Archive pour le 4 avril, 2013

« Dessine moi la bible », Luk 24, 13 Emmaus_on_the_way_en_route


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«O MIA PAROLA, SALVAMI!» – PASQUA, GRIDO E ANNUNCIO

http://www.sanpaolo.org/pj-online/RUBRICHE/solo-pan/Tematico/Ungaretti/O%20mia%20parola.htm

«O MIA PAROLA, SALVAMI!» – PASQUA, GRIDO E ANNUNCIO

CHI SI SENTE MESSO IN DISCUSSIONE DALLA RESURREZIONE COME COLORO CHE SPERIMENTANO LA MORTE?

Guardandosi attorno, si domandano dove sia questa risurrezione annunciata. Dove sia la loro risurrezione, di fronte alla certezza di morire ogni giorno, nel corpo e nello spirito, e al non vedere altro che questo. Panorami di guerra, di conflitti armati, di lotta interiore. Allora avvertiamo la verità di queste parole: «Gli anni della vita sono settanta, ottanta per i più robusti, ma sono quasi tutti fatica, dolore. Passano presto e noi scompariamo» (Salmo 90).
L’angoscia, l’angoscia d’esserci e basta, cammina con l’uomo. Giunti dallo scorso secolo con sogni di progresso e fame di serenità abbiamo raccolto sconcertanti esiti da tante promettenti premesse. Nella preistoria  il primo incontro tra tribù era lo scontro. Millenni dopo anche il villaggio globale è sorto dalle guerre mondiali. Come doglie del nuovo mondo si canta: «Salvami, salvati/ salvaci, salviamoci!». È legittimo temere questo futuro aggressivo, quasi fosse regolato dal caso:

Abbiate o non abbiate timore:
versate l’obolo nella borsa sonante e date
una buona parola all’uomo cieco,
che l’Orsa trattenga al guinzaglio.
E insaporite bene gli agnelli.

Potrebbe, quest’Orsa, strappare i lacci,
non più minacciare ma dare
la caccia a tutte le pigne cadute
dagli abeti, i grandi abeti alati
precipitati dal paradiso.

Così Ingeborg Bachmann nell’«Invocazione all’Orsa Maggiore» (1956) che vide l’ingresso delle truppe hitleriane in Austria ma soprattutto visse l’ennesima ricostruzione di un’Europa più che mai desolata. Costruire con fatica, distruggere in un lampo, riedificare nuovamente: «qualunque cosa accada, il devastato mondo/ ripiomba nel crepuscolo» (Mio uccello). Penso al processo di pace in Medio Oriente. Parole e fatti sono in tensione costante tra sfiduciata promessa e indecisa finzione, invocando una parola definitiva.

Parola, sii nostra,
libera, chiara, bella.
Certo dovrà avere fine
ogni cautela.

«O mia parola, salvami!» conclude la Bachmann (Dialogo ed epilogo), anelando alla parola purificata da diffidenza ed allusioni. È questo ciclo mai concluso che consuma le vite ed esaspera gli ideali più saldi. Servirà rialzarti anche stavolta? e andare incontro al nuovo giorno? senza lasciarti sopraffare dalla disillusione? Esistere, resistere: un altro grido diffuso.
L’annuncio pasquale, forse, ha qualcosa da dirci. Qualcosa che superi le iniezioni analgesiche ed i rinvii alienanti. Perché se non possiamo amare questa, di vita, se già ci pesa, che importerebbe averne un’altra? È questa vita che reclama minuto per minuto di essere colmata, placata, guarita. Che reclama una fine, sì, perché così non può andare avanti, ma una conclusione diversa dalle fini insoddisfacenti che già conosciamo.
Pasqua nei conflitti, dunque. Giuseppe Ungaretti, soldato già durante il primo scontro mondiale, visse tutta la tragedia degli anni 1943-44 con la sua personale sensibilità. Ne nacque la breve raccolta «Roma occupata», tra cui spicca il componimento tripartito «Mio fiume anche tu», intenso anche se di non facile lettura.

1.
Mio fiume anche tu, Tevere fatale,
Ora che notte già turbata scorre;
Ora che persistente
E come a stento erotto dalla pietra
Un gemito d’agnelli si propaga
Smarrito per le strade esterrefatte;
Che di male l’attesa senza requie,
Il peggiore dei mali,
Che l’attesa di male imprevedibile
Intralcia animo e passi;
Che singhiozzi infiniti, a lungo rantoli
Agghiacciano le case tane incerte;
Ora che scorre notte già straziata,
Che ogni attimo spariscono di schianto
O temono l’offesa tanti segni
Giunti, quasi divine forme, a splendere
Per ascensione di millenni umani;
Ora che già sconvolta scorre notte,
E quanto un uomo può patire imparo;
Ora ora, mentre schiavo
Il mondo d’abissale pena soffoca;
Ora che insopportabile il tormento
Si sfrena tra i fratelli in ira a morte;
Ora che osano dire
Le mie blasfeme labbra:
“Cristo, pensoso palpito,
Perché la Tua bontà
S’è tanto allontanata?”

Nel 1916 Ungaretti aveva scritto un’altra poesia, «I fiumi», nella quale comprendeva se stesso attraverso i fiumi incontrati nel suo pellegrinaggio: dall’Egitto, alla Francia, all’Italia. Con il Tevere «fatale» di Roma in guerra Ungaretti aggiunge un nuovo tassello della sua identità matura. Il Tevere diventa simbolo del dolore che avanza nella «notte» e colpisce gli innocenti, simboleggiati nel «gemito d’agnelli [...] singhiozzi infiniti, a lungo rantoli». Ciò che reca più sofferenza del male stesso è «di male l’attesa senza requie [...] l’attesa di male imprevedibile». L’angoscia rende il gemito «smarrito», rende insicuro ogni rifugio e trasforma le case in «tane incerte».
Nel riconoscere questa situazione come “suo fiume”, Ungaretti ammette che il dolore è parte inseparabile della sua persona. Ma a cosa porta tutto questo? Solo a imparare «quanto un uomo può patire», coscienza di solitudine che porta alla ribellione: «Perché la Tua bontà/ s’è tanto allontanata?». Non basta riappropriarsi psicologicamente del dolore per dargli un senso. Non basta prendere atto dell’evidenza che ci fa impotenti. Non basta, se il dolore continua a generare solo altro dolore.
2.
Ora che pecorelle cogli agnelli
Si sbandano stupite e, per le strade
Che già furono urbane, si desolano;
Ora che prova un popolo
Dopo gli strappi dell’emigrazione,
La stolta iniquità
Delle deportazioni;
Ora che nelle fosse
Con fantasia ritorta
E mani spudorate
Dalle fattezze umane l’uomo lacera
L’immagine divina
E pietà in grido si contrae di pietra;
Ora che l’innocenza
Reclama almeno un eco,
E geme anche nel cuore più indurito;
Ora che sono vani gli altri gridi;
Vedo ora chiaro nella notte triste.

Vedo ora nella notte triste, imparo,
So che l’inferno s’apre sulla terra
Su misura di quanto
L’uomo si sottrae, folle,
Alla purezza della Tua passione.

Solo ora, dopo quarantasei versi senza un punto fermo, possiamo prendere fiato approdando al verso principale: «Vedo ora chiaro nella notte triste». Cosa vede il poeta nella notte della sofferenza? Comprende che eventi infernali come le deportazioni e le fosse comuni avvengono quando l’uomo si sottrae «alla purezza della Tua passione». Il dolore insegna ad Ungaretti che esistono due modi di vivere la sofferenza. E riconosce il male quando l’uomo soffre da solo, separando il suo dolore da quello di Dio. Dio soffre? una passione, una sofferenza pura? Cosa mai avrà di diverso dal nostro il dolore di Cristo, uomo anche lui?

3.
Fa piaga nel Tuo cuore
La somma del dolore
Che va spargendo sulla terra l’uomo;
Il Tuo cuore è la sede appassionata
Dell’amore non vano.

Cristo, pensoso palpito,
Astro incarnato nell’umane tenebre,
Fratello che t’immoli
Perennemente per riedificare
Umanamente l’uomo,
Santo, Santo che soffri,
Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli,
Santo, Santo che soffri
Per liberare dalla morte i morti
E sorreggere noi infelici vivi,
D’un pianto solo mio non piango più,
Ecco, Ti chiamo, Santo,
Santo, Santo che soffri.

Una strofa non consolatoria, ma pienamente pasquale. Mostra un altro modo di vivere la sofferenza. Quale? È l’invocazione a Colui che raccoglie ogni dolore non per affliggerci coi ricatti della colpa, ma per condurci nella «sede appassionata/ dell’amore non vano». Guardando questo cuore ognuno di noi può ritrovare ciò che è, ma che la sofferenza gli ha fatto dimenticare. Possiamo trovarci in circostanze che stravolgono tutte le nostre certezze, ma nell’«amore non vano» di Cristo è fissato il senso della nostra esistenza. Tu sei fatto per amare. Nonostante tutto. Se anche «mani spudorate/ dalle fattezze umane lacera l’uomo/ l’immagine divina», Gesù offre se stesso «perennemente per riedificare/ umanamente l’uomo».
«Ecco, Ti chiamo, Santo». Chiamare è parola che salva. L’invocazione apre il guscio del dolore perché vuole guardare oltre la propria situazione presente, dirige lo sguardo altrove, solleva gli occhi incatenati a sé stessi. Ma nel chiamare sincero mi riconosco preceduto da uno che soffriva per me, e con me, prima ancora che io lo chiamassi. Sento che Qualcuno mi sta gratuitamente accanto e capisce ciò che provo, perché ci è già passato. Che ci è passato perché io, oggi, non ci dovessi passare da solo.
Così avviene Pasqua, il Passaggio dentro il conflitto, perché «d’un pianto solo mio non piago più». Non cessa il pianto, ma cessa l’angoscia del male imprevedibile. Cessa la paura di soffrire da soli. Cessa il dubbio che amare sia un vano sprecarsi. Allora può cessare anche il pianto e rinascere la fiducia, come nelle parole del salmista che porta l’inquietudine  al cospetto di Dio[1]. Anche il re Davide, come Ungaretti, era soldato e poeta: «Davanti a te sfogo la mia angoscia!» (Salmo 142). Il dolore viene redento. Assume un senso, pure non esplicito, nell’uscita dalla solitudine.
«O mia parola, salvami!». “Mia” parola, sì, che io dico, ma in cui scopro d’essere aspettato. Cercavo, ma riconosco che quanto cerco mi era già offerto. Precedeva la mia attesa, e devo solo aprirmi mani e cuore per accoglierlo. Assisto al compimento dell’invocazione: sapersi amati ed accolti, assolutamente, già qui, oggi. «Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla [...] Se dovessi camminare per valle oscura non ho nulla da temere, perché tu sei con me» (Salmo 23). Dove, meglio della Pasqua, udiamo questa buona notizia? Attendevo ed ero, invece, atteso. Qualcun altro pazientava, spazientiva con l’orecchio teso verso noi.

Paolo Pegoraro

LA PORTA CHIUSA CI DANNEGGIA, GESÙ È LA PORTA CHE CI APRE LA STRADA VERSO DIO (commento alla lettera del Card. Bergoglio alla diocesi di Buenos Aires per l’anno della fede)

http://www.zenit.org/it/articles/la-porta-chiusa-ci-danneggia-gesu-e-la-porta-che-ci-apre-la-strada-verso-dio

LA PORTA CHIUSA CI DANNEGGIA, GESÙ È LA PORTA CHE CI APRE LA STRADA VERSO DIO

La Lev pubblica « Varcare la soglia della fede », la lettera del cardinale Bergoglio all’arcidiocesi di Buenos Aires per l’Anno della Fede

Citta’ del Vaticano, 04 Aprile 2013 (Zenit.org)

“Trovare chiuse le porte” è una “tra le esperienze più negative degli ultimi decenni”, mentre le “porte che restano aperte” sono “simbolo di luce, amicizia, gioia, libertà, fiducia”. Ha inizio con questa contrapposizione la letterache il cardinale Jorge Mario Bergogliorivolgeva all’arcidiocesi di Buenos Aires per l’Anno della Fede, da oggi disponibile nelle librerie per i tipi della Libreria Editrice Vaticana. La lettera, datata 1° ottobre 2012 e intitolata “Varcare la soglia della fede” (40 pagine, 5 euro), è preceduta da un’ampia presentazione dell’arcivescovo Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione.
“La crescente insicurezza ha portato a poco a poco a sbarrare le porte – osservava il cardinale Bergoglio in un passaggio –, a collocare sistemi di vigilanza, telecamere di sicurezza, a diffidare degli estranei che bussano alla nostra porta”. E proseguiva: “La sicurezza di alcune porte blindate custodisce l’insicurezza di una vita che diventa più fragile e meno sensibile alle ricchezze della vita e dell’amore degli altri”.
“La porta chiusa ci danneggia, ci atrofizza, ci separa”, notava il cardinale prima di riferirsi al documento (Lettera apostolica in forma di motu proprio Porta fidei) con il quale Benedetto XVI invitava “a varcare la soglia, a fare un passo per prendere una decisione intima e libera: spingerci a entrare in una nuova vita”. Superata questa porta, si intraprende “un cammino che dura tutta la vita”, durante il quale si passa “dinanzi a tante porte”, molte delle quali ci rivolgono un invito “allettante ma menzognero a inoltrarvisi”, promettendo “una felicità vuota, narcisistica e con scadenza stabilita”, o conducendo a “crocevia” dove si troveranno “angoscia e disorientamento”.
“Gesù è la porta – ricorda però il cardinale –. Lui, e solo Lui, è e sarà sempre la porta”, che “ci apre la strada verso Dio e come Buon Pastore è l’Unico che si prende cura di noi a costo della sua vita”. Segue una intensa riflessione, a partire dalla domanda “In che consiste la sfida del varcare la soglia della fede?”. Tra le varie risposte appare l’invito a non cadere nel “disfattismo paralizzante”, ma a “pensare il nuovo, apportare il nuovo, creare il nuovo, impastando la vita con il nuovo lievito della giustizia e della santità”, l’esortazione ad “avvicinarsi a chiunque viva alla periferia della vita e chiamarlo col proprio nome”, e quella ad essere “Chiesa dalle porte aperte non solo per accogliere, ma fondamentalmente per uscire fuori e riempire con il Vangelo le strade e la vita degli uomini del nostro tempo”.
“Varcare la soglia della fede è l’espressione che ricorre più volte come incoraggiamento a saper guardare oltre le difficoltà del momento, per abbandonarsi in maniera fiduciosa alla grazia di Dio” rileva monsignor Rino Fisichella nella sua presentazione alla lettera pastorale del cardinale Bergoglio. L’arcivescovo richiama l’importante valenza metaforica rivestita dalla porta e il ricorrere di questa immagine nelle Scritture, asserendo poi che “uno dei dati più inquietanti del momento attuale è proprio la chiusura dell’uomo in se stesso. Chiusura che giunge perfino all’indifferenza e al rifiuto nei confronti di Dio”. Occorre però “un serio esame di coscienza” per verificare “se noi per primi siamo stati capaci di tenere viva la domanda su Dio e se abbiamo utilizzato il linguaggio adatto per permettere di coglierne l’urgenza nella nostra vita”, in quanto “una porta aperta sarà così capace di rendere disponibili altre porte ad aprirsi alla conversione”. L’Anno della fede può costituire allora “una bella opportunità per trasformare l’esistenza e permettere un nuovo incontro con il Signore Risorto”. È una questione di scelte, nelle quali “si pone la grande sfida dei nostri giorni: lasciarsi amare. Ciò significa di non impedire a Dio di amarci. Rinunciare a rinchiudersi in se stessi per lasciare spazio all’ascolto dell’altro. Solo così l’uomo ritrova se stesso”, conclude Fisichella.

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