Archive pour le 20 avril, 2013

Il Buon Pastore

Il Buon Pastore dans immagini sacre

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Publié dans:immagini sacre |on 20 avril, 2013 |Pas de commentaires »

IL “PASTORE” – DI MONS. GIAN FRANCO RAVASI

 http://www.tanogabo.it/religione/buonpastore.htm

 IL “PASTORE” -  DI MONS. GIAN FRANCO RAVASI

IO SONO IL BUON PASTORE. IL BUON PASTORE OFFRE LA VITA PER LE PECORE.

(GIOVANNI 10,11)

La via dominante per parlare di Dio è quella simbolica e la Bibbia ne è una testimonianza continua, vivida e affascinante. Si parte da segni concreti del mondo o dell’esperienza e si identificano in essi elementi che ci possono condurre verso l’alto, verso la pienezza e la perfezione, verso Dio. Ora, è noto che la matrice del popolo ebraico è nomadica e quindi legata alla vita pastorale, spesso sentita in tensione con quella sedentaria: emblemdtica è la scena di Abele, pastore, e Caino, agricoltore, col suo esito tragico. La Bibbia rivela spesso una certa nostalgia per il nomadismo, anche sulla base della vicenda esodica, quando Israele aveva vagato per quarant’anni nelle steppe del Sinai.

Ma ritorniamo al simbolismo pastorale e alla sua applicazione teologica al Signore che è chiamato anche nel Nuovo Testamento «il Pastore grande delle pecore» (Ebrei 13,20). In questa immagine due sono le componenti fondamentali. Da un lato, il pastore è la guida del gregge. Come dice il Salmo 23,4: «il suo bastone e il suo vincastro danno sicurezza» e guidano attraverso la valle oscura. Oppure, come dice Gesù, il pastore «deve condurre il gregge» all’ovile e le pecore «ascoltano la sua voce e lo seguono» (Giovanni 10,3-4).
D’altro lato c’è, però, un altro elemento rilevante a cui spesso non si bada: il pastore è il compagno di vita e di viaggio del suo gregge. Nel Salmo citato si afferma di «non temere alcun male perché tu sei con me». Egli non mette in salvo prima sé stesso, non si sfama o si disseta indipendentemente dal suo gregge, bensì ne condivide l’esistenza. Con un’immagine pastorale particolare, quella dell’otre che contiene l’acqua necessaria durante il trasferimento da un’oasi all’altra, il Salmista afferma che il Pastore divino «le mie lacrime nell’otre suo raccoglie» (Salmo 56,9), impedendo che le sofferenze si dissolvano nel non senso e nel nulla. Anzi, Gesù dichiara che il pastore «offre la vita per le pecore».
Il simbolismo ha spesso un profilo antitetico. Lo insegna il profeta Ezechiele quando nel capitolo 34 del suo libro delinea il comportamento dei pastori di Israele, ossia dei capi politici e religiosi, che si preoccupano solo di «nutrirsi di latte, di rivestirsi di lana, di ammazzare le pecore più grasse, ignorando le pecore deboli, non curando le inferme, non fasciando le ferite, non riportando le disperse».
Nel Vangelo di Giovanni al pastore è opposto, invece, il mercenario: egli nell’ora del pericolo è pronto solo a salvare sé stesso. Forse anche Gesù allude ai sacerdoti, agli scribi, ai politici del tempo o agli zeloti, i ribelli antiromani, tutti pronti a raggiungere i loro scopi e a tutelare i loro interessi, non certo a donare la vita per il gregge.
Il buon pastore — o, come dice il testo greco del capitolo 10 di Giovanni, il “bel pastore” — è colui che conosce e ama il suo gregge. È su questo modello che devono esemplarsi anche i pastori della Chiesa, a partire da Pietro che riceve la missione di pascere le pecore del gregge di Cristo (Giovanni 21, 15-17). È proprio san Pietro ad ammonire i pastori della Chiesa a «pascere il gregge di Dio…, facendosi modelli del gregge» (si legga 1 Pietro5, l-4).

LE PAROLE PER CAPIRE

MERCENARIO – Era il lavoratore salariato assunto a giornata con una “mercede~ pattuita volta per volta e versata a lui prima del tramonto del sole, al termine della sua prestazione (Levitico 19,13). Si ricordi la parabola dei lavoratori mandati nella vigna a ore diverse (Matteo 20,1-16).

PIETRA ANGOLARE – Si trattava della pietra che si metteva a base di un edificio o di quella che teneva insieme la volta di una sala. La sua funzione decisiva a livello architettonico l’aveva resa simbolo per designare il tempio di Sion (Salmo 118,22) oppure lo stesso Cristo all’interno della storia della salvezza (Marco 12,10) o della Chiesa (Efesini 2,20; 1 Pietro 2,4-8).

21 APRILE 2013: 4A DOMENICA DI PASQUA C / OMELIA DI APPROFONDIMENTO: GESÙ, PASTORE E SALVATORE

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/03-annoC/annoC/12-13/04-Pasqua/Omelie/04-Domenica-di-Pasqua-2013_C-MP.html

21 APRILE 2013: 4A DOMENICA DI PASQUA C / OMELIA DI APPROFONDIMENTO

GESÙ, PASTORE E SALVATORE

« Le mie pecore ascoltano la mia voce ». Con queste parole, nel contesto in cui Giovanni le riferisce, Gesù contrappone i suoi discepoli, animati da buona volontà, al gruppo dei « Giudei » che lo circondano, ai quali dichiara: « Voi non credete, perché non siete mie pecore » (Gv 10,26). Possiamo ben ritenere che non pensava solo a quelli che avevano la ventura di vederlo e udirne la viva voce. Pecore di Gesù saranno anche i « discepoli » di Paolo e Barnaba che, mentre questi, cacciati da Antiochia di Pisidia, se ne andavano a Iconio, erano « pieni di gioia e di Spirito Santo ». Pecore di Gesù possiamo essere anche noi (e non ci spiaccia questo appellativo, pensando che il nostro « pastore » non è un puro uomo fosse anche il più grande, ma il Dio fatto uomo, che ha detto: « Io e il Padre siamo una cosa sola »).

Pastore e salvatore di tutti
Nell’episodio di Antiochia non si parla di « pastore », come poi nella 2ª lettura e nel Vangelo. Ma quando gli apostoli citano il testo di Isaia che parla di « luce per le genti », d’una « salvezza » che deve essere portata « sino all’estremità della terra », si riferiscono, con altre parole, alla missione di Gesù pastore. L’accento è posto, in questa pagina, sulla universalità di questa missione. Essa è sdegnosamente rifiutata dai Giudei, irritati al vedere che anche dei « proseliti credenti in Dio » (cioè persone che senza appartenere al popolo ebreo ne condividevano la fede) affollassero la sinagoga ascoltando con attenzione e buona volontà « la parola di Dio ». Luca attribuisce il loro malanimo a « gelosia ».
Orgogliosi di essere il popolo eletto – Paolo bollerà questo sentimento di superbia nella lettera ai Romani – questi Ebrei non potevano accettare di condividere tale privilegio con i pagani. Non volevano capire che era superata ormai l’antica alleanza e il Figlio di Dio fatto uomo era la luce che doveva illuminare le nazioni pagane, pur rimanendo gloria del popolo d’Israele (cf Lc 2,32). La missione universale di Gesù Salvatore è riaffermata implicitamente nell’Apocalisse, quando Giovanni vede « una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua ».
Forse anche noi abbiamo bisogno di credere più fermamente che Gesù è il Salvatore di tutti e trarre le conseguenze da questa persuasione. Credere che anche il popolo ebreo, dal quale « sono nati gli apostoli, fondamenta e colonne della Chiesa, e quei moltissimi primi discepoli che hanno annunciato al mondo il vangelo di Cristo », rimane sempre carissimo « a Dio, i cui doni e la cui chiamata sono senza pentimento » (Nostra aetate, 4). Diceva un vescovo, nella cui diocesi la « presenza del mondo ebraico è particolarmente sentita »: « Noi pensiamo che il ricordo di Gesù, anche se non ancora accolto dai nostri fratelli ebrei come noi lo accogliamo, serva a risvegliare il senso profondo delle attese del mondo ebraico; come pensiamo che i fratelli ebrei compiano verso di noi, come verso il mondo intero, la funzione di ravvivare il senso dell’attesa della liberazione dal male, del raggiungimento del bene, della pace di Dio ».
Credere che nel piano di Dio la luce del Vangelo deve arrivare a tutti i popoli, che « la Chiesa peregrinante è per sua natura missionaria », che « piacque a Dio chiamare gli uomini alla partecipazione della sua vita non solo ad uno ad uno, senza alcuna mutua connessione, ma riunirli in un popolo, nel quale i suoi figli che erano dispersi si raccogliessero in unità » (Ad gentes, 2). Abbiamo bisogno di coltivare l’anelito missionario, di sentirci tutti coinvolti nella responsabilità che incombe a tutta la Chiesa, poiché « tutti i fedeli, come membra di Cristo vivente, a cui sono stati incorporati ed assimilati mediante il battesimo, la confermazione e l’Eucaristia, hanno l’obbligo di cooperare all’espansione e alla dilatazione del suo corpo » (Ad gentes, 36).
Questo vale per i singoli e per le comunità diocesane e parrocchiali, istituzioni religiose, gruppi, movimenti. L’opera missionaria ha certamente bisogno di persone e istituzioni che vi si consacrino a tempo pieno per una vocazione particolare, ma ciò non significa che un tale impegno possa essere delegato a loro dispensando gli altri credenti da uno sforzo fattivo e generoso di collaborazione.
Quando parliamo di « missione » e di « impegno missionario », sarà bene tener presente che anche vicino a noi molti ambienti sono in buona parte « paese di missione ». Quanti sono quelli che nel mondo operaio e giovanile, nel mondo della scuola e della cultura, non sono raggiunti, o in modo del tutto inadeguato, dal messaggio evangelico? Cosa facciamo ciascuno di noi e le nostre comunità per annunziare Cristo ai nostri fratelli?

Pastore e agnello
In un linguaggio fatto tutto di simboli, com’è quello dell’Apocalisse, non può fare gran meraviglia trovare espressioni che suonano paradossali: « L’Agnello che sta in mezzo al trono sarà il loro pastore ». Gesù è il Pastore che guida le pecore « alle fonti della vita ». È l’Agnello che si è immolato per la salvezza del gregge. Nel sangue versato da lui, che « ci purifica da ogni peccato », i suoi seguaci « passati attraverso la grande tribolazione » hanno lavato le loro vesti rendendole candide. È anzitutto nel battesimo che il sangue di Gesù ci ha purificati dal peccato, e ci purifica ogni volta che questo sangue scende su noi nel sacramento della riconciliazione. Non ha detto Gesù che « il buon Pastore offre la vita per le sue pecore » (Gv 10,11)?
Pastore e Agnello. Le due immagini convergono nel richiamare l’amore di Gesù Salvatore. La vigilia della sua morte egli dirà: « Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici » (Gv 15,13). Eppure, sembra dire Paolo, Gesù è andato al di là di quella che egli presenta come la misura suprema dell’amore, poiché, « mentre a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto… Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi » (Rm 5,7-8). Il salmo responsoriale ci suggerisce la risposta a questo annuncio: « Acclamate al Signore… Egli ci ha fatti e noi siamo suoi, suo popolo e gregge del suo pascolo. Buono è il Signore, eterna la sua misericordia ». Ma c’è un’altra risposta che egli attende da noi: « Se egli ha dato la sua vita per noi, quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli » (1 Gv 3,16).
Anche qui l’amore per i fratelli, risposta all’amore di Gesù per noi, è indicato nella sua espressione suprema, il dono della vita. Come Giovanni aggiunge subito dopo, questo implica il dovere di aiutare i fratelli bisognosi col dono dei nostri averi e, evidentemente, con tutte le prestazioni richieste dalle loro necessità e consentite dalle possibilità nostre.

« Io do loro la vita eterna »
Di « vita eterna » ci parla il racconto degli Atti: « Abbracciarono la fede tutti quelli che erano destinati alla vita eterna ». La visione dell’Apocalisse ci presenta una realtà che evidentemente trascende l’esistenza terrena: « Non avranno più fame, né avranno più sete, né li colpirà il sole, né arsura di sorta ». Dono della Pasqua, di Cristo che « risuscitato dai morti non muore più » (Rm 6,9), è la partecipazione alla sua risurrezione per essere anche noi sottratti all’impero della morte e vivere per sempre col Signore (cf 1 Ts 4,17).
Perciò preghiamo nella colletta di oggi: « Guidaci al possesso della gioia eterna, perché l’umile gregge dei tuoi fedeli giunga con sicurezza accanto a te, dove lo ha preceduto il Cristo, suo pastore ». Perciò chiediamo, nella preghiera sulle offerte, che la redenzione « sia per noi causa di perenne letizia ». Perciò supplichiamo Dio, dopo la comunione, di guidarci « ai pascoli eterni del cielo ». « Viene presentata la vita eterna », spiega s. Agostino, « come un buon pascolo: ivi l’erba non inaridisce, tutto è sempre verde ».
Se la Pasqua non fosse questo, non sarebbe la Pasqua del cristiano. Ma la vita eterna siamo chiamati a viverla, in germe, su questa terra. È la vita di unione con Cristo, poiché con lui siamo figli di Dio e fratelli tra noi, chiamati ad amare il Padre e ad amare i fratelli con un amore simile a quello con cui ci ha amato Gesù, pastore e agnello immolato per noi.

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