La pesca miracolosa

http://www.corsobiblico.it/apocalisse.htm#_Toc73449220
(commento alla seconda lettura, l’Apocalisse, in realtà è 5,11-14, ma metto tutto: 1-14)
IL LIBRO E L’AGNELLO : (AP. 5, 1-14)
1. E vidi nella mano destra di Colui che era assiso sul trono un libro a forma di rotolo, scritto sul lato interno e su quello esterno, sigillato con sette sigilli.
2. Vidi un angelo forte che proclamava a gran voce: “Chi è degno di aprire il libro e scioglierne i sigilli?”.
3. Ma nessuno né in cielo, né in terra né sotto terra era in grado di aprire il libro e di leggerlo.
4. Io piangevo molto perché non si trovava nessuno degno di aprire il libro e di leggerlo.
5. Uno dei vegliardi mi disse: “Non piangere più, ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide, e aprirà il libro e i suoi sette sigilli”.
6. Poi vidi ritto in mezzo al trono circondato dai quattro esseri viventi e dai vegliardi un Agnello, come immolato. Egli aveva sette corna e sette occhi, simbolo dei sette spiriti di Dio mandati su tutta la terra.
7. E l’Agnello giunse e prese il libro dalla destra di Colui che era seduto sul trono.
8. E quando l’ebbe preso, i quattro esseri viventi e i ventiquattro vegliardi si prostrarono davanti all’Agnello, avendo ciascuno un’arpa e coppe d’oro colme di profumi, che sono le preghiere dei santi.
9. Cantavano un canto nuovo. “Tu sei degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli, perché sei stato immolato e hai riscattato per Dio con il tuo sangue uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione
10. E li hai costituiti per il nostro Dio un regno di sacerdoti e regneranno sopra la terra”.
11. Durante la visione poi intesi voci di molti angeli intorno al trono e agli esseri viventi e ai vegliardi. Il loro numero era miriadi di miriadi e migliaia di migliaia
12. E dicevano a gran voce: “L’Agnello che fu immolato è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione”.
13. Tutte le creature del cielo e della terra, sotto la terra e nel mare e tutte le cose ivi contenute, udii che dicevano: “A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli”.
14. E i quattro esseri viventi dicevano: “Amen”. E i vegliardi si prostrarono in adorazione.
Commento esegetico.
Dopo la grandiosa visione del trono di Dio (4,1-11), ecco la visione dell’Agnello (5, 1-14) morto e risorto, una pagina cristologica fra le più importanti dell’intero Nuovo Testamento. Le due visioni sono strettamente collegate e complementari. Il profeta vede un Agnello come ucciso (è il Crocifisso) e nel contempo ritto in piedi (è il Risorto), con sette corna che significano la pienezza della forza e con sette occhi che si identificano con i sette spiriti di Dio e significano la divina onniscienza. Di Dio si è celebrata la creazione (4,11), dell’Agnello si celebra la redenzione (5,9: “Hai riscattato col tuo sangue uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione”).
I quattro viventi e i ventiquattro anziani si prostrano davanti a Lui come a Dio (7, 4-10 e 5,8). La corte celeste ripete per Lui l’inno di gloria già cantato in onore di Dio. E nel cantico liturgico finale, Dio e l’Agnello sono accomunati: “A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode e onore” (5,13).
Le due visioni sono, pertanto, complementari (il cristiano crede in Dio e nel suo inviato Gesù Cristo), e ci troviamo di fronte a una delle più esplicite affermazioni della divinità di Gesù e della sua sovranità universale e vittoriosa: il mondo è ancora in balìa del male, ma la vittoria è già nelle mani del Cristo morto e risorto.
Per valutare tutta l’importanza di questa pagina, occorre allargare l’orizzonte.
Secondo la concezione apocalittica ebraica e cristiana, la storia si svolge su due piani: la cronaca dei fatti, degli avvenimenti, delle realtà storiche che si susseguono e che si vedono, e il disegno di Dio che non si vede, ma sta nel profondo, nascosto dalla cronaca e tuttavia da essa rivelato.
L’apocalittica è attenta alle persone, agli avvenimenti e alle vicende del suo tempo, ma vede tutti questi fatti come “segni” e “strumenti” di una realtà che sta oltre.
L’apocalittica, quindi, non si accontenta di leggere i singoli avvenimenti, di confrontarli e collegarli tra loro. E’ convinta che per raggiungere la storia “vera” occorre porsi, in un certo senso, fuori di essa. Occorre una rivelazione. Per capire la storia bisogna guardarla dall’alto: il vero storico è il profeta.
La differenza e l’originalità dell’Apocalisse di Giovanni nei confronti di tutta l’apocalittica giudaica, sta nella visione del libro sigillato e dell’Agnello. La visione afferma che Gesù è al centro della storia. E’ osservando la sua vicenda di morte e resurrezione che noi possiamo comprendere la realtà profonda della storia. Non occorre, dunque, una nuova rivelazione, ma una “memoria”. Se “ricordiamo” la vicenda di Cristo, comprenderemo che il disegno di Dio è sempre combattuto; che addirittura c’è un tempo in cui le forze del male sembrano prevalere (la Croce), ma sappiamo anche che l’ultima parola è la risurrezione. La via dell’amore, della non violenza coraggiosa e del martirio, è crocifissa ma non vinta. Se vogliamo fare la storia, dobbiamo metterci alla sequela di Cristo, percorrere la sua stesa via, metterci “in cammino”, come Lui, verso Gerusalemme.
Concludendo questo quadro generale del quinto capitolo, possiamo dire che questo libro “sigillato” racchiude i “segreti” della storia, e che solo Cristo (l’Agnello), è capace di rompere i sigilli e aprire il libro, cioè di darne l’esatta interpretazione. E l’uomo può capire la storia, solo guardando Colui che ci ha “riscattati” con la sua morte e risurrezione.
“Io piangevo molto”: la situazione dei cristiani che subiscono la persecuzione sarebbe assurda e senza speranza, se Cristo con la sua morte, non avesse vinto (v.9), in tal modo mostra ai cristiani fedeli la strada per la loro vittoria (2,11.17.26; 3,5.12).
“Il germoglio di Davide”: questo titolo e quello precedente “il leone della tribù di Giuda”, indicano come l’Agnello abbia adempiuto le promesse veterotestamentarie (Is. 11,1.10; Rom. 15,12).
“Vidi in mezzo al trono un Agnello”: la posizione simboleggia lo stretto legame con Dio, della cui conoscenza (“sette occhi”) e potenza (“sette corna”: Deut. 33,17; Lc. 1,69) l’Agnello è partecipe. Ma l’Agnello è anche in mezzo agli anziani, indicando in tal modo che rimane legato alla sua Chiesa (1,13).
“L’Agnello”: questo è il titolo che più di ogni altro viene attribuito a Cristo nell’Apocalisse (28 volte). Il tema di Cristo sacrificato come un agnello (Gv. 1,29.36; 19,36; Atti 8,32; 1 Cor. 5,7; 1 Pt. 1,18 ss.) si riallaccia con quello del Servo di Jahwè (Is. 53,7) e dell’agnello pasquale (Es. 12). Ma l’Apocalisse considera l’Agnello come un conquistatore che dopo il suo sacrificio detiene un dominio universale.
“Come immolato”: porta ancora i segni del suo sacrificio (Gv. 20,25.17) ma non è più prigioniero della morte. L’azione dell’Agnello che prende il rotolo rappresenta la sua ascesa al trono. Le tre dossologie che seguono vv. 9ss. 12.13) corrispondono alle acclamazioni che seguivano di solito l’intronizzazione di un re.
“L’Agnello giunse e prese il libro dalla destra di Colui che era seduto sul trono”: la mano destra è simbolo dell’azione: lo Spirito Santo è Dio in azione per tutta la terra. Il libro indica il piano di Dio sul mondo, che, prima della venuta di Cristo, era sconosciuto: Gesù rivela il “mistero nascosto da secoli in Dio”.
“Tu sei degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli”: prendere il libro, cioè assumere tutta la storia umana (uomini di ogni razza, lingua, popolo e nazione) e darle un senso. Nessuna filosofia è riuscita a farlo in maniera definitiva. Essa inciampa contro i limiti della finitudine e dell’irrazionalità. Solo Gesù, perché Dio (cioè trascendente) e uomo (immanente, dentro la storia), può rivelarne la portata e lo sbocco ultimo. L’uomo non si trova sulla terra solo per passare dall’età della pietra a quella della bomba atomica; egli è fatto per cercare e trovare Dio, e per costruire con lui la Gerusalemme celeste.
“Avendo ciascuno delle cetre”: questo era lo strumento con cui tradizionalmente (14,2; 15,2) si accompagnava il canto dei salmi.
“Le preghiere dei santi”: la chiesa sulla terra si associa alla Chiesa in cielo per rendere il culto a Dio e all’Agnello (8,3; Sal. 141,2; Lc. 1,10). I “santi” ( 8,3; 11,18; 13,7.10; Dan. 7,18) sono i fedeli del regno di Cristo appartenenti a Dio.
“Un cantico nuovo”: quest’espressione frequentemente usata nei Salmi (33,3; 40,3; 98,1), si riferiva originariamente a un insolito inno di lode, ma anche a un avvenimento straordinario (Is. 42,10). Questa novità della lode corrisponde al nome nuovo dato al vincitore (2,17; 3,12), alla nuova Gerusalemme (3,12; 21,1), al nuovo cielo e alla nuova terra (21,1), e infine al rinnovamento universale (21,5). In breve, l’intero universo (i quattro esseri viventi) e la Chiesa (i 24 vegliardi) celebrano Cristo il quale, mediante la risurrezione ha inaugurato la nuova èra.
“Tribù, lingua, popolo, nazione”: questi quattro termini esprimono tutto l’universo fisico.
Come la dossologia è offerta tanto a Dio quanto all’Agnello, così la regalità e il dominio appartengono indistintamente al Padre e a Cristo (3,21).
Questa solenne liturgia termina con l’omaggio alla Chiesa celeste con i rappresentanti della creazione (v.14).
In sintesi: Gesù Cristo riceve dalla mano del Padre il libro sigillato (il piano salvifico è opera del Padre). E’ lui che realizza questo piano e lo rende noto.
Commento spirituale.
“Non piangere più, ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide, e aprirà il libro e i suoi sette sigilli”. Solo Gesù Cristo è in grado di spiegare i misteri della vita dell’uomo e della storia, e solo lo Spirito Santo che guida la Chiesa può portare l’uomo alla comprensione del mistero di Cristo, presente nella storia e nella vita dell’uomo. Gesù stesso, salendo al Padre, ci dà quella profonda garanzia di cui avevamo bisogno: “Sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo”. E su questo impegno del Cristo Risorto, che si poggia la fede della Chiesa; è grazie alla presenza del Signore che non verrà mai meno la fede della Chiesa; solo l’avvento del suo regno d’amore, sarà capace di “rompere i sigilli” e squarciare il velo che nasconde il futuro e rivelare la direzione e il significato della vita dell’uomo.
Gesù di Nazareth non insegna una visione del mondo, ricavata dalla comune esperienza umana, un insieme di verità religiose e morali, frutto di riflessione particolarmente penetrante. Si presenta, invece, come il messaggero di un avvenimento appena iniziato e in pieno svolgimento. Il suo, prima di essere un insegnamento, è un annuncio, un grido di gioia: viene il regno di Dio! Una semplice frase, collocata in apertura del vangelo di Marco, riassume tutta la sua predicazione: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo” (Mc. 1,15). Questa è la buona notizia che Gesù ha da comunicare. Questa è la causa per cui vive, la ferma speranza che lo sostiene.
Gesù si inserisce nel suo ambiente, inquieto e pieno di aspettative, con continuità e originalità. Il suo passaggio desta nella gente interesse, stupore, entusiasmo; a volte perfino un misterioso timore. Provoca in molti diffidenza, delusione, rifiuto e ostilità. Non lascia però indifferente nessuno.
Il suo annuncio è che il regno di Dio non è più solo da attendere nel futuro; è in arrivo, anzi in qualche modo è già presente. Viene in modo assai concreto, a risanare tutti i rapporti dell’uomo: con Dio, con se stesso, con gli altri e con le cose (Mt. 11, 2-6; 14, 14-21). Vuole attuare una pace perfetta, che abbraccia tutto e tutti. Al suo confronto l’esodo dall’Egitto e il ritorno da Babilonia erano solo pallidi presagi. Tuttavia il Regno non comporta né il trionfo della legge mosaica, né la rivoluzione nazionale, né gli sconvolgimenti cosmici. Bisogna credere innanzitutto all’amore di Dio Padre, che si manifesta attraverso Gesù, e convertirsi dal peccato, che è la radice di tutti i mali (Mt. 6,33).
Nelle parole, nei gesti e nella persona di Gesù, il Padre comincia a manifestare la sua sovranità salvifica, cioè il suo regno: “Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui, o eccolo là. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi” (Lc. 17,21); “Se io scaccio i demòni per virtù dello Spirito di Dio, è certo giunto fra voi il regno di Dio” (Mt. 12,28).
Il presente, umile e nascosto, contiene una meravigliosa virtualità che si dispiegherà nel futuro. E’ come il seme che silenziosamente germoglia dalla terra e produce la spiga; come il minuscolo granello di senape che poi diventa un albero, come il modesto pugno di lievito che finisce per fermentare tutta la pasta (Mt. 4, 26-29, 13, 31- 32.33).
Il regno di Dio cresce là dove c’è amore e rispetto per il fratello, dove la condivisione è regola di vita e la solidarietà è di casa; il regno di Dio ha bisogno della nostra cooperazione, si nasconde nella normalità della vita quotidiana e addirittura nella debolezza, nell’apparente fallimento. E, comunque, si tratta sempre di un’esperienza germinale, destinata a compiersi perfettamente solo nell’eternità.
L’uomo sa ben poco del futuro che lo attende, può solo prevederlo; l’uomo può preparare il suo futuro con delle tecniche, però dovrà sempre riconoscere che il futuro sfugge al suo pieno controllo e sfuggirà sempre; neanche l’uomo-cristiano ha piani definiti di intervento né rivelazioni particolari che lo possano illuminare sul suo futuro, però ha una speranza che si concretizza non in un’idea ma in una Persona: Gesù di Nazareth, solo lui può rivelare il futuro dell’uomo (cioè “aprire il libro e i suoi sette sigilli”), che si realizzerà solo quando l’amore avrà l’ultima parola, la verità vincerà sulla menzogna e la solidarietà inaugurerà effettivamente un mondo nuovo. Non sopravviverà solo l’amore, ma il cuore che ama; non rimarrà solo la verità, ma la persona che per la verità ha vissuto e sofferto.
14 APRILE 2013 – 3A DOMENICA DI PASQUA – C / LECTIO DIVINA
Lectio Divina: Gv 21,1-19
Dopo l’incontro di Gesù con i suoi discepoli in Gerusalemme, quando il risuscitato dovette farsi vedere e toccare perché credessero in Lui, i discepoli erano ritornati in Galilea. E lì Gesù dovette tornare e apparire a loro come Gesù resuscitato, dividendo con loro la vita di ogni giorno e convincerli della realtà della nuova vita, per poter compiere poi, con maggiore convinzione e con migliori argomenti, la loro missione come testimoni.
Il racconto, semplice in apparenza, nasconde le due preoccupazioni di base del suo autore: prima la dimostrazione della realtà della resurrezione di Gesù, alla quale serve la dettagliata cronaca della pesca miracolosa e l’invito di Gesù a mangiare in comunione; secondo, la concessione a Pietro di un compito di servizio nella comunità. Allo svolgere della narrazione si evidenzia la figura di Pietro; il quale, anche se non è il discepolo preferito, lo sceglierà per confermare la fede agli altri. Sarà perciò obbligato a far passare attraverso il pubblico scrutinio il suo amore verso Gesù, e la ripetuta testimonianza di questo amore gli conseguirà la confermazione della sua missione principale. Non fu il discepolo più amato, ma il più amante, che ottenne la responsabilità di curare e guidare i suoi fratelli.
Il mistero della Chiesa si fonda sopra uomini deboli, che sanno di aver convissuto con il Signore che predicano, perché non possono dubitare dell’amore che hanno: amare Cristo impone di trasmettere la fede tra i fratelli come compito della vita. Se si tratta di essere accolti: non è necessario essere perfetti per optare di essere pastori delle comunità. Non bisogna dimenticare che il ministero è obbligato per chi ama veramente Cristo.
1 In quei giorni, Gesù apparve di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberiade. Egli si rivelatò in questo modo: 2Vi erano Simon Pietro, Tommaso detto Didimo, Natanaele di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli. 3Simon Pietro dice:
- « Io vado a pescare ».
Gli rispondono:
- « Andiamo anche noi con te ».
Uscirono in barca, ma quella notte non presero nulla. 4Era già l’alba e Gesù si presentò sulla riva, ma i discepoli non sapevano che era Gesù. 5Jesús dice:
- « Figlioli, non avete qualcosa? »
Essi risposero:
- « No. »
6 Gesù dice:
- « Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete ».
La gettarono, e non avevano la forza di tirarla per la moltitudine di pesci. 7Il discepolo che Gesù amava disse a Pietro:
- « E’ il Signore ».
Sentendo che era il Signore, Simon Pietro, che era nudo, si cinse la veste e si gettò in acqua. 8Gli altri discepoli invece vennero con la barca, perché non erano lontani da terra se non un centinaio di metri, trascinando la rete piena di pesci. 9Scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Gesù dice:
- « Portate un po ‘del pesce che avete preso. »
11 Simon Pietro salì nella barca e tirò a terra la rete piena di pesci di grandi dimensioni: 153. E sebbene fossero così tanti, la rete non si strappò.
12 Gesù gli dice:
- « Venite a mangiare ».
Nessuno dei discepoli osava domandargli: chi era, perché sapevano bene che era il Signore.
13 Gesús si avvicinò, prese il pane e lo diede a loro, e lo stesso fece con il pesce.
14 Questa era la terza volta che Gesù apparve ai discepoli, dopo essere risuscitato dai morti.
15 Dopo che ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro:
- « Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro? »
Egli rispose:
- « Sì, Signore, tu sai che ti amo. »
16 Gesù gli dice:
- « Pasci i miei agnelli ».
Per la seconda volta gli chiede:
- « Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene? »
Egli rispose:
- « Sì, Signore, tu sai che ti amo. »
Gli dice:
- « Pasci le mie pecorelle ».
17 Per la terza volta gli chiede:
- « Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene? »
Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli chiedesse se gli voleva bene e gli rispose:
- « Signore, tu sai tutto, tu sai che io ti amo ».
Gesù gli dice:
- « Pasci le mie pecore.
18 Te lo assicuro, quando eri più giovane, ti cingevi la veste, e andavi dove volevi, ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi « .
19 Questo gli disse alludendo alla morte con la quale avrebbe glorificato Dio. Detto questo, aggiunse:
- « Seguimi ».
1. LEGGERE: capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice
Gv. 21 è, in realtà, una appendice al Vangelo già concluso (Gv 20,30-31) una specie di epilogo; la storia di Gesù è finita in Gv. 20,31, non così la storia dei suoi discepoli, che continua con il ritorno e nuovi incarichi del Resuscitato in Gv. 21. Sembra che il redattore posteriore aggiunge questo capitolo per non permettere la perdita del materiale tradizionale conosciuto nella comunità giudaica attorno alla sorte del discepolo amato. In questo capitolo domina in più un evidente interesse per la comunità dei credenti, sull’assegnazione a leader fatta a Pietro. Il nostro episodio include quasi tutto il cap. 21, che si divide in due parti. La prima (Gv.21,1-14) narra le tre apparizioni di Gesù, localizzate in Galilea, a sette discepoli (Gv.21,2), durante la quale trasformò una pesca infruttuosa in abbondante, condivisa poi con una cena in comune (Gv. 21,12). La seconda parte(21,15-23) contiene quasi esclusivamente le parole di Gesù che rinnovano compiti e impongono urgenze comunitarie a Pietro. Le due scene, considerando le innegabili differenze formali e di contenuto, riflettono un’unità intima: Gesù (Gv.21,14.5.7.9.12.13.14.15.16.17) e Pietro, coprono tutto il racconto (21.2.3.7.11.15.16.17.), il primo come protagonista, il secondo come suo privilegiato interlocutore: prima in una pesca miracolosa e poi nel suo destino come pastore del gregge di Gesù.
La terza apparizione di Gesù viene posta, senza una previa preparazione, vicino al mare di Tiberiade (Gv.6,1). I discepoli sono tornati, si suppone, alla vita quotidiana; e nel mezzo di questa, in una giornata di duro lavoro, essi vivranno l’esperienza del Resuscitato. Il mare è il luogo del lavoro ma anche dell’incontro con Gesù. E’ di notte, il tempo appropriato per la pesca, però impedisce la visione. E’ l’assenza di Gesù, i discepoli non riescono a fare con successo quello che sanno fare: essere buoni pescatori.
Dopo una notte di lavoro, Gesù li incontra all’alba (Gv.21,4) ma non viene riconosciuto, parla con loro (come successe con Maria 20.14, e quelli di Emmaus (Lc.24.16) chiedendogli in tono familiare un po’di cibo (Gv. 21,5 ragazzi). Non saluta e non da’ la pace, si presenta come bisognoso. Domanda con che cosa accompagnano il pane (Lc. 24,41).
La sua domanda porta i discepoli a riconoscere la loro povertà e il fallimento della pesca: non hanno nulla da dare da mangiare. Gesù ordina loro di ritornare subito al lavoro, assicurando buoni risultati (Gv. 21,6) L’obbedienza allo sconosciuto supera le migliori aspettative: la rete si colma di pesci. Tutto lo si deve alle parole dello sconosciuto. Nel racconto dell’apparizione, come è nella normalità: Gesù non è riconosciuto, se lui no si fa conoscere (Gv. 20.15; Lc.24,16) Qui è il tratto tipico dell’Evangelista: lo riconosce il discepolo amato e lo comunica a Pietro (Gv. 20,7 cf.20,8). La reazione di Pietro tumultuosa e generosa, sottolinea il suo protagonismo che tiene per tutta la scena; vuole pescare e si offre ad accompagnare gli altri (Gv. 21,3), si butta in acqua all’incontro del Signore (Gv. 21,7), mentre gli altri discepoli portano a terra la pesca abbondante (Gv.21,8). Pietro si comporta come padrone dell’imbarcazione; porta a terra la rete, e prende dell’abbondante pesce una parte del pescato. Il bottino, racconta con precisione il narratore, contava di 153 pesci grandi, che non ruppero la rete (Gv. 21,11).
I discepoli si incontrarono con il Signore e con un pasto preparato: pesce alla brace e pane (Gv. 21,9) alimento tipico dei pescatori di Galilea. Non si dice cosa pensavano mentre mangiavano. Il riconoscimento del Resuscitato non avviene durante il lavoro del giorno, avverrà durante il pasto, quando, mangiando con lui, tutti lo riconosceranno (cf. Lc. 24,35). E di fatto, accettando l’invito, (Gv. 21,12) nessun discepolo oserà domandargli la sua identità; sapevano molto bene che era realmente il Signore.(Gv.23,13; cf. 6,11; Lc.24,30. 42.43;Hch 10,41).
Terminata la cena, Gesù conferirà il governo della comunità a Pietro. Gli altri discepoli, eccezion fatta dell’amato di Gesù, scompaiono dal racconto. Il primato di Pietro è un tema conosciuto nella tradizione evangelica (Mt. 16,17-19). Risulta significativo che il quarto Vangelo che, al suo inizio, si occuperà del cambio del nome di Pietro (Gv.1,42) termina con l’imposizione della sua nuova missione (Gv. 21,15. 16,17).
L’episodio include due momenti, l’imposizione del compito pastorale (Gv. 21,15-17) e l’annuncio della testimonianza di sangue (Gv. 21,18-23). Gesù apre uno scrutinio di amore e impone a Pietro una missione che le è propria(Gv.10,1-21). Il dialogo, rapido e ridotto all’essenziale, segue uno schema fisso: per tre volte una stessa questione provoca una uguale reazione e si conferisce un identico incarico. Alla domanda di Gesù (Gv.21,15.16.17) segue la risposta affermativa di Pietro (Gv.21,15.16.17), che provoca la concessione del compito (Gv. 21,15.16.17). La triplice domanda di Gesù, provoca la tristezza di Pietro (Gv.21,17), che deve ricorrere all’onniscienza di Gesù, caratteristica divina, per convincerlo del suo amore. Gesù ha iniziato il dialogo chiedendo l’amore più grande. Non sembra, nonostante tutto, che, con questo interrogatorio, Gesù stava provando la fedeltà dell’unico discepolo che lo aveva negato tre volte(Gv.18,15-28.15-27); lo riabilita, non tanto per la convivenza ma per la missione: Pietro non ritorna nella sua compagnia, è inviato ai fratelli. (Lc. 22,32).
La scena non si focalizza, perciò, nel recupero della fedeltà personale, anche se la include, del discepolo traditore. E’ più evidenziata la cronaca di un’investitura, della consegna del ministero pastorale a Pietro; dovrà avere cura del gregge di Gesù; ma, solo dopo: quando avrà proclamato il suo amore e la sua dedicazione al Signore. Certò è che Pietro si riabilita pubblicamente, confessando pubblicamente il suo amore per Gesù e dolendosi di doverlo ripetere.
Se nei sinottici Gesù rimase impressionato della fede di Pietro (Mc.8,27-29), in Gv. rimarrà convinto solo per la sua protesta di amore: prima di tutto il ministero pastorale è esercizio di amore a Gesù. Amare Cristo implica la responsabilizzazione dei cristiani. Gesù non concede il governo pastorale della sua comunità a chi promise molto (Gv. 13,13,36-37), e neppure a chi era il più amato e miglior credente (Gv.21,7); lo concesse e per tre volte, a Pietro, il quale dovette confermare più volte e con impegno il suo amore. Il gregge segue il messaggio di Gesù. Pietro deve guidarlo e curarlo. La proprietà non cambia, la responsabilità pastorale riposa sopra quello che più dovrà amare, dovrà osservare, e non è casuale, che l’investitura di Pietro come pastore unico va unita alla predizione del suo martirio. Chi divide con Gesù il compito del pastore (Gv.10,11-18) dovrà condividere la sorte e il destino (Gv.15,13); solo così garantirà come vero il suo compito. Il mandato di Gesù, che esige di essere seguito, impone a Pietro un tragico finale, e lo rende inevitabile, sapendo che cammina sulle sue orme. Il seguirlo, impossibile prima della morte di Gesù (Gv.13,36) è ora imperativo: tu seguimi! La sorte solidaria di Pietro con Gesù, una solidarietà che culmina la missione pastorale, non include che Pietro dia la vita per gli altri (Gv. 10,11.17-18), ma che la dà per il suo Signore (Gv.13,37).
2. MEDITARE: applicare quello che dice il testo alla vita
Secondo quanto ci racconta il Vangelo, i discepoli erano troppo occupati nel loro lavoro, occupati di quello che già sapevano. Invece di occuparsi a essere testimoni di Gesù e portatori di pace, si preoccupavano di guadagnarsi il sostegno giornaliero; li preoccupava di più la necessità di mangiare che l’obbligazione di predicare il Vangelo. Come Pietro, che trascina gli altri alla pesca notturna, oggi tanti credenti si affannano per lavorare di più, e dimenticarsi dell’incarico ricevuto da Cristo Gesù. Come lui, siamo molti quelli che hanno celebrato la resurrezione in questi giorni e sappiamo che Lui è vivo. Ma, come Pietro, ci occupiamo di faccende più utili, meno compromettenti, pur di non portare avanti quello che Lui ci ha incaricato. Non è che Pietro, né noi, facesse del male, occupandosi solo di pescare; procurandosi certamente il necessario per vivere, però faceva silenzio su quello che sapeva di Cristo, che viveva realmente; dimenticandolo lo dava per morto davanti ai suoi.
E posto che stava facendo cosa buona, non compiva la volontà del Risuscitato, non conosceva il trionfo del suo lavoro: quella notte non presero nulla, ci ricorda l’evangelista. Non può essere fruttifera un’occupazione, un lavoro, un’illusione, uno sforzo, che non è conseguenza di una vocazione, che ognuno di noi ha ricevuto da Dio. Chi sa che Gesù è vivo, anche se una maggioranza lo crede morto, o semplicemente non si interessa a Lui, non può stare zitto sulla sua esperienza e occuparsi di quello che non è la sua missione principale. Non basta, perciò, non fare nulla di male: se non diciamo al mondo quello che sappiamo, continueremo vivendo inutilmente, lavorando nella notte e segnando col nostro sudore il mare, mentre non ci occupiamo nel proclamare con la vita quello che sappiamo di Gesù: che Lui vive e noi viviamo per testimoniare al mondo che Cristo è la nostra vita.
Presentandosi di nuovo, Gesù mandò i suoi a pescare quando già non era opportuno. Strano comportamento quello di Gesù, che non si arrabbia perché i suoi non fecero quello che avrebbero dovuto fare, e li manda a fare quello che non è usuale. I discepoli che hanno ignorato il mandato di Gesù Risuscitato, devono imparare che è l’obbedienza che darà efficacia alla loro vita giornaliera: gettare le reti quando era ora di raccoglierle; e ne raccolsero piene di pesci, era contro la logica. Con Gesù l’esito è assicurato, anche se cozza contro la propria esperienza; senza di lui tutto lo sforzo è vano. Il discepolo, che sapeva che Gesù lo amava, riconosce con maggiore facilità che lo sconosciuto è il Signore è, perciò, tra gli apostoli il primo a riconoscerlo.
L’amore è il miglior modo di individuare la presenza dell’amico in uno sconosciuto: e quello che più ama, più facilmente crede.
Non mettiamo in conto le nostre molte difficoltà per lasciarci convincere della presenza e dell’aiuto di Dio. Noi siamo già credenti, ma siamo incapaci di crederci amati da Dio, abbiamo bisogno di prove, perché non siamo sicuri di Dio, del suo amore, del suo affetto. A differenza del discepolo amato, il primo che credette davanti ad una tomba vuota, il primo che riconobbe il Signore dopo una pesca miracolosa, noi non siamo sicuri del suo amore, e non possiamo credere che ci ama veramente: sono tanti i fallimenti, le disavventure, le notti che dobbiamo passare soli, senza vedere il risultato che speravamo, e nulla ci può convincere che Lui sta con noi, cercando di farsi conoscere; se gli obbediremo, affidandoci alle sue parole, ritorneremo alle nostre attività in modo entusiasta, sapendo che Egli di nuovo ci accompagna.
Potremo, almeno, reagire come Pietro, che non seppe in principio riconoscere il suo Signore; però all’udire che si trattava di Lui, si lanciò in mare seminudo, senza considerare il rischio che affrontava; quel mare che la notte prima non gli aveva dato niente, era lo stesso mare tramite il quale lui andava incontro al suo Signore. Il disastro precedente non gli mise nessuna paura: all’udire che era il Signore, si gettò in acqua.
Però, come sapremo noi oggi che il Signore sta con noi e a nostra disposizione, se non ci occupiamo di pesca notturna nel lago di Galilea, come fecero i primi discepoli? La risposta ce la dà il racconto: loro seppero che era il Signore, quando li invitò a mangiare assieme: il ricevere il pane e il pesce dalle mani di Gesù, li convinse che era il Signore e nessuno osò domandargli chi era.
Se non avessero udito dallo sconosciuto l’invito a condividere il pane e a calmare le loro necessità, non lo avrebbero riconosciuto. Però, sapendo che Gesù, l’autentico maestro, si era occupato tante volte di placare la loro fame, riconobbero la sua voce e l’invito di mangiare assieme. Se è quello che desideriamo anche noi: riconoscerlo vivo e vicino alla nostra vita, dobbiamo ascoltare oggi il suo invito a condividere il suo pane ed a soddisfare i nostri bisogni. Non riconoscerlo tra di noi, disattenderemo il suo invito di condividere il suo pane e il suo corpo. Non è casuale tutto il contrario: che per noi è così difficile credere, ma quanto meno lo riceviamo nella nostra vita attraverso l’eucaristia. Senza avvicinarsi alla sua mensa, come sapremo che è vivo e che vive preoccupandosi di noi? Saremo come i suoi discepoli che, anche conoscendolo, si impegnavano nella pesca, lavorando di notte, senza aspettare che Lui desse loro, il giorno seguente, la certezza della sua presenza e la riuscita delle loro fatiche.
L’esempio di Pietro dovrebbe, nonostante tutto, animarci: non fu il preferito di Gesù, però si ardì ad amare il suo Signore contro tutta la logica, lanciandosi in mare: sapeva bene che Gesù amava di più un altro, però lasciò che Gesù gli domandasse in pubblico se lo amava più degli altri. E perché si arrischiò a confessare ripetute volte che amava il suo Signore, fu il preferito per guidare gli altri discepoli. Gesù, curiosamente, non elesse quello che maggiormente amava e che per primo lo riconobbe, mise di fronte alla sua comunità Pietro, il discepolo che più volte lo aveva negato ma che più volte gli promise il suo amore. Seguire Gesù non implica essere migliori, né sapersi il suo migliore amico, però bisogna essere tanto sicuri del suo amore e avere il coraggio di proclamarlo davanti al mondo. Tutti possiamo promettergli amore ed essere, come Pietro, eletti.
JUAN JOSE BARTOLOME sdb, E-mail: