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Duccio di Buoninsegna (ca. 1255, Siena – 1319, Siena), “L’ultima Cena

Duccio di Buoninsegna (ca. 1255, Siena - 1319, Siena), “L’ultima Cena dans immagini sacre duccio-ultima-cena

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LA GERUSALEMME CELESTE – AP 21,1-27 – COMMENTO SPIRITUALE.

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LA GERUSALEMME CELESTE – AP 21,1-27

COMMENTO SPIRITUALE.

“Vidi la città santa”. La suprema perfezione e felicità, che noi chiamiamo “Paradiso”, è ineffabile. Per evocarla, la Bibbia si serve di immagini derivate dalle esperienze più gratificanti: cielo (2 Re 2,11; Ef. 2,6), città di pietre preziose (Is. 54,12; Ap. 18,16), giardino (Ger. 31,12; Ez. 36,35), convito (Is. 25, 6-7; Mt. 22, 1-14), nozze (Mt. 25, 1-13; Ap. 19,9), festosa liturgia (Ap. 7, 10-12), canto (Is. 42,10; Ap. 14, 2- 3).
Incontro immediato con Dio uno e trino, totale comunione con gli altri, armoniosa integrazione con il mondo: ecco la meta, verso cui gli uomini sono incamminati. “Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo santuario; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro. Non avranno più fame, né avranno più sete, né li colpirà il sole, né arsura di sorta, perché l’Agnello che sta in mezzo al trono sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita”. (Ap. 7, 15- 17).
“Vidi poi un nuovo cielo e una terra nuova, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più. Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente che usciva dal trono: “Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il “Dio-con-loro”. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate”. E Colui che sedeva sul trono disse: “Ecco io faccio nuove tutte le cose”. (Ap. 21, 1-5)”.
“La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello… Il trono di Dio e dell’Agnello sarà in mezzo a lei e i suoi servi lo adoreranno; vedranno la sua faccia e porteranno il suo nome sulla fronte… e regneranno nei secoli dei secoli “(Ap. 21,23; 22, 3-5).
Nella beatitudine celeste, come già nel cammino terreno, sarà sempre Gesù Cristo la porta di accesso al Padre. Il Signore crocifisso e risorto, comunicando in modo definitivo il suo Spirito, ci unirà perfettamente a sé e ci renderà pienamente figli di Dio, capaci di vedere il Padre “come egli è” (1 Gv. 3,2). La Chiesa sarà “tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata”(Ef. 5,27). Gli uomini abiteranno nella celeste Gerusalemme in festosa convivialità e Dio abiterà con essi (Ap. 21, 2-3). Le esperienze attuali più riuscite di comunione tra amici, tra coniugi, tra genitori e figli prefigurano l’universale comunione dei santi in Dio, ma sono ben poca cosa al confronto di essa. Se è meravigliosa già adesso la compagnia delle persone buone e intelligenti, che cosa sarà la compagnia di tanti fratelli “portati alla perfezione” (Eb. 12,23)?
Non ha senso però situare il paradiso in qualche parte dell’universo piuttosto che in altre. Il cielo, nel linguaggio biblico, è un simbolo per indicare Dio e, secondo la fede cristiana, “la vita è essere con Cristo: dove è Cristo, lì è la vita, lì è il Regno”.
Questa vita perfetta, questa comunione di vita e di amore con la Santissima Trinità, con la Vergine Maria, gli angeli e tutti i beati è chiamata “il cielo”. Il cielo è il fine ultimo dell’uomo e la realizzazione delle sue aspirazioni più profonde, lo stato di felicità suprema e definitiva.
Vivere in cielo è “essere con Cristo” (Gv. 14,3; Fil. 1,23; 1 Ts. 4,17). Con la sua morte e la sua Risurrezione Gesù Cristo ci ha “aperto” il cielo. Il cielo è la beata comunità di tutti coloro che sono perfettamente incorporati in lui. Questo mistero di comunione beata con Dio e con tutti coloro che sono in Cristo supera ogni possibilità di comprensione e di descrizione: “Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano” (1 Cor. 2,9).
I santi formeranno una comunità di persone e non una massa collettiva senza volto. Ognuno sarà introdotto alla festa con un invito personalissimo: avrà “una pietruzza bianca sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nessuno conosce all’infuori di chi lo riceve” (Ap. 2,17). Anche la perfezione sarà diversa secondo i doni ricevuti nella vita terrena e la corrispondenza verso di essi (Mt. 16,27; 1 Cor. 3,8). Tutti però saranno beati secondo la loro capacità  tutti si rallegreranno del bene degli altri come del proprio.
Armonia con Dio, con gli altri, con la natura e con se stessi: nel gaudio eterno si quieterà il desiderio illimitato del cuore; sarà il riposo, la festa, il giorno del Signore senza tramonto.
“Le nazioni cammineranno alla sua luce e i re della terra a lei porteranno la loro magnificenza… Non vidi alcun tempio in essa perché il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio”.
La Gerusalemme celeste viene descritta come l’incontro di uomini di razze diverse, di nazioni, di cultura, di mentalità differenti. Da quando è venuto l’Agnello, cielo e terra si sono incontrati, il Tempio di Dio non c’è più, perché il Tempio è lo stesso Agnello. Ma questa Gerusalemme celeste non è solo un avvenimento futuro, ma ci appartiene già oggi.
Il “cielo” di Gesù, dunque, è l’incontro con quanti non camminano con Lui, con quanti sono diversi da noi e che sono lontani. Il cielo di Gesù è la partecipazione alla gioia del Padre che fa festa, perché è tornato un figlio lontano. Ogni volta che nelle nostre comunità si verifica una situazione di questo genere, il cielo si trasferisce sulla terra, cielo e terra si incontrano un’altra volta. Quando, invece, le nostre Chiese sono dure e sprezzanti verso chi ritorna dopo aver sbagliato, e quando non si accetta di fare festa al peccatore pentito, cielo e terra si allontanano di nuovo e crescono le divisioni tra gli uomini.
Il cielo di Gesù è un banchetto a cui sono invitati gli uomini della strada: storpi, ciechi, zoppi, i rifiutati dalla nostra mentalità; un banchetto in cui sono invitati i perseguitati e gli emarginati e di cui si è commensali a casa di ogni Zaccheo e di ogni Maddalena, che possiamo incontrare amichevolmente: questo è il cielo di Gesù Cristo.
Nel cielo di Gesù, l’ultimo è messo al posto d’onore e chi ha più autorità deve lavare i piedi a tutti. Il cielo di Gesù è la celebrazione della diversità:
“apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua”.

« VIDI LA NUOVA GERUSALEMME SCENDERE DAL CIELO… » – APPUNTI ESEGESITICO-SPIRITUALI

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/03-annoC/annoC/12-13/04-Pasqua/Omelie/05-Domenica-di-Pasqua-2013_C-SC.html

28 APRILE 2013: 5A DOMENICA DI PASQUA C / APPUNTI ESEGESITICO-SPIRITUALI

« VIDI LA NUOVA GERUSALEMME SCENDERE DAL CIELO… »

L’uso continuato dell’Apocalisse come seconda lettura, in questo terzo ciclo, dà uno splendore e una profondità tutta particolare alla celebrazione di queste Domeniche dopo Pasqua.
La gioia pasquale trova qui ampia possibilità di trasmettersi, quasi per contagio, agli attenti lettori; e con la gioia anche il senso sempre più dilatato della Pasqua, che diventa così evento non solo ecclesiale, ma addirittura cosmico. « Ecco, io faccio nuove tutte le cose », leggiamo al termine del brano odierno dell’Apocalisse (21,5): la « novità » introdotta e portata a termine da Cristo va ben oltre i confini della Chiesa, e abbraccia l’universalità del cosmo, che « geme » in attesa della « liberazione » finale (cf Rm 8,19).
« Vieni, ti mostrerò la fidanzata, la sposa dell’Agnello »
La 2ª lettura fa parte dell’ultima sezione dell’Apocalisse (19,11-22,5), in cui si descrive la definitiva e totale sconfitta del male: « Io, Giovanni, vidi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più » (Ap 21,1). Siamo dunque davanti a un mondo « nuovo », diverso da quello di prima: il « mare », luogo di vita del drago e simbolo del male, scomparirà per sempre, quasi ritirandosi per paura davanti alla marcia vittoriosa del « nuovo » Israele.
Quello infatti che interessa al Veggente di Patmos non è la « novità » delle cose ma la novità degli uomini, che egli ci rappresenta sotto il simbolo appassionato della Gerusalemme celeste: « Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo » (v. 2). È chiaro che il simbolo intende alludere alla comunità dei redenti che, alla fine dei tempi, si stringerà attorno all’Agnello per celebrare per sempre l’amore salvante di Dio in Cristo. A questo rimanda anche l’immagine della « sposa » che si prepara e si « adorna per il suo sposo ». E tra poco ascolteremo « uno dei sette angeli, che avevano le sette coppe piene degli ultimi flagelli », gridare: « Vieni, ti mostrerò la fidanzata, la sposa dell’Agnello » (v. 9).
Le immagini sono davvero esaltanti e riassumono in felice sintesi la storia dell’amore di Dio verso gli uomini. Gerusalemme è la città di Davide, capitale e centro religioso d’Israele, città di Dio, città santa, soprattutto perché in essa era costruito il Tempio. I Profeti l’assumono come simbolo della futura metropoli del popolo messianico. Ai tempi del N. Testamento Cristo consumerà in essa il suo sacrificio, « poiché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme » (Lc 13,33); in essa gli Apostoli riceveranno il dono dello Spirito che li spingerà alla conquista di tutta la terra; a essa farà sempre ritorno Paolo al termine dei suoi viaggi missionari.
Tutto questo era più che sufficiente per farla assumere come « simbolo » anche della consumazione finale della salvezza, che non potrà essere se non una salvezza « comunitaria »: la Chiesa della terra è predestinata a diventare la futura Chiesa celeste! Non c’è soluzione di continuità fra le due realtà, tanto che S. Paolo potrà dire che « la nostra cittadinanza è nei cieli » (Fil 3,20).
Non si tratta dunque qui di una localizzazione « geografica », quanto di una « dimensione » dello spirito: già fa parte della Gerusalemme celeste chi è capace di aderire a Cristo con tutta l’intensità del suo amore.
Sì, perché non si diventa cittadini di questa città se non in forza dell’amore. È per questo che la Gerusalemme celeste ci viene presentata anche sotto un altro simbolo: quello della « sposa che si adorna per il suo sposo » (Ap 21,22). È chiaro che siamo nel mondo delle immagini, se si può passare così facilmente dall’una all’altra!
E qui si recupera tutta la meravigliosa tematica dell’allegoria « nuziale », con cui i profeti dell’Antico Testamento avevano inteso rappresentare i rapporti di amore, di benevolenza, di preferenza di Dio verso Israele. In tal modo l’ideale profetico è realizzato: « Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore » (Os 2,21-22). Soltanto che adesso le nozze non saranno più con Jahvèh ma con l’Agnello (cf v. 9), in quanto « Agnello di Dio » però (cf Gv 1,36): cioè nella espressione massima dell’amore che Dio possa dimostrare all’uomo, dando appunto per lui alla morte « il proprio Figlio » (Rm 8,32). È a questo punto che il rapporto di nuzialità è perfetto: una capacità di donarsi nell’amore, che non si arresta neppure davanti alla morte.
Ecco perché il brano dell’Apocalisse, anche se apparentemente lontano dalla tematica pasquale, ha invece una profonda risonanza pasquale: la « nuzialità » della Chiesa nasce dall’amore senza limiti che le ha dimostrato il suo Signore. Tutte le precedenti esperienze d’Israele erano solo « l’ombra » di quanto Dio avrebbe fatto per noi alla fine dei tempi, « donandoci » Cristo. La Pasqua cristiana è l’esaltazione di questo amore « nuziale », con cui Dio assume gli uomini come suoi partners in un amplesso senza fine.
Di qui anche il senso di gioia e di esultanza che pervade il resto del nostro brano, sul quale però non possiamo ulteriormente intrattenerci: « Udii allora una voce potente che usciva dal trono: Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il « Dio con loro ». E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate » (vv. 3-4)!
« VI DO UN COMANDAMENTO NUOVO »
Però, perché si abbia un vero patto nuziale, l’amore deve circolare dalle due parti. È precisamente a questo che ci richiama il breve, ma ricchissimo brano del Vangelo di Giovanni, ripreso dal racconto dell’ultima Cena.
Dopo la scena drammatica dello svelamento del traditore e la sua fuga dal Cenacolo, « nella notte » (Gv 13,30), Gesù ha come un senso di sollievo che esprime nei seguenti termini: « Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato e anche Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito » (vv. 31-32). È il tema della « gloria » che Giovanni lega, come ben sappiamo, più alla Passione che alla Risurrezione: « Io quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me » (12,32).
Dal momento che Giuda, spinto da Satana, è uscito per mandare a effetto il suo tradimento, Gesù considera il dramma della Passione come già avviato, e perciò adopera il verbo al passato: « Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato… » (13,31). D’altra parte, se la « gloria » che lui dà a Dio è già in atto, quella che il Padre darà a lui, dimostrandogli di aver gradito la sua offerta, deve ancora venire nella Risurrezione. Ecco il perché dei due futuri successivi: « Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito » (v. 32). Gesù non ha dubbi sul gradimento del Padre, e perciò è sicuro che la glorificazione avverrà « subito ».
Si apre qui uno squarcio degli insondabili rapporti di amore inesauribile fra il Padre e il Figlio, che è il segno rivelatore della loro unità di natura: « Io e il Padre siamo una cosa sola » (Gv 10,30).
È possibile che qualche cosa di questa « unione » così profonda si riverberi anche sui discepoli di Cristo, in modo che anch’essi siano un segno rivelatore della presenza del Dio-Trinità in loro? È quanto Gesù dichiara immediatamente dopo, dando il « comandamento nuovo » dell’amore, cercando così quasi di prolungare la sua presenza in mezzo agli uomini. Mediante l’amore, tutto « nuovo », dei suoi discepoli, gli uomini scopriranno le orme del suo passaggio nella nostra storia: « Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri » (vv. 33-35).
Dal contesto è chiaro che qui Gesù lascia ai suoi come un « testamento », che esprime la sua volontà ultima e definitiva: « Ancora per poco sono con voi » (v. 33). E come ogni testamento, soprattutto questo di Gesù è un « dono » gratuito: « Vi do un comandamento nuovo… » (v. 34). In Giovanni, infatti, il verbo greco dídomi (dare) esprime normalmente un dono.
Ma come è possibile che sia dono un « comandamento »? Lo è se esso, più che imporci qualcosa, ci scopre una dimensione del nostro essere, ci fa penetrare più a fondo nel mistero del nostro intimo costitutivo di uomini e di cristiani, strutturati per amarsi appunto come fratelli. Cristo non ci impone qualcosa che venga come dal di fuori, ma ci illumina su quello che siamo e su quello che dobbiamo fare per realizzarci fino in fondo. Non c’è niente di « legalistico » in tutto questo, ma la scoperta del disegno di Dio sopra di noi. Perciò Giovanni non adopera qui il termine nómos (= legge), che è una realtà superata nella prospettiva evangelica, ma entolé, termine caratteristico nella letteratura deuteronomistica, adoperato dalla versione dei Settanta per esprimere la manifestazione della volontà di Dio.
« COME IO VI HO AMATO »
Ma perché Gesù chiama « nuovo » questo comandamento dell’amore fraterno? Anche l’Antico Testamento, infatti, esigeva l’amore verso il prossimo, tanto che Gesù farà proprio quel precetto: « Amerai il prossimo tuo come te stesso » (Lv 19,18 e Mt 22,39), ampliandolo però a tutti gli uomini, ivi inclusi i nemici. Per Giovanni la « novità » consiste soprattutto nel « modo » e nell’intensità con cui questo amore deve venire attuato: « Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri » (v. 34).
Non dimentichiamoci che siamo in un contesto di passione: Gesù si sta ormai avviando a « dare la sua vita in riscatto » per tutti gli uomini (cf Mc 10,45). Perciò rimanda i suoi discepoli a un esempio concreto di amore, capace di introdurre nei rapporti fra gli uomini qualcosa di rivoluzionario, nel senso che un amore del genere deve sempre « rigenerarsi » per non diventare abitudinario.
Amare « come » Gesù ci ha amati significa, infatti, prendere come misura non la piccolezza del nostro cuore, ma la immensità del cuore di Dio; significa entrare costantemente in rottura con la logica dell’egoismo, della chiusura, della prepotenza che è in noi e nella società che noi tutti contribuiamo a creare. Amare « come » Cristo ci ha amati significa metterci noi stessi a « lavare i piedi » ai fratelli, senza pretendere che siano loro a lavarli a noi (cf Gv 13,1-20).
Credo che il lettore avrà facilmente osservato come ci sia un’insistente convergenza sull’aggettivo « nuovo », in questi due brani: « un nuovo cielo e una nuova terra », « la nuova Gerusalemme », « comandamento nuovo », ecc. Questo sta a dire che la « novità » radicale è già venuta, anche se apparirà nella sua pienezza e in tutto il suo splendore solo alla fine.
Perciò tocca ai cristiani di anticipare, fin da ora, la discesa dal cielo della « nuova Gerusalemme », fermentando la Chiesa e la stessa comunità civile di questa potenza « nuova » dell’amore, la sola capace di creare, finché c’è ancora tempo, possibilità concrete di « convivenza » fra gli uomini.

Da: CIPRIANI S., Convocati dalla Parola

LA GIOIA NON È ASSENZA DI PROBLEMI, MA ESPERIENZA DELL’AMORE DI DIO

http://www.zenit.org/it/articles/la-gioia-non-e-assenza-di-problemi-ma-esperienza-dell-amore-di-dio

LA GIOIA NON È ASSENZA DI PROBLEMI, MA ESPERIENZA DELL’AMORE DI DIO

Mario Landi, Coordinatore nazionale del Rinnovamento nello Spirito, spiega la gioia di essere cristiani

Rimini, 26 Aprile 2013 (Zenit.org) Antonio Gaspari

Di fronte ad un pubblico festoso e ispirato di oltre 15.000 persone, Mario Landi, Coordinatore nazionale del Rinnovamento nello Spirito (RnS), ha indicato ieri a Rimini le quattro parole che possono costituire il fondamento sicuro e il riferimento della Convocazione degli aderenti al Movimento: “Parola di Dio, Spirito Santo, Fede e Gioia”
Landi ha ricordato che in occasione della Domenica delle Palme, Papa Francesco ha detto: « Non siate mai uomini e donne tristi: un cristiano non può mai esserlo! Non lasciatevi prendere mai dallo scoraggiamento! La nostra è una gioia che nasce dall’aver incontrato una Persona: Gesù, che è in mezzo a noi; nasce dal sapere che con Lui non siamo mai soli, anche nei momenti difficili, e ce ne sono tanti! (…) Seguiamo Gesù! Ma soprattutto sappiamo che Lui ci carica sulle sue spalle: qui sta la nostra gioia
Partendo dalle parole di papa Francesco, il coordinatore del RnS ha precisato che “se Parola e Spirito sono il dono della misericordia di Dio”, fede e gioia sono “il segno di un’alleanza perenne”, perché “senza la gioia la fede non contagia, non può essere trasmessa…e senza fede…la gioia è una illusione di un attimo che sempre sparisce”.
Rivolgendosi alla folla, Landi ha rivelato: “Voglio dire un piccolo segreto ai nuovi, a coloro che sono qui per la prima volta: la gioia che vedrete sui volti dei fratelli e delle sorelle non nasce dalla spensieratezza di chi non ha problemi, malattie, povertà o fragilità”.
Questa gioia – ha aggiunto – « non è assenza di problemi », ma « aver capito che la soluzione di tutti i problemi ha un nome Gesù… Gesù è il Signore… l’unico nome nel quale c’è salvezza e noi lo affermiamo con forza perché è lo Spirito che ci fa gridare che Gesù è il Signore, e questo grido è più grande  e forte di ogni grido di disperazione di sofferenza e di morte che il mondo e il demonio tenta di farci fare”.
“Perciò – ha concluso Landi – siate ricolmi di gioia, anche se ora dovrete essere, per un po’ di tempo, afflitti da varie prove; affinchè la vostra fede, messa alla prova, molto più preziosa dell’oro – destinato a perire e tuttavia purificato con fuoco – torni a vostra lode, gloria e onore quando Gesù Cristo si manifesterà. Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in Lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre raggiungete la meta della vostra fede: la salvezza delle anime”.

Publié dans:meditazioni |on 26 avril, 2013 |Pas de commentaires »

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