LA CONCEZIONE DEL LAVORO NEL MONDO BIBLICO
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LA CONCEZIONE DEL LAVORO NEL MONDO BIBLICO
La posizione della Bibbia ci consente di comprendere l’origine di questa duplicità nel giudizio sul lavoro della cultura occidentale.
L’Antico Testamento insiste su due grandi convinzioni:
Il lavoro è degno dell’uomo visto che Dio stesso opera e lavora. Nella Genesi Dio lavora e si compiace del proprio operato
« Dio disse: Le acque che sono sotto il cielo si raccolgano in un solo luogo e appaia l’asciutto.
E così avvenne. Dio chiamò l’asciutto terra e la massa delle acque mare. E Dio vide che era cosa buona. » (Gen.1,9-10)
La creazione dell’uomo e della donna e il peccato originale
Il lavoro è dunque buono in sé, anche se il peccato ha turbato l’armonia dell’universo, introducendo l’elemento della sofferenza e della fatica.
« Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai » (Gen.3,19).
Il peccato segna la rottura dell’unità dell’uomo con il creato, al punto che lo stare dell’uomo nel mondo diventa un esser gettato nel mondo come esiliato e straniero. Adamo si vergogna dopo aver commesso il peccato.
« Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: Dove sei? Rispose. Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura perché sono nudo, e mi sono nascosto » (Gen.3,9-10).
L’esperienza dell’esistere nasce come vergogna, in un sentire problematicamente il proprio essere. Scrive Lèvinas in « Dell’Evasione »: La vergogna appare ogni volta che non riusciamo a far dimenticare la nostra nudità. Essa è in rapporto con tutto ciò che si vorrebbe nascondere e a cui non si può sfuggire… Ciò che appare nella vergogna è precisamente il fatto di essere incatenati a sé, l’impossibilità radicale di fuggire da se stessi per nascondersi a sé, l’irremissibile presenza dell’io a se stesso… E’ dunque la nostra intimità, cioè la nostra presenza a noi stessi, che è vergognosa. Essa non rivela il nostro nulla, ma la totalità della nostra esistenza… la vergogna è, in fin dei conti, un’esistenza che cerca per sé delle scuse. Ciò che la vergogna svela è l’essere che si svela ».
« …Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto… »
La problematicità del nostro essere emerge in modo chiaro in un celebre versetto della Genesi, 3-22:23.
« Il Signore Dio disse allora: Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male. Ora egli non stenda più la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva sempre. Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto ».
L’uomo, dunque, partecipe della divinità, per quanto concerne la coscienza, ma legato irrimediabilmente alla fragilità e alla mortalità dal punto di vista del suo essere.
Emerge una successione di esperienze di frattura legata al peccato: la prima è quella della perdita dell’unità originaria con la natura, la seconda è la dolorosa scoperta del proprio essere come luogo di vergogna, la terza è quella della contraddizione irrisolvibile tra coscienza ed essere.
Il lavoro rappresenta un dovere morale che Dio ha dato all’uomo da integrare con la preghiera e la contemplazione.
In Gen.2,15 leggiamo « Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino dell’Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse. » E poco dopo, in Gen.2.19 « Allora il Signor Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche, e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome ».
Il lavoro può diventare una specie di occasione per recuperare l’unità attraverso la cura del mondo.
La Bibbia si forma attraverso una progressiva stratificazione di testi, tra i quali si nota un’influenza proveniente da più culture. In particolare il mito della Genesi risulta fortemente collegato alla civiltà mesopotamica.
A Babilonia ogni anno viene letto pubblicamente il poema » ENUMA ELIAH (« Quando nell’Alto ») che riassume la cosmogonia mesopotamica:
Marduk capo dei nuovi dei lotta con la divinità malvagia Tianath e vince facendo a pezzi l’avversario
Con i pezzi del corpo dell’avversario sconfitto, Marduk costruisce l’universo
La materia si presenta con una connotazione negativa
Chi si occuperà del funzionamento della Materia?
Viene creato l’uomo, con lo sterco degli dei, per svolgere questa funzione
L’uomo è un servo, per il quale il lavoro è il segno inequivocabile della fragilità e dell’umiliazione
Il racconto della Genesi può essere letto come il controcanto di questa cosmogonia: il protagonista è Dio. Di cui Israele ha già fatto esperienza nell’Esodo (la Genesi viene prodotta dopo l’Esodo, quindi dopo che gli Ebrei hanno conosciuto Dio come liberatore). Al posto di Marduk c’è Ihwh, il Dio padre, e non padrone, liberatore che dona la terra all’uomo. Ciò che Dio dona è buono in sé: Dio dà una forma possente alla materia con la parola (dabar-parola-azione. La parola è manifestazione dell’essere, così come lo è l’azione). Se la creazione è manifestazione di Dio, e Dio è buono, allora la creazione è buona. Quindi la Terra è un dono per l’uomo, che deve abitarla e curarla per se stesso in rapporto a Dio. Il nostro abitare la Terra deve essere un continuo accogliere il dono di Dio.
In quest’ottica, il lavoro diventa:
collaborazione con Dio, nella gratitudine per il dono ricevuto
responsabilità (l’uomo è custode dei mondo)
libertà per l’uomo
sua dignità
L’uomo è interlocutore di Dio. La Genesi ci ha fatto vedere che Dio dà all’uomo il compito di dare nomi agli enti, cioè di fare presa sull’essere. Ora, il lavoro è precetto e obbedienza a Dio in questo senso: è un gradire il suo dono dando a quest’ultimo la sua identità: tutto diventa riconoscibile, compreso l’uomo stesso, che nel lavoro, appunto, riconosce se stesso.
Ecco dunque che il fine del lavoro non è legato all’utilità, al dominio, all’imposizione sul mondo. Il lavoro è un riconoscere la gratuità del dono di Dio, che ha creato come crea un artista, per sovrabbondanza interiore.
Se questo riconoscere la gratuità dell’atto creativo di Dio si dà, nell’uomo adulto, in forma di lavoro, per il bambino si dà come gioco. (Teniamo presente che nella cultura ebraica grande è il rispetto per il gioco. Secondo la legge ebraica, il bambino non può giocare fino a quando non compie il rito di passaggio all’età adulta).
Il gioco è l’esperienza irrinunciabile per l’uomo nell’aurora della sua esistenza, perché è la prima grande esperienza della gratuità dell’agire. L’esperienza del gioco si pone come condizione forte perché poi si possa accedere al lavoro senza tradire la fondamentale gratuità del dono di Dio.
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