Archive pour le 28 mars, 2013

Venerdi Santo – Deposizione

Venerdi Santo - Deposizione dans immagini sacre 6094

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SOFIA CAVALLETTI. BANCHETTO PASQUALE E ULTIMA CENA – PASQUA E ULTIMA CENA

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SOFIA CAVALLETTI. BANCHETTO PASQUALE E ULTIMA CENA

SOFIA CAVALLETTI, EBRAISMO E SPIRITUALITÀ CRISTIANA

PASQUA E ULTIMA CENA

Le discussioni intorno al carattere dell’Ultima Cena si sono accese fin dai tempi più antichi, e già presso i Padri si trovano dissensi al riguardo; mentre Girolamo e Ambrogio pensano a una coincidenza tra Ultima Cena e pasqua ebraica, Ireneo ritiene che Gesù sia morto nel giorno della pasqua, e quindi l’Ultima Cena sarebbe avvenuta durante la vigilia della festa.
La cosa non risulta chiara già nei Vangeli: secondo i sinottici sembra che Gesù abbia celebrato il banchetto il primo giorno degli azzimi; invece, secondo Giovanni, sembra che la crocefissione sia avvenuta nel primo giorno degli azzimi cioè nello stesso giorno e, più o meno, nella stessa ora in cui nel Tempio si immolavano gli agnelli, che sarebbero stati consumati durante la cena pasquale.
La questione si complica ancor più se si tiene presente quello che è stato messo recentemente in evidenza, e cioè che, al tempo di Gesù, gli ebrei avevano due calendari, uno ufficiale e un altro che conosciamo dai testi di Qumran, e che poteva essere usato anche al di fuori della stretta cerchia di quella comunità. Le discussioni al riguardo sono ben lungi dall’essere esaurite, anche se si può dire che la tendenza generale è quella di vedere nell’Ultima Cena un vero e proprio banchetto pasquale.
La sobrietà dei racconti evangelici al riguardo può essere considerata una riprova di questa asserzione; essi infatti ci dicono soltanto quello che di nuovo avvenne in quella occasione, sorvolando su tutti gli altri particolari, perché, trattandosi di un vero e proprio banchetto rituale, che si celebrava ogni anno, hanno ritenuto superfluo descriverlo in dettaglio.
Comunque si siano svolte realmente le cose, è certo che l’Ultima Cena si svolge su uno sfondo pasquale. Siamo nel mese di nisan (marzo-aprile), il mese in cui – secondo la tradizione ebraica più corrente – il mondo è stato creato, il mese cioè della primavera astronomica e della primavera del mondo. Ma il pensiero ebraico, l’abbiamo già detto, non si volge mai al passato in un atteggiamento nostalgico; se lo fa, è per animare la speranza che spinge a guardare al futuro. Nel mese di nisan infatti, quando la natura si rinnova, il Messia verrà, portando agli uomini e alle cose quel rinnovamento di cui hanno parlato i profeti. I monti si abbasseranno e le valli si innalzeranno per appianare e facilitare la strada al Messia; i cieli e la terra si rinnoveranno, e gli uomini stessi saranno trasformati: non ci sarà più violenza, la pace regnerà fra gli uomini egli animali; i ciechi potranno leggere le parole dei libri egli zoppi salteranno come cervi. Si ritornerà a quello stato paradisiaco che ha preceduto il peccato, e il ristabilimento dell’ordine morale nell’uomo si rifletterà sulla natura, che entrerà in una nuova fase, simile a una nuova ed eterna primavera. Sarà una creazione nuova, che si contrapporrà a quella primigenia e la completerà. li fatto che – secondo la tradizione – i due avvenimenti coincidano anche nella stagione dell’anno rende la relazione fra di essi più evidente.
Il rinnovamento primaverile della natura e l’atteggiamento pasquale degli animi, atteggiamento fatto di attesa e di speranza, fanno da sfondo all’atto centrale della vita di Gesù, quell’atto con cui egli rilancia il mondo in una nuova creazIone.
Gli elementi di quella natura, che il primo Adamo aveva contaminato con il suo peccato, tanto da attirare su di essa la maledizione di Dio, diventano ora strumenti di quella creazione nuova, che si opera nella persona del nuovo Adamo e che darà vita a una umanità nuova. Pane e vino diventano da allora i mezzi con cui gli uomini potranno, in terra, sotto il velo dei segni, anticipare e realizzare nel tempo l’unione con Dio. Gli elementi della natura, affrancati dalla maledizione, sono messi a servizio della nuova opera creativa. È la vera primavera del creato, una primavera in cui la natura si risveglia non solo dal letargo invernale, ma da quello stato di morte in cui il peccato l’aveva gettata, e ritorna a nuova vita, trasformata al punto da divenire strumento di redenzione. La vera primavera non è quella che gonfia di linfa i germogli sugli alberi, ma quella che rende il pane e il vino capaci di dare la vita eterna.
Come nella tradizione ebraica, anche per i cristiani la nuova primavera corrisponde a quella primigenia, perché nello stesso giorno in cui il mondo fu creato, Cristo fu concepito e soffrì la passione (1). Come l’antico Adamo, padre dell’umanità peccatrice, domina il campo della creazione primigenia, così Cristo sta al centro della creazione rinnovata.
Si è parlato anche di una relazione tra l’elemento che Gesù consacra a salvezza del genere umano e l’albero che fu occasione dd peccato di Adamo: Origene stesso dice che l’albero della conoscenza del bene e del male era la vite, altri pensano al grano, e si spiega che questo avvenne per- che il debito si sciogliesse con lo stesso mezzo con cui era stato contratto. Anche la più antica tradizione ebraica vede un rapporto tra il pane e il vino – i due più importanti elementi della liturgia pasquale – e l’albero della conoscenza del bene e del male: quella pianta era la vite, dice R. Meir; era il grano dice R. Jehudah (2). Il peccato di Adamo fu un peccato di ubriachezza, affermano altri (3). Ma quello che era stato per l’umanità pietra d’inciampo sarebbe diventato nel futuro causa di gioia (4), perché, nel quadro del rinnovamento primaverile escatologico, anche il vino si sarebbe rinnovato, sarebbe diventato « mosto » cioè « vino nuovo » (5). Fra il vino bevuto da Adamo alle origini del mondo, a rovina del genere umano, e quello che si attende « rinnovato » a compenso della rovina passata, si pone il vino pasquale, che ogni ebreo consuma durante il rito domestico insieme con il pane azzimo.
All’ultima Cena il vino è così « rinnovato » che diventa velo della presenza salvifica di Cristo.
Il banchetto pasquale ebraico
La sobrietà dei racconti evangelici riguardo all’Ultima Cena delude un poco il lettore moderno che, così lontano dal tempo in cui Gesù ha vissuto la sua vita terrena, desidererebbe tuttavia poterne ricostruire l’ambiente e la storia nel modo più preciso possibile. Davanti al silenzio degli evangelisti ci volgeremo quindi a interrogare quei testi che, facendoci conoscere la vita religiosa degli ebrei intorno sorgere dell’era cristiana, illuminano per riflesso la stessa figura di Gesù. Testi contemporanei di Gesù non ne abbi; mo, ma il carpus di regole religiose e civili, che si chian Mishnah – in particolare il trattato sulla pasqua (Pesahim) – le aggiunte ad esso (Tasefta), e un testo interpretativo (Sifrè) (6), nei quali troviamo lo schema del banchetto pl squale o alcuni elementi di esso, redatti entro i primi due secoli dell’era cristiana, ci danno sufficiente garanzia di rispecchiare gli usi pasquali, che Gesù stesso e i suoi aposto avranno seguito. È ad essi dunque che dovremo rivolgerci se vogliamo inquadrare nel loro contesto vitale le notizie date dagli evangelisti.
Secondo questi testi, il banchetto pasquale ( che gli ebrei chiamano seder, cioè ordo ), si svolgeva all’inizio dell’era cristiana sostanzialmente come adesso, ad eccezione di alcune aggiunte, prive di importanza, fatte nel corso de secoli. Eccone in breve la descrizione: dopo la benedizionI del giorno, recitata sulla prima coppa di vino, si portano davanti al capo del banchetto tutti i cibi particolari richiesti dall’occasione, fra cui naturalmente il pane non lievitato (masah). Secondo un uso che troviamo documentato in epoca tarda, si presentavano al capo della mensa tre azzime; egli ne spezzava una, coprendone una parte con un tovagliolo, e lasciando l’altra parte con le azzime intere. Sulle azzime si recitava la formula consueta per la benedizione del pane: « Benedetto Tu, Signore Iddio nostro, che fai uscire il pane dalla terra » nota, già in periodo molto antico (7); ma l’azzima spezzata sembra avere importanza particolare, perché su di essa si pronuncia subito dopo un’altra benedizione: « Benedetto Tu, Signore, Dio nostro, che ci hai santificato con i Tuoi precetti e ci hai comandato di mangiare l’azzima »; dopo di questo il capo della mensa mangia l’azzima e ne dà a tutti i commensali (8). Quella parte di azzima che era stata riposta sotto il tovagliolo, veniva ripresa solo dopo il pasto e si consumava senza altre benedizioni particolari, introducendo con tale atto la benedizione finale sul cibo. Questi particolari ci sono noti solo da un testo relativamente tardo; ma, data la scarsità di documenti liturgici precedenti, non possiamo escludere che essi non rispecchino una prassi assai più antica.
Dopo tutto ciò, il figlio più giovane deve interrogare il padre riguardo al carattere particolare della notte di pasqua, durante la quale – a differenza delle altre sere – si mangia solo pane azzimo, erbe amare ad esclusione di altre erbe, carne arrostita e non anche bollita. La domanda del ragazzo serve per dare lo spunto al padre di famiglia per spiegare il significato della festività, ed egli deve farlo – prescrive la Mishnah – « cominciando dalla disgrazia e concludendo con l’esaltazione »; egli deve spiegare cioè o il brano del Deuteronomio (26, 5ss.) (9): « Un arameo errante era nostro padre… scese in Egitto divenne lì un popolo grande, forte e numeroso. Ci angariarono gli Egiziani… E ci fece uscire il Signore dall’Egitto con mano forte e braccio teso »… oppure di Giosuè (24, 2ss.) (10). « Di là dal Fiume (Eufrate) abitavano i vostri padri… E io presi vostro padre Abramo di là dal Fiume e lo feci andare nella terra di Canaan… E mandai Mosè ed Aronne… e vi feci uscire dall’Egitto… e vi detti una terra sulla quale non vi eravate affaticati, case che non avevate costruito e vi abitaste; e voi mangiaste i frutti di vigne e di oliveti che non avevate piantato ».
Sono le due più antiche redazioni della storia della salvezza d’Israele (11), che prendono in considerazione i due punti principali di essa: la vocazione dei padri, tratti dal Signore da una terra idolatra, perché prendessero possesso della terra promessa al popolo di Dio; la liberazione dalla schiavitù egiziana, momento in cui Israele diventa veramente il libero popolo di Dio. Già Esodo (13, 14) prevedeva che i figli interrogassero i padri sulla ragione di determinate regole cultuali, ma lì la risposta, determinata dall’obbligo del riscatto dei primogeniti, è limitata al secondo punto della storia della salvezza, la liberazione dall’Egitto, perché fu in quell’occasione che i primogeniti degli ebrei furono prodigiosamente risparmiati dal flagello, che portò alla morte i primogeniti egiziani.
Rievocata cosi brevemente la storia d’Israele, il capo del banchetto avrà modo di spiegare il perché dell’uso di mangiare l’agnello arrostito, il pane azzimo e le erbe amare, collegandosi a quegli antichi avvenimenti: il rito pasquale, di cui quei cibi speciali fanno parte, è il modo con cui ogni ebreo rivive e attualizza la storia passata.
L’agnello pasquale (pesah) ricorda come il Signore abbia « saltato » ( in ebraico pesah) le case degli ebrei al momento della morte dei;primogeniti d’Egitto; il pane azzimo è in relazione al fatto che, all’atto dell’uscita dall’Egitto, non si ebbe tempo di far fermentare il pane; e le erbe amare ricordano le amarezze sofferte durante la schiavitù. Ma quella storia passata non è mai del tutto passata, perché si riattualizza in ogni ebreo che compie il rito di pasqua, in ogni ebreo che – secondo quanto dice la Mishnah – deve « considerare se stesso come uscito dall’Egitto ». La liberazione operata dal Signore al tempo di Mosè è liberazione di ogni singolo israelita, e il rito è il modo di prenderne coscienza e di partecipare ad esso.
Perciò ogni ebreo « ha il dovere di ringraziare, di lodare, di pregare, di glorificare, di esaltare, di magnificare, di benedire e sublimare Colui che ha fatto per i nostri padri e per noi tutti questi prodigi: ci ha fatto uscire dalla schiavitù verso la libertà, dall’angoscia alla gioia, dal lutto alla festa, dalle tenebre alla luce splendente, dalla soggezione alla redenzione. Diciamo dunque al Suo cospetto: Allelujah ». Con queste parole si inizia la recita della prima parte dei salmi di lode (chiamati in ebraico hallel) cioè i Salmi 113 e 114, che devono concludersi con la menzione della « redenzione », menzione a cui già Rabbi Aqiba dava un evidente carattere messianico, con le seguenti parole:
« Così, Signore Dio nostro e Dio dei nostri padri, facci arrivare in pace alle altre feste e solennità che verranno davanti a noi; rallegraci con la ricostruzione della Tua Città e facci lieti con il Tuo servizio; fa che possiamo mangiare lì i sacrifici e le offerte pasquali… Benedetto Tu che redimi Israele » (12).
La storia passata, rievocata dalle parole del capo del banchetto, si continua in ogni ebreo, che nel tempo presente partecipa al rito, ma si proietta nello stesso tempo verso il tempo avvenire, quando, secondo la parola dei profeti, Gerusalemme sarà ricostruita e in essa si celebrerà un culto che non avrà più fine.
Si benedice a questo momento una seconda coppa di vino e si inizia il pasto, che è un vero e proprio pasto rituale, preceduto e seguito com’è da letture e da preghiere; è il rito che dà modo all’ebreo di partecipare in ogni tempo alla liberazione operata dal Signore a vantaggio del Suo popolo. Segue la « benedizione sul cibo », cioè il ringraziamento su quanto si è mangiato, accompagnata dalla benedizione su una terza coppa di vino, da una benedizione per la terra e da una che comincia con le parole » Colui che riedifica Gerusalemme » (13); ogni pasto infatti è un partecipare ai beni di Dio, e come tale è un atto di culto; ma il culto per l’ebreo è collegato al Tempio e quindi alla sua ricostruzione nella città santa di Gerusalemme.
Il ringraziamento si completa con la benedizione di una altra coppa di vino, la quarta; è la più solenne, è quella di cui gli ebrei dicevano che solo David sarebbe stato degno di benedirla, attribuendole quindi chiaramente un carattere messianico. Essa viene accompagnata dalla recita degli altri salmi di lode, cioè dal 115 (« Non a noi, Signore, non a noi, ma al Tuo Nome dà gloria « ) fino al 118, il salmo cioè che al verso 13 contiene le parole, che ancora oggi il sacerdote ripete durante la Messa: « Che cosa renderò al Signore, per tutti i benefici che Egli mi ha fatto? Innalzerò il calice della salvezza e invocherò il Nome del Signore ».
Segue ancora una preghiera, riguardo alla quale la Mishnah non ci fornisce che il nome: « La benedizione del canto », ma già R. Johanan (III sec.) (14) sapeva trattarsi della preghiera che conchiude, si può dire in ogni rito, i salmi di lode e quindi anche il banchetto pasquale :
« L’anima di ogni vivente benedica il Tuo Nome, signore, Iddio nostro, e lo spirito di ogni creatura magnifichi ed esalti la Tua memoria, o nostro Re, sempre. Dall’eternità e in eterno tu sei Dio, e all’infuori di Te non abbiamo re, né redentore, né salvatore, né liberatore, che ci salvi, ci nutra, e abbia pietà di noi in ogni momento d’angustia e bisogno. Non abbiamo re all’infuori di Te, Dio dei tempi primordiali e dei tempi ultimi. Dio di ogni creatura, Signore di tutte le generazioni, lodato con molte lodi, che conduce il Suo mondo con grazia e le Sue creature con misericordia. Il Signore non sonnecchia, né dorme; Egli sveglia i dormienti, desta i torpidi; fa parlare i sordi, libera i prigionieri, sostiene i cadenti, rialza i curvi.
« Te, Te solo noi ringraziamo. Se le nostre bocche fossero piene di canto come il mare, e le nostre lingue di cantici come la moltitudine delle sue onde, e le nostre labbra di lode come le distese del firmamento; se i nostri occhi fossero lucenti come il sole e la luna e le nostre mani aperte come le ali delle aquile del cielo, e i nostri piedi veloci come quelli delle gazzelle – non saremmo sufficienti a lodarti, Signore nostro Dio, e Dio dei nostri padri, e a benedire il Tuo Nome per una sola delle miriadi e infinite volte che ci hai beneficati, noi e i nostri padri. Tu ci hai redento dall’Egitto, Signore Iddio nostro, dalla casa di schiavitù ci hai liberato; nella fame ci hai nutrito, nell’abbondanza ci hai sostenuto; ci hai salvato dalla spada, ci hai scampato dai flagelli e da gravi malattie; hai dato sollievo a noi fiduciosi. Fino ad ora ci ha aiutato la Tua misericordia, ne ci ha abbandonato la Tua grazia. Non ci respingerai, Signore Dio nostro, in eterno! Perciò ogni membro che ci hai dato, lo spirito e l’anima che hai spirato nelle nostre narici, e la lingua che hai posto nella nostra bocca, ecco: esse confesseranno e benediranno e loderanno e magnificheranno ed esalteranno e celebreranno il Tuo Nome, e proclameranno la Tua santità e la Tua regalità, o nostro re. Infatti ogni bocca Ti confesserà; ogni lingua giurerà a Te, e ogni ginocchio si piegherà davanti a Te; ogni altezza si prostrerà al Tuo cospetto, e ogni cuore Ti temerà. L ‘interno di ogni uomo canterà lodi al Tuo Nome, come sta scritto: ‘Ogni osso dirà: Signore, chi come Te?’. Tu salvi il povero da chi è più forte di lui e il povero e il misero da chi lo depreda. Chi Ti assomiglia o chi Ti pareggia, e chi può essere messo a confronto con Te, Dio grande e forte, venerando, Dio eccelso, che hai creato il cielo e la terra? »
« Noi Ti lodiamo, Ti celebriamo, Ti magnifichiamo, benediciamo il Tuo Nome Santo, come è detto da David: ‘Benedici, anima mia il Signore, e tutto quello che è dentro di me benedica il Nome Suo santo’ ».
Era diffusa nel Medio Evo la leggenda che questa preghiera fosse dovuta a San Pietro; si tratta naturalmente di un fatto non controllabile, ma che comunque ci permette di immaginare che forse Pietro – l’unico a cui il Padre aveva rivelato la vera natura del Messia (Mt. 16, 16ss.) – sia stato quello che in occasione dell’Ultima Cena abbia afferrato più degli altri il significato di quanto era avvenuto, così che non trovando sufficienti le parole dei salmi, per esprimere la sua gratitudine, avrebbe formulato una sua preghiera, nella quale il riconoscimento dell’incapacità dell’uomo di lodare sufficientemente il Signore fosse la migliore espressione della sua riconoscenza.
Un altro testo (Tosephta) specifica invece che a questo momento si deve dire un versetto di un salmo di lode: « Benedetto Colui che viene nel Nome del Signore », anticipando nell’invocazione e nel desiderio la venuta del Messia e la sua salvezza; tutto poi si conclude con la lode a Dio che redime il Suo popolo.
L’Ultima Cena
Sono stati fatti vari tentativi per riuscire a individuare a quale punto del rito domestico pasquale ebraico Gesù abbia inserito le sue parole, quelle parole che nessuno al mondo aveva mai udito: « Prendete e mangiate, questo è il mio Corpo » e: « Prendete e bevete, questo è il mio Sangue », quelle parole che all’invocazione della redenzione messianica venivano a rispondere: oggi essa si compie.
Dalle scarne notizie del Vangelo sappiamo che « durante il pasto » Gesù lava i piedi degli apostoli (Gv. 13, 1), consacra il pane a distanza di tempo dal vino, che viene consacrato dopo il pasto (Lc. 22, 20), e che prima di uscire dal Cenacolo recita dei cantici (Mc. 14, 26; Mt. 26, 30). Ci piacerebbe di poter piazzare questi momenti al loro posto nel rituale ebraico, per poter ricostruire più al vivo quel banchetto pasquale unico nella storia del mondo. Ognuna di quelle azioni di Gesù, che gli evangelisti menzionano, trovano riscontro in altrettante azioni abituali del banchetto, azioni alle quali viene, nell’Ultima Cena, conferito un aspetto nuovo. Ci sembra di poter individuare il momento della lavanda dei piedi in quello in cui viene porto al capo della messa un catino perché, all’inizio del pasto, si lavi le mani prima di recitare la benedizione sul pane; Gesù fa un uso particolare di quel catino, ma la sua novità si innesta su un’azione abituale.
Così pure ci domandiamo se le parole della consacrazione del pane – quelle parole che rompono i confini di qualsiasi rituale tradizionale -non siano state dette di seguito alla formula che abbiamo riportato sopra e che ogni ebreo ancor oggi recita, spezzando il pane: « Benedetto Tu, Signore Dio nostro, che fai uscire il pane della terra »; parole che, nel contesto dell’Ultima Cena, quando  » la morte incombeva – e gli apostoli, anche se ignari, dovevano sentirla passare sopra di loro – sembrano quasi assumere il tono e il valore di profezia di risurrezione : l’identità fra quel pane e il Corpo di Cristo era esplicita nelle parole di Gesù (e il fatto sarà poi messo in particolare evidenza da Paolo ), così che si poteva intuire che come il Signore fa uscire dalla terra il pane, così ne avrebbe tratto fuori quel Corpo che solo temporaneamente sarebbe sceso nel suo seno. Anche nell’ebraismo, del resto, la speculazione mistica dirà che il pane e il vino sono Israele e il Messia stesso (15).
Se vogliamo cercare di scendere nei particolari, ci domandiamo se non sia possibile individuare nell’azzima spezzata, che viene benedetta due volte e che quindi riveste già per se stessa un particolare carattere sacro, l’azzima che Gesù ha consacrato, dandola a mangiare ai suoi apostoli. Ci induce a questa supposizione anche il fatto che essa veniva mangiata con l’agnello, anzi col passare del tempo diventerà per gli ebrei il ricordo dell’agnello (16), tanto che le si applicheranno tutte le prescrizioni previste per esso (17). Sarebbe quindi su di essa che l’Agnello di Dio, venuto a perfezionare il sacrificio pasquale ebraico, avrebbe pronunciato le parole consacratorie.
Si tratta sempre solo di congetture, ma dato che Luca dice espressamente che il vino viene consacrato dopo il pasto, ci sembra poter individuare la coppa che Gesù consacra in quella coppa che ogni ebreo benediceva, e benedice tuttora, con particolare solennità, a chiusura del pasto rituale (18). Abbiamo detto che ad essa si attribuiva un particolare carattere messianico, e che si aspettava che David – cioè il prototipo del Messia – venisse lui stesso a benedirla.. I salmi di lode che ne accompagnano la benedizione sembrano particolarmente adatti al momento che i commensali dell’Ultima Cena stanno vivendo, anzi sembra che alcuni di essi non si spieghino che in quel contesto:
…« Mi avvolsero lacci di morte,le angustie degli inferi mi raggiunsero,angustie e preoccupazioni incontrai.Allora invocai il Nome del Signore:’Orsù, Signore, salva l’anima mia’.Ritorna, anima mia, alla tua quiete,perché il Signore ti ha beneficato;infatti Tu hai salvato la mia anima dalla morte,il mio occhio dal pianto, il mio piede da caduta.Camminerò davanti al Signorenella terra dei viventi.Ho detto nella mia trepidazione:’Ogni uomo è mendace’.Che cosa renderò al Signore per tutti i Suoi sacrifici?Prenderò il calice della salvezzae invocherò il Nome del Signore.Preziosa è al cospetto del Signorela morte dei Suoi fedeli »… (Sal. 116, 3ss).
Le angustie della morte si alternano in questo salmo con la sicurezza dell’aiuto del Signore, con una fede che possiamo definire fede nella risurrezione. Forse solo Gesù sapeva tutto il significato di quelle parole, che gli apostoli avranno ascoltato attoniti; in quell’atmosfera di tragedia incombente, forse ancora turbati dall’annuncio del tradimento, saranno essi stati capaci di sentire la speranza e la promessa che esse contenevano?
Con la recita dei «cantici », di cui parlano gli evangelisti e nei quali dobbiamo ravvisare i salmi di lode, che chiudono il banchetto pasquale, l’Ultima Cena ha termine; si conclude cioè quel rito, antico e nuovo nello stesso tempo, quel rito che permette a ogni fedele di partecipare alla nuova e definitiva liberazione, operata dal Signore a vantaggio del Suo popolo. Se l’azzima benedetta e il vino benedetto erano per l’ebreo il modo di riattualizzare in se stesso la redenzione di Israele, anticipando nell’invocazione e nel desiderio il completamento di quella redenzione che il Messia avrebbe portato, le parole nuove, pronunciate da Gesù durante la cena pasquale, il fatto nuovo da Lui operato, rendono presente quel completamento. Quella sera gli apostoli hanno potuto rivolgere a una persona chiaramente individuata quell’invocazione, nella quale ogni ebreo esprimeva il massimo dei suoi desideri:  » Benedetto Colui che viene nel Nome del Signore!  » .
Ancora una volta Gesù inserisce il fatto nuovo che egli compie nel quadro della liturgia giudaica. Come a Nazareth aveva voluto che il culto sinagogale costituisse lo sfondo, su cui annunciare che la salvezza preannunciata dai profeti era presente nella sua persona, così anche il momento essenziale della sua vita terrena, quel momento in cui egli celebra il suo Sacrificio sotto il velo dei segni, lo vuole inserito nella cornice del culto ebraico, culto che egli vive, assomma in se e perfeziona.
Quella storia della salvezza che il capo della mensa riassumeva brevemente per i suoi commensali, menzionandone l’inizio e il momento determinante dell’esodo, quella storia di cui la predicazione dei profeti faceva intravedere una conclusione al tempo messianico, aveva raggiunto l’epilogo che Israele aveva per secoli invocato. La religione ebraica è essenzialmente messianica, cioè volta all’avvenire, tesa dinamicamente verso il futuro; la storia passata non viene evocata che per rivolgersi verso le cose che avverranno; la storia passata non si riattualizza nel rito che per portarla avanti, verso il momento della sua maturazione. Quella sera, nella « stanza superiore » di una casa di Gerusalemme, quel momento era arrivato; un nuovo periodo della storia della salvezza si era iniziato, punto di maturazione e nello stesso tempo punto di partenza, volto all’attesa del completamento finale, verso il ritorno glorioso di Cristo, la parusia.
Se fino a quel momento Israele aveva cercato, attraverso i molteplici mezzi suggeriti dalla Legge, l’unione con Dio, da allora in poi tutti codesti mezzi si sarebbero riassunti in due elementi soltanto, quelli pasquali del pane e del vino. Tutte le prescrizioni legali (la circoncisione, il sabato, i filatteri, ecc.), eseguite in obbedienza alla volontà esplicita di Dio, avevano avuto fin allora un valore che potremmo chiamare quasi “sacramentale » per Israele, nel senso che si trattava di segni ( othoth ) esteriori che esprimevano l’unione del popolo con il suo Dio. Da allora in poi tutto ciò si sarebbe ricapitolato nella Persona stessa di Cristo, che lega la sua presenza ai veli del Pane e del Vino, in quella Persona in cui l’unione con Dio diviene reale, in quella Persona che è il Verbo stesso di Dio, cioè l’espressione vivente della Sua volontà, Colui che non è venuto ad abolire la Legge, ma a sintetizzarla in se stesso.

NOTE

(1) Secondo un calendario mozarabico, v. DAL, I, 2, 2248; cfr. Leone Magno, Sermo L XI, P.L., 54, 314.(2) BeTak., 40 a.(3) Nu. T., 10, 2-9; Lv. T., 12, 1-5; Sanh., 70 a. h. (4) Lv. T., 12, 5.(4) Lv. r., 12, 5.(5) Tanh., Noah 22.(6) Cfr. Appendice.(7) Berak., 39 h; 46 h; 53 h.(8) Mahsor Vitr;, p. 294; v. 96.(9) Pesah., 10, 4.(10) J. Pesah, 10, 4, 37 d.(11) G. von Rad, Théologie de l’A.T., Génève 1963, p.112 ss.(12) La formula di R. Aqiba si è conservata quasi identica attraverso i secoli, cfr. Maimonide, Mishneh Torah, Hilkoth hames u-masah, fine.(13) Berak., 48 a(14) Pesah., 118 a; cfr. RABBENU SCHLOMOH BAR JIZHAQ, in Mahsor Vitr;, 282.(15) GOODENOUGH, Symbols, VI, 182.(16) RASHJ ad Pesah, 119 b.(17) Enciclop. Talmudith, I, 134.5.(18) Alcuni studiosi vorrebbero vedere in Mt. 26, 29 una prova che Gesù non ha benedetto e consacrato tale coppa, attendendo il compimento della redenzione; ma la cosa non appare chiara.Sofia Cavalletti, Ebraismo e spiritualità Cristiana Cap.X, Editrice Studium – Roma, 1966
Pubblicato da Antonello Iapicca Etichette: Giovedì Santo, Pasqua, Pasqua ebraica, Radici nell’ebraismo, S. Cavalletti, Settimana Santa, Triduo Pasquale 

LA MESSA IN COENA DOMINI DEL GIOVEDÌ SANTO

http://borgopiave.diocesi.it/liturgia%20a%20puntate/messa%20Coena%20Domini.htm

LA MESSA IN COENA DOMINI DEL GIOVEDÌ SANTO  

    Il tramonto del sole del giovedì santo segna la fine del periodo quaresimale. Seguendo l’uso ebraico, che fa iniziare il giorno festivo dal tramonto precedente, la Chiesa viene introdotta nel triduo pasquale della morte (venerdì), sepoltura (sabato) e risurrezione del Signore (domenica) da una celebrazione liturgica solenne che costituisce il compendio sacramentale dei misteri della salvezza che la liturgia si accinge a ripercorrere nel loro fluire storico, seguendo il filo segnato dall’evangelo, nei tre giorni seguenti. Nell’Eucaristia è infatti dato il mistero pasquale nella sua interezza e si fa comunione con il Signore morto, sepolto e risorto.
    La celebrazione è festosa e solenne, ricca di tematiche: il sacerdozio, il comandamento dell’amore, l’unione della comunità particolare con la Chiesa universale, ma soprattutto l’Eucaristia, la cui adorazione prolunga la celebrazione in una veglia solenne che può protrarsi fino alla mezzanotte.
    La qualità dello stile celebrativo deve corrispondere pienamente e in tutte le sue parti alla ricchezza di una settimana che la Chiesa d’Oriente chiama « grande e santa », e deve favorire la partecipazione piena e fruttuosa dei fedeli ai misteri celebrati.
    La preparazione inizia molto tempo prima, con la definizione e le prove dei canti, la scelta dei ministranti, dei lettori e delle persone per la lavanda dei piedi, la preparazione dell’offertorio e l’allestimento del tabernacolo della reposizione (ornato a festa, evitando l’effetto sepolcro o ornamentazioni insulse come – sarebbe difficile immaginarlo se non lo si fosse visto davvero – uccellini e angioletti di carta sospesi nel vuoto con il filo da pesca).
    Il tabernacolo sarà vuoto e aperto. Il colore dei paramenti sarà il bianco. Alla suppellettile usuale andranno aggiunti brocca, bacile, grembiale e asciugatoio per la lavanda dei piedi, velo omerale (eventualmente anche velo per la pisside) e un secondo turibolo per la processione di reposizione. Si preparerà anche un vassoio su cui deporre le ampolle con gli oli nuovi, che il parroco avrà ritirato al mattino, dopo la messa crismale. Sarebbe opportuno valorizzare il segno della  fractio panis usando un’ostia di dimensioni maggiori, da dividere almeno tra alcuni dei presenti. Per la comunione dei fedeli, si ricordi di consacrare le particole necessarie anche per la comunione del giorno seguente. Al canto del Gloria si suonano le campane; subito dopo, per i campanili in cui la tecnologia ha sostituito le vecchie corde, vanno staccati gli automatismi per escludere il suono fino al Gloria della veglia pasquale.
    La processione introitale si svolge come di consueto. Un diacono o un ministrante segue il crocifero portando il vassoio con gli oli, che depone in presbiterio. Il celebrante incensa gli oli dopo la croce e l’altare. Quindi le ampolle possono essere riposte sulla credenza o, meglio, dove esista, nell’apposita custodia presso il fonte battesimale.
    La liturgia della Parola si svolge come di consueto. Dopo l’omelia non si fa la professione di fede, ma il presidente compie la lavanda dei piedi ad alcune persone – uomini o ragazzi – della comunità (Messale Roma­no, p. 136, n. 6). Né il messale, né il cerimoniale ne prescrivono il numero: il rito non intende imitare scenicamente gli apostoli, ma raffigurare con un’icona forte il comandamento dell’amore che si fa servizio. È quanto esprime la Parola di Dio appena ascoltata, ed è la chiave di lettura per comprendere il sacrificio del Signore Gesù, perdurante in tutta la sua efficacia salvifica nell’Eucaristia, nonché il sacerdozio ministeriale. Non viene precisato dove far sedere le persone: si parla semplicemente di luogo adatto. Per la lavanda il celebrante toglie la casula (che un ministrante ripiegherà sulla credenza o appenderà a una gruccia, non butterà a casaccio su una sedia e ancor meno poggerà sull’altare), e cinge un grembiale, che un altro ministrante gli porge (bianco e senza pettina). Gli uomini scelti raggiungono i loro posti, scalzano il piede destro e ricacciano sotto la sedia la scarpa con il calzino. Il sacerdote con gli assistenti può inginocchiarsi di fronte a ciascuno, o anche una volta per due persone. Due diaconi o due ministranti lo affiancano tenendo il bacile e l’asciugatoio. Il sacerdote versa l’acqua sul piede destro, prende l’asciugatoio e asciuga il piede. Terminato il rito, altri ministranti presentano al sacerdote brocca, catino, una ciotolina con sapone liquido e il manutergio per lavare le mani; lo aiutano quindi a togliere il grembiale e a riprendere la casula.
    La messa continua con la preghiera dei fedeli. All’offertorio è vivamente consigliata la processione per la presentazione dei doni. Il canone romano prevede le parti proprie della solennità: si veda il messale a p. 140. Dopo la narrazione dell’istituzione, si riprende il testo abituale, a p. 390.
    Dopo la comunione si raccolgono le particole in una sola pisside, chiusa, che si pone sul corporale, al centro dell’altare. Si recita l’ultima orazione e quindi si avvia la processione. Chi presiede si reca davanti all’altare, infonde l’incenso in due turiboli, genuflette, si inginocchia e incensa il Santissimo Sacramento. Quindi indossa il velo omerale e riceve la pisside che il diacono prende dall’altare. L’ordine di processione è il seguente: crocifero e ceroferari, ministranti, sacerdoti, due turiferari che precedono chi porta il Santissimo Sacramento.
    Giunti al luogo della reposizione, la pissi­de viene deposta all’interno del tabernacolo e nuovamente incensata (se si canta il Tantum ergo l’incensazione viene fatta all’inizio dell’ultima strofa). All’amen, il diacono chiude la porticina del tabernacolo. Dopo alcuni istanti di adorazione silenziosa, la pro­cessione rientra in sagrestia in silenzio, per la via più breve.
    Subito dopo, alcuni ministranti tolgono candelieri e tovaglia dall’altare dove si è celebrato e velano le croci. 

Publié dans:Tempo liturgico: Pasqua |on 28 mars, 2013 |Pas de commentaires »

I SACERDOTI: PASTORI IN MEZZO AL GREGGE, E NON « GESTORI » O « INTERMEDIARI »

http://www.zenit.org/it/articles/i-sacerdoti-pastori-in-mezzo-al-gregge-e-non-gestori-o-intermediari

I SACERDOTI: PASTORI IN MEZZO AL GREGGE, E NON « GESTORI » O « INTERMEDIARI »

Il vibrante invito di Papa Francesco ai sacerdoti che hanno rinnovato le promesse dell’Ordinazione durante la Messa Crismale di questa mattina

Citta’ del Vaticano, 28 Marzo 2013 (Zenit.org)

Alle ore 9.30 di oggi, ricorrenza del Giovedì Santo, il Santo Padre Francesco ha presieduto, nella Basilica Vaticana, la Santa Messa Crismale, Liturgia che si celebra in questo giorno in tutte le Chiese Cattedrali. La Messa del Crisma è stata concelebrata dal Santo Padre con i Cardinali, i Vescovi ed i Presbiteri – circa 1600, tra diocesani e religiosi – presenti a Roma. Nel corso della Celebrazione Eucaristica, i sacerdoti hanno rinnovato le promesse fatte al momento della Sacra ordinazione; quindi sono stati benedetti con l’olio degli infermi, l’olio dei catecumeni e il crisma. Di seguito l’omelia pronunciata da Papa Francesco dopo la proclamazione del Santo Vangelo:

***
Cari fratelli e sorelle,

con gioia celebro la prima Messa Crismale come Vescovo di Roma. Vi saluto tutti con affetto, in particolare voi, cari sacerdoti, che oggi, come me, ricordate il giorno dell’Ordinazione. Le Letture, anche il Salmo, ci parlano degli « Unti »: il Servo di Javhè di Isaia, il re Davide e Gesù nostro Signore. I tre hanno in comune che l’unzione che ricevono è destinata a ungere il popolo fedele di Dio, di cui sono servitori; la loro unzione è per i poveri, per i prigionieri, per gli oppressi…
Un’immagine molto bella di questo « essere per » del santo crisma è quella del Salmo 133: «È come olio prezioso versato sul capo, che scende sulla barba, la barba di Aronne, che scende sull’orlo della sua veste» (v. 2). L’immagine dell’olio che si sparge, che scende dalla barba di Aronne fino all’orlo delle sue vesti sacre, è immagine dell’unzione sacerdotale che per mezzo dell’Unto giunge fino ai confini dell’universo rappresentato nelle vesti.
Le vesti sacre del Sommo Sacerdote sono ricche di simbolismi; uno di essi è quello dei nomi dei figli di Israele impressi sopra le pietre di onice che adornavano le spalle dell’efod dal quale proviene la nostra attuale casula: sei sopra la pietra della spalla destra e sei sopra quella della spalla sinistra (cfr Es 28, 6-14). Anche nel pettorale erano incisi i nomi delle dodici tribù d’Israele (cfr Es 28,21). Ciò significa che il sacerdote celebra caricandosi sulle spalle il popolo a lui affidato e portando i suoi nomi incisi nel cuore. Quando ci rivestiamo con la nostra umile casula può farci bene sentire sopra le spalle e nel cuore il peso e il volto del nostro popolo fedele, dei nostri santi e dei nostri martiri, che in questo tempo sono tanti!
Dalla bellezza di quanto è liturgico, che non è semplice ornamento e gusto per i drappi, bensì presenza della gloria del nostro Dio che risplende nel suo popolo vivo e confortato, passiamo adesso a guardare all’azione. L’olio prezioso che unge il capo di Aronne non si limita a profumare la sua persona, ma si sparge e raggiunge « le periferie ». Il Signore lo dirà chiaramente: la sua unzione è per i poveri, per i prigionieri, per i malati e per quelli che sono tristi e soli. L’unzione, cari fratelli, non è per profumare noi stessi e tanto meno perché la conserviamo in un’ampolla, perché l’olio diventerebbe rancido … e il cuore amaro.
Il buon sacerdote si riconosce da come viene unto il suo popolo; questa è una prova chiara. Quando la nostra gente viene unta con olio di gioia lo si nota: per esempio, quando esce dalla Messa con il volto di chi ha ricevuto una buona notizia. La nostra gente gradisce il Vangelo predicato con l’unzione, gradisce quando il Vangelo che predichiamo giunge alla sua vita quotidiana, quando scende come l’olio di Aronne fino ai bordi della realtà, quando illumina le situazioni limite, « le periferie » dove il popolo fedele è più esposto all’invasione di quanti vogliono saccheggiare la sua fede.
La gente ci ringrazia perché sente che abbiamo pregato con le realtà della sua vita di ogni giorno, le sue pene e le sue gioie, le sue angustie e le sue speranze. E quando sente che il profumo dell’Unto, di Cristo, giunge attraverso di noi, è incoraggiata ad affidarci tutto quello che desidera arrivi al Signore: « preghi per me, padre, perché ho questo problema », « mi benedica, padre », « preghi per me », sono il segno che l’unzione è arrivata all’orlo del mantello, perché viene trasformata in supplica, supplica del Popolo di Dio.
Quando siamo in questa relazione con Dio e con il suo Popolo e la grazia passa attraverso di noi, allora siamo sacerdoti, mediatori tra Dio e gli uomini. Ciò che intendo sottolineare è che dobbiamo ravvivare sempre la grazia e intuire in ogni richiesta, a volte inopportuna, a volte puramente materiale o addirittura banale – ma lo è solo apparentemente – il desiderio della nostra gente di essere unta con l’olio profumato, perché sa che noi lo abbiamo. Intuire e sentire, come sentì il Signore l’angoscia piena di speranza dell’emorroissa quando toccò il lembo del suo mantello.
Questo momento di Gesù, in mezzo alla gente che lo circondava da tutti i lati, incarna tutta la bellezza di Aronne rivestito sacerdotalmente e con l’olio che scende sulle sue vesti. È una bellezza nascosta che risplende solo per quegli occhi pieni di fede della donna che soffriva perdite di sangue. Gli stessi discepoli – futuri sacerdoti – tuttavia non riescono a vedere, non comprendono: nella « periferia esistenziale » vedono solo la superficialità della moltitudine che si stringe da tutti i lati fino a soffocare Gesù (cfr Lc 8,42). Il Signore, al contrario, sente la forza dell’unzione divina che arriva ai bordi del suo mantello.
Così bisogna uscire a sperimentare la nostra unzione, il suo potere e la sua efficacia redentrice: nelle « periferie » dove c’è sofferenza, c’è sangue versato, c’è cecità che desidera vedere, ci sono prigionieri di tanti cattivi padroni. Non è precisamente nelle autoesperienze o nelle introspezioni reiterate che incontriamo il Signore: i corsi di autoaiuto nella vita possono essere utili, però vivere la nostra vita sacerdotale passando da un corso all’altro, di metodo in metodo, porta a diventare pelagiani, a minimizzare il potere della grazia, che si attiva e cresce nella misura in cui, con fede, usciamo a dare noi stessi e a dare il Vangelo agli altri, a dare la poca unzione che abbiamo a coloro che non hanno niente di niente.
Il sacerdote che esce poco da sé, che unge poco, non dico « niente » perché, grazie a Dio, la gente ci ruba l’unzione si perde il meglio del nostro popolo, quello che è capace di attivare la parte più profonda del suo cuore presbiterale. Chi non esce da sé, invece di essere mediatore, diventa a poco a poco un intermediario, un gestore.
Tutti conosciamo la differenza: l’intermediario e il gestore « hanno già la loro paga » e siccome non mettono in gioco la propria pelle e il proprio cuore, non ricevono un ringraziamento affettuoso, che nasce dal cuore. Da qui deriva precisamente l’insoddisfazione di alcuni, che finiscono per essere tristi, preti tristi, e trasformati in una sorta di collezionisti di antichità oppure di novità, invece di essere pastori con « l’odore delle pecore » – questo io vi chiedo: siate pastori con l’ « odore delle pecore », che si senta quello -; invece di essere pastori in mezzo al proprio gregge e pescatori di uomini.
È vero che la cosiddetta crisi di identità sacerdotale ci minaccia tutti e si somma ad una crisi di civiltà; però, se sappiamo infrangere la sua onda, noi potremo prendere il largo nel nome del Signore e gettare le reti. È bene che la realtà stessa ci porti ad andare là dove ciò che siamo per grazia appare chiaramente come pura grazia, in questo mare del mondo attuale dove vale solo l’unzione – e non la funzione -, e risultano feconde le reti gettate unicamente nel nome di Colui del quale noi ci siamo fidati: Gesù.
Cari fedeli, siate vicini ai vostri sacerdoti con l’affetto e con la preghiera perché siano sempre Pastori secondo il cuore di Dio.
Cari sacerdoti, Dio Padre rinnovi in noi lo Spirito di Santità con cui siamo stati unti, lo rinnovi nel nostro cuore in modo tale che l’unzione giunga a tutti, anche alle « periferie », là dove il nostro popolo fedele più lo attende ed apprezza. La nostra gente ci senta discepoli del Signore, senta che siamo rivestiti dei loro nomi, che non cerchiamo altra identità; e possa ricevere attraverso le nostre parole e opere quest’olio di gioia che ci è venuto a portare Gesù, l’Unto.

Amen.

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