Archive pour le 13 mai, 2013

San Mattia Apostolo

San Mattia Apostolo dans immagini sacre
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14 MAGGIO: SAN MATTIA APOSTOLO

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14 MAGGIO: SAN MATTIA APOSTOLO

BIOGRAFIA
Eletto dagli apostoli al posto di Giuda, per rendere testimonianza della risurrezione del Signore, fu annoverato fra i Dodici, come si legge negli Atti degli apostoli (1,15-26). In un antico Martirologio leggiamo: Nella Giudea il natale di san Mattia Apostolo, il quale, dopo l’Ascensione del Signore, eletto a sorte dagli Apostoli in luogo di Giuda il traditore, per la predicazione dell’Evangelo fu martirizzato.

MARTIROLOGIO
Festa di san Mattia, apostolo, che seguì il Signore Gesù dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui Cristo fu assunto in cielo; per questo, dopo l’Ascensione del Signore, fu chiamato dagli Apostoli al posto di Giuda il traditore, perché, associato fra i Dodici, divenisse anche lui testimone della risurrezione.

DAGLI SCRITTI…
Dalle «Omelie sugli Atti degli Apostoli» di san Giovanni Crisostomo, vescovo
«In quei giorni, Pietro si alzò in mezzo ai fratelli e disse…» (At 1, 15). Dato che era il più zelante e gli era stato affidato da Cristo il gregge, e dato che era il primo nell’assemblea, per primo prende la parola: Fratelli, occorre scegliere uno tra noi (cfr. At 1, 21-22). Lascia ai presenti il giudizio, stimando degni d’ogni fiducia coloro che sarebbero stati scelti e infine garantendosi contro ogni odiosità che poteva sorgere. Infatti decisioni così importanti sono spesso origine di numerosi contrasti.
E non poteva essere lo stesso Pietro a scegliere? Certo che poteva, ma se ne astiene per non sembrare di fare parzialità. D’altra parte non aveva ancora ricevuto lo Spirito Santo. «Ne furono proposti due, Giuseppe, detto Barsabba che era soprannominato Giusto e Mattia» (At 1, 23). Non li presentò lui, ma tutti. Lui motivò la scelta, dimostrando che non era sua, ma già contemplata dalla profezia. Così egli fu solo l’interprete, non uno che impone il proprio giudizio.
Per questo disse: «Bisogna che tra coloro che ci furono compagni» con quel che segue (At 1, 21-22). Osserva quanta oculatezza richieda nei testimoni, anche se doveva venire lo Spirito; tratta con grande diligenza questa scelta. «Tra questi uomini», prosegue, «che sono stati con noi tutto il tempo che visse tra noi il Signore Gesù». Parla di coloro che erano vissuti con Gesù, non quindi semplici discepoli. All’inizio molti lo seguivano: ecco perché afferma: Era uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e avevano seguito Gesù.
«Per tutto il tempo in cui il Signore Gesù ha vissuto in mezzo a noi, incominciando dal battesimo di Giovanni» (At 1, 21). E si, perché gli avvenimenti accaduti prima, nessuno li ricordava con esattezza, ma li appresero dallo Spirito. «Fino al giorno in cui Gesù é stato di tra noi assunto in cielo, uno divenga, insieme a noi, testimone della sua risurrezione» (At 1, 22). Non dice: testimone di ogni cosa, ma «testimone della sua risurrezione», semplicemente.
Infatti era più credibile uno che affermasse: Colui che mangiava, beveva e fu crocifisso, é proprio lo stesso che é risuscitato. Perciò non era necessario che fosse testimone del passato né del tempo successivo e neppure dei miracoli, ma solo della risurrezione. Gli altri avvenimenti erano noti ed evidenti; la risurrezione invece era avvenuta di nascosto ed era nota solo a quei pochi.
E pregavano insieme dicendo: «Tu, Signore, che conosci il cuore di tutti, mostraci…» (At 1, 24). Tu, non noi. Molto giustamente lo invocano come colui che conosce i cuori: da lui, infatti, dev’essere fatta l’elezione, non da altri. Pregavano con tanta confidenza, perché era proprio necessario che uno fosse eletto. Non chiesero: Scegli, ma: «mostraci quale di questi due hai designato» (At 1, 24), ben sapendo che tutto é già stabilito da Dio. «Gettarono quindi le sorti su di loro» (At 1, 25). Non si ritenevano degni di fare essi stessi l’elezione, per questo desiderarono essere guidati da un segno.

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QUEL CHE RESTA DEL DOLORE: IL TRAUMA E LA TESTIMONIANZA DELLO SPIRITO (ROBERT CHEAIB)

http://www.zenit.org/it/articles/quel-che-resta-del-dolore

QUEL CHE RESTA DEL DOLORE

IL TRAUMA E LA TESTIMONIANZA DELLO SPIRITO

ROMA, 13 MAGGIO 2013 (ZENIT.ORG) ROBERT CHEAIB

I cristiani sono talmente abituati al passaggio teorico dalla croce alla risurrezione da vedere ormai quasi una logica continuità: prima vi è la sofferenza, l’ignominiosa morte e dopo arriva the happy ending e il canto dell’alleluia. La vita emerge trionfale e annienta la morte. Questo passaggio indelicato non solo dimentica la storia umana, i suoi irrisolti «perché» sulla sofferenza e sulla morte, ma soprattutto non rispetta il «sabato santo», la spaccatura e il contrasto, quel quadro dipinto con sfumature di un silenzio non qualsiasi, del silenzio della Parola, del silenzio in/di Dio. Questo passaggio dimentica anche che il risorto è sempre il risorto crocifisso che porta i segni della passione, che sono, sì, segni d’amore, ma pur sempre segni di ingiustizia, di dolore, di «amore non amato»… sono «quel che resta del dolore».
Nel suo volume Quel che resta del dolore. Il trauma e la testimonianza dello Spirito, la teologa americana Shelly Rambo dedica la sua riflessione e la sua sensibilità all’analisi di quest’interstizio dell’esperienza umana tra la tempesta che passa e il «dopo la tempesta» che rimane. La traduzione italiana del volume, curata da Giuseppe Mazza, si inserisce nella collana Universo teologia Limina delle Edizioni San Paolo dedicata alle tematiche «limite» spesso marginalizzate nella riflessione teologica, ma non tali nel vissuto quotidiano di credenti e non.

Il trauma
Il trauma è per natura ciò che non va via. È la trasformazione dell’esperienza di sofferenza in sintomi che sopravvivono nel corpo, nei ricordi che tornano e che forse ci perseguitano. Il trauma è «un incontro con la morte» che non è, però, morte in senso letterale. È un’esperienza intermedia che fa sì che la vita assuma una «definizione sostanzialmente diversa» la cui vulnerabilità la qualifica come «vita sempre mista alla morte» (22-23).
Le «teodicee» tentano di riconciliare il rapporto antitetico tra le affermazioni religiose su Dio (bontà, onnipotenza, onniscienza) e l’esperienza del male e della sofferenza, ma non giungono a dare una risposta efficace e sentita alla sofferenza stessa, o meglio, all’uomo che ha sofferto, che soffre e che porta il trauma come residuo per-manente della sofferenza.
Non di rado, le sofferenze vengono rivestite (investite?) con gli abiti di festa della speranza in una maniera troppo precoce, lasciando uno spazio oscuro e non visitato dal Vangelo: quello del cuore che si chiede ancora perché? Perché a me? Dove è/era Dio? La persona che ha sperimentato il dolore non vuole un Vangelo che cancelli la sua storia, ma che la illumini, che la visiti e che costruisca un futuro di speranza dalle fibre del corpo morto e non da un surrogato estraneo. Se non si ha la pazienza della semina della speranza si incorre nel rischio di «occultamento della realtà della morte nella vita stessa» (27).
La convinzione di Shelly Rambo è che il cristianesimo è capace di offrire, a chi ha sperimentato il trauma, chiavi teologiche, ermeneutiche ed esperienziali per teologizzare e interpretare la fase intermedia che, non è l’evento della croce e neppure quello della risurrezione, ma i dinamismi che sussistono fra i due. È qui che risiede la buona notizia, «nella capacità della teologia cristiana di testimoniare tra morte e vita, ovvero nella sua capacità di dar forma a una nuova riflessione tra le due dimensioni» (29). La teologia viene presentata, quindi, come «discorso di guarigione» che cerca di trasformare le realtà di sofferenze attraversate.

Sopra-vivere e testimoniare
Il trauma costituisce una «lente infranta» che debilita la capacità personale di considerare il passato, ma anche quella di immaginare il futuro (50). Attraversare il trauma e continuare a vivere diventa un evento che, nelle parole di Jacques Derrida, può essere qualificato come sopra-vivere. È letteralmente così: dopo un’esperienza di sofferenza o si muore (se non fuori, sicuramente dentro), o si vive su un piano superiore. Il termine sopra-vivere suggerisce «l’idea della vita che eccede se stessa. Tale eccedenza o traboccamento emerge dall’esperienza della morte» (59).
Testimoniare tale sopravvivenza diventa un modo per rendere ragione della fede nel cuore delle realtà traumatiche. Si tratta di uno spazio dove viene seriamente coinvolto «il disorientarsi del tempo, della parola e del corpo, nel quadro delle molteplici elisioni che lo costituiscono» (87).
La testimonianza riconosce e raccoglie la natura infranta della parola, del corpo, della storia individuale e comunitaria nella testimonianza che spinge verso una particolare manifestazione dello Spirito, non tanto come «datore di vita», ma come «testimone dell’emergere della vita dalla morte».

Il sabato santo e la testimonianza in Giovanni
La teologa riflette sull’istanza del sabato santo approfondita da Hans Urs von Balthasar in dialogo con la teologia e le esperienze mistiche di Adrienne von Speyr. Il teologo di Basilea getta uno sguardo prospettico sulla redenzione oltre la morte in croce e prima dell’alba della risurrezione, esaminando lo spazio intermedio della discesa negli inferi. Balthasar descrive quell’esperienza teologica come un dramma che va oltre la nostra stessa comprensione. È quella dimensione dove tra passione e risurrezione «non vi è luce, non vi è vita, non vi sono parole» (124).
Lo sguardo dell’autrice enuclea l’espediente narrativo che dialoga con questa sensibilità del silenzio di Dio in una scena che distingue il racconto della passione giovannea. Si tratta della scena del soldato che trafigge con la lancia il corpo esanime del Crocifisso. L’acqua è generalmente intesa come simbolo di vita, ma in questa pericope giovannea, l’acqua compare in un ambito di morte. «I fluidi della morte e della vita sono mescolati insieme, e contrassegnano nel testo uno spazio da cui scaturisce una testimonianza particolare» (155): una testimonianza tra morte e vita, tra croce e risurrezione.
Inoltre, la testimonianza giovannea si declina con due termini precisi: rimanere (ménein) e trasmettere (paradidónai). Il primo è un modo di esprimere un diverso tipo di presenza necessario a seguito della morte di Gesù. «È una presenza che prende la forma del sopportare, del resistere, del persistere. È una presenza che accompagna e custodisce, portando sempre con sé i segni della sofferenza e della morte» (194). Il secondo termine – trasmettere – rimanda alla consegna, all’attenzione verso coloro che rimangono, a Giuda che consegna ma soprattutto allo Spirito che è consegnato.
I due termini non rimandano a una testimonianza forte o arrogante, ma a una presenza infranta. Essi rappresentano «la caotica e inconcludente esperienza del vivere oltre la morte» con l’annuncio della risurrezione. Sopra-vivere prende forma attraverso l’imperativo di rimanere e di amare.
I paradigmi personali di questa testimonianza sono il discepolo amato e Maria Maddalena. Entrambi «attestano un evento di morte in e attraverso un diverso concetto di vita che ne emerge: non un’immagine di vita nuova e trionfante, ma la persistente testimonianza resa all’amore che sopravvive» (204).

Lo Spirito intermedio e l’amore che rimane
La consegna dello Spirito esprime la potenza di Dio che rimane oltre la morte e nel trauma. «Dio non è potente nella distanza, ma nella sua intima relazionalità verso tutte le cose». La presenza dello Spirito è testimonianza che «Dio è vulnerabile rispetto al mondo, è coinvolto in esso. Lo Spirito, come figura del desiderio divino, esprime la potenza nell’apertura e nella vulnerabilità» (239).
Gesù che consegna lo Spirito testimonia che l’amore rimane. Il soffio vitale si estingue, ma non è assorbito dalla morte. Persiste proprio nel suo consegnarsi. L’amore rimane come testimonianza viva nell’abisso. «Non trova dimostrazione nella capacità di pronunciare la vita, ma in quella di recare testimonianza in e attraverso la morte al soffio dell’amore divino. Nell’intermedio la vita non può essere vista, e per tal motivo dev’essere testimoniata» (251).
In una storia commista di morte e vita, è evidente che la morte rimane. La vita non può allora essere concepita a prescindere da essa. Il comando dell’amore testimonia la possibilità del «no», del lasciarsi assorbire dalla voragine cupa dell’odio e del rancore che il male alimenta naturalmente, ma testimonia anche una possibilità kairologica: il «sì» che fa sì che quel che resta del dolore possa essere anche «l’amore che rimane», sopravvive, permettere di sopravvivere, e anche se a un prezzo ingente, di vivere in pienezza.

Publié dans:TRINITÃ - SPIRITO SANTO |on 13 mai, 2013 |Pas de commentaires »

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