Domenica delle Palme

24 MARZO 2013: LE PALME – OMELIE DI APPROFONDIMENTO
« GLI APPARVE UN ANGELO DAL CIELO A CONFORTARLO »
La « benedizione delle palme », da cui la Domenica odierna prende nome, con la conseguente processione, intende rievocare il solenne ingresso di Gesù in Gerusalemme, acclamato dalla folla festosa ed esultante.
Però questa scena di entusiasmo popolare non ha un valore in sé e per sé: essa assume il suo significato nell’insieme degli eventi che la seguono e che culmineranno nella morte di croce. Una proclamazione, dunque, della « regalità » e della « messianicità » di Gesù che si realizzerà nella umiliazione e nella sofferenza: proprio in questa sua capacità di donarsi per gli altri fino alla morte rifulge il massimo della sua « gloria » e del suo splendore. In questa prospettiva la festosità dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme assume il suo significato più vero: è come un’anticipazione profetica della « gloria » futura del Servo di Jahvèh, che dovrà prima passare attraverso il torchio stritolante della Passione.
« Ho presentato il dorso ai flagellatori… »
Sul tema del dolore e della morte ignominiosa di Cristo si muove tutta la intelaiatura della Liturgia odierna, la quale culmina nella lettura della storia della Passione, che ci viene presentata nella redazione di Luca.
Nella prima lettura, che ci riporta solo una parte del così detto terzo canto del Servo sofferente di Jahvèh (Is 50,4-7), presentandosi come l’inviato del Signore il Servo preannuncia con piena lucidità le sofferenze che egli dovrà subire per attuare la sua missione: « Ho presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi » (v. 6). Come si vede, viene anticipata la descrizione di una parte delle sofferenze del Cristo, quali ce le presenterà Matteo (26,67; 27,30). L’ultimo versetto ci descrive l’atteggiamento di piena « fiducia » del Servo nel Signore e di amore per i fratelli: « Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto confuso, per questo rendo la mia faccia dura come pietra… » (v. 7).
Se il brano di Isaia è una « profezia » sulla Passione, la seconda lettura, ripresa da S. Paolo (Fil 2,6-11), è una altissima « meditazione » teologica sull’abbassamento di Cristo, che trova il suo punto più abissale nella « morte di croce » (vv. 6-8). Cristo però non muore per rimanere nella morte, ma per entrare nella « gloria » del Padre!
È precisamente questo il contenuto della seconda parte dell’inno cristologico paolino: « Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi, nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre » (vv. 9-11).
Come si vede, la luce di Pasqua sta già fugando la orribile tenebra che avvolse « tutta la terra » al momento della morte di Gesù sulla croce (Lc 23,44).
« Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito »
Siamo così arrivati al racconto della Passione in cui, più che altrove, gli Evangelisti, incluso Giovanni, si incontrano. Pur nello sfondo comune, però, ognuno di loro ha voluto evidenziare qualcosa di « particolare » in questa storia di sofferenza e di amore immenso, contrappuntata però da viltà, da ignominia e da capitolazioni ripugnanti.
Più che commentare questo sublime racconto lucano, in cui più che altrove l’Evangelista adopera tutta la sua arte ed esprime la sua finezza e la sua sensibilità umana e cristiana, vorremmo anche noi « contrappuntare » qua e là il testo, fermandoci di preferenza su alcune sue « caratteristiche ».
E prima di tutto l’assoluta « padronanza » di Cristo su tutti i fatti sconvolgenti della Passione; in questo Luca si avvicina molto a Giovanni. Gesù non si trova impreparato davanti alla furia devastatrice che tenterà di travolgerlo!
Si veda il desiderio, quasi l’ansia, con cui egli ha atteso di celebrare l’ultima Pasqua coi suoi discepoli: « Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, poiché vi dico: Non la mangerò più, finché non si compia nel regno di Dio » (Lc 22,15-16).
È chiaro che la Pasqua, che egli sta per celebrare con i suoi Apostoli, è la prefigurazione e l’inizio insieme dell’offerta sacrificale della sua vita, rappresentata dal pane e dal vino della cena posti lì davanti a tutti come « segno » della sua donazione alla morte: « Questo è il mio corpo che è dato per voi… Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue che viene versato per voi » (vv. 19.20). Si noti quel « dato… versato per voi », tipicamente lucano (e paolino).
Addirittura, Gesù si preoccupa più degli altri che di se stesso! Alle donne che lo seguono dolenti per la via del Calvario dice: « Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli… Perché, se trattano così il legno verde, che avverrà del legno secco? » (23,28.31). Non è lui lo sconfitto e l’umiliato che bisogna compiangere, quanto piuttosto gli uomini che lo condannano a morte.
E anche il gesto ultimo del suo vivere non è contrassegnato da un sentimento come di fatalità e di abbandono da parte di Dio, ma da un placido affidarsi nelle mani del Padre. Mentre infatti negli altri Sinottici (Mt 27,46; Mc 15,34) Gesù muore quasi in un grido di disperazione (« Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? »), in Luca dispone con serenità e padronanza assoluta della propria vita: « Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito » (23,46). « Dio » è diventato il « Padre », che non può non amare il Figlio!
Con tutto questo non è che Luca abbia tentato di « sdrammatizzare » la storia della Passione, quasi preso da umana compassione verso il suo Signore sofferente. È bensì vero che egli ha omesso alcuni particolari troppo crudi come, ad esempio, l’imposizione della corona di spine nel pretorio di Pilato, come pure la « paura e l’angoscia » che afferrarono Gesù nell’orto del Getsemani.
Strano, però, che il particolare più drammatico dell’agonia nell’orto ce lo fornisca proprio Luca! Mentre Gesù è come travolto dalla sofferenza e quasi da un senso di fallimento, « gli apparve un Angelo dal cielo a confortarlo. In preda all’angoscia (letteralmente « agonia »), pregava più intensamente, e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra » (vv. 43-44). È risaputo che alcuni codici anche autorevolissimi, come il « Vaticano », e alcune antiche versioni hanno omesso questi versetti, certamente a motivo della loro crudezza. Si aveva quasi paura di un Gesù bisognoso di conforto dall’alto e come sconvolto, anche fisicamente, davanti alla morte? C’è da dire anzi che il solo Luca adopera il termine « agonia » per esprimere questo stato d’animo di estrema lotta e sofferenza di Gesù nell’orto degli Ulivi.
Ciò sta a significare che la padronanza di Gesù davanti alla Passione non lo sottrae ai limiti dell’umano e alle angosce della morte. Ma proprio per questo egli è immensamente grande, perché ha saputo sconfiggere la paura e la tentazione della disperazione, facendo affidamento soltanto in Dio: « Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà » (v. 42).
L’umanità di Gesù, perciò, appare veramente « divina » proprio mentre si esprime nei suoi aspetti più dolenti e mortificanti. Direi che proprio questa è la dimensione « agonica » del cristianesimo, che Gesù ha lasciato in eredità ai suoi discepoli secondo la celebre espressione di Pascal: « Gesù è in agonia sino alla fine del mondo. Bisogna essere vigilanti per tutto questo tempo ».
« In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso »
In questa prospettiva mi sembra che sia molto importante un altro tratto caratteristico del racconto di Luca: la sua capacità di « coinvolgere » i lettori nel dramma della Passione del Signore. Pur narrando una storia, egli non dimentica di essere un Evangelista, cioè un annunciatore della fede che, di per se stessa, tende a tradursi in vita.
Egli ci racconta con compiacenza alcuni episodi, in cui la gente prende parte attiva alle umiliazioni e alle sofferenze del Signore con senso di umana solidarietà e, addirittura, di pentimento e di conversione. È il caso delle donne di Gerusalemme di cui solo Luca ci parla: « Lo seguiva una gran folla di popolo e di donne che si battevano il petto e facevano lamento su di lui » (23,27).
Anche le numerose persone, che assistono alla sua morte sul Calvario sono più curiose e sorprese che ostili, a differenza dei capi del popolo e dei soldati, come si può cogliere dalla seguente osservazione: « Il popolo stava a vedere, i capi invece lo schernivano dicendo: « Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto ». Anche i soldati lo schernivano… » (23,35-36).
Addirittura, ci sarà un senso di pentimento in più d’uno di loro: « Anche tutte le folle che erano accorse a questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornavano percuotendosi il petto » (23,48). Anche il centurione romano, « visto ciò che era accaduto, glorificava Dio: Veramente quest’uomo era giusto » (23,47). Quello che sorprende qui non è tanto la confessione del centurione, che ritroviamo anche più forte presso gli altri Sinottici, quanto la capacità di intuire, in tutto quello che era successo di drammatico e di iniquo sotto i suoi occhi, la « gloria » di Dio che si rivelava. Soltanto Luca, infatti, adopera qui il verbo « glorificare ». È il paradosso della « stoltezza » della croce, di cui ci parla S. Paolo e che, per chi crede, diventa invece « potenza » e « sapienza di Dio » (1 Cor 1,18.24).
La sofferenza e la croce di Cristo, dunque, coinvolgono e trasformano gli uomini, diventano addirittura « salvanti ». È il caso sorprendente del buon ladrone, appeso anche lui alla croce, che prende le difese di Gesù contro gli scherni dell’altro compagno di sventura: « Neanche tu hai timore di Dio, benché condannato alla stessa pena? Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male ». E aggiunse: « Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno ». Gli risponde: « In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso » (23,39-43). Per il buon ladrone la morte di Gesù sulla croce non è un fallimento, ma l’inizio della sua « regalità », addirittura l’ingresso nel suo « regno ».
Strano « regno », però, quello di Cristo, il cui diritto di accesso è garantito solo a chi passa per la torchiatura della crocifissione, come il ladrone pentito, o a chi riconosce che nella morte di Gesù di Nazaret si esprime il « giudizio » di amore e di perdono di Dio su tutta la viltà e i tradimenti degli uomini, come hanno fatto il centurione romano, le pie donne, ecc.
« Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno » (23,34): è ancora il solo Luca che ha saputo esprimere, meglio di qualsiasi altro, questo aspetto estremamente consolante del dramma più oscuro e pauroso che si sia mai svolto nella nostra storia.
Da: CIPRIANI S., Convocati dalla Parola. Riflesisoni biblico-liturgiche, Elledici, Torino
http://www.qumran2.net/parolenuove/commenti.php?mostra_id=27932
MONS. ANTONIO RIBOLDI
DOMENICA DELLE PALME (ANNO C) (24/03/2013)
Vangelo: Lc 22,14-23,56
Non credo lasci indifferenti quanto la Chiesa celebra oggi, chiamata ‘Domenica delle Palme’: è come se il sipario del cielo si aprisse per mostrarci dal vivo, in Gesù, Suo Figlio, quanto il Padre ci ami.
Come davanti ai grandi eventi che colpiscono, ciò che si celebra da oggi a Pasqua, è l’Evento per eccellenza, che dovrebbe zittire le voci della nostra vita chiassosa e, a volte, senza senso, per non perdere una sola briciola dell’Amore che si svela.
È l’Evento, quasi incomprensibile, di Gesù che ‘inventa’ un paradossale trionfo, secondo i nostri poveri criteri umani, ma che è un’epifania di Chi Lui veramente è.
Un trionfo avvolto nella umiltà e recitato da gente semplice, che ha conservato ancora lo spazio per lo stupore e la capacità di riconoscere il divino che è tra noi.
Quell’asinello, il più umile e, se vogliamo, ‘ridicolo’ degli animali, è ‘il carro del trionfo’.
Nulla a che fare con i trionfi cui siamo abituati tra noi uomini.
Quello di Gesù è vera proclamazione dell’amore, che è semplicità, umiltà meravigliosa, come un ‘ti amo’ detto sospirando. I nostri trionfi sono invece frutto dell’apparenza o, peggio, della superbia, ben lontana dal donare amore.
La gente, oggi, è ancora sensibile al fascino di quelle palme, che vengono benedette e date, come un invito ad accodarci ai semplici, che « stendevano i loro mantelli al passaggio di Gesù, acclamando: ‘Benedetto colui che viene nel nome del Signore, pace in cielo e gioia nel più alto dei cieli’.?
E quel ramoscello d’ulivo, che riceviamo oggi, è per noi il segno della gioia di accogliere Gesù che passa, per donarci quella pace del cuore, di cui abbiamo bisogno, tutti e tutto il mondo?
Non ci importano le tante voci di gente incapace di seguire la folla dei festanti.
Forse assomigliano ai ‘farisei’, che dissero a Gesù: ‘Maestro, rimprovera i tuoi discepoli’. E Gesù rispose: ‘Vi dico che se questi taceranno, grideranno le pietre’. (Lc. 19, 28-40)
Noi vogliamo, se possibile, entrare nella mente e nel cuore di Gesù che, se da una parte gioiva della fede dei semplici, dall’altra certamente già ‘vedeva’ la folla del sinedrio, davanti a Pilato, che, con urla scomposte e piene di odio, griderà: ‘Crocifiggilo!’.
Per loro non sarebbe più stato il Maestro pieno di dolcezza e di umiltà, che si faceva vicino ai semplici, spargendo gioia e pace, ma lì, davanti a Pilato, irriconoscibile per la corona di spine sulla testa, il manto rosso sulle spalle per irriderlo, esposto all’odio dei suoi nemici, come dirà Pilato, sarà: ‘Ecce Homo’.
‘Che male ha fatto?, chiederà Pilato. La risposta sarà sempre la stessa: ‘Crocifiggilo’.
Non è davvero facile che l’uomo di tutti i tempi sappia riconoscere, in Gesù, ‘Colui che viene nel nome del Signore e porta Pace’.
Non ci basta sapere che Dio viene tra noi, è vicino, in mezzo a noi, sempre, con la semplicità e l’umiltà di chi non cerca da noi un trionfo, ma vuole solo donarci serenità.
Siamo malati di tanto egoismo, che ci impedisce di vedere ciò che vedono i semplici, gli umili: il Cielo. Troppe volte ci facciamo abbagliare dai trionfi del mondo, che chiama gloria e festa i carri di carnevale, che sgomita per salire sul ‘carro del vincitore’, senza neppure rendersi conto di cadere spesso nel ridicolo.
Bisogna essere davvero ciechi per non capire ciò che è davvero la gioia del cuore, da Chi viene, per poter ‘entrare’ nella festa della domenica delle Palme.
Sempre l’evangelista Luca, immediatamente dopo l’entrata trionfale in Gerusalemme, racconta un particolare che svela come Gesù sappia leggere nei cuori e, scoprendo di essere rifiutato dall’uomo che Egli tanto ama, provi una profonda amarezza e tristezza.
Chi di noi ha avuto il dono di un pellegrinaggio in Terrasanta, credo che abbia bene nel ricordo, nella discesa ripida verso l’Orto degli Ulivi, un angolo che si stacca dalla strada e che è chiamato ‘Dominus flevit’: ‘Il Signore pianse’. È un luogo suggestivo, da cui si può vedere Gerusalemme e, in particolare, la spianata del tempio. È da lì che Luca racconta: « Quando fu vicino alla città, Gesù la guardò e si mise a piangere per lei. Diceva: ‘Gerusalemme, se tu sapessi, almeno oggi, quello che occorre alla tua pace! Ma non riesci a vederlo. Ecco, Gerusalemme, per te verrà un tempo nel quale i tuoi nemici ti circonderanno di trincee. Ti assedieranno e premeranno su di te da ogni parte. Distruggeranno te e i tuoi abitanti e sarai rasa al suolo, poiché tu non hai saputo riconoscere il tempo nel quale Dio è venuto a salvarti » (Lc. 19, 41-44)
Gesù, sentendosi non accolto dagli uomini, per i quali stava donando l’intera vita, non ha parole di vendetta. Lui è l’Amore del Padre misericordioso, che ha cercato di fare breccia nel nostro cuore.
In fondo siamo noi uomini a essere i diretti destinatari di questo incredibile amore, che può davvero ridare senso e valore alla nostra vita, troppe volte chiusa al bene.
Visitando quel luogo; il ‘Dominus flevit’, come Gesù, osservando l’atteggiamento del mondo nei Suoi confronti, viene davvero da piangere.
Quanto siamo stolti, noi uomini, che voltiamo le spalle a Chi ci ama, per abbandonarci a chi fa di tutto per sradicare da noi ogni seme di bene e di gioia!
Meraviglioso amore di Dio, che non punisce chi gli volta le spalle, ma sa spingere il suo amore fino a versare prima le lacrime e poi il suo sangue, per far breccia nel cuore degli uomini!
Ma poteva e può Dio amarci di più?
Pare quasi incredibile che Dio ci ami tanto, da versare lacrime nel vedersi non capito, non accolto o respinto! E questo perché Lui sa bene che l’uomo può conoscere la vera pace e gioia, il vero senso della vita, solo se sa accogliere il Suo Amore.
Credere di poter trovare felicità altrove, voltandogli le spalle, è andare incontro ad una tragica realtà, che si esprime in quel gemito inenarrabile: ‘Gerusalemme (e siamo noi!) se tu sapessi, almeno oggi quello che occorre alla tua pace! Ma tu non riesci a vederlo. Ecco, verrà il giorno in cui i tuoi nemici ti circonderanno….e sarai rasa al suolo, perché non hai saputo riconoscere il tempo in cui Dio è venuto a salvarti ».
Abbiamo forse tante volte pensato ad un Dio indifferente alla nostra vita, lontano da noi….non abbiamo tenuto conto che Lui invece ci ama ‘da morire di amore’!
E come a ricordarci tanto Amore, che si fa Dolore e Lacrime, oggi la Chiesa ci presenta il racconto della passione di Gesù, secondo Luca. Quanti di noi ‘vivono di Gesù’, come affermava l’apostolo Paolo, fanno della lettura della Passione, il centro della ‘loro passione’.
E chi non avrebbe voluto raccogliere quelle lacrime di Gesù, lacrime di amore che hanno un valore davvero immenso, per farle proprie, ed essergli così di conforto?
Chi non vorrebbe essere come lavato da quelle lacrime, sicuro di ritrovare la bellezza della vita?
Pensando alle lacrime di Gesù, pare di vedere l’oceano di lacrime della nostra umanità.
Chi non ha conosciuto le lacrime per essersi visto respinto nell’amore?
Quanti uomini, donne, giovani, che avevano trovato il bello della propria vita nel sentirsi amati e nel poter amare, nel vedersi rifiutati, per seguire altri, hanno davvero versato fiumi di lacrime!
Quante mamme, quanti papà hanno pianto di nascosto nel vedere i figli preferire l’inganno del mondo alla loro casa!
Quante lacrime, oggi, si versano per le violenze della guerra: popoli in fuga senza domani, incapaci forse di piangere, ma solo perché ‘sono finite le lacrime’!
Questa settimana santa è proprio il tempo di meditare a fondo se, per caso, Gesù non pianga per noi, per la nostra rovina o come asciugare le lacrime di chi, per un lutto dei propri cari, per una malattia, vive piangendo.
È l’augurio che vorrei fare a tutti i miei lettori: meditiamo a lungo su quelle lacrime di Gesù, per capire non solo quanto ci voglia bene, ma anche per accorgerci se, forse, piange proprio per noi.
E, dopo esserci lasciati ‘lavare’ dalle lacrime di amore di Dio, impariamo a farci vicini a tanti, ma tanti, che piangono e cercano conforto, affetto e comprensione.
Ma impariamo anche a dire ‘Grazie al nostro Dio’, che ha un cuore così grande, che non nasconde il dolore, quando non Lo amiamo e sa piangere per ognuno di noi, per me…
Qui è il vero Volto del Padre. Qui è la vera Pasqua. Che sia così per ognuno di noi.