di Cascia, devoto risanato per intercessione della santa.
Sul sarcofago sono vari dipinti di Antonio da Norcia (1457), sul coperchio è dipinta la santa in abito agostiniano, stesa nel sonno della morte su un drappo stellato; il sarcofago è oggi conservato nella nuova basilica costruita nel 1937-1947; anche il corpo riposa incorrotto in un’urna trasparente, esposto alla venerazione degli innumerevoli fedeli, nella cappella della santa nella Basilica-Santuario di S. Rita a Cascia.
Accanto al cuscino è dipinta una lunga iscrizione metrica che accenna alla vita della “Gemma dell’Umbria”, al suo amore per la Croce e agli altri episodi della sua vita di monaca santa; l’epitaffio è in antico umbro ed è di grande interesse quindi per conoscere il profilo spirituale di S. Rita.
Bisogna dire che il corpo rimasto prodigiosamente incorrotto e a differenza di quello di altri santi, non si è incartapecorito, appare come una persona morta da poco e non presenta sulla fronte la famosa piaga della spina, che si rimarginò inspiegabilmente dopo la morte.
Tutto ciò è documentato dalle relazioni mediche effettuate durante il processo per la beatificazione, avvenuta nel 1627 con papa Urbano VIII; il culto proseguì ininterrotto per la santa chiamata “la Rosa di Roccaporena”; il 24 maggio 1900 papa Leone XIII la canonizzò solennemente.
Al suo nome vennero intitolate tante iniziative assistenziali, monasteri, chiese in tutto il mondo; è sorta anche una pia unione denominata “Opera di S. Rita” preposta al culto della santa, alla sua conoscenza, ai continui pellegrinaggi e fra le tante sue realizzazioni effettuate, la cappella della sua casa, la cappella del “Sacro Scoglio” dove pregava, il santuario di Roccaporena, l’Orfanotrofio, la Casa del Pellegrino.
Il cuore del culto comunque resta il Santuario ed il monastero di Cascia, che con Assisi, Norcia, Cortona, costituiscono le culle della grande santità umbra.
Autore: Antonio Borrelli
« FAI IL BENE, NON IL MALE »: UN COMANDAMENTO PER I CATTOLICI, PER GLI ATEI, PER TUTTI…
NELLA MESSA IN SANTA MARTA, IL PAPA SOTTOLINEA CHE « UCCIDERE IN NOME DI DIO È UNA BESTEMMIA » E CHE « FARE IL BENE » È UN DOVERE DI TUTTA L’UMANITÀ, AL DI LÀ DELLA DIVERSITÀ DI RELIGIONE O IDEOLOGIE
Citta’ del Vaticano, 22 Maggio 2013 (Zenit.org) Salvatore Cernuzio
In un mondo come quello attuale, dove l’essere umano uccide il suo simile per la diversità di ideologie e religioni, “fare il bene” sembra quasi impossibile. Eppure è questa la vocazione a cui esso è chiamato: andare incontro all’altro, non fargli del male, anzi aspirare alla pace e amare con quello stesso struggente amore con cui il Creatore ha amato la sua creatura.
Come ogni mattina, nelle Messa in Santa Marta, Papa Francesco accende una fiammella per un’umanità che troppo spesso brancola nel buio. Nella funzione di oggi, concelebrata con il cardinale Béchara Boutros Raï, patriarca di Antiochia dei Maroniti, alla presenza dei dipendenti del Governatorato vaticano, il Santo Padre ha incentrato la sua omelia sulla “cultura dell’incontro” che – ha detto – è la “base della pace”.
La spinta alla riflessione del Pontefice l’ha offerta il Vangelo di oggi che riferisce della ‘chiusura’ di mente e di cuore dei discepoli di Gesù nel credere che anche una persona esterna al loro ‘gruppo’ possa fare del bene. Gli apostoli, infatti, “si lamentano » ha affermato il Papa, convinti che se uno “non è del nostro partito, non può fare il bene”.
È l’idea di possedere la verità che rende i seguaci di Cristo “un po’ intolleranti” ha spiegato Papa Francesco. Il loro pensiero si basava su un punto fermo: “Tutti quelli che non hanno la verità, non possono fare il bene”. Ma Gesù “allarga l’orizzonte” e corregge questa ‘ideologia’ sbagliata, invitandoli a lasciare che anche un ‘esterno’ possa fare del bene in Suo nome.
“La possibilità di fare il bene” infatti, è un dono “che tutti abbiamo” ha chiarito il Santo Padre. Un dono che affonda le sue radici “nella creazione”, dal momento che “il Signore ci ha creati a Sua immagine e somiglianza” e “Lui fa il bene”. Pertanto, “tutti noi abbiamo nel cuore questo comandamento: fai il bene e non fare il male”.
“Ma, padre, questo non è cattolico! Non può fare il bene!”. “Ma, padre, questo non è cristiano, non può farlo!”: sono frasi che chissà quante volte Bergoglio avrà sentito durante la sua esperienza pastorale di prete, di vescovo, di cardinale, di Papa. Invece: “Sì! Può farlo” ha affermato oggi, anzi: “Deve farlo, perché ha questo comandamento dentro”.
“Questa chiusura di non pensare che si possa fare il bene fuori – ha proseguito – è un muro che ci porta alla guerra e anche a quello che alcuni hanno pensato nella storia: uccidere in nome di Dio”. E “dire che si possa uccidere in nome di Dio”, ha sottolineato, “semplicemente, è una bestemmia”.
Perché il Signore – ha ribadito il Papa – “ci ha dato questo comandamento all’interno del cuore: fai il bene e non fare il male. Il Signore tutti ci ha redenti con il sangue di Cristo: non soltanto i cattolici. Tutti! Padre, gli atei? Anche loro. Tutti! E questo sangue ci fa figli di Dio di prima categoria!”.
In virtù di questa ‘primogenitura’ divina, “tutti noi abbiamo il dovere di fare il bene”, un comandamento che “è una bella strada verso la pace” ha sottolineato il Santo Padre. “Se noi – ha soggiunto – ciascuno per la sua parte, facciamo il bene agli altri”, “lentamente, adagio, piano piano” facciamo quella “cultura dell’incontro” di cui abbiamo tanto bisogno. “Ma io non credo, padre, io sono ateo! Ma fai il bene, ci incontriamo là!”.
“Fare il bene” inoltre non è, secondo il Papa, “una questione di fede”, bensì “un dovere”, una “carta d’identità che il nostro Padre ha dato a tutti, perché ci ha fatti a sua immagine e somiglianza”.
Un ultimo pensiero Papa Francesco l’ha rivolto a Santa Rita da Cascia, la “santa dei casi impossibili” di cui oggi la Chiesa celebra la memoria liturgica. A lei, ha detto il Santo Padre, chiediamo la grazia “che tutti, tutte le persone facciano il bene e ci incontriamo in questo lavoro, che è un lavoro di creazione che assomiglia alla creazione del Padre”. “Un lavoro di famiglia – ha concluso – perché tutti siamo figli di Dio. Tutti! E Dio ci vuole bene. A tutti! Che Santa Rita ci conceda questa grazia, che sembra quasi impossibile”.
http://www.figlididio.it/salmi/48.html
DIVO BARSOTTI
SALMO 48
Grande è il Signore e degno di ogni lode
nella città del nostro Dio.
Il suo monte santo, altura stupenda,
è la gioia di tutta la terra.
Il monte Sion, dimora divina,
è la città del grande Sovrano.
Dio nei suoi baluardi
è apparso fortezza inespugnabile.
Ecco, i re si sono alleati,
sono avanzati insieme.
Essi hanno visto:
attoniti e presi dal panico,
sono fuggiti.
Là sgomento li ha colti,
doglie come di partoriente,
simile al vento orientale
che squarcia le navi di Tarsis.
Come avevamo udito, così abbiamo visto
nella città del Signore degli eserciti,
nella città del nostro Dio;
Dio l’ha fondata per sempre.
Ricordiamo, Dio, la tua misericordia
dentro il tuo tempio.
Come il tuo nome, o Dio,
così la tua lode si estende
sino ai confini della terra;
è piena di giustizia la tua destra.
Gioisca il monte di Sion,
esultino le città di Giuda
a motivo dei tuoi giudizi.
Circondate Sion, giratele intorno,
contate le sue torri.
Osservate i suoi baluardi,
passate in rassegna le sue fortezze,
per narrare alla generazione futura:
Questo è il Signore, nostro Dio
in eterno, sempre:
egli è colui che ci guida.
Gerusalemme
L’occasione del salmo è difficile determinarla, o almeno non sono concordi i critici, tuttavia più probabile sembra che sia un canto di allegrezza e di ringraziamento a Dio per la disfatta di Sennacherib al tempo di Isaia. Tanti versi vi sono nella Sacra Scrittura che esaltano la vittoria di Dio su un esercito sterminato che aveva già assediato la città e dovette in una notte sgombrare l’accampamento per rifuggirsene lontano donde era venuto: era stata la peste, era stata una sommossa di palazzo, che aveva richiamato immediatamente il re nella sua sede. Israele comunque non vide in questa precipitosa fuga che la vittoria stessa del suo Dio. Dio si era dimostrano veramente il più grande degli dei, il più potente, Dio veramente si era dimostrato Colui solo che salva.
Nella liberazione del popolo di Israele dall’Egitto, Dio salva soltanto il suo popolo, un popolo che ancora cerca una sua terra, un popolo ancora nomade che deve attraversare il deserto e conquistarsi un suo regno. Ora la salvezza di Dio coincide con la salvezza di una città: Israele non è più saltano un popolo in marcia, è una nazione, è un popolo che si è radicato in una terra. Israele è un popolo che si è donato delle leggi, è un popolo che ha una sua città: la salvezza ora di Dio non riguarda più solo le singole persone, non riguarda soltanto un popolo, riguarda anche le istituzioni che esso si è dato, riguarda la gloria che egli si è conquistata, riguarda la civiltà che egli ha raggiunto. Dio salva la città! Nel Salterio quanti sono i salmi che cantano Gerusalemme! È uno dei temi fondamentali di tutta la Bibbia, il tema della città, ma certo questo tema non viene mai cantato con tanto lirismo come nei Salmi: nei Salmi è tutto quanto un popolo che si sente veramente popolo di Dio, in quanto tutto e raccolto, tutto è stato fatto uno, non soltanto attraverso una legge cui tutto lo governa, ma attraverso una città che tutto lo accoglie e lo unisce. La città di Dio è la Santa Montagna! Certo Gerusalemme è costruita su di una montagna, ma questa identificazione della città con la montagna sembra voler dire qualcosa di più. Non è soltanto un’espressione, un richiamo geografico, un richiamo piuttosto alla concezione della religione primitiva che Israele ha in qualche modo assunto, anche se la rivelazione che ha ricevuto importa per Israele un progresso dell’antica concezione religiosa degli uomini. La Montagna Sacra, il punto centrale del mondo: ecco che cos’è Gerusalemme. Il luogo più alto della terra, quel luogo, come diranno poi i rabbini, dove si fermò l’arca di Noè, il luogo che non fu mai sommerso dal diluvio; quel luogo su cui può discendere Iddio parche è il più vicino al cielo, quel luogo ove gli uomini possono parlare a Dio, luogo in cui la loro parola può giungere più facilmente su nelle altezze.
Gerusalemme, vertice del mondo, centro della vita universale! Così la contempla già il salmista. Gerusalemme, montagna sacra a cui convergeranno tutti i popoli, tutte le nazioni per ricever la legge! Come la canterà Isaia. Qua non è tanto considerato questo assoggettarsi di tutte le nazioni a Israele, alla Santa Città di Gerusalemme, quanto piuttosto è cantata l’invulnerabilità di lei: sull’alta montagna, come non è giunta l’acqua del diluvio a sommergerla, così non può giungere l’offesa dei nemici. Né la marea delle acque né la marea degli uomini possono distruggere la Santa Città, ella sovrasta a tutte le insidie nemiche: « Le porte dell’Inferno non prevarranno contro di essa », per usare l’espressione che poi sarà propria dei Vangeli sinottici a proposito della Chiesa che è la nuova Gerusalemme a proposito di quella Chiesa che subentra all’antica Gerusalemme disfatta, o prossima ad esser di nuovo distrutta dall’Impero Romano.
« Grande è il Signore »: si noti, il salmista celebra la città di Gerusalemme, ma questa celebrazione ridonda immediatamente in una lode di Dio, Perchè? Perché Dio stesso non si manifesta che in essa, essa è la manifestazione visibile, più alta, più piena della potenza e della forza di Dio, dalla bellezza e della grandezza del Suo Nome, Dio non si rivela direttamente agli uomini, Dio non si manifesta immediatamente agli uomini, ma come si è rivelato nella salvezza un giorno ad Israele così ora si rivela nella costruzione della Santa Città invulnerabile ai nemici e nella bellezza della santa Città. Si parla della bellezza di Gerusalemme perchè creata da Dio, o della unità che stringe tutto il popolo nella Santa Città, perchè anche questa unità è frutto di una divina presenza. Non si può dire certo come per la Chiesa cattolica, come per questa nuova città creata da Dio, che l’unità di Israele sia la presenza stessa di Dio, ma è la presenza di Dio che fa l’unità di Israele. L’unità della Chiesa è lo Spirito Divino, anima di tutta la Chiesa, Egli unisce tutte le membra in un solo Mistico Corpo, una_ sola mistica città, dona a questa umanità nuova una unità che supera tutte le unità; l’unità della Chiesa infatti è l’unità in qualche modo di Dio, che ne è l’anima, che ne è il principio di vita. Questo non si può dire per Israele perchè lo Spirito Santo, come dirà poi Gesù nel IV Vangelo, o piuttosto come dirà S. Giovanni, non è stato ancora dato e tuttavia Dio è presente in Gerusalemme. Ed è questa presenza che attira a Dio Israele, che lo plasma in una sola compagine, che lo unisce tutto in una sola nazione, in un solo popolo, che fa di questa città una città tutta compatta come dico il salmo 121. La grandezza della città dunque dice la grandezza di Dio, la sua bellezza rivela Dio, Dio si rivela attraverso l’opera che Egli ha compiuto, in quello che Egli compie, in quello che Egli fa.
Santità, bellezza, fortezza, ecco gli attributi di Gerusalemme: la santità perchè Dio vi è presente, vi è il suo tempio; bellezza questo ergersi del monte, solitario su tutto l’universo, questa bellezza nei suoi torrioni, nelle mura che circondano il monte, questa forza che la rende invulnerabile, che rende impossibile una sua disfatta. « Monte Sion, città del grande sovrano ». Il grande sovrano non è più Sennacherib come lo chiamano gli assiri, il Gran Sovrano è Dio stesso: Gerusalemme non conosce altri re, vi è soltanto un rappresentante del Grande Monarca. In Gerusalemme vive veramente il Signore.
Dopo una celebrazione così generale di Gerusalemme, il salmista dimostra come si. è manifestata la potenza di Dio. I nemici si erano tutti coalizzati contro di lei, contro Gerusalemme. Si erano mossi contro gli estremi confini della terra, tutti per assalirla, tutti per sommergerla: è bastato che l’abbiano vista per rimanerne colpiti, per essere come infranti, spezzati nella loro volontà, costernati; per essere presi come dalle doglie di una partoriente. Dio quale uragano, come l’uragano fa con le navi sul mare, così ha sfracellato questi popoli con un solo atto della sua volontà. La poesia qui raggiunge un lirismo di una grandezza anche classica che non ha confronti, direi, se non pochi, in tutta la letteratura ebraica e in tutta la letteratura universale. L’assalto dei re si spezza, si dissipa come una nube allo splendore di Sion. La rappresentazione drammatica di questa disfatta di eserciti innumerevoli, si chiude in una immagine possente: basta che Dio si mostri, per sconfiggere i suoi nemici. « Simile al vento orientale che squarcia le navi di Tarsis »: non è una battaglia navale, è un’immagine; un vento tempestoso nel mare, e le piccole barche di allora, ma anche le navi di Tarsis potevano essere solo delle piccole navi, sballottate dalle onde, sfracellate dall’uragano! Si ripete per Israele la salvezza di Dio: Dio è presente in Israele per operare, continua la salvezza che operò agli inizi.
Come l’esperienza del cristianesimo è la presenza del mistero di Cristo (nella Messa ogni giorno tu non vivi altro che questa presenza e l’atto della Redenzione) così per Israele, la sua storia non è che l’esperienza della vittoria, la salvezza sui nemici. Ecco perchè ora la disfatta di Sennacherib ripete la disfatta del Faraone; ecco perchè si parla di navi e di mare: il richiamo del mare unisce la disfatta presente alla disfatta antica dell’esercito del Faraone sommerso nel Mar Rosso.
« Come avevamo udito, così abbiamo visto »: non è più semplice fede in un fatto passato: è un’esperienza presente di una stessa salvezza. Dio è la difesa d’Israele, Dio è la salvezza del popolo suo, « nella città del nostro Dio ».
« Come avevamo udito, così abbiamo visto ». La salvezza di Dio le rende vanto in eterno. Dopo aver contemplato la disfatta di Sennacherib ecco ora tutto il popolo riunito nel Tempio canta la lode di Dio. Dio si è manifestato potente fino all’estremità della terra, perchè tutta quanta la terra è stata sottoposta al suo Impero; nella disfatta di Sennacherib tutte le nazioni sono state sconfitte, non rimane vincitrice che Gerusalemme, non rimane vittorioso che Dio che ne ha il suo regno. Voi capite come è facile la trasposizione da un’esegesi letterale a un’esegesi spirituale ed escatologica! Tutto il popolo canta dunque la lode di Dio, e la lode di Dio e grande come il suo nome; il suo nome si e sparso su tutta la terra, il terrore ha invaso tutti i popoli, e il terrore dei popoli di fronte a Gerusalemme s’innalza al cielo come lode alla divina potenza, come lode alla forza vincitrice di Dio.
Questa è la lode: non più una liturgia che sale soltanto nel Tempio, anche la guerra, la disfatta è una liturgia perchè manifesta la divina potenza. Dopo l’introduzione alla seconda parto dell’inno, allora il salmista chiama il popolo d’Israele a contemplare la bellezza di Gerusalemme, cioè, come dicevo prima, la sua invulnerabilità: Andate intorno, guardate! I nemici non l’hanno nemmeno toccata, non vi è breccia nelle sue mura. Quello che possono faro gli uomini contro la città di Dio si esprime nell’orgoglio d’Israele che contempla la sua città, bella come prima, non toccata dalla mano del nemico. « Circondate Sion, giratele intorno, contate le sue torri. Osservate i suoi baluardi, passate in rassegna le sue fortezz… »: gli altri sono disfatti, gli altri sono tutti morti, ella ancora si eleva in alto, come prima. È la bellezza di questa Gerusalemme che rimane il canto e la lode di Dio.
Questo ci dice il salmo 48. È uno dei salmi che più facilmente possono avere una trasposizione in una esegesi spirituale. È chiaro qui, che la città non può rappresentare che la Chiesa per noi, ed è chiaro che come la Chiesa può esser sempre contemplata da noi come il miracolo della divina potenza, della bellezza divina. Dio ci manifesta nella vita della Chiesa la sua invulnerabilità. Ella si erge al di sopra delle nazioni, non combatte come Gerusalemme nelle parole di questo salmo, ma basta che gli altri la vedano per esserne disfatti; la sua stessa presenza sgomina ogni nemico. Intatta si eleva come miracolo permanente e segno di una divina presenza.
Una trasposizione, direi più fedele, si ha se noi leggiamo questo salmo in una prospettiva escatologica: la disfatta di Sennacherib è la disfatta di tutti i nemici di Dio al termine dei giorni. Il Paradiso rimane, e di fronte al paradiso la morte, la fine di ogni potenza che abbia voluto in qualche modo contrastare la vittoria del Regno! Gerusalemme sola s’innalza come monte, come vertice di tutte le montagne ed è salda e combatte non toccata da mano nemica. Piena di una divina presenza, salda perchè consacrata da questa stessa presenza, ella non è che l’amore eterno di Colui che l’ha creata, l’ha salvata ed ora la illumina tutta, ed ora la riempie della sua gloria. Come comprendiamo che la Chiesa voglia che noi preghiamo il Signore coi salmi! Come ci rendiamo conto che questi antichi inni possano avere un significato cristiano sulle nostre labbra! Dall’inizio alla fine Dio non compie che l’opera sua: l’accenna prima, la compie poi, la manifesta in ultimo, in tutta la sua grandezza a colui che ha creduto e gli è rimasto fedele.