Archive pour avril, 2013

PAPA FRANCESCO : « DIO SEMPRE È FEDELE; DIO SEMPRE È FEDELE CON NOI »

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« DIO SEMPRE È FEDELE; DIO SEMPRE È FEDELE CON NOI »

LA CATECHESI DI PAPA FRANCESCO DURANTE L’UDIENZA GENERALE DI OGGI

CITTA’ DEL VATICANO, 10 APRILE 2013 (ZENIT.ORG)

RIPRENDIAMO DI SEGUITO LA CATECHESI TENUTA QUESTA MATTINA DA PAPA FRANCESCO DURANTE LA CONSUETA UDIENZA GENERALE DEL MERCOLEDÌ, SVOLTASI IN PIAZZA SAN PIETRO.

***
Cari fratelli e sorelle, buon giorno!

Nella scorsa Catechesi ci siamo soffermati sull’evento della Risurrezione di Gesù, in cui le donne hanno avuto un ruolo particolare. Oggi vorrei riflettere sulla sua portata salvifica. Che cosa significa per la nostra vita la Risurrezione? E perché senza di essa è vana la nostra fede? La nostra fede si fonda sulla Morte e Risurrezione di Cristo, proprio come una casa poggia sulle fondamenta: se cedono queste, crolla tutta la casa. Sulla croce, Gesù ha offerto se stesso prendendo su di sé i nostri peccati e scendendo nell’abisso della morte, e nella Risurrezione li vince, li toglie e ci apre la strada per rinascere a una vita nuova. San Pietro lo esprime sinteticamente all’inizio della sua Prima Lettera, come abbiamo ascoltato: «Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per un’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce» (1,3-4).
L’Apostolo ci dice che con la Risurrezione di Gesù qualcosa di assolutamente nuovo avviene: siamo liberati dalla schiavitù del peccato e diventiamo figli di Dio, siamo generati cioè ad una vita nuova. Quando si realizza questo per noi? Nel Sacramento del Battesimo. In antico, esso si riceveva normalmente per immersione. Colui che doveva essere battezzato scendeva nella grande vasca del Battistero, lasciando i suoi vestiti, e il Vescovo o il Presbitero gli versava per tre volte l’acqua sul capo, battezzandolo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Poi il battezzato usciva dalla vasca e indossava la nuova veste, quella bianca: era nato cioè ad una vita nuova, immergendosi nella Morte e Risurrezione di Cristo. Era diventato figlio di Dio. San Paolo nella Lettera ai Romani scrive: voi «avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: « Abbà! Padre! »» (Rm 8,15). È proprio lo Spirito che abbiamo ricevuto nel battesimo che ci insegna, ci spinge, a dire a Dio: « Padre », o meglio, « Abbà! » che significa « papà ». Così è il nostro Dio: è un papà per noi. Lo Spirito Santo realizza in noi questa nuova condizione di figli di Dio. E questo è il più grande dono che riceviamo dal Mistero pasquale di Gesù. E Dio ci tratta da figli, ci comprende, ci perdona, ci abbraccia, ci ama anche quando sbagliamo. Già nell’Antico Testamento, il profeta Isaia affermava che se anche una madre si dimenticasse del figlio, Dio non si dimentica mai di noi, in nessun momento (cfr 49,15). E questo è bello!
Tuttavia, questa relazione filiale con Dio non è come un tesoro che conserviamo in un angolo della nostra vita, ma deve crescere, dev’essere alimentata ogni giorno con l’ascolto della Parola di Dio, la preghiera, la partecipazione ai Sacramenti, specialmente della Penitenza e dell’Eucaristia, e la carità. Noi possiamo vivere da figli! E questa è la nostra dignità – noi abbiamo la dignità di figli -. Comportarci come veri figli! Questo vuol dire che ogni giorno dobbiamo lasciare che Cristo ci trasformi e ci renda come Lui; vuol dire cercare di vivere da cristiani, cercare di seguirlo, anche se vediamo i nostri limiti e le nostre debolezze. La tentazione di lasciare Dio da parte per mettere al centro noi stessi è sempre alle porte e l’esperienza del peccato ferisce la nostra vita cristiana, il nostro essere figli di Dio. Per questo dobbiamo avere il coraggio della fede e non lasciarci condurre dalla mentalità che ci dice: « Dio non serve, non è importante per te », e così via. E’ proprio il contrario: solo comportandoci da figli di Dio, senza scoraggiarci per le nostre cadute, per i nostri peccati, sentendoci amati da Lui, la nostra vita sarà nuova, animata dalla serenità e dalla gioia. Dio è la nostra forza! Dio è la nostra speranza!
Cari fratelli e sorelle, dobbiamo avere noi per primi ben ferma questa speranza e dobbiamo esserne un segno visibile, chiaro, luminoso per tutti. Il Signore Risorto è la speranza che non viene mai meno, che non delude (cfr Rm 5,5). La speranza non delude. Quella del Signore! Quante volte nella nostra vita le speranze svaniscono, quante volte le attese che portiamo nel cuore non si realizzano! La speranza di noi cristiani è forte, sicura, solida in questa terra, dove Dio ci ha chiamati a camminare, ed è aperta all’eternità, perché fondata su Dio, che è sempre fedele. Non dobbiamo dimenticare: Dio sempre è fedele; Dio sempre è fedele con noi. Essere risorti con Cristo mediante il Battesimo, con il dono della fede, per un’eredità che non si corrompe, ci porti a cercare maggiormente le cose di Dio, a pensare di più a Lui, a pregarlo di più. Essere cristiani non si riduce a seguire dei comandi, ma vuol dire essere in Cristo, pensare come Lui, agire come Lui, amare come Lui; è lasciare che Lui prenda possesso della nostra vita e la cambi, la trasformi, la liberi dalle tenebre del male e del peccato.
Cari fratelli e sorelle, a chi ci chiede ragione della speranza che è in noi (cfr 1Pt 3,15), indichiamo il Cristo Risorto. Indichiamolo con l’annuncio della Parola, ma soprattutto con la nostra vita di risorti. Mostriamo la gioia di essere figli di Dio, la libertà che ci dona il vivere in Cristo, che è la vera libertà, quella che ci salva dalla schiavitù del male, del peccato, della morte! Guardiamo alla Patria celeste, avremo una nuova luce e forza anche nel nostro impegno e nelle nostre fatiche quotidiane. E’ un servizio prezioso che dobbiamo dare a questo nostro mondo, che spesso non riesce più a sollevare lo sguardo verso l’alto, non riesce più a sollevare lo sguardo verso Dio.

St. Stanislaus, Bishop and Martyr

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11 APRILE: SAN STANISLAO VESCOVO E MARTIRE

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11 APRILE: SAN STANISLAO VESCOVO E MARTIRE

Szczepanowski, Polonia, c. 1030 – Cracovia, Polonia, 11 aprile 1079

I buoni esempi dei genitori esercitarono una profonda impressione sul figlio che imparò presto a darsi alla preghiera, ad evitare i frivoli divertimenti, a imporsi delle piccole privazioni e a soffrire volentieri le incomodità della vita. Dopo i primi studi, egli fu inviato a completarli dapprima a Gniezno, celebre università della Polonia, poi a Parigi, dove per sette anni si applicò allo studio dei diritto canonico e della teologia. Per umiltà rifiutò il grado accademico di dottore.

Quando ritornò in patria e divenne, per la morte dei genitori, possessore di una considerevole fortuna, Stanislao poté disporre dei beni in favore dei poveri e servire Dio con maggiore libertà. Il vescovo di Cracovia, Lamberto Zurla, conoscendo quanto grande fosse la sapienza e la virtù di lui, lo ordinò sacerdote e lo fece canonico della cattedrale.

Stanislao fu il modello del capitolo per le penitenze con cui affliggeva il proprio corpo, la lettura e la meditazione continua della Sacra Scrittura, le vigilie e l’assiduità ai divini uffici. Incaricato della predicazione, si acquistò in breve una così grande reputazione che parecchi ecclesiastici e laici accorsero da tutte le parti della Polonia a consultarlo per la tranquillità della loro coscienza.
Dopo la morte di Lamberto, tutti, ad una voce, elessero Stanislao suo successore. Egli, che si riteneva indegno e incapace di tanto ufficio, rifiutò energicamente. Dovette tuttavia piegarsi all’ordine formale di Alessandro II e lasciarsi consacrare vescovo nel 1072. Costretto a compiere le funzioni degli apostoli, egli cercò di praticarne le virtù. Per tenere sottomessa la carne portò il cilicio fino alla morte e per distaccarsi sempre di più dai beni della terra soccorse i bisognosi con generosità. Per non dimenticare nessuno ne fece compilare un elenco completo. La sua casa era sempre aperta a quanti ricorrevano a lui per consiglio e aiuto. Ogni anno visitava la diocesi per togliere gli abusi ed esigere dal clero una vita che fosse di edificazione per i fedeli. Dimentico delle ingiurie, trattava tutti con la dolcezza e la bontà di un padre, e prediligeva i deboli e gli oppressi, che difendeva sempre e ovunque con invincibile fermezza.
La Polonia in quel tempo era governata da Boleslao II l’Ardito. Costui si era dimostrato valoroso nella guerra contro i Russi, ma nella vita privata non rifuggiva dalle orge, e in quella pubblica dalla tirannia. I rapimenti e le violenze erano i crimini che quotidianamente consumava con grande scandalo dei sudditi. Nessuno di coloro che lo avvicinavano osava fargliene la minima rimostranza. Soltanto Stanislao ogni tanto lo andava a trovare per indurlo a riflettere sulla enormità dei propri crimini e le funeste conseguenze degli scandali che dava. Boleslao II in principio cercò di scusarsene, poi parve dare segni di pentimento e promise di emendarsi.
Le buone risoluzioni del re non durarono a lungo. Nella provincia di Siradia un giorno Boleslao fece rapire a viva forza Cristina, la moglie del signore Miecislao, famosa per la sua bellezza. L’atto tirannico e immorale provocò l’indignazione di tutta la nobiltà polacca. L’arcivescovo di Gniezno, primate del regno, e i vescovi della corte furono pregati d’intervenire, ma essi, timorosi di dispiacere al sovrano, rimasero dei cani muti. Soltanto Stanislao, dopo avere a lungo pregato, osò affrontare il re per la seconda volta e minacciargli le censure ecclesiastiche se non poneva termine alla sua vita disordinata e prepotente. Alla minaccia di scomunica Boleslao uscì dai gangheri e ingiuriò grossolanamente il coraggioso prelato dicendogli: « Quando uno osa parlare con tanto poco rispetto ad un monarca, converrebbe che facesse il porcaio, non il vescovo ». Il santo, senza lasciarsi intimidire, rinnovò le sue istanze e disse al sovrano: « Non stabilite nessun paragone tra la dignità regale e quella episcopale perché la prima sta alla seconda come la luna al sole o il piombo all’oro ».
Boleslao II, risoluto a vendicarsi a costo di ricorrere alla calunnia, si ritirò bruscamente senza neppure congedare lo sconcertante visitatore. Il santo vescovo aveva comperato da un signore, chiamato Pietro, la terra di Piotrawin, ne aveva pagato il prezzo alla presenza di testimoni, poi ne aveva dotata la chiesa di Cracovia. Nell’atto di vendita nessuna formalità era stata omessa, tuttavia Stanislao, confidando nella buona fede dei testimoni, non aveva richiesto dal venditore una quietanza. Essendo costui morto, il re chiamò a sé i nipoti di Pietro, li esortò a richiederne l’eredità come un bene usurpato dal vescovo, e li assicurò che avrebbe saputo intimidire i testimoni al punto da chiudere loro la bocca. Gli eredi, seguendo le istruzioni di Boleslao II, intentarono un processo al vescovo, lo citarono a comparire davanti ad un’assemblea di giudici presieduta dal re e lo accusarono di avere usurpato la loro proprietà. Il santo sostenne di averla pagata, ma essi negarono. Allegò allora dei testimoni, ma essi non ebbero il coraggio di dire la verità. Stanislao stava per essere condannato quando, in seguito ad una improvvisa ispirazione, chiese ai giudici una dilazione di tre giorni, promettendo di fare comparire in persona Pietro, morto da tre anni. La richiesta fu accolta con uno sprezzante sogghigno.
Dopo aver digiunato, pregato e vegliato, Stanislao il terzo giorno si recò al luogo in cui Pietro era stato seppellito, fece aprire la tomba e, toccandone con il pastorale la salma, gli ordinò di alzarsi nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Il defunto ubbidì e il santo lo condusse con sé al tribunale dov’era ad attenderlo il re, la corte e una grande folla di curiosi. « Ecco – disse Stanislao ai giudici entrando con Pietro nella sala – colui che mi ha venduto la terra di Piotrawin; egli è risuscitato per rendervene testimonianza. Domandategli se non è vero che gli ho pagato il prezzo di quella terra. Lo conoscete e la sua tomba è aperta ». I presenti rimasero allibiti. Il risorto dichiarò che il vescovo gli aveva pagato quella terra davanti ai due testimoni che pochi giorni prima avevano tradito la verità, rimproverò i suoi nipoti per avere osato perseguitare ingiustamente il vescovo di Cracovia e li esortò a farne la penitenza. Dopo di che egli ritornò alla tomba da cui era uscito scongiurando il santo di pregare Nostro Signore affinché gli abbreviasse le pene del Purgatorio.
Quel prodigio fece una grande impressione sopra Boleslao II. Per un certo tempo trovò la forza di reprimere la sua lussuria e di mitigare le sue crudeltà. Compì persino una spedizione contro i Russi e s’impadronì della loro capitale, Kiew. Tuttavia, l’ebbrezza della vittoria lo fece ricadere in braccio alle più sregolate passioni. Non contento degli ordinari eccessi, volle abbandonarsi pubblicamente alle abominazioni di Sodoma e Gomorra. Stanislao, quale novello Giovanni Battista, prese la risoluzione di porre un freno alla licenza del novello Erode anche a costo del martirio per la gloria di Dio e la salute della Polonia. Egli chiese al Signore con preghiere e penitenze la conversione del re, lo visitò parecchie volte per fargli aprire gli occhi e sollevarlo dall’abisso in cui era precipitato. La sua fatica fu inutile: il sovrano lo caricò d’ingiurie e lo minacciò di morte se continuava a censurare la condotta come aveva fatto.
Stanislao, acceso di sdegno per l’offesa che il re faceva a Dio, dopo avere chiesto il parere di altri vescovi, scomunicò pubblicamente Boleslao II e gl’interdisse l’ingresso in chiesa. Siccome il re continuava, nonostante le pene canoniche in cui era incorso, a prendere parte con i fedeli ai riti liturgici, il vescovo ordinò ai sacerdoti di sospendere i divini uffici ogni volta che lo scomunicato ardiva varcare la soglia delle loro chiese. Per parte sua, allo scopo di non essere turbato dalla presenza di lui nella celebrazione della Santa Messa, andava a dirla nella chiesa di San Michele, fuori Cracovia. Pieno di furore, Boleslao II si recò colà e ordinò ad alcune guardie di entrare in chiesa e di massacrarvi Stanislao. Esse ubbidirono, ma mentre stavano per mettere le mani addosso al santo che celebrava la Messa, furono fatti stramazzare a terra da una forza misteriosa. Il re, irridendo alla loro debolezza, si avvicinò in persona a Stanislao con in mano la spada sguainata, e gli assestò un fendente sulla testa con tale violenza da farne schizzare le cervella contro la parete. Era l’11 aprile del 1079. Per assaporare di più la sua atroce sete di vendetta tagliò il naso e le labbra al martire, e quindi diede ordine che il cadavere fosse trascinato fuori della chiesa, fatto a pezzi e disperso per i campi affinché servisse di cibo agli uccelli e alle bestie selvagge.
Tuttavia Iddio fece sì  che quattro aquile difendessero per due giorni le reliquie del santo e che durante la notte esse rilucessero di uno strano splendore. Alcuni sacerdoti e pii fedeli, fatti audaci da quei prodigi, osarono, malgrado la proibizione del re, raccogliere quelle membra sparse, emananti un soave profumo, e seppellirle alla porta della chiesa di San Michele. Due anni più tardi il corpo di Stanislao fu trasportato a Cracovia e seppellito prima in mezzo alla chiesa della fortezza e poi nella cattedrale (1088).
S. Gregorio VII (+1085) lanciò  l’interdetto sul regno di Polonia, scomunicò Boleslao II e lo dichiarò decaduto dalla dignità regale. Il principe, perseguitato esternamente dalla riprovazione dei sudditi, straziato internamente dal rimorso dei crimini commessi, cercò rifugio presso Ladislao I (+1095), re d’Ungheria, che lo accolse con bontà. Il pentimento non tardò ad impossessarsi del suo animo e allora intraprese un pellegrinaggio a Roma per implorare dal papa l’assoluzione dalle censure. Giunto ad Ossiach, nella Carinzia, la grazia lo spinse ad andare a bussare alla porta del monastero dei benedettini e chiedere di potervi passare il restante della vita come un fratello laico. Vi rimase sconosciuto fino alla morte (+1081) dedito alla penitenza e ai lavori più umili.
S. Stanislao di Cracovia fu canonizzato da Innocenze IV nel 1253. Sulla sua tomba avvennero dei prodigi, tra cui la risurrezione di tre morti.
Oggi, 11 aprile, la Chiesa ricorda anche: Beato Angelo (Carletti) da Chivasso Sacerdote; Sant’Antipa di Pergamo Martire; San Barsanofio Eremita; San Domnione (Donnione) di Salona Vescovo e martire;Beata Elena Guerra Vergine; San Filippo di Gortina Vescovo a Creta; Santa Gemma Galgani Vergine; Beato Giorgio Gervase Sacerdote benedettino, martire; Beato Giovanni di Massaccio Religioso; San Guthlac Eremita; Sant’ Isacco di Monteluco Monaco; Beato Lanuino Monaco certosino; Beati Paolo e Giacomo Cavalieri mercedari; Beata Sancia del Portogallo Principessa, vergine; Beato Sinforiano Felice (Symforian Feliks) Ducki Religioso e martire.

Publié dans:BIBBIA |on 10 avril, 2013 |Pas de commentaires »

CRISTO SCONFIGGE LA MORTE – DAI « DISCORSI » DI SANT`EFREM, DIACONO

http://www.gliscritti.it/preg_lett/antologia/cristo_sconfigge_la_morte.htm

CRISTO SCONFIGGE LA MORTE

DAI « DISCORSI » DI SANT`EFREM, DIACONO. (DISC. SUL SIGNORE, 3-4. 9; OPERA, ED. LAMY, 1, 152-158. 166-168)

Il nostro Signore fu schiacciato dalla morte, ma a sua volta egli la calpestò come una strada battuta. Si sottomise spontaneamente alla morte, accettò volontariamente la morte, per distruggere quella morte, che non voleva morire. Nostro Signore infatti uscì reggendo la croce perché così volle la morte. Ma sulla croce col suo grido trasse i morti fuori dagli inferi, nonostante che la morte cercasse di opporsi. La morte lo ha ucciso nel corpo, che egli aveva assunto. Ma con le stesse armi egli trionfò sulla morte. La divinità si nascose sotto l’umanità e si avvicinò alla morte, la quale uccise e a sua volta fu uccisa. La morte uccise la vita naturale, ma venne uccisa dalla vita soprannaturale. Siccome la morte non poteva inghiottire il Verbo senza il corpo, né gli inferi accoglierlo senza la carne, egli nacque dalla Vergine, per poter scendere mediante il corpo al regno dei morti. Ma una volta giunto colà col corpo che aveva assunto, distrusse e disperse tutte le ricchezze e tutti i tesori infernali. Cristo venne da Eva, genitrice di tutti i viventi. Ella è la vigna, la cui siepe fu aperta proprio dalla morte per le mani di quella stessa Eva che doveva, per questo, gustare i frutti della morte. Eva, madre di tutti i viventi, divenne anche causa di morte per tutti i viventi. Fiorì poi Maria, nuova vite rispetto all’antica Eva, ed in lei prese dimora la nuova vita, Cristo. Avvenne allora che la morte si avvicinasse a lui per divorarlo con la sua abituale e ineluttabile sicurezza. Non si accorse, però, che nel frutto mortale, che mangiava, era nascosta la Vita. Fu questa che causò la fine della inconsapevole e incauta divoratrice. La morte lo inghiottì senza alcun timore ed egli liberò la vita e con essa la moltitudine degli uomini. Fu ben potente il figlio del falegname, che portò la sua croce sopra gli inferi che ingoiavano tutto e trasferì il genere umano nella casa della vita. Siccome poi a causa del legno il genere umano era sprofondato in questi luoghi sotterranei, sopra un legno entrò nell’abitazione della vita, in quel legno in cui era stato innestato il ramoscello dolce, perché riconosciamo colui al quale nessuna creatura è in grado di resistere. Gloria a te che della tua croce hai fatto un ponte sulla morte. Attraverso questo ponte le anime si possono trasferire dalla regione della morte a quella della vita. Gloria a te che ti sei rivestito del corpo dell’uomo mortale e lo hai trasformato in sorgente di vita per tutti i mortali. Tu ora certo vivi. Coloro che ti hanno ucciso hanno agito verso la tua vita come gli agricoltori. La seminarono come frumento nel solco profondo. Ma di là rifiorì e fece risorgere con sé tutti. Venite, offriamo il nostro amore come sacrificio grande e universale, eleviamo cantici solenni e rivolgiamo preghiere a colui che offrì la sua croce in sacrificio a Dio, per rendere ricchi tutti noi del suo inestimabile tesoro.

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Publié dans:meditazioni, Santi, santi scritti |on 10 avril, 2013 |Pas de commentaires »

Flossemburg Concentration Camp

Flossemburg Concentration Camp dans immagini Flossenburg-front
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Publié dans:immagini |on 9 avril, 2013 |Pas de commentaires »

LA SEMPLICE UBBIDIENZA (DA DIETRICH BONHOEFFER)

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LA SEMPLICE UBBIDIENZA (DA DIETRICH BONHOEFFER)

LA SEMPLICE UBBIDIENZA
DA SEQUELA,
DI DIETRICH BONHOEFFER

Quando Gesù gli ha richiesto una povertà volontaria, a quel punto il giovane ricco si è reso conto che restava solo la possibilità di ubbidire o di non ubbidire. Quando Levi è stato chiamato a lasciare il dazio e Pietro le reti, a questo punto non c’era dubbio sulla serietà di questa chiamata di Gesù. Essi dovevano lasciare tutto e porsi nella sequela. Quando Pietro viene chiamato a cam­minare sulla superficie ondeggiante del mare, a quel punto deve alzarsi e rischiare questo passo. In tutte queste situazioni si ri­chiede solo una cosa, abbandonarsi alla parola di Gesù Cristo, con­siderarla come un terreno più solido di qualsiasi altra sicurezza del mondo. Le potenze che volevano interporsi fra la parola di Gesù e l’ubbidienza erano allora grandi quanto oggi. Vi si oppone­va la ragione; la coscienza, la responsabilità, la pietà religiosa, la stessa legge e il principio scritturistico si frapponevano, per evitare questo estremo, questo «fanatismo» senza legge. Ma la chiamata di Gesù ha infranto tutto ciò, procurandosi ubbidienza. Era la stessa parola di Dio. Quello che veniva richiesto era la semplice ubbidienza.
Se Gesù Cristo per mezzo della Sacra Scrittura parlasse così ad uno di noi, ragioneremmo probabilmente nel modo seguente: Gesù comanda qualcosa di ben preciso, questo è vero. Ma se Gesù co­manda, devo sapere che non pretende mai ubbidienza legalistica, bensì vuole da me solo una cosa, cioè che io creda. Ma la mia fede non è legata a povertà, ricchezza o cose simili, anzi, nella fede posso essere sia povero sia ricco. Non è importante che io sia privo di beni, ma che li abbia come se non li avessi, che ne sia libero interiormente, che non leghi il mio cuore alla ricchezza. Dunque Gesù dice ad esempio: Vendi i tuoi beni! ma intende: Veramente non conta che tu lo faccia anche esteriormen­te, anzi, devi tenerti i tuoi beni tranquillamente: conta solo che tu li abbia come se non li avessi. Non legare il tuo cuore ai beni. La nostra ubbidienza alla parola di Gesù consisterebbe dunque nel rifiutare appunto la semplice ubbidienza come legalista, per essere poi ubbidienti «nella fede».
In questo ci distinguiamo dal giovane ricco. Nella sua tristezza egli non poteva mettersi l’anima in pace semplicemente dicendo a se stesso: Io voglio certo restare ricco contro la parola di Gesù, interiormente voglio però liberarmi dalla mia ricchezza, voglio, nonostante la mia inadeguatezza, tro­vare conforto nella remissione dei peccati, e conseguire nella fede la comunione con Gesù: al contrario, il giovane se ne andò triste, e assieme all’ubbidienza egli perse la fede. In questo il gio­vane è stato totalmente sincero. Egli si è separato da Gesù e certa­mente a questa sincerità è data una promessa maggiore che ad una comunione solo apparente con Gesù, fondata sulla disubbi­dienza. Evidentemente, secondo ciò che pensava Gesù, il proble­ma del giovane era appunto che egli non poteva liberarsi interior­mente dalla ricchezza. Probabilmente, essendo persona seria e in ricerca, egli ci aveva provato mille volte. Che non vi fosse riuscito, lo dimostra il fatto che nel momento decisivo non è stato capace di ubbidire alla parola di Gesù. Per questo dunque il giovane è stato sincero.

Ma, con la nostra argomentazione, noi ci distinguia­mo da qualsiasi uditore della parola di Gesù che compaia nella Bibbia. Quando Gesù gli dice: lascia tutto e seguimi, lascia la tua professione, la tua famiglia, il tuo popolo e la tua casa paterna, l’uditore sapeva che a questa chiamata si poteva dare risposta solo con la semplice ubbidienza, appunto perché a questa ubbi­dienza è data la promessa della comunione con Gesù. Noi invece diremmo: È vero che la chiamata di Gesù «va presa assolutamente sul serio», ma la vera ubbidienza verso di lui consiste nel fatto che ora io resti senz’altro nella mia professione, nella mia famiglia, e in questa condizione lo serva, appunto, in vera libertà interiore.
Dunque Gesù ci direbbe: Esci! ma noi lo intendiamo come se vo­lesse dire: Restaci, nella tua condizione, naturalmente come uno che ne è uscito interiormente. Oppure, quando Gesù dice: Non affannatevi, noi dovremmo intendere: Naturalmente è nostro ob­bligo affannarci e lavorare per i nostri cari e per noi stessi. Ogni altra soluzione sarebbe irresponsabile. Ma nel nostro intimo dob­biamo essere ovviamente liberi da tali affanni. Quando Gesù dice: Se uno ti colpisce alla guancia destra, offrigli anche l’altra, noi dovremmo intendere: È proprio soltanto nella lotta, nel restituire i colpi, che si attuerà nella misura maggiore il vero amore per il fratello. Quando Gesù dice: Cercate prima di tutto il regno di Dio, noi dovremmo intendere: È naturale che prima ci occupia­mo di tutt’altre cose. Come potremmo altrimenti far fronte alle necessità dell’esistenza? Gesù intenderebbe parlare appunto della piena disponibilità interiore a giocarsi tutto per il regno di Dio. Il problema è sempre lo stesso, cioè l’abolizione deliberata della semplice ubbidienza, della ubbidienza letterale.
Come è possibile tale stravolgimento? Che cosa è accaduto, per­ché la parola di Gesù possa essere implicata in questo gioco, possa essere esposta allo scherno del mondo? In altre questioni, do­vunque nel mondo si diano degli ordini, i rapporti sono chiari. Un padre dice al figlio: Va’ a letto! e il bambino sa con certezza che cosa deve fare. Ma un bambino con un’infarinatura pseudo-­teologicadovrebbe ragionare così: Mio padre mi dice di andare a letto. Pensa che io sia stanco; non vuole che lo sia. Io posso però liberarmi della stanchezza anche mettendomi a giocare. Dun­que, mio padre mi dice sì di andare a letto, ma intende in realtà dirmi di andare a giocare. Se un bambino ragionasse così di fronte al padre, o un cittadino di fronte alle autorità, dovrebbe fare i conti con un linguaggio assolutamente inequivocabile, quello della punizione. Solo nei confronti del comando di Gesù le cose dovreb­bero andare diversamente. Qui la semplice ubbidienza finisce stra­volta, addirittura diventa disubbidienza. Come è possibile una cosa simile?
E possibile perché questa argomentazione stravolta ha in effetti alla base qualcosa di sostanzialmente giusto. Il comando di Gesù al giovane ricco o la chiamata alla situazione in cui è possibile credere, hanno in effetti un solo scopo, di chiamare l’uomo alla fede in Gesù, cioè alla comunione con lui. In ultima analisi, ciò che conta non è questa o quella azione degli uomini, ma solo la fede in Gesù Cristo Figlio di Dio e mediatore. In ultima analisi tutto dipende veramente dalla fede, non dalla povertà o dalla ric­chezza, dal matrimonio o dal celibato, dall’abbracciare o non ab­bracciare una professione. In tal senso abbiamo totalmente ragione nel dire che è possibile credere a Cristo pur nella ricchezza e nel possesso dei beni del mondo, per cui questi beni sono posseduti come se non li si possedesse. Ma si tratta assolutamente di una possibilità estrema dell’esistenza cristiana, una possibilità in presenza della più rigorosa attesa del ritorno imminente di Cristo, quindinon della possibilità iniziale e più semplice.
L’interpreta­zione paradossale dei comandamenti ha una sua cristiana fonda­tezza, ma non può mai portare all’eliminazione dell’interpretazio­ne semplice. Anzi, è fondata e ammissibile solo per colui che in un momento della sua vita si è già misurato seriamente con l’inter­pretazione semplice, e quindi si trova in comunione con Gesù, nella sequela, nell’attesa della fine. Interpretare in senso parados­sale la chiamata di Gesù è la possibilità infinitamente più difficile, anzi, in senso umano, una impossibile possibilità, e proprio come tale corre continuamente il pericolo estremo di capovolgersi nel contrario, di trasformarsi in comoda scappatoia, in fuga dall’ubbi­dienza concreta. Chi non sa che gli sarebbe infinitamente più faci­le intendere il comandamento di Gesù nella semplicità e ubbidirgli alla lettera, ad es. rinunciare effettivamente, su comando di Gesù, ai propri beni, anziché continuare ad averli, è uno che non ha alcun diritto di dare un’interpretazione paradossale della parola di Gesù.
Nell’interpretazione paradossale del comandamento di Gesù è dunque sempre necessariamente inclusa l’interpretazione letterale.
La concreta chiamata di Gesù e la semplice ubbidienza hanno un loro senso irrevocabile. Con esse Gesù chiama nella situazione concreta, in cui è possibile credere in lui; chiama in modo tanto concreto e appunto così vuol essere interpretato, perché egli sa che l’uomo diventa libero per il credere solo nella concreta ubbidienza.

Publié dans:Dietrich Bonhoeffer |on 9 avril, 2013 |Pas de commentaires »

DIETRICH BONHOEFFER, UN ANNIVERSARIO

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DIETRICH BONHOEFFER, UN ANNIVERSARIO

DATA DI MORTE: 9 APRILE 1945, CAMPO DI CONCENTRAMENTO DI FLOSSENBÜRG

DI XAVIER CHARPE

in “www.baptises.fr” del 23 aprile 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)

«Widerstand und Ergebung», «Resistenza e resa», è questo il titolo della raccolta di lettere scritte dalla prigione militare di Tegel dal pastore Dietrich Bonhoeffer. Questo giovane teologo luterano, dallo spirito acuto, si è impegnato a servizio della sua Chiesa come pastore, poi nella lotta per difenderla dall’influenza dei cristiani filonazisti, infine nella resistenza politica contro Hitler. Dopo il fallimento del tentativo di assassinio del 22 luglio 1944, sarà trasferito dalla prigione militare di Berlino a quella della Gestapo. Sarà il silenzio. Nella disfatta tedesca, Hitler vigilerà personalmente affinché tutti i congiurati siano trovati e giustiziati. Dopo un processo sbrigativo, fatto solo per l’apparenza, Bonhoeffer e i suoi compagni saranno impiccati nella notte tra l’8 e il 9 aprile 1945. Quindi, quest’anno, il 67° anniversario della sua morte cadeva proprio il giorno di Pasqua. Impiccati, o più esattamente suppliziati: sono appesi in modo che la punta dei piedi tocchi il suolo; quando, estenuati, stanno per soccombere, li si rianima e si ricomincia. Un’agonia che viene fatta durare a lungo: come il sadismo della morte di coloro e di colui che è stato sospeso al legno della croce. Poi i corpi vengono bruciati, di modo che non ci sia sepoltura. Il vuoto di una non-tomba. I torturatori avevano la consapevolezza che, procedendo in quel modo, accomunavano Bonhoeffer e i suoi compagni ad un altro suppliziato, che Bonhoeffer aveva seguito, nel servizio e nell’obbedienza? Il giorno di Pasqua, quest’anno, mi è stato difficile non pensare a Dietrich e all’anniversario della sua “Pasqua”.
Tradurre «Widerstand und Ergebung» con «Resistenza e resa»*, è assolutamente corretto, poiché è il senso corrente di queste due parole. Ma vorrei far sentire le risonanze che vibrano dietro le parole tedesche. «Wider-stand». In «stand» sento la radice «stehen», che non significa solo stare, ma “stare in piedi”. «Donne e uomini in piedi», perché è Cristo che li fa stare in piedi. Cristo, colui che era morto, che la morte aveva disteso a terra, ma che Dio Padre aveva rialzato, rimesso in piedi. È la parola greca «anastasis», che noi traduciamo con resurrezione. Dopo la disfatta dell’arresto e della morte sulla croce, ecco che i suoi discepoli sono rimessi in piedi, e, di conseguenza, rimessi «in cammino» quando erano già «distesi, a terra»; sanno che è Cristo che li ha rimessi in piedi; nella fede, sanno che Cristo è vivo presso il Padre. La vera prova che Cristo è vivo e che possono riconoscerlo come loro «Signore», è che Cristo li ha rimessi in piedi e che li fa vivere della sua vita con il suo Spirito.
«wider»: di fronte, davanti a. Uomini e donne che stanno in piedi e che «fanno fronte». Affrontare, affrontare il reale, affrontare la propria responsabilità davanti alla chiamata di Dio, davanti alla vocazione che ha voluto per noi e davanti alla quale sarebbe bene non tirarsi indietro. Far fronte nell’impegno e nella solidarietà con i propri fratelli. «Ascolta la mia chiamata, impegnati alla mia sequela sulla via su cui ti condurrò e di cui tu non conosci lo sbocco». Credete che impegnandosi nell’obbedienza e tentando molto semplicemente di fare ciò che doveva fare, Dietrich Bonhoeffer conoscesse lo sbocco del cammino al termine del quale egli sarebbe stato, qualunque cosa accadesse, nelle mani di Dio? «Solo colui che crede obbedisce; solo colui che obbedisce, crede», scriveva in «Nachfolge» (seguire Cristo). Stare in piedi e far fronte, nella responsabilità e nella fede in Cristo. Affrontare il reale, non sfuggirlo, non credere che separandosi dalla vita si potrà incontrare Dio in non si sa quale “sacro”, affrontare la propria responsabilità davanti all’Altro e davanti a ciascuno degli altri che sono posti sul nostro cammino, affrontare la prova quando arriva, e come non potrebbe arrivare, un giorno o l’altro, a meno di prenderci per (o di pretenderci) dei privilegiati. Siamo «chiamati», certo, ma non a considerarci o a comportarci da privilegiati. Cristo si è fatto solidale con quelli che incontrava. Come potremmo noi sottrarci alla solidarietà? Far fronte, nella responsabilità.«Ergebung». In «gebung», c’è la radice su cui è costruito il verbo «geben»: «dare». Più che la resa, c’è «l’abbandono», a condizione di sentire il dono, che è nella parte finale della parola. È questione del dono, del dono di sé, del dono della propria vita. Quando si è tentato, con la grazia di Dio, di stare in piedi, da donne e da uomini responsabili, accettando di obbedire alla chiamata di Dio, alla propria «vocazione», insomma quando si è tentato di stare in piedi alla sequela di Cristo, quando ciò che doveva essere fatto è stato fatto, allora ci si può abbandonare a Dio, mettere la propria vita nelle mani di Dio: «Tra le tue mani, Signore, rimetto il mio spirito». «Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza».
Far fronte, in piedi, poi, quando arriva il tempo della prova, abbandonarsi a Dio, nelle sue mani. Occupiamoci della nostra vita. Dio saprà come occuparsi della nostra morte; almeno, è ciò che noi crediamo, se pensiamo che la nostra vita è stata nelle mani di Dio e che è da lì che è venuta la fecondità.
Oso pensare che Dietrich Bonhoeffer abbia vissuto questa Pasqua. * Ndr.: la traduzione in francese è “Résistance et Soumission” (resistenza e sottomissione)

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Annonciation du Seigneur, cette année 2013: sur 8 Avril

Annonciation du Seigneur, cette année 2013: sur 8 Avril  dans immagini sacre DSCN0376

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ANNUNCIAZIONE DEL SIGNORE -25 MARZO (2013: 8 aprile) – SULL’ESEMPIO DI MARIA – Enrico dal Covolo SDB

http://www.donbosco-torino.it/ita/Maria/feste/2000-2001/Sull’esempio%20di%20Maria.html

SULL’ESEMPIO DI MARIA

ANNUNCIAZIONE DEL SIGNORE  -25 MARZO (2013: 8 aprile)

Enrico dal Covolo SDB

Nei suoi primi inizi l’Incarnazione si è realizzata nel grembo di Maria, quando l’umile ancella del Signore ha formulato liberamente il suo assenso dinanzi al misterioso piano di Dio, che le veniva svelato.
Grazie a quel fiat di Maria, scrive san Leone Magno, “il Figlio di Dio fa il suo ingresso in mezzo alle miserie di questo mondo, scendendo dal suo trono celeste, ma senza lasciare la gloria del Padre. Entra in una condizione nuova. Nasce in un modo nuovo”. Proprio con quel fiat ha avuto inizio la nuova storia dell’umanità, di cui abbiamo celebrati i duemila anni.
Con il racconto dell’Annunciazione Luca illustra in maniera efficace l’intera storia della vocazione di Maria, utilizzando uno schema a cinque punti (che in verità ritorna di norma nelle storie bibliche di vocazione). I cinque punti sono i seguenti:
– la chiamata-elezione da parte di Dio;
– la risposta di Maria;
– la missione, che Dio stesso le affida;
– il turbamento di Maria;
– infine, la conferma rassicurante da parte di Dio.
Riflettendo su ognuno di questi momenti potremo avviare un utile confronto tra la storia della vocazione di Maria e la storia della nostra vocazione, così da renderci sempre più disponibili e generosi alla chiamata del Signore e conformare più decisamente a Cristo la nostra vita.
Scriveva nel XII secolo un monaco famoso, sant’Isacco, abate del Monastero della Stella: “Ciò che la Bibbia dice di Maria va riferito singolarmente a ogni anima credente”.
Non è dunque una presunzione confrontare la nostra storia di vocazione con quella di Maria: è invece una precisa esigenza della vita spirituale di ogni cristiano.
La chiamata-elezione da parte di Dio
“L’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea di nome Nazaret, da una vergine chiamata Maria”.
Ecco il primo tratto di questa splendida storia, la storia della vocazione di Maria: è la chiamata-elezione da parte di Dio.
È lui il vero protagonista del racconto. A ben guardare, anche la storia della vocazione di Maria, come ogni storia di vocazione, è anzitutto dono e mistero (per usare una suggestiva espressione del Papa, allorché, nel cinquantesimo della sua ordinazione sacerdotale, ha inteso rileggere con sguardo di fede la storia della propria vocazione).
È Dio che manda Gabriele, è Dio che riempie di grazia… Così l’umile ancella, vuota di sé, è piena di grazia, e in lei si compiono le “grandi cose” di Dio.
È una lezione per tutti noi. Solo alla luce della grazia, solo assicurando il primato di Dio nella nostra vita potremo capire noi stessi, e decifrare la storia della nostra vocazione. “Che io conosca te, che io conosca me”, implorava sant’Agostino nei Soliloqui, alla vigilia del suo Battesimo.

LA RISPOSTA DI MARIA
Davanti all’intervento gratuito di Dio, Maria conclude il proprio discernimento con una parola di totale disponibilità: “Eccomi, sono la serva del Signore. Dio faccia con me come tu hai detto”. Ha conosciuto Dio e ha riconosciuto se stessa, umile serva nella quale la grazia viene ad operare grandi cose.
Ecco il secondo tratto dei racconti biblici di vocazione: la risposta del chiamato.
Si tratta di una risposta che in Maria è totalmente positiva: vuota di sé, la vergine è piena di grazia. Ma la risposta del chiamato può essere anche negativa: si pensi al giovane ricco. Non ha voluto svuotarsi delle sue ricchezze, non ha lasciato spazio alla grazia, e se n’è andato via triste.
A ciascuno di noi, in ogni giorno della nostra vita, è data la possibilità di rispondere come Maria o come il giovane ricco.
E io, che cosa devo ancora lasciare, per seguire Gesù?

  LA MISSIONE
“Tu hai trovato grazia presso Dio”, prosegue l’Angelo. “Avrai un figlio, e gli darai nome Gesù”.
È questo il terzo tratto dei racconti biblici di vocazione: la missione. Maria è chiamata ad essere madre, madre di quel Figlio, e in lui di tutti gli uomini. Ma è una missione che essa scoprirà gradualmente nel corso della sua vita, fino ad afferrarne completamente il senso solo ai piedi della croce di Gesù.
Sta qui un insegnamento importante per la nostra vita: anche noi dilateremo gli spazi della missione e ne scopriremo i risvolti più fecondi, se ci disporremo – come Maria – a un pellegrinaggio di fede, che è insieme via della croce.
Solo se siamo disposti ad abbracciare ogni giorno la croce e a seguire Gesù, scopriremo in profondità la missione che ci è affidata.

IL TURBAMENTO DI MARIA
“Maria fu turbata da queste parole… «Come è possibile tutto questo?»”.
Siamo al quarto tratto dei racconti di vocazione: le resistenze, i turbamenti, le tentazioni del chiamato. Il fatto che perplessità e interrogativi ricorrano di norma nei racconti biblici di vocazione significa che il dubbio in se stesso non è deviazione colpevole, ma è una tappa di discernimento necessaria.
Il fatto è che Dio interpella una libertà, e una libertà responsabile. Tuttavia, il dubbio non deve restare la nostra ultima parola: il dubbio permanente finisce per tarpare le ali della fede e paralizza le possibilità di una risposta generosa al Signore.

LA CONFERMA DI DIO
“Non temere, Maria!”. Ed ecco finalmente l’ultimo atto della storia: la conferma rassicurante da parte di Dio.
Soltanto che, ordinariamente, questa conferma sulla storia di vocazione non la si può sperimentare in forma previa, come una garanzia, un’assicurazione preliminare, mentre ce ne stiamo a braccia incrociate a guardare.
La conferma di Dio la si esperimenta all’interno del cammino di un’esistenza donata a Gesù e agli altri.
Allora, in un’esistenza impostata così, non verranno a mancare i segni di Dio, e, volgendoci indietro a guardare, scopriremo che alla fine tutto è grazia.
“Non temere, Maria…”. Non temere, tu che ascolti la chiamata del Signore! Egli è con te.
La storia è finita… Ma è una storia che si propone a noi in ogni giorno della nostra vita.
Riferiremo alla nostra storia la storia di Maria: e se sapremo svuotarci di noi stessi e dei nostri egoismi, ci scopriremo anche noi “pieni di grazia”.

« DIO SEMPRE CI ASPETTA, NON SI STANCA » – OMELIA DI PAPA FRANCESCO NELLINSEDIAMENTO SULLA CATTEDRA DI VESCOVO DI ROMA

http://www.zenit.org/it/articles/dio-sempre-ci-aspetta-non-si-stanca

« DIO SEMPRE CI ASPETTA, NON SI STANCA »

OMELIA DI PAPA FRANCESCO NELLINSEDIAMENTO SULLA CATTEDRA DI VESCOVO DI ROMA

CITTA’ DEL VATICANO, 07 APRILE 2013 (ZENIT.ORG)

Riportiamo di seguito l’omelia tenuta questo pomeriggio da papa Francesco nella Basilica di San Giovanni in Laterano, in occasione dell’insediamento sulla Cattedra di Vescovo di Roma.

***
Cari fratelli e sorelle!

con gioia celebro per la prima volta l’Eucaristia in questa Basilica Lateranense, Cattedrale del Vescovo di Roma. Vi saluto tutti con grande affetto: il Cardinale Vicario, i Vescovi Ausiliari, il Presbiterio diocesano, i Diaconi, le Religiose e i Religiosi e tutti i fedeli laici. Camminiamo insieme nella luce del Signore Risorto.
Celebriamo oggi la Seconda Domenica di Pasqua, denominata anche «della Divina Misericordia». Com’è bella questa realtà della fede per la nostra vita: la misericordia di Dio! Un amore così grande, così profondo quello di Dio verso di noi, un amore che non viene meno, sempre afferra la nostra mano e ci sorregge, ci rialza, ci guida.
Nel Vangelo di oggi, l’apostolo Tommaso fa esperienza proprio della misericordia di Dio, che ha un volto concreto, quello di Gesù, di Gesù Risorto. Tommaso non si fida di ciò che gli dicono gli altri Apostoli: «Abbiamo visto il Signore»; non gli basta la promessa di Gesù, che aveva annunciato: il terzo giorno risorgerò. Vuole vedere, vuole mettere la sua mano nel segno dei chiodi e nel costato. E qual è la reazione di Gesù? La pazienza: Gesù non abbandona il testardo Tommaso nella sua incredulità; gli dona una settimana di tempo, non chiude la porta, attende. E Tommaso riconosce la propria povertà, la poca fede. «Mio Signore e mio Dio»: con questa invocazione semplice ma piena di fede risponde alla pazienza di Gesù. Si lascia avvolgere dalla misericordia divina, la vede davanti a sé, nelle ferite delle mani e dei piedi, nel costato aperto, e ritrova la fiducia: è un uomo nuovo, non più incredulo, ma credente.
E ricordiamo anche Pietro: per tre volte rinnega Gesù proprio quando doveva essergli più vicino; e quando tocca il fondo incontra lo sguardo di Gesù che, con pazienza, senza parole gli dice: «Pietro, non avere paura della tua debolezza, confida in me»; e Pietro comprende, sente lo sguardo d’amore di Gesù e piange. Che bello è questo sguardo di Gesù – quanta tenerezza! Fratelli e sorelle, non perdiamo mai la fiducia nella misericordia paziente di Dio!
Pensiamo ai due discepoli di Emmaus: il volto triste, un camminare vuoto, senza speranza. Ma Gesù non li abbandona: percorre insieme la strada, e non solo! Con pazienza spiega le Scritture che si riferivano a Lui e si ferma a condividere con loro il pasto. Questo è lo stile di Dio: non è impaziente come noi, che spesso vogliamo tutto e subito, anche con le persone. Dio è paziente con noi perché ci ama, e chi ama comprende, spera, dà fiducia, non abbandona, non taglia i ponti, sa perdonare. Ricordiamolo nella nostra vita di cristiani: Dio ci aspetta sempre, anche quando ci siamo allontanati! Lui non è mai lontano, e se torniamo a Lui, è pronto ad abbracciarci.
A me fa sempre una grande impressione rileggere la parabola del Padre misericordioso, mi fa impressione perché mi dà sempre una grande speranza. Pensate a quel figlio minore che era nella casa del Padre, era amato; eppure vuole la sua parte di eredità; se ne va via, spende tutto, arriva al livello più basso, più lontano dal Padre; e quando ha toccato il fondo, sente la nostalgia del calore della casa paterna e ritorna. E il Padre? Aveva dimenticato il figlio? No, mai. É lì, lo vede da lontano, lo stava aspettando ogni giorno, ogni momento: è sempre stato nel suo cuore come figlio, anche se lo aveva lasciato, anche se aveva sperperato tutto il patrimonio, cioè la sua libertà; il Padre con pazienza e amore, con speranza e misericordia non aveva smesso un attimo di pensare a lui, e appena lo vede ancora lontano gli corre incontro e lo abbraccia con tenerezza, la tenerezza di Dio, senza una parola di rimprovero: è tornato! Dio sempre ci aspetta, non si stanca. Gesù ci mostra questa pazienza misericordiosa di Dio perché ritroviamo fiducia, speranza, sempre! Romano Guardini diceva che Dio risponde alla nostra debolezza con la sua pazienza e questo è il motivo della nostra fiducia, della nostra speranza (cfr Glabenserkenntnis, Wurzburg 1949, p. 28).
Vorrei sottolineare un altro elemento: la pazienza di Dio deve trovare in noi il coraggio di ritornare a Lui, qualunque errore, qualunque peccato ci sia nella nostra vita. Gesù invita Tommaso a mettere la mano nelle sue piaghe delle mani e dei piedi e nella ferita del costato. Anche noi possiamo entrare nelle piaghe di Gesù, possiamo toccarlo realmente; e questo accade ogni volta che riceviamo con fede i Sacramenti. San Bernardo in una bella Omelia dice: «Attraverso … le ferite [di Gesù] io posso succhiare miele dalla rupe e olio dai ciottoli della roccia (cfr Dt 32,13), cioè gustare e sperimentare quanto è buono il Signore» (Sul Cantico dei Cantici 61, 4). É proprio nelle ferite di Gesù che noi siamo sicuri, lì si manifesta l’amore immenso del suo cuore. Tommaso lo aveva capito. San Bernardo si domanda: su che cosa posso contare? Sui miei meriti? Ma «mio merito è la misericordia di Dio. Non sono certamente povero di meriti finché lui sarà ricco di misericordia. Che se le misericordie del Signore sono molte, io pure abbonderò nei meriti» (ivi, 5). Questo è importante: il coraggio di affidarmi alla misericordia di Gesù, di confidare nella sua pazienza, di rifugiarmi sempre nelle ferite del suo amore. San Bernardo arriva ad affermare: «Ma che dire se la coscienza mi morde per i molti peccati? « Dove è abbondato il peccato è sovrabbondata la grazia » (Rm 5,20)» (ibid.). Forse qualcuno potrebbe pensare: il mio peccato è così grande, la mia lontananza da Dio è come quella del figlio minore della parabola, la mia incredulità è come quella di Tommaso; non ho il coraggio di tornare, di pensare che Dio possa accogliermi e che stia aspettando proprio me. Ma Dio aspetta proprio te, ti chiede solo il coraggio di andare a Lui. Quante volte nel mio ministero pastorale mi sono sentito ripetere: «Padre, ho molti peccati»; e l’invito che ho sempre fatto è: «Non temere, va’ da Lui, ti sta aspettando, Lui farà tutto». Quante proposte mondane sentiamo attorno a noi, ma lasciamoci afferrare dalla proposta di Dio, la sua è una carezza di amore. Per Dio noi non siamo numeri, siamo importanti, anzi siamo quanto di più importante Egli abbia; anche se peccatori, siamo ciò che gli sta più a cuore.
Adamo dopo il peccato prova vergogna, si sente nudo, sente il peso di quello che ha fatto; eppure Dio non abbandona: se in quel momento inizia l’esilio da Dio, con il peccato, c’è già la promessa del ritorno, la possibilità di ritornare a Lui. Dio chiede subito: «Adamo, dove sei?», lo cerca. Gesù è diventato nudo per noi, si è caricato della vergogna di Adamo, della nudità del suo peccato per lavare il nostro peccato: dalle sue piaghe siamo stati guariti. Ricordatevi quello di san Paolo: di che cosa mi vanterò se non della mia debolezza, della mia povertà? Proprio nel sentire il mio peccato, nel guardare il mio peccato io posso vedere e incontrare la misericordia di Dio, il suo amore e andare da Lui per ricevere il perdono.
Nella mia vita personale ho visto tante volte il volto misericordioso di Dio, la sua pazienza; ho visto anche in tante persone il coraggio di entrare nelle piaghe di Gesù dicendogli: Signore sono qui, accetta la mia povertà, nascondi nelle tue piaghe il mio peccato, lavalo col tuo sangue. E ho sempre visto che Dio l’ha fatto, ha accolto, consolato, lavato, amato.
Cari fratelli e sorelle, lasciamoci avvolgere dalla misericordia di Dio; confidiamo nella sua pazienza che sempre ci dà tempo; abbiamo il coraggio di tornare nella sua casa, di dimorare nelle ferite del suo amore, lasciandoci amare da Lui, di incontrare la sua misericordia nei Sacramenti. Sentiremo la sua tenerezza, sentiremo il suo abbraccio e saremo anche noi più capaci di misericordia, di pazienza, di perdono, di amore.

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