Giovedì Santo

PARROCCHIA SANTA MARIA DELLA NEVE
PIOMBINO – MEDITAZIONE: GIOVEDÌ SANTO 2010
UNA VITA DATA LIBERAMENTE E PER AMORE
Con il tramonto del Giovedì Santo ha inizio il triduo pasquale, quei giorni “santi”, distinti dagli altri, in cui noi cristiani meditiamo, celebriamo, riviviamo il mistero centrale della nostra fede: Gesù entra nella sua passione, conosce la morte e la sepoltura e il terzo giorno è risuscitato dal Padre nella forza di vita che è lo Spirito santo.
Ma questo evento della passione di Gesù era dovuto al caso o a un destino che incombeva su Gesù? Perché Gesù ha conosciuto una condanna, la tortura e la morte violenta? Sono domande cui si deve dare una risposta se si vuole cogliere e conoscere in profondità il senso della passione.
Ma sono gli stessi Vangeli che vogliono fornirci questa risposta testimoniando gli eventi di quei giorni pasquali dell’anno 30 della nostra era. Infatti Gesù, proprio per manifestare ai discepoli che entrava nella passione assumendola come un atto, non costretto dal fato e neppure per la casualità di eventi a lui sfavorevoli, anticipa con un mimo, con un gesto simbolico quello che gli sta per succedere e ne svela così il significato.
Nella libertà, dunque, Gesù accetta quella fine che va profilandosi: avrebbe potuto fuggire, avrebbe potuto evitare di affrontare quella prova e, certo, ha chiesto al Padre se non fosse possibile questo, ma se Gesù voleva dimorare nella giustizia, se voleva collocarsi dalla parte dei giusti che in un mondo ingiusto sono sempre osteggiati e perseguitati, se voleva restare nella solidarietà con le vittime, gli agnelli della storia, allora doveva accettare quella condanna e quella morte. Sì, liberamente l’ha accettata perché fosse fatta la volontà del Padre: non che il Padre volesse la sua morte, ma la volontà del Padre chiedeva che Gesù restasse nella giustizia, nella carità, nella solidarietà con le vittime.
Ma questa libertà di Gesù era nutrita e accompagnata anche dall’amore: amore per il Padre, certo, ma anche per la verità e la giustizia, amore per noi uomini. Sì, proprio perché fosse manifesto che Gesù deponeva la sua vita liberamente e per amore – non costretto dal destino né da circostanze fortuite – Gesù anticipa con il segno quello che sta per accadergli.
A tavola con i suoi discepoli, Gesù compie sul pane e sul vino delle azioni accompagnate dalle sue parole: il suo corpo è spezzato e dato per gli uomini, il suo sangue è versato e dato per tutti. E il segno della sua morte imminente, il sacramento del rendimento di grazie è l’eucaristia che i cristiani dovranno celebrare in memoria di Gesù per essere essi pure coinvolti in quel gesto che è dare la vita per i fratelli, per gli altri: alla fine di quell’azione Gesù esclama “Fate questo in memoria di me!”.
Fino al suo ritorno, per tutto il tempo in cui i cristiani vivono nel mondo tra la morte-risurrezione di Gesù e la sua venuta nella gloria, è nella celebrazione di quel gesto del loro Maestro e Signore che i cristiani saranno plasmati come discepoli, parteciperanno alla vita stessa di Cristo, conosceranno che lui, il Signore, è con loro fino alla fine della storia.
Il Giovedì Santo non può dunque non celebrare questo evento anticipatore della passione di Gesù, narrazione del suo esodo da questo mondo al Padre.
Ma la chiesa, significativamente, nella liturgia del Giovedì Santo sera, oltre a ricordare e vivere questo gesto del suo Signore come in ogni Eucaristia, vive e ripete anche un altro gesto di Gesù, quello della lavanda dei piedi. Anche il quarto Vangelo, infatti, ricorda “l’ultima cena di Gesù con i suoi”, quella cena in cui fu svelato il traditore e annunciato il rinnegamento di Pietro e la fuga di tutti gli altri discepoli, quella cena vissuta in occasione dell’ultima Pasqua di Gesù a Gerusalemme prima della sua morte. Però, anziché narrare il segno del pane e del vino, Giovanni narra il segno della lavanda!
Perché un’azione “altra”, un segno “altro”? Eppure anche il quarto evangelista conosce il racconto dell’Eucaristia, la Chiesa ormai da decenni celebra questo sacramento. Perché allora la memoria di quest’altro segno? Possiamo ritenere molto probabile che questa scelta del quarto Vangelo sia motivata da un’urgenza avvertita nella Chiesa alla fine del I secolo: la Celebrazione Eucaristica non può essere un rito disgiunto da una prassi coerente di agape, di amore e servizio ai fratelli, poiché proprio questo è il suo significato: dare la vita per i fratelli!
L’evangelista vuole così riattualizzare il messaggio dell’eucaristia ricordando che o essa è servizio reciproco, dono della vita per l’altro, amore fino all’estremo, oppure è solo un rito che appartiene alla “scena” di questo mondo. Potremmo dire che l’intenzione di Giovanni è che il Sacramento dell’Altare sia letto e vissuto sempre come Sacramento del fratello: celebrazione eucaristica con il pane spezzato e il vino offerto e servizio concreto, quotidiano al fratello si richiamano reciprocamente come due facce della partecipazione al Mistero Pasquale di Cristo.
Ecco allora il gesto di Gesù narrato lentamente, quasi al rallentatore, affinché resti ben impresso nella mente del discepolo di ogni tempo: Gesù depone la veste, prende un asciugamano, se lo cinge ai fianchi, verso l’acqua nel catino, lava i piedi, li asciuga, riprende la veste… Sono verbi di azione che rendono plasticamente l’evento della lavanda. E’ un gesto che Gesù compie in piena consapevolezza: Gesù, il Kyrios, il Signore, lava i piedi ai discepoli. Gesto anomalo, gesto paradossale che capovolge i ruoli, gesto scandaloso, come testimonia la reazione di Pietro! Eppure, proprio così Gesù racconta, “evangelizza” Dio, nel senso che rende Dio “buona notizia” per noi.
Due azioni diverse, due mimi sacramentali, due segni che narrano la stessa realtà: Gesù offre la sua vita e, liberamente e per amore, va verso la propria morte facendosi schiavo. Per questo, come al gesto eucaristico, così anche al gesto della lavanda fa seguito il comando: “Come io ho lavato i piedi a voi, così fate anche voi”. E la Chiesa, se vuole essere Chiesa del Signore, così deve fare in obbedienza al suo mandato: spezzare il pane, offrire il vino, lavare i piedi nell’assemblea dei credenti e nella storia degli uomini.
http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/homilies/1966/documents/hf_p-vi_hom_19660407_it.html
SANTA MESSA «IN COENA DOMINI» NELL’ARCIBASILICA LATERANENSE
OMELIA DI PAOLO VI
GIOVEDÌ SANTO, 7 APRILE 1966
Fratelli e Figli!
Signori ed Amici!
Perché siamo noi questa sera di Giovedì Santo riuniti in questa Basilica? La Nostra domanda non si riferisce ora al grande rito religioso, che stiamo celebrando, ma risale più indietro; cerca la ragione che ha dato origine in passato, e che adesso giustifica l’atto misterioso e solenne, che stiamo compiendo. Da che cosa deriva la nostra sinassi, cioè la nostra riunione ecclesiale, e quale ne è il motivo primitivo ed essenziale?
«FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME»
Nessuno si stupisca per questa Nostra domanda, così semplice e di così facile risposta: nulla è più importante e nulla più fecondo di luce e di gaudio, che la rievocazione della causa iniziale della nostra celebrazione. Noi siamo qui, in questa fausta e pia ricorrenza del Giovedì Santo, per virtù d’una parola, due volte ripetuta dal Signore (cfr. 1 Cor. 11, 24-25), nell’ultima Cena, dopo che altre parole di preciso e immenso significato, quelle istitutive del sacrificio eucaristico, erano state pronunciate; e la parola che ora direttamente ci riguarda è questa: «Fate questo in memoria di Me» (Luc. 22, 19). Noi siamo riuniti questa sera per causa ed in ossequio di questa parola di Gesù Cristo; noi stiamo obbedendo ad un suo ordine, noi stiamo eseguendo una sua ultima volontà, noi stiamo rievocando, com’Egli ha voluto, la sua memoria.
È una cerimonia commemorativa la nostra. Noi vogliamo occupare il nostro spirito col ricordo di Lui, del nostro Fratello divino, del nostro sommo Maestro, del nostro unico Salvatore. La figura di Lui – oh, ne potessimo, noi così curiosi oggi delle immagini visive, averne le vere sembianze! – deve esserci davanti agli occhi dell’anima nelle forme che ci sono più care ed espressive, più umane e più ieratiche, Lui mite ed umile, Lui forte e grave, Lui, nostro Signore e nostro Dio (cfr. Io. 20, 28); dobbiamo in un certo senso, vederlo, sentirlo, ma soprattutto saperlo presente. La parola di Lui, il suo Vangelo, deve, come per incanto, salire dalla nostra subcoscienza, e risuonare tutta insieme al nostro spirito, come la ascoltassimo, come la potessimo in un atto solo tutta ricordare e comprendere: non è Lui la Parola di Dio fatto uomo, e perciò fatta nostra? E tutto l’alone immenso della profezia e della teologia, che lo circonda e lo definisce, e che a noi tanto lo avvicina e quasi di Lui c’investe e ci inebria, ed insieme ci umilia e ci abbaglia, noi lo dobbiamo contemplare questa sera, come quando ci lasciamo incantare dalla maestosa icone di Cristo sovrano, dominante dall’abside delle nostre antiche basiliche, pieno di interiorità e di potestà. Dobbiamo ricordarlo, questa sera, Lui il nostro Signore e Redentore. È un dovere di memoria, che stiamo compiendo. È la reviviscenza nei nostri spiriti della sua figura e della sua missione, che vogliamo in questo momento, più che in ogni altro, suscitare.
LA PASQUA PERENNE DEL SALVATORE
Ci facilita il compimento di questo dovere il pensare l’importanza che la memoria assume nella religione vera, positiva e rivelata, come la nostra. Essa si fonda su fatti concreti, che bisogna ricordare. Il loro ricordo forma il tessuto della fede e alimenta la vita spirituale e morale del credente. Tutto il racconto biblico si svolge sulla memoria di avvenimenti e di parole, che non devono dissolversi nel tempo, ma devono rimanere sempre presenti. Quella che noi chiamiamo oggi coscienza storica può farci comprendere qualche cosa circa la funzione della memoria nella tradizione sia dell’Antico che del Nuovo Testamento. Non possiamo dimenticare che la Cena stessa, durante la quale Gesù ordinò di tener viva la sua memoria mediante la rinnovazione di ciò ch’Egli aveva allora compiuto, era un rito commemorativo; era il convito pasquale, che doveva ripetersi ogni anno per trasmettere alle generazioni future il ricordo indelebile della liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù dell’Egitto: «Habebitis autem hunc diem in monumentum et celebrabitis eam solemnem Domino in generationibus vestris cultu sempiterno» (Ex. 12, 14). L’Antico Testamento si svolge lungo il filo di fedeltà al ricordo di quella prima Pasqua liberatrice. Gesù, quella sera, sostituisce all’Antico il Nuovo Testamento: «Questo è il mio Sangue. Egli dirà, del Nuovo Testamento . . .» (Matth. 26, 28); all’antica Pasqua storica e figurativa Egli collega e fa succedere la sua Pasqua, anch’essa storica, definitiva questa, ma figurativa anch’essa d’un altro ultimo avvenimento, la parusia finale: «donec veniat» (1 Cor. 11, 26): memoria risolutiva e profetica è la Cena del Signore.
LA SS.MA EUCARISTIA ALIMENTO E VITA DEI CRISTIANI
Ma come questa memoria fedele e perenne di Cristo possa rinnovarsi e di quale contenuto essa sia piena ci è pur obbligo ripensare. Quel comando di Gesù: «Fate questo» è una parola creatrice, miracolosa: è una trasmissione d’un potere, ch’Egli solo possedeva; è l’istituzione d’un sacramento, il conferimento cioè del sacerdozio di Cristo ai suoi discepoli; è la formazione dell’organo costituente e santificante del Corpo mistico, la sacra gerarchia, resa capace di rinnovare il prodigio dell’ultima Cena.
E quale sia il prodigio dell’ultima Cena noi sappiamo. Il ricordo sarà realtà. Bisogna ripensare al momento e al modo con cui Cristo ha istituito l’Eucaristia. Essa è scaturita dal suo cuore nell’imminenza e nella chiaroveggenza della sua passione. Essa rappresenta tale passione e contiene Colui che l’ha sofferta. Gesù ha sigillato la sua presenza paziente e morente nei simboli – ormai non più altro che simboli e segni – del pane e del vino. Ha voluto essere ricordato così. Ha voluto, si può dire, sopravvivere e rimanere fra noi nel supremo suo atto d’amore, il suo sacrificio, la sua morte. Ha voluto rendersi presente, lungo il corso del tempo, fra noi nello stato simultaneo di sacerdote e di vittima, sostituendo alla sua presenza storica e sensibile quella non meno reale della presenza sacramentale, perché solo i credenti, solo i volontari della fede e dell’amore, potessero venire in comunione vitale con Lui. Gesù, sapendo di essere alla fine della sua presenza naturale sulla terra, ha fatto in modo che gli uomini non si dimenticassero di Lui. L’Eucaristia è appunto il memoriale perenne di Gesù Cristo. Celebrare l’Eucaristia vuol dire celebrare la sua memoria. Ed Egli ha voluto che questa forma singolarissima di ricordarlo, anzi di riaverlo presente, diventasse cibo, cioè alimento, cioè principio interiore d’energia e di vita, per le anime dei suoi veri seguaci.
La liturgia ben sa e bene ci insegna questa finalità del mistero eucaristico; e le dà un nome, che nel suono greco ed arcaico del vocabolo dice come sempre nei secoli, fin da principio, fin dal Vangelo così fu onorata l’Eucaristia; e cioè il nome di anàmnesi, che vuol appunto dire reminiscenza, rimembranza, e che trova il suo posto rituale immediatamente dopo la consacrazione del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo, in connessione e quasi a sviluppo ed a commento delle parole citate dal Signore stesso: «Fate questo in memoria di me»: è a questo punto ineffabile che la liturgia della Messa aggancia nuovamente la storia nostra al Vangelo con le famose parole: «Unde et memores . . ., perciò noi ricordando . . .».
ADORARE, RINGRAZIARE, AMARE CRISTO PRESENTE TRA NOI
Perciò, Fratelli e Figli, come il grande rito vuole, un grande sforzo di memoria a noi questa sera è domandato. Dobbiamo ricordare Gesù Cristo con tutte le forze del nostro spirito. Questo è l’amore che ora gli dobbiamo. Ricorda chi ama. La nostra grande colpa è l’oblio, è la dimenticanza. È la colpa ricorrente nella vicenda biblica: mentre Dio non si dimentica mai di noi . . . . «Potrà mai una donna dimenticarsi del suo bambino, da non sentire più compassione per il figlio delle sue viscere? . . .» (Is. 49, 15), noi ci dimentichiamo così facilmente di Lui. Siamo giunti a tanto, nel nostro tempo, da credere una liberazione lo scordarci di Dio, da volere scordarci di Lui; come fosse liberazione lo scordarci del sole della nostra vita! Noi spingiamo sovente la giusta distinzione dei vari ordini sia del sapere, che dell’azione, la quale non vuole confusione fra il sacro e il profano e rivendica a ciascuno la loro relativa autonomia, fino alla negazione dell’ordine religioso, e alla diffidenza e alla resistenza nei suoi confronti, per l’errata convinzione che nel laicismo radicale sia prestigio umano e vera sapienza. Così la dimenticanza di Cristo si fa abituale anche in una società che tanto da Lui ha ricevuto e tuttora riceve; e si insinua qualche volta anche nella comunità ecclesiale: «Tutti cercano, lamenta l’Apostolo, le cose proprie, non quelle di Gesù Cristo» (Phil. 2, 21).
Dobbiamo ricordarci invece di Lui, come Lui con la moltiplicata, silenziosa, amorosa presenza eucaristica si ricorda di noi, di ciascuno di noi. E se nella quotidiana celebrazione della Messa questa memoria si riaccende e risplende nelle nostre sacre assemblee e nel foro interiore delle nostre anime, quest’oggi un’ultima dimenticanza noi dobbiamo vincere, quella che l’abitudine produce e che rende la nostra memoria appena formale e insensibile. Oggi la pienezza della memoria si ravviva nella fede alla realtà del fatto eucaristico, nella meraviglia, nella riconoscenza, nell’amore: qui è il Cristo venuto, qui è il Cristo presente, qui è il Cristo che verrà; a Lui onore e gloria, oggi e per sempre.