Archive pour janvier, 2013

FESTA DEL BATTESIMO DI GESÙ – OMELIA

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FESTA DEL BATTESIMO DI GESÙ

mons. Antonio Riboldi

Vangelo: Lc 3,15-16.21-22  

È bello ogni tanto frugare nei propri ricordi e trovare una memoria che forse oggi è stata cancellata, portandosi via i grandi valori ed i perché che conteneva. Piaceva a mia mamma raccontarmi la storia del mio battesimo. Lei era fermamente convinta che ogni figlio è una grande benedizioni di Dio. Si sentiva prediletta dal Signore per il numero di figli avuti in dono: sette.
Affermava: ‘Se i figli sono un dono, non possono essere considerati come una cosa propria’ quindi, ‘doveva essere Dio a chiamarli per nome, anzi a dar loro un nome’, un perché del dono, in sostanza, una vocazione. Per mamma l’essenziale era la fede. Fin quando un figlio non era battezzato lo considerava ‘un figlio senza nome’, quasi ‘senza Padre’. La sua premura era quindi di battezzarlo subito, non attendere più di qualche giorno.
Nacqui in gennaio, tempo di neve in Brianza. E così, il giorno dopo la mia nascita, presi gli accordi con il parroco, fui battezzato e mi fu dato il nome di Antonio, il santo la cui memoria si celebrava il giorno dopo il mio stesso battesimo. Finalmente mamma era sicura che, oltre ad avere il mio papà, ero ora figlio del Padre. Era come se ripetesse anche per me quello che racconta il Vangelo di oggi: « Una voce dal cielo disse: ‘Ecco il mio figlio diletto’. » Mamma trovò la sua gioia completa quando, battezzato, finalmente potè abbracciarmi non più solo come una creatura ‘qualunque’, figlio di questa terra, ma una creatura ‘che apparteneva al Cielo’.
Chiaro che poi il suo atteggiamento, la sua cura materna, sempre, era di totale rispetto, per cui nella sua ‘scaletta’ di amore e valori, metteva Dio sopra tutto e tutti, avviandoci quotidianamente alla conoscenza e all’amore del Padre. In mille modi poi vigilava che nei nostri comportamenti non venisse mai a mancare la coscienza della nostra dignità di uomo, che è nella nobiltà del cuore e nello sviluppo della nostra intelligenza, ma soprattutto della nostra fede.
Eravamo una famiglia che viveva nella povertà. Papà ebbe un incidente sul lavoro e fu licenziato. Una famiglia povera, quindi, ma dignitosa e soprattutto che viveva nella serenità della fede, che dona la certezza di una Provvidenza paterna che ci segue e sostiene, pur non togliendo le inevitabili difficoltà della vita.
Purtroppo oggi in troppi casi non è più così. Il giorno del battesimo si cerca spesso solo la festa e poi nella vita solo il benessere, e tutto finisce lì. Ed abbiamo così figli che si presentano per la Prima Comunione senza neppure sapere il Padre nostro.
Meditiamo insieme quello che diceva il grande Giovanni XXIII a proposito delle famiglie cristiane. Ne vale la pena per recuperare il grande valore di questo fondamentale Sacramento, su cui si fonda tutto il disegno della nostra esistenza. Quale spettacolo si apre allo sguardo, al contemplare il quadro meraviglioso di innumerevoli famiglie, gelose custodi delle virtù più genuine e schiettamente cristiane: ove il padre è erma e sicura guida, esempio di rettitudine, di laboriosità, di sacrificio; ove la madre, come ape industriosa, compie nel silenzio, sostenuta dalla fiducia in Dio, l’ardua missione di educatrice, di lavoratrice; ove i baldi giovani, resi più semplici e schietti al contatto con la natura, e più preservati dai pericoli, crescono puri e forti, speranza e consolazione dei genitori; ove i piccoli, come virgulti di olivo intorno alla mensa, allietano la casa, portando con sé le benedizioni del Signore. Non è un quadro immaginario, quello che abbiamo tracciato, ma una realtà, grazie a Dio tuttora viva; e di molti di questi esempi Noi medesimi ne siamo testimoni compiaciuti e commossi. »
Il Battesimo è quindi un dare senso vero al dono della vita.
Il Vangelo, oggi ci presenta Gesù che va al Giordano, per essere battezzato da Giovanni.
« In quel tempo, poiché il popolo era in attesa e tutti si domandavano in cuor loro, riguardo a Giovanni, se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti, dicendo: ‘Io vi battezzo con acqua, ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco.’. ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: ‘Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento »..(Lc 3, 15-16,21-22)
Giovanni Battista, in attesa di Gesù, predicava un battesimo di penitenza: l’immergersi nelle acque del Giordano era come un voler morire per rinascere.
Anche Gesù, in quanto uomo, volle essere battezzato da Giovanni.
Oggi, quando battezziamo, normalmente si bagna lievemente il capo del battezzando con l’acqua, ma il significato è lo stesso di quella immersione: è il morire dell’uomo vecchio, per rinascere come figli di Dio. Grandissimo sacramento, che dovrebbe consapevolmente ispirare tutta la nostra vita, in quanto figli del Padre.
Giovanni Battista chiamava tutti ad un cambiamento radicale della vita, in attesa del nuovo che sarebbe iniziato con la venuta e l’opera redentrice di Gesù. Gesù è venuto, ci ha salvati ed ora tocca a noi vivere nella quotidianità il nostro battesimo.
Affermava il cardinal Ballestrero, arcivescovo di Torino, nel Sinodo su ‘Vocazione e missione dei laici nella Chiesa’:
« Punto di partenza per tutti, laici e ministri, è il Battesimo, fonte inesauribile che crea nuovi figli di Dio, nuovi fratelli di Cristo, nuove creature. Con il Battesimo e dal Battesimo nasce e si sviluppa la varietà delle vocazioni, dei ministeri e dei carismi al servizio del Regno di Dio. Dal Battesimo fruiscono le ricchezze mirabili della Chiesa ».
Il Concilio ha parole ancora più solenni, parlando di noi battezzati, che danno l’ampiezza di quanto il Padre disse a suo Figlio: ‘Questi è il mio Figlio, nel quale mi sono compiaciuto’
Afferma: ‘Uno è il popolo eletto di Dio, un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, comune a tutti e comune è la dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, comune è la grazia dei figli, comune è la vocazione alla speranza e indivisa carità… Nessuna disuguaglianza quindi in Cristo e nella Chiesa, per riguardo alla stirpe o nazione, alla condizione sociale e al sesso ». (L:G: 32)
Il cardinale poi aggiunge: ‘Molte volte chi si battezza non lo sa e chi lo chiede non è convinto… Come mai è tenuto in così poco conto questo valore da tanti battezzati che forse considerano il Battesimo solo un rito da compiersi, ma non una rigenerazione in Cristo?’.
Come mai, ci possiamo interrogare, non ci si sente addosso la luce dell’essere figli di Dio, che è il più bel vestito che possa coprire la povertà dell’uomo? Come mai non spunta sulle labbra la gioia di dire: ‘Io sono battezzato’, ossia uno che Dio ha voluto come figlio ed ama come solo un Padre sa amare?
Credo proprio che la Festività del Battesimo di Gesù, debba oggi risvegliare la nostra coscienza e ravvivare la gioia di essere divenuti figli del Padre, che appartengono al Suo Regno. Gesù ci aiuti allora a riscoprire la bellezza della nostra vera natura di figli, per viverla intensamente, sempre, in ogni pensiero, gesto e scelta della nostra vita.

L’ESPRIT SAINT

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http://jesus.marie.joseph.free.fr/spip.php?page=esprit&id_article=4

Publié dans:immagini sacre |on 9 janvier, 2013 |Pas de commentaires »

Una preghiera per l’Avvento di sant’Ambrogio

 http://www.cantualeantonianum.com/2012/12/ambrogio-celebra-la-messa-assistito-dai.html

 Una preghiera per l’Avvento di sant’Ambrogio

Ambrogio celebra la Messa assistito dai diaconi (Milano – Basilica di s. Ambrogio)
Sant’Ambrogio (340-397), Vescovo e Dottore della Chiesa (una dei primi quattro grandi dottori d’Occidente), la cui festa ricorre oggi, ci ispira nel cammino dell’Avvento con questa bellissima preghiera di invocazione, tutta trapuntata di citazioni e allusioni bibliche. E’ tratta dai suoi scritti in commento ai Salmi, ma – come si vede – è un colloquio con Gesù, una richiesta ardente della sua venuta come Pastore a prendersi cura della pecorella smarrita. Il Signore, che viene « in persona » ci accoglie in Maria « vergine immune, per effetto della grazia, da ogni macchia di peccato », come la sentiamo cantare da Ambrogio in questa vigilia dell’Immacolata Concezione.
Una vita antica del Santo fu scritta da Paolino, suo segretario, e si può leggere a questo link.

CERCA, O SIGNORE, LA TUA PECORA STANCA
dal Commento al Salmo CXVIII 22, 28-30 di S. Ambrogio di Milano

Ps. 118, 176: Quaere servum tuum, quia mandata tua non sum oblitus…

Vieni dunque, Signore Gesù, cerca il tuo servo[Sal 118,176]
cerca la tua pecora stanca.
Vieni, pastore,
cerca, come Giuseppe cercava le pecore[Gn 37,14].
Ha errato la tua pecora,
mentre tu indugi, mentre ti aggiri sui monti.
Lascia andare le tue novantanove pecore
e vieni a cercare la sola pecora che ha errato[Mt 18,12 ss; Lc 15,4].
Vieni senza cani, vieni senza cattivi operai,
vieni senza il servo mercenario,
che non sa passare per la porta[Gv 10,1-7].
Vieni senza aiutante, senza messaggero.
Già da tempo aspetto la tua venuta.
Infatti so che verrai,
«poiché non ho dimenticato i tuoi comandamenti»[Sal 118,176].
Vieni non «con la verga,
ma con carità e in spirito di mansuetudine»[lCor 4,21].
Non esitare a lasciare sui monti le tue novantanove pecore,
poiché i lupi rapaci[Mt 7,15; At 20,29] non possono attaccarle finché stanno sui monti.
Nel paradiso il serpente è riuscito a nuocere solo una volta,
ma dopo che Adamo ne è stato scacciato
ha perduto l’esca e là non potrà più nuocere.
Vieni da me, che sono tormentato dall’attacco di lupi pericolosi.
Vieni da me, che sono stato scacciato dal paradiso
e le cui piaghe sono da tempo penetrate dai veleni del serpente,
da me che ho errato lontano dalle tue greggi su quei monti.
Anche me tu avevi collocato qui,
ma il lupo notturno mi ha allontanato dai tuoi ovili.
Cercami, poiché io ti cerco,
cercami, trovami, prendimi, portami.
Tu puoi trovare colui che cerchi,
ti degni di prendere colui che hai trovato,
ti porti sulle spalle colui che hai preso.
Non ti infastidisce un peso che ti ispira pietà,
non ti pesa un trasporto di giustizia.
Vieni dunque, Signore, poiché anche se ho errato,
tuttavia «non ho dimenticato i tuoi comandamenti»
e conservo la speranza della medicina.
Vieni, Signore, perché tu solo sei in grado
di far tornare indietro la pecora errante
e non rattristerai quelli da cui ti sei allontanato.
E anche loro si rallegreranno del ritorno del peccatore.
Vieni ad attuare la salvezza sulla terra, la gioia nel cielo.
Vieni, dunque, e cerca la tua pecora
non per mezzo dei servitori,
non per mezzo dei mercenari,
ma tu in persona.
Accoglimi nella carne che è caduta in Adamo.
Accoglimi non da Sara[Gn 17,15], ma da Maria,
perché sia non soltanto una vergine inviolata,
ma una vergine immune, per effetto della grazia,
da ogni macchia di peccato.
Portami sulla croce che da la salvezza agli erranti,
soltanto nella quale c’è riposo per gli affaticati,
soltanto nella quale vivranno tutti quelli che muoiono.

Testo preso da: Una preghiera per l’Avvento di sant’Ambrogio http://www.cantualeantonianum.com/2012/12/ambrogio-celebra-la-messa-assistito-dai.html#ixzz2HV1hXRIg
http://www.cantualeantonianum.com

PAPA BENEDETTO: « CHI NON RIESCE A DONARE UN PO’ DI SE STESSO, DONA SEMPRE TROPPO POCO »

http://www.zenit.org/article-34908?l=italian

« CHI NON RIESCE A DONARE UN PO’ DI SE STESSO, DONA SEMPRE TROPPO POCO »

La catechesi di Benedetto XVI durante l’Udienza generale di questa mattina

CITTA’ DEL VATICANO, Wednesday, 9 January 2013 (Zenit.org).
L’Udienza Generale di questa mattina è si svolta alle ore 10.30 nell’Aula Paolo VI dove il Santo Padre ha incontrato gruppi di fedeli e pellegrini provenienti dall’Italia e da ogni parte del mondo. Nel discorso in lingua italiana il Papa, si è soffermato ancora sul tempo liturgico del Natale e sul Mistero dell’incarnazione. L’Udienza Generale si è conclusa con il canto del Pater Noster e la Benedizione Apostolica. Di seguito il testo della catechesi del Santo Padre.
***
Cari fratelli e sorelle,
in questo tempo natalizio ci soffermiamo ancora una volta sul grande mistero di Dio che è sceso dal suo Cielo per entrare nella nostra carne. In Gesù, Dio si è incarnato, è diventato uomo come noi, e così ci ha aperto la strada verso il suo Cielo, verso la comunione piena con Lui.
In questi giorni, nelle nostre chiese è risuonato più volte il termine « Incarnazione » di Dio, per esprimere la realtà che celebriamo nel Santo Natale: il Figlio di Dio si è fatto uomo, come recitiamo nel Credo. Ma che cosa significa questa parola centrale per la fede cristiana? Incarnazione deriva dal latino « incarnatio ». Sant’Ignazio di Antiochia – fine del primo secolo – e, soprattutto, sant’Ireneo hanno usato questo termine riflettendo sul Prologo del Vangelo di san Giovanni, in particolare sull’espressione: « Il Verbo si fece carne » (Gv 1,14).
Qui la parola « carne », secondo l’uso ebraico, indica l’uomo nella sua integralità, tutto l’uomo, ma proprio sotto l’aspetto della sua caducità e temporalità, della sua povertà e contingenza. Questo per dirci che la salvezza portata dal Dio fattosi carne in Gesù di Nazaret tocca l’uomo nella sua realtà concreta e in qualunque situazione si trovi. Dio ha assunto la condizione umana per sanarla da tutto ciò che la separa da Lui, per permetterci di chiamarlo, nel suo Figlio Unigenito, con il nome di « Abbà, Padre » ed essere veramente figli di Dio.
Sant’Ireneo afferma: «Questo è il motivo per cui il Verbo si è fatto uomo, e il Figlio di Dio, Figlio dell’uomo: perché l’uomo, entrando in comunione con il Verbo e ricevendo così la filiazione divina, diventasse figlio di Dio» (Adversus haereses, 3,19,1: PG 7,939; cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 460).
« Il Verbo si fece carne » è una di quelle verità a cui ci siamo così abituati che quasi non ci colpisce più la grandezza dell’evento che essa esprime. Ed effettivamente in questo periodo natalizio, in cui tale espressione ritorna spesso nella liturgia, a volte si è più attenti agli aspetti esteriori, ai « colori » della festa, che al cuore della grande novità cristiana che celebriamo: qualcosa di assolutamente impensabile, che solo Dio poteva operare e in cui possiamo entrare solamente con la fede.
Il Logos, che è presso Dio, il Logos che è Dio, il Creatore del mondo, (cfr Gv 1,1), per il quale furono create tutte le cose (cfr 1,3), che ha accompagnato e accompagna gli uomini nella storia con la sua luce (cfr 1,4-5; 1,9), diventa uno tra gli altri, prende dimora in mezzo a noi, diventa uno di noi (cfr 1,14). Il Concilio Ecumenico Vaticano II afferma: «Il Figlio di Dio … ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria Vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato» (Cost. Gaudium et spes, 22).
E’ importante allora recuperare lo stupore di fronte a questo mistero, lasciarci avvolgere dalla grandezza di questo evento: Dio, il vero Dio, Creatore di tutto, ha percorso come uomo le nostre strade, entrando nel tempo dell’uomo, per comunicarci la sua stessa vita (cfr 1 Gv 1,1-4). E lo ha fatto non con lo splendore di un sovrano, che assoggetta con il suo potere il mondo, ma con l’umiltà di un bambino.
Vorrei sottolineare un secondo elemento. Nel Santo Natale di solito si scambia qualche dono con le persone più vicine. Talvolta può essere un gesto fatto per convenzione, ma generalmente esprime affetto, è un segno di amore e di stima. Nella preghiera sulle offerte della Messa dell’aurora della Solennità di Natale la Chiesa prega così: «Accetta, o Padre, la nostra offerta in questa notte di luce, e per questo misterioso scambio di doni trasformaci nel Cristo tuo Figlio, che ha innalzato l’uomo accanto a te nella gloria».
Il pensiero della donazione, quindi, è al centro della liturgia e richiama alla nostra coscienza l’originario dono del Natale: in quella notte santa Dio, facendosi carne, ha voluto farsi dono per gli uomini, ha dato se stesso per noi; Dio ha fatto del suo Figlio unico un dono per noi, ha assunto la nostra umanità per donarci la sua divinità. Questo è il grande dono.
Anche nel nostro donare non è importante che un regalo sia costoso o meno; chi non riesce a donare un po’ di se stesso, dona sempre troppo poco; anzi, a volte si cerca proprio di sostituire il cuore e l’impegno di donazione di sé con il denaro, con cose materiali. Il mistero dell’Incarnazione sta ad indicare che Dio non ha fatto così: non ha donato qualcosa, ma ha donato se stesso nel suo Figlio Unigenito. Troviamo qui il modello del nostro donare, perché le nostre relazioni, specialmente quelle più importanti, siano guidate dalla gratuità dell’amore.
Vorrei offrire una terza riflessione: il fatto dell’Incarnazione, di Dio che si fa uomo come noi, ci mostra l’inaudito realismo dell’amore divino. L’agire di Dio, infatti, non si limita alle parole, anzi potremmo dire che Egli non si accontenta di parlare, ma si immerge nella nostra storia e assume su di sé la fatica e il peso della vita umana.
Il Figlio di Dio si è fatto veramente uomo, è nato dalla Vergine Maria, in un tempo e in un luogo determinati, a Betlemme durante il regno dell’imperatore Augusto, sotto il governatore Quirino (cfr Lc 2,1-2); è cresciuto in una famiglia, ha avuto degli amici, ha formato un gruppo di discepoli, ha istruito gli Apostoli per continuare la sua missione, ha terminato il corso della sua vita terrena sulla croce.
Questo modo di agire di Dio è un forte stimolo ad interrogarci sul realismo della nostra fede, che non deve essere limitata alla sfera del sentimento, delle emozioni, ma deve entrare nel concreto della nostra esistenza, deve toccare cioè la nostra vita di ogni giorno e orientarla anche in modo pratico. Dio non si è fermato alle parole, ma ci ha indicato come vivere, condividendo la nostra stessa esperienza, fuorché nel peccato.
Il Catechismo di san Pio X, che alcuni di noi hanno studiato da ragazzi, con la sua essenzialità, alla domanda: «Per vivere secondo Dio, che cosa dobbiamo fare?», dà questa risposta: «Per vivere secondo Dio dobbiamo credere le verità rivelate da Lui e osservare i suoi comandamenti con l’aiuto della sua grazia, che si ottiene mediante i sacramenti e l’orazione». La fede ha un aspetto fondamentale che interessa non solo la mente e il cuore, ma tutta la nostra vita.
Un ultimo elemento propongo alla vostra riflessione. San Giovanni afferma che il Verbo, il Logos era fin dal principio presso Dio, e che tutto è stato fatto per mezzo del Verbo e nulla di ciò che esiste è stato fatto senza di Lui (cfr Gv 1,1-3). L’Evangelista allude chiaramente al racconto della creazione che si trova nei primi capitoli del Libro della Genesi, e lo rilegge alla luce di Cristo.
Questo è un criterio fondamentale nella lettura cristiana della Bibbia: l’Antico e il Nuovo Testamento vanno sempre letti insieme e a partire dal Nuovo si dischiude il senso più profondo anche dell’Antico. Quello stesso Verbo, che esiste da sempre presso Dio, che è Dio Egli stesso e per mezzo del quale e in vista del quale tutto è stato creato (cfr Col 1,16-17), si è fatto uomo: il Dio eterno e infinito si è immerso nella finitezza umana, nella sua creatura, per ricondurre l’uomo e l’intera creazione a Lui.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma: «La prima creazione trova il suo senso e il suo vertice nella nuova creazione in Cristo, il cui splendore supera quello della prima» (n. 349). I Padri della Chiesa hanno accostato Gesù ad Adamo, tanto da definirlo «secondo Adamo» o l’Adamo definitivo, l’immagine perfetta di Dio. Con l’Incarnazione del Figlio di Dio avviene una nuova creazione, che dona la risposta completa alla domanda «Chi è l’uomo?».
Solo in Gesù si manifesta compiutamente il progetto di Dio sull’essere umano: Egli è l’uomo definitivo secondo Dio. Il Concilio Vaticano II lo ribadisce con forza: «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo… Cristo, nuovo Adamo, manifesta pienamente l’uomo all’uomo e gli svela la sua altissima vocazione» (Cost. Gaudium et spes, 22; cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 359).
In quel bambino, il Figlio di Dio contemplato nel Natale, possiamo riconoscere il vero volto, non solo di Dio, ma il vero volto dell’essere umano; e solo aprendoci all’azione della sua grazia e cercando ogni giorno di seguirlo, noi realizziamo il progetto di Dio su di noi, su ciascuno di noi.
Cari amici, in questo periodo meditiamo la grande e meravigliosa ricchezza del Mistero dell’Incarnazione, per lasciare che il Signore ci illumini e ci trasformi sempre più a immagine del suo Figlio fatto uomo per noi.

Baby Jesus with Mary and Joseph, Don Bosco, Torino

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http://www.donbosco-torino.it/image/Archivio/index2xx.htm

Publié dans:immagini sacre |on 8 janvier, 2013 |Pas de commentaires »

AGIRE SIMBOLICO: IN SILENZIO

 http://www.artcurel.it/ARTCUREL/RELIGIONE/TEOLOGIA%20SIMBOLICA/agiresimbolicosilenzio.htm

AGIRE SIMBOLICO: IN SILENZIO

di Sante Babolin

Nella celebrazione eucaristica, sovente si richiede una pausa di silenzio: dopo il saluto, prima dell’atto penitenziale e di proclamare le orazioni, dopo l’omelia e la comunione. Poi, caso singolare, il silenzio apre la liturgia del Venerdì santo: « il sacerdote e i sacri ministri si recano all’altare e, fatta la riverenza, si prostrano a terra o s’inginocchiano: tutti in silenzio pregano per breve tempo ». Nelle regole monastiche il silenzio è considerato « grande cerimonia » e quindi più espressivo della parola. Nella preghiera, il tema del silenzio raccoglie altri temi importanti: esame di coscienza, meditazione, adorazione. Ci viene spontaneo allora domandarci: quando il silenzio è « grande cerimonia » dentro l’Eucaristia? quando funziona come pausa nell’esecuzione d’una « musica corale » come potrebbe essere considerata un’azione liturgica? quando esprime adorazione?   
SIMBOLICA DEL SILENZIO                                                                  
Considerato come azione simbolica, il silenzio assume un significato positivo o negativo, nel senso che la bocca resta chiusa, o perché si prepara ad aprirsi o perché non vuole aprirsi: il silenzio è preludio alla parola e alla rivelazione, il mutismo è chiusura alla comunicazione e alla rivelazione per rifiuto di riceverla o di trasmetterla o per punizione di averla offuscata nella confusione dei gesti e delle passioni; il silenzio è preparazione al dono, il mutismo è rifiuto del dono (toglie la parola per togliere l’amore). Il silenzio racchiude grandi avvenimenti, il mutismo li occulta; l’uno dà alle cose grandezza e maestà, l’altro le deprezza e le degrada; l’uno segna un progresso, l’altro un regresso. Nel rito eucaristico il silenzio richiesto deve compiersi con significato positivo e non come mutismo: secondo la sacra Scrittura, vi fu silenzio prima della creazione e vi sarà silenzio alla fine dei tempi; nel momento presente siamo invitati a « fare silenzio » di fronte alla maestà di Dio, coltivando l’adorazione nel cuore: « Il Signore risiede nel suo tempio santo; taccia davanti a lui tutta la terra » (Ab 2, 20). Dio si rivela all’anima che fa regnare il silenzio dentro di sé, ma rende muto e insensibile chi si perde in chiacchiere (rumore e confusione), proprio come l’Agnello dell’Apocalisse che, prima di aprire il settimo e ultimo sigillo, attende che si faccia silenzio (Ap 8, 1). Inoltre, sempre seguendo alcuni testi della sacra Scrittura, scopriamo che il silenzio vie ne spesso espresso con il termine greco esichía, pure usato per esprimere tranquillità, calma, mitezza e pace. Paolo raccomanda a Timoteo « di far pregare per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità » (1Tm 2, 2); e Pietro, sullo stesso tono, invita i cristiani « a cercare ciò che è prezioso davanti a Dio e cioè ad ornare l’interno del cuore con un’anima incorruttibile piena di mitezza e di pace » (1Pt 3, 4). Dobbiamo allora riconoscere che il significato del gesto di « tenere la bocca chiusa », per un processo di naturale isomorfismo, si dilata fino a congiungere altri significati simili: quiete, calma, pace, pazienza e mitezza: atteggiamenti che convergono nello stato d’animo più profondo del dominio di sé: si fa silenzio per diventare « signori di se stessi ». D’altra parte, per « possederci » ed entrare nel silenzio abbiamo pure bisogno di sentirci bene nella nostra pelle, di ascoltarci nel profondo senza giudicarci e mantenendo un costante atteggiamento di umiltà di fronte alla maestà di Dio e di abbandono al suo amore di Padre: « io non giudico me stesso, confessa Paolo ai cristiani di Corinto, perché anche se non sono consapevole di colpa alcuna non per questo sono giustificato; mio giudice è il Signore » (1Cor 4, 3-4). Il silenzio, richiesto nei momenti richiamati sopra, sembra sia un nongesto, mentre realizza una vera e propria esichìa eucaristica; su questo tracciato si potrebbe sviluppare una felice riflessione sulla dimensione eucaristica dell’esicasmo. Soltanto qualche pennellata.
Virginio Ciminaghi: litografia per l’Evangeliario delle Chiese d’Italia: le dieci vergini. « A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli incontro! » (cf Mt 25,1-13). L’artista raffigura il grido che « taglia » il silenzio nel mezzo della notte, come una lama affilata, verticale
ESICASMO DI LUCE E D’AMORE
Dopo la consacrazione, la rubrica liturgica suggerisce che, quando il sacerdote presenta al popolo i santi Doni, tutti fissino lo sguardo sull’Ostia consacrata e sul Calice e adorino il Corpo e il Sangue di Cristo. Qui il silenzio, che chiude la bocca, apre gli occhi per farci contemplare (theoréin) i segni sacramentali dell’amore sconvolgente di Dio, del suo manikòs eros (espressione tanto cara a S. Massimo il Confessore), come ai piedi della Croce sul calvario, quando « tutte le folle che erano accorse a quello spettacolo (theoria), ripensando (theorésantes) a quanto era accaduto, se ne tornavano percotendosi il petto » (Lc 23, 48). Il silenzio eucaristico è quindi accoglienza pura, è farsi terra « informe e deserta »: è quindi la « grande celebrazione » del Venerdì santo (passione e morte del Signore) che fissa il significato spirituale del silenzio eucaristico e ci indica come possiamo diventare « silenzio – esichìa », piena e incondizionata disponibilità alla volontà salvifica del Padre: « Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per me, la salverà » (Lc 9, 23-24). Il silenzio richiesto dopo la comunione assume altro significato complementare: è l’amore sponsale per Gesù, è cedere alla sua divina seduzione per essere con lui una cosa sola. È l’ardente desiderio che Gesù espresse nella preghiera al Padre, a voce alta perché i suoi discepoli sapessero quanto era grande e sincero questo desiderio di essere uno con loro: « Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me, perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me eio in te, siano anch’essi in noi una cosa sola: io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità » (Gv 17, 20-21. 23). Qui entra in azione tutta la spiritualità del Cantico dei Cantici: « Somiglia il mio diletto a un capriolo o ad un cerbiatto. Eccolo, egli sta dietro il nostro muro, guarda dalla finestra, spia attraverso le inferriate » (Ct 2, 9). Anche il cristiano, che ama profondamente il suo Signore e trova in lui tutta la gioia della vita, spia continuamente l’amico dell’anima per scoprire quello che gli piace. È da questa operazione d’amore che prende forma ogni tentativo d’imitare Cristo: è l »amore che stimola ogni cammino di santità. Gli spazi di silenzio, vissuti con consapevole profondità nell’Eucaristica, possono favorire anche una « cultura del silenzio », una specie di esicasmo moderno, che sarebbe salutare innanzitutto nella vita personale e nelle relazioni sociali, in cui troppo spesso dominano l’agitazione e la superficialità: coltivare il silenzio significa esercitarci nell’attenzione per l’altro, esaminarci per capirci di più e non chiuderci nel nostro narcisismo, riflettere sulle nostre scelte e prevederne le conseguenze, così da fuggire da una irresponsabile spontaneità che talvolta può costarci cara. invece nella vita di fede coltivare il silenzio significa « vivere tutto alla presenza di Dio », puntando a diventare quei veri adoratori in spirito e verità che il Padre sta cercando. Alla Samaritana che chiedeva a Gesù dove si deve adorare Dio, Gesù rispose: « Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre, poiché i veri adoratori lo adoreranno in spirito e verità; e il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità » (Gv 4, 21.23-24). Concludendo, anche le pause di silenzio nel rito eucaristico sono gesti importanti, che vanno eseguiti veramente (almeno per alcuni secondi e, talvolta, per qualche minuto), con convinzione ed interiorità; posti così, cominciano a dire la loro parola che può illuminare la mente e riscaldare il cuore, favorendo un rapporto più intimo con Dio e più vero con i fratelli.

Publié dans:liturgia, Teologia |on 8 janvier, 2013 |Pas de commentaires »

PAPA BENEDETTO: «VA’ E ANCHE TU FA’ LO STESSO» – Messaggio del Papa per la Giornata Mondiale del Malato 2013

http://www.zenit.org/article-34888?l=italian

«VA’ E ANCHE TU FA’ LO STESSO»

Messaggio del Papa per la Giornata Mondiale del Malato 2013

CITTA’ DEL VATICANO, Tuesday, 8 January 2013 (Zenit.org).
Pubblichiamo di seguito il messaggio di papa Benedetto XVI per la XXI Giornata Mondiale del Malato, in programma l’11 febbraio prossimo, memoria liturgica della Madonna di Lourdes. Quest’anno, la Giornata verrà celebrata in forma solenne presso il santuario mariano di Altötting, in Baviera (Germania).
***
«Va’ e anche tu fa’ lo stesso» (Lc 10, 37)
Cari fratelli e sorelle!
1. L’11 febbraio 2013, memoria liturgica della Beata Vergine Maria di Lourdes, si celebrerà in forma solenne, presso il Santuario mariano di Altötting, la XXI Giornata Mondiale del Malato. Tale giornata è per i malati, per gli operatori sanitari, per i fedeli cristiani e per tutte le persone di buona volontà «momento forte di preghiera, di condivisione, di offerta della sofferenza per il bene della Chiesa e di richiamo per tutti a riconoscere nel volto del fratello infermo il Santo Volto di Cristo che, soffrendo, morendo e risorgendo ha operato la salvezza dell’umanità» (Giovanni Paolo II, Lettera istitutiva della Giornata Mondiale del Malato, 13 maggio 1992, 3). In questa circostanza, mi sento particolarmente vicino a ciascuno di voi, cari ammalati che, nei luoghi di assistenza e di cura o anche a casa, vivete un difficile momento di prova a causa dell’infermità e della sofferenza. A tutti giungano le parole rassicuranti dei Padri del Concilio Ecumenico Vaticano II: «Non siete né abbandonati, né inutili: voi siete chiamati da Cristo, voi siete la sua trasparente immagine» (Messaggio ai poveri, ai malati e ai sofferenti).
2. Per accompagnarvi nel pellegrinaggio spirituale che da Lourdes, luogo e simbolo di speranza e di grazia, ci conduce verso il Santuario di Altötting, vorrei proporre alla vostra riflessione la figura emblematica del Buon Samaritano (cfr Lc 10,25-37). La parabola evangelica narrata da san Luca si inserisce in una serie di immagini e racconti tratti dalla vita quotidiana, con cui Gesù vuole far comprendere l’amore profondo di Dio verso ogni essere umano, specialmente quando si trova nella malattia e nel dolore. Ma, allo stesso tempo, con le parole conclusive della parabola del Buon Samaritano, «Va’ e anche tu fa’ lo stesso» (Lc 10,37), il Signore indica qual è l’atteggiamento che deve avere ogni suo discepolo verso gli altri, particolarmente se bisognosi di cura. Si tratta quindi di attingere dall’amore infinito di Dio, attraverso un’intensa relazione con Lui nella preghiera, la forza di vivere quotidianamente un’attenzione concreta, come il Buon Samaritano, nei confronti di chi è ferito nel corpo e nello spirito, di chi chiede aiuto, anche se sconosciuto e privo di risorse. Ciò vale non solo per gli operatori pastorali e sanitari, ma per tutti, anche per lo stesso malato, che può vivere la propria condizione in una prospettiva di fede: «Non è lo scansare la sofferenza, la fuga davanti al dolore, che guarisce l’uomo, ma la capacità di accettare la tribolazione e in essa di maturare, di trovare senso mediante l’unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore» (Enc. Spe salvi, 37).
3. Vari Padri della Chiesa hanno visto nella figura del Buon Samaritano Gesù stesso, e nell’uomo incappato nei briganti Adamo, l’Umanità smarrita e ferita per il proprio peccato (cfr Origene, Omelia sul Vangelo di Luca XXXIV, 1-9; Ambrogio, Commento al Vangelo di san Luca, 71-84;  Agostino,  Discorso 171). Gesù è il Figlio di Dio, Colui che rende presente l’amore del Padre, amore  fedele, eterno, senza barriere né confini. Ma Gesù è anche Colui che “si spoglia” del suo “abito divino”, che si abbassa dalla sua “condizione” divina, per assumere forma umana (Fil 2,6-8) e accostarsi al dolore dell’uomo, fino a scendere negli inferi, come recitiamo nel Credo, e portare speranza e luce. Egli non considera un tesoro geloso il suo essere uguale a Dio, il suo essere Dio (cfr Fil 2,6), ma si china, pieno di misericordia, sull’abisso della sofferenza umana, per versare l’olio della consolazione e il vino della speranza.
4. L’Anno della fede che stiamo vivendo costituisce un’occasione propizia per intensificare la diaconia della carità nelle nostre comunità ecclesiali, per essere ciascuno buon samaritano verso l’altro, verso chi ci sta accanto. A questo proposito, vorrei richiamare alcune figure, tra le innumerevoli nella storia della Chiesa, che hanno aiutato le persone malate a valorizzare la sofferenza sul piano umano e spirituale, affinché siano di esempio e di stimolo. Santa Teresa del Bambino Gesù e del Volto Santo, “esperta della scientia amoris” (Giovanni Paolo II, Lett. ap., Novo Millennio ineunte, 42), seppe vivere «in unione profonda alla Passione di Gesù» la malattia che la condusse «alla morte attraverso grandi sofferenze». (Udienza Generale, 6 aprile 2011). Il Venerabile Luigi Novarese, del quale molti ancora oggi serbano vivo il ricordo, nell’esercizio del suo ministero avvertì in modo particolare l’importanza della preghiera per e con gli ammalati e i sofferenti, che accompagnava spesso nei Santuari mariani, in speciale modo alla grotta di Lourdes. Mosso dalla carità verso il prossimo, Raoul Follereau ha dedicato la propria vita alla cura delle persone affette dal morbo di Hansen sin nelle aree più remote del pianeta, promuovendo fra l’altro la Giornata Mondiale contro la Lebbra. La beata Teresa di Calcutta iniziava sempre la sua giornata incontrando Gesù nell’Eucaristia, per uscire poi nelle strade con la corona del Rosario in mano ad incontrare e servire il Signore presente nei sofferenti, specialmente in coloro che sono “non voluti, non amati, non curati”. Sant’Anna Schäffer di Mindelstetten seppe, anche lei, in modo esemplare unire le proprie sofferenze a quelle di Cristo: «il letto di dolore diventò… cella conventuale e la sofferenza costituì il suo servizio missionario… Confortata dalla Comunione quotidiana, ella diventò un’instancabile strumento di intercessione nella preghiera e un riflesso dell’amore di Dio per molte persone che cercavano il suo consiglio» (Omelia per la canonizzazione, 21 ottobre 2012). Nel Vangelo emerge la figura della Beata Vergine Maria, che segue il Figlio sofferente fino al supremo sacrificio sul Golgota. Ella non perde mai la speranza nella vittoria di Dio sul male, sul dolore e sulla morte, e sa accogliere con lo stesso abbraccio di fede e di amore il Figlio di Dio nato nella grotta di Betlemme e morto sulla croce. La sua ferma fiducia nella potenza divina viene illuminata dalla Risurrezione di Cristo, che dona speranza a chi si trova nella sofferenza e rinnova la certezza della vicinanza e della consolazione del Signore.
5. Vorrei infine rivolgere il mio pensiero di viva riconoscenza e di incoraggiamento alle istituzioni sanitarie cattoliche e alla stessa società civile, alle diocesi, alle comunità cristiane, alle famiglie religiose impegnate nella pastorale sanitaria, alle associazioni degli operatori sanitari e del volontariato. In tutti possa crescere la consapevolezza che «nell’accoglienza amorosa e generosa di ogni vita umana, soprattutto se debole e malata, la Chiesa vive oggi un momento fondamentale della sua missione» (Giovanni Paolo II, Esort. ap. postsinodale Christifideles laici, 38).
Affido questa XXI Giornata Mondiale del Malato all’intercessione della Santissima Vergine Maria delle Grazie venerata ad Altötting, affinché accompagni sempre l’umanità sofferente, in cerca di sollievo e di ferma speranza, aiuti tutti coloro che sono coinvolti nell’apostolato della misericordia a diventare dei buoni samaritani per i loro fratelli e sorelle provati dalla malattia e dalla sofferenza, mentre ben volentieri imparto la Benedizione Apostolica.
Dal Vaticano, 2 gennaio 2013

The Magi’s Journey

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Publié dans:immagini sacre |on 7 janvier, 2013 |Pas de commentaires »

LA LITURGIA DEL NATALE A BETLEMME

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LA LITURGIA DEL NATALE A BETLEMME

I luoghi in relazione al Natale di Nostro Signore sono stati oggetto di venerazione dai primi tempi del cristianesimo.

LA FESTA DELL’EPIFANIA 
I primi documenti liturgici (l’Itinerario della pellegrina spagnola Egeria e il Lezionario Armeno di Gerusalemme che riferisce usi liturgici dei secoli IV e V) ci danno notizie della celebrazione della festa di Epifania.
L’Epifania apriva l’anno liturgico con una celebrazione il giorno 5 gennaio verso le quattro del pomeriggio nel Luogo dei Pastori non lontano da Betlemme. La celebrazione iniziava con i salmi che presentano la figura del pastore. Così il Salmo 22 che dice: « Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla »; seguiva l’alleluia: « Tu, pastore d’Israele, ascolta, tu che guidi Giuseppe come un gregge » (Sal 79,1). Questi canti profetici preparavano l’ambiente alla proclamazione del Vangelo di Luca (2,8-20) con cui si celebrava l’annuncio della Buona Novella degli Angeli ai pastori, l’Inno di Gloria e Pace del coro degli Angeli, l’andata pronta e gioiosa dei pastori al luogo della Nascita del Salvatore e il loro ritorno al Campo, chiamato ininterrottamente dei Pastori o Ovile in memoria di questi avvenimenti. Al Vangelo seguivano undici letture dell’Antico Testamento. I fedeli nella contemplazione ricordavano gli antichi prodigi della divina Provvidenza, al fine di prepararsi al mistero della nascita del Messia.
Dopo questo familiare dialogo del popolo, raccolto in festa, con la Parola di Dio si passava alla celebrazione dell’Eucaristia col cantico di Daniele (3,52a-90) e a suo tempo si leggeva il Vangelo di san Matteo (2,1-12) o della manifestazione; infatti narra la peregrinazione dei Magi dall’Oriente al seguito della Stella per adorare il neonato Re dei Giudei, l’incontro con Erode, il riapparire della Stella, l’adorazione con l’offerta dei doni e il ritorno per altra via al loro paese.
La celebrazione vespertina appena descritta era celebrata dalle comunità di Gerusalemme e Betlemme unite. Ma una volta finita la funzione, il vescovo di Gerusalemme tornava con i suoi, perché doveva celebrare la liturgia in città. Qui arrivavano prima che si facesse giorno, cioè quando il chiarore era tale da permettere di distinguere le persone. Quelli di Betlemme, invece, in particolare clero e monaci, entrati nella chiesa della Natività, con inni e antifone continuavano la veglia fino all’alba.
Il giorno della festa di Epifania la comunità di Gerusalemme nella celebrazione dell’eucarestia leggeva il Vangelo di san Matteo (1,18-25), che racconta come avvenne la nascita dell’Emmanuele, Dio con noi. Lo stesso Vangelo si leggeva con ogni probabilità nel luogo della Natività del Signore.
La celebrazione dell’Epifania, che si protraeva per ben otto giorni, univa le due città vicine nell’ambiente festivo. La letizia pervadeva l’animo di tutto il clero, monaci e fedeli. I paramenti del clero apparivano splendenti con ricami in seta e oro. E non basta, ma anche gli edifici sacri si vestivano a festa con lo splendore di tende sontuose. Inoltre l’illuminazione di torce, candelabri e lucerne illuminava a giorno le veglie festive che salutavano la nascita del Signore della Luce. Lui, infatti, Sole dall’Oriente, si manifestava a tutto il mondo come gioioso araldo del Mattino.

LA FESTA DEL NATALE AL 25 DICEMBRE 
In questi tempi la festa dell’Epifania si celebrava il 6 gennaio come dice il Lezionario Armeno e commemorava il duplice mistero della Nascita e dell’Epifania o Manifestazione del Salvatore alle genti.
Ma nel secolo V al tempo del vescovo Giovenale (421-452), imitando l’uso di Roma, anche la chiesa di Gerusalemme celebrava la festività del Natale il 25 dicembre, giorno in cui si festeggiavano i santi Giacomo e Davide. Il Lezionario Georgiano di Gerusalemme (dei secoli V-VIII) testimonia la festa del Natale il 25 dicembre. Secondo questo documento liturgico all’ora sesta, cioè mezzogiorno del 24, la Comunità di Gerusalemme, superando il freddo della stagione e la fatica del cammino piuttosto scomodo, s’incamminava all’Ovile o Campo dei Pastori. Nella stazione liturgica si leggeva il Vangelo dell’Annuncio degli Angeli ai pastori, la loro andata frettolosa a Betlemme, l’Adorazione al Bambino e il loro ritorno al Campo (Lc 2,8-20). Subito dopo la Comunità, emulando i pastori, s’incamminava verso la Città di Davide e, attraversando la piccola pianura, saliva il pendio del colle ed entrava nella Grotta della Natività. Quì si faceva l’ufficio vespertino con la lettura della Nascita di Gesù (Mt 1,18-25).
A mezzanotte si celebrava una veglia con salmi, letture bibliche e cantici che trovavano il loro culmine nel Vangelo di san Luca (2,1-7) con la Nascita di Gesù, l’avvolgimento in fasce e la deposizione nella mangiatoia. Verso l’alba veniva celebrata la Divina Liturgia o Eucaristia. L’alba veniva salutata con la proclamazione del Vangelo dell’Epifania o Manifestazione alle genti; veniva letto il Vangelo di Matteo (2,1-23) che contiene il mistero dell’adorazione dei Magi, la Fuga in Egitto e il ritorno dall’Egitto.

IL BATTESIMO DEL SIGNORE 
Lo stesso Lezionario Georgiano pone la festa dell’Epifania il 6 gennaio con inizio all’ora nona della vigilia. Siccome il 6 gennaio si commemorava il Battesimo del Signore, la Comunità di Gerusalemme non veniva a Bettlemme per la liturgia. Si leggevano i brani della Predicazione di Giovanni il Battista, il Battesimo del Signore e la discesa dello Spirito Santo su di Lui (Lc 3,1-18; Mc 1,1-11; Gv 1,1-28 e Mt 3,1-17). Il fatto salvifico del Battesimo trovava espressione rituale nella benedizione dell’acqua che veniva effettuata la vigilia di Epifania fuori della chiesa cattedrale o Martyrium, dopo la sinassi vespertina. Alla fine del secolo VI il Pellegrino di Piacenza ci parla di questa benedizione che avveniva presso il Giordano nel luogo dove fu battezzato il Signore e per l’occasione molti si facevano battezzare. Inoltre il Calendario Palestino-Georgiano del secolo X dice che all’Epifania presso il Giordano nella chiesa di san Giovvanni Battista si celebrava la grande sinassi eucaristica.

GLI SPAZI DELLA CELEBRAZIONE 
Da quanto sin qui detto appare che la chiesa di Gerusalemme ha voluto celebrare i misteri salvifici della Natività, Epifania e Battesimo di Gesù nei luoghi stessi in cui erano avvenuti.
Il Carme anacreontico 19 di san Sofronio, patriarca di Gerusalemme (634-638), parla dei luoghi in rapporto con gli avvenimenti evangelici celebrati nella liturgia, gli stessi che sono ancora oggi venerati: La Basilica che comprende la Grotta della Natività del Salvatore, nella stessa Grotta la lastra « profumata » dove oggi vediamo la Stella, la Mangiatoia dove fu deposto il Salvatore e la tomba dei santi Innocenti. A questi bisogna aggiungere il Campo dei Pastori e la Grotta del latte in relazione con la Fuga in Egitto. In tempi succesivi si venerarono anche altri luoghi come è il caso della cella e della tomba di san Girolamo presso la Grotta della Natività.
Nel tempo moderno questi luoghi continuano ad essere meta di pellegrinaggi da parte dei Cristiani provenienti da tutto il mondo. In tutto il tempo dell’anno i pellegrini possono celebrare una liturgia che è propria del luogo sacro.
All’aspetto religioso non si può dissociare quello culturale o informativo. Il pellegrino era introdotto alla conoscenza dei luoghi e nello stesso tempo al Mistero di Cristo. Questo fu l’ideale coltivato dal clero e dai religiosi nei tempi antichi e lo è tutt’oggi per il Francescano che dai tempi del santo Fondatore vive in Terra Santa.
I Francescani han portato avanti questo ministero nel modo che le vicissitudini storiche hanno loro permesso. E ciò avviene attraverso la Liturgia ufficiale quotidiana e la pietà popolare, per esempio le processioni. Sono forme espressive religiose che sono mutate secondo le epoche storiche per ciò che riguarda i testi e i percorsi. Ma i luoghi stessi che ricordano la Nascita del Nostro Salvatore sono in ogni tempo fecondi di vita spirituale.

Enrique Bermejo Cabrera ofm

Publié dans:NATALE 2012, Terra Santa |on 7 janvier, 2013 |Pas de commentaires »

PAPA BENEDETTO, OMELIA PER L’EPIFANIA: TOCCATI DALL’INQUIETUDINE VERSO DIO E VERSO L’UOMO

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TOCCATI DALL’INQUIETUDINE VERSO DIO E VERSO L’UOMO

L’omelia di Benedetto XVI durante la Messa per la solennità dell’Epifania durante la quale ha ordinato quattro nuovi vescovi

CITTA’ DEL VATICANO, Sunday, 6 January 2013 (Zenit.org).
Alle ore 9.00 di oggi, Solennità dell’Epifania del Signore, il Santo Padre Benedetto XVI ha celebrato nella Basilica Vaticana la Santa Messa nel corso della quale ha conferito l’Ordinazione episcopale ai presbiteri: Mons. Angelo Vincenzo Zani, eletto Arcivescovo titolare di Volturno e nominato Segretario della Congregazione per l’Educazione Cattolica, Mons. Fortunatus Nwachukwu, eletto Arcivescovo titolare di Acquaviva e nominato Nunzio Apostolico in Nicaragua; Mons. Georg Gänswein, Segretario particolare del Santo Padre, eletto Arcivescovo titolare di Urbisaglia e nominato Prefetto della Casa Pontificia; Mons. Nicolas Henry Marie Denis Thevenin, eletto Arcivescovo titolare di Eclano e nominato Nunzio Apostolico in Guatemala.
Hanno concelebrato con il Santo Padre i Vescovi co-ordinanti: il Card. Tarcisio Bertone, S.D.B., e il Card. Zenon Grocholewski, e i quattro Vescovi eletti. Il rito di Ordinazione ha avuto luogo dopo la proclamazione del Santo Vangelo e l’annunzio del giorno della Pasqua, che quest’anno si celebra il 31 marzo.
Nel corso della Santa Messa, il Papa ha pronunciato l’omelia che riportiamo di seguito:
***
Cari fratelli e sorelle!
Per la Chiesa credente ed orante, i Magi d’Oriente che, sotto la guida della stella, hanno trovato la via verso il presepe di Betlemme sono solo l’inizio di una grande processione che pervade la storia. Per questo, la liturgia legge il Vangelo che parla del cammino dei Magi insieme con le splendide visioni profetiche di Isaia 60 e del Salmo 72, che illustrano con immagini audaci il pellegrinaggio dei popoli verso Gerusalemme.
Come i pastori che, quali primi ospiti presso il Bimbo neonato giacente nella mangiatoia, personificano i poveri d’Israele e, in genere, le anime umili che interiormente vivono molto vicino a Gesù, così gli uomini provenienti dall’Oriente personificano il mondo dei popoli, la Chiesa dei gentili – gli uomini che attraverso tutti i secoli si incamminano verso il Bambino di Betlemme, onorano in Lui il Figlio di Dio e si prostrano davanti a Lui. La Chiesa chiama questa festa “Epifania” – l’apparizione, la comparsa del Divino.
Se guardiamo il fatto che, fin da quell’inizio, uomini di ogni provenienza, di tutti i Continenti, di tutte le diverse culture e tutti i diversi modi di pensiero e di vita sono stati e sono in cammino verso Cristo, possiamo dire veramente che questo pellegrinaggio e questo incontro con Dio nella figura del Bambino è un’Epifania della bontà di Dio e del suo amore per gli uomini (cfr Tt 3,4).
Seguendo una tradizione iniziata dal Beato Papa Giovanni Paolo II, celebriamo la festa dell’Epifania anche quale giorno dell’Ordinazione episcopale per quattro sacerdoti che d’ora in poi, in funzioni diverse, collaboreranno al Ministero del Papa per l’unità dell’unica Chiesa di Gesù Cristo nella pluralità delle Chiese particolari. Il nesso tra questa Ordinazione episcopale e il tema del pellegrinaggio dei popoli verso Gesù Cristo è evidente.
Il Vescovo ha il compito non solo di camminare in questo pellegrinaggio insieme con gli altri, ma di precedere e di indicare la strada. Vorrei, però, in questa liturgia, riflettere con voi ancora su una domanda più concreta. In base alla storia raccontata da Matteo possiamo sicuramente farci una certa idea di quale tipo di uomini debbano essere stati coloro che, in seguito al segno della stella, si sono incamminati per trovare quel Re che, non soltanto per Israele, ma per l’umanità intera avrebbe fondato una nuova specie di regalità.
Che tipo di uomini, dunque, erano costoro? E domandiamoci anche se, malgrado la differenza dei tempi e dei compiti, a partire da loro si possa intravedere qualcosa su che cosa sia il Vescovo e su come egli debba adempiere il suo compito. Gli uomini che allora partirono verso l’ignoto erano, in ogni caso, uomini dal cuore inquieto. Uomini spinti dalla ricerca inquieta di Dio e della salvezza del mondo. Uomini in attesa, che non si accontentavano del loro reddito assicurato e della loro posizione sociale forse considerevole.
Erano alla ricerca della realtà più grande. Erano forse uomini dotti che avevano una grande conoscenza degli astri e probabilmente disponevano anche di una formazione filosofica. Ma non volevano soltanto sapere tante cose. Volevano sapere soprattutto la cosa essenziale. Volevano sapere come si possa riuscire ad essere persona umana. E per questo volevano sapere se Dio esista, dove e come Egli sia. Se Egli si curi di noi e come noi possiamo incontrarlo. Volevano non soltanto sapere. Volevano riconoscere la verità su di noi, e su Dio e il mondo.
Il loro pellegrinaggio esteriore era espressione del loro essere interiormente in cammino, dell’interiore pellegrinaggio del loro cuore. Erano uomini che cercavano Dio e, in definitiva, erano in cammino verso di Lui. Erano ricercatori di Dio.
Ma con ciò giungiamo alla domanda: come dev’essere un uomo a cui si impongono le mani per l’Ordinazione episcopale nella Chiesa di Gesù Cristo? Possiamo dire: egli deve soprattutto essere un uomo il cui interesse è rivolto verso Dio, perché solo allora egli si interessa veramente anche degli uomini.
Potremmo dirlo anche inversamente: un Vescovo dev’essere un uomo a cui gli uomini stanno a cuore, che è toccato dalle vicende degli uomini. Dev’essere un uomo per gli altri. Ma può esserlo veramente soltanto se è un uomo conquistato da Dio. Se per lui l’inquietudine verso Dio è diventata un’inquietudine per la sua creatura, l’uomo. Come i Magi d’Oriente, anche un Vescovo non dev’essere uno che esercita solamente il suo mestiere e non vuole altro.
No, egli dev’essere preso dall’inquietudine di Dio per gli uomini. Deve, per così dire, pensare e sentire insieme con Dio. Non è solo l’uomo ad avere in sé l’inquietudine costitutiva verso Dio, ma questa inquietudine è una partecipazione all’inquietudine di Dio per noi. Poiché Dio è inquieto nei nostri confronti, Egli ci segue fin nella mangiatoia, fino alla Croce. “Cercandomi ti sedesti stanco, mi hai redento con il supplizio della Croce: che tanto sforzo non sia vano!”, prega la Chiesa nel Dies irae.
L’inquietudine dell’uomo verso Dio e, a partire da essa, l’inquietudine di Dio verso l’uomo devono non dar pace al Vescovo. È questo che intendiamo quando diciamo che il Vescovo dev’essere soprattutto un uomo di fede. Perché la fede non è altro che l’essere interiormente toccati da Dio, una condizione che ci conduce sulla via della vita.
La fede ci tira dentro uno stato in cui siamo presi dall’inquietudine di Dio e fa di noi dei pellegrini che interiormente sono in cammino verso il vero Re del mondo e verso la sua promessa di giustizia, di verità e di amore. In questo pellegrinaggio, il Vescovo deve precedere, dev’essere colui che indica agli uomini la strada verso la fede, la speranza e l’amore. Il pellegrinaggio interiore della fede verso Dio si svolge soprattutto nella preghiera.
Sant’Agostino ha detto una volta che la preghiera, in ultima analisi, non sarebbe altro che l’attualizzazione e la radicalizzazione del nostro desiderio di Dio. Al posto della parola “desiderio” potremmo mettere anche la parola “inquietudine” e dire che la preghiera vuole strapparci alla nostra falsa comodità, al nostro essere chiusi nelle realtà materiali, visibili e trasmetterci l’inquietudine verso Dio, rendendoci proprio così anche aperti e inquieti gli uni per gli altri.
Il Vescovo, come pellegrino di Dio, dev’essere soprattutto un uomo che prega. Deve vivere in un permanente contatto interiore con Dio; la sua anima dev’essere largamente aperta verso Dio. Le sue difficoltà e quelle degli altri, come anche le sue gioie e quelle degli altri le deve portare a Dio, e così, a modo suo, stabilire il contatto tra Dio e il mondo nella comunione con Cristo, affinché la luce di Cristo splenda nel mondo.
Torniamo ai Magi d’Oriente. Questi erano anche e soprattutto uomini che avevano coraggio, il coraggio e l’umiltà della fede. Ci voleva del coraggio per accogliere il segno della stella come un ordine di partire, per uscire – verso l’ignoto, l’incerto, su vie sulle quali c’erano molteplici pericoli in agguato. Possiamo immaginare che la decisione di questi uomini abbia suscitato derisione: la beffa dei realisti che potevano soltanto deridere le fantasticherie di questi uomini.
Chi partiva su promesse così incerte, rischiando tutto, poteva apparire soltanto ridicolo. Ma per questi uomini toccati interiormente da Dio, la via secondo le indicazioni divine era più importante dell’opinione della gente. La ricerca della verità era per loro più importante della derisione del mondo, apparentemente intelligente.
Come non pensare, in una tale situazione, al compito di un Vescovo nel nostro tempo? L’umiltà della fede, del credere insieme con la fede della Chiesa di tutti i tempi, si troverà ripetutamente in conflitto con l’intelligenza dominante di coloro che si attengono a ciò che apparentemente è sicuro. Chi vive e annuncia la fede della Chiesa, in molti punti non è conforme alle opinioni dominanti proprio anche nel nostro tempo.
L’agnosticismo oggi largamente imperante ha i suoi dogmi ed è estremamente intollerante nei confronti di tutto ciò che lo mette in questione e mette in questione i suoi criteri. Perciò, il coraggio di contraddire gli orientamenti dominanti è oggi particolarmente pressante per un Vescovo. Egli dev’essere valoroso. E tale valore o fortezza non consiste nel colpire con violenza, nell’aggressività, ma nel lasciarsi colpire e nel tenere testa ai criteri delle opinioni dominanti.
Il coraggio di restare fermamente con la verità è inevitabilmente richiesto a coloro che il Signore manda come agnelli in mezzo ai lupi. “Chi teme il Signore non ha paura di nulla”, dice il Siracide (34,16). Il timore di Dio libera dal timore degli uomini. Rende liberi!
In questo contesto mi viene in mente un episodio degli inizi del cristianesimo che san Luca narra negli Atti degli Apostoli. Dopo il discorso di Gamaliele, che sconsigliava la violenza verso la comunità nascente dei credenti in Gesù, il sinedrio chiamò gli Apostoli e li fece flagellare. Poi proibì loro di predicare nel nome di Gesù e li rimise in libertà.
Luca continua: “Essi allora se ne andarono via dal sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù. E ogni giorno … non cessavano di insegnare e di annunciare che Gesù è il Cristo” (At 5,40ss). Anche i successori degli Apostoli devono attendersi di essere ripetutamente percossi, in maniera moderna, se non cessano di annunciare in modo udibile e comprensibile il Vangelo di Gesù Cristo. E allora possono essere lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per Lui.
Naturalmente vogliamo, come gli Apostoli, convincere la gente e, in questo senso, ottenerne l’approvazione. Naturalmente non provochiamo, ma tutt’al contrario invitiamo tutti ad entrare nella gioia della verità che indica la strada. L’approvazione delle opinioni dominanti, però, non è il criterio a cui ci sottomettiamo. Il criterio è Lui stesso: il Signore. Se difendiamo la sua causa, conquisteremo, grazie a Dio, sempre di nuovo persone per la via del Vangelo. Ma inevitabilmente saremo anche percossi da coloro che, con la loro vita, sono in contrasto col Vangelo, e allora possiamo essere grati di essere giudicati degni di partecipare alla Passione di Cristo.
I Magi hanno seguito la stella, e così sono giunti fino a Gesù, alla grande Luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo (cfr Gv 1,9). Come pellegrini della fede, i Magi sono diventati essi stessi stelle che brillano nel cielo della storia e ci indicano la strada. I santi sono le vere costellazioni di Dio, che illuminano le notti di questo mondo e ci guidano. San Paolo, nella Lettera ai Filippesi, ha detto ai suoi fedeli che devono risplendere come astri nel mondo (cfr 2,15).
Cari amici, ciò riguarda anche noi. Ciò riguarda soprattutto voi che, in quest’ora, sarete ordinati Vescovi della Chiesa di Gesù Cristo. Se vivrete con Cristo, a Lui nuovamente legati nel Sacramento, allora anche voi diventerete sapienti. Allora diventerete astri che precedono gli uomini e indicano loro la via giusta della vita. In quest’ora noi tutti qui preghiamo per voi, affinché il Signore vi ricolmi con la luce della fede e dell’amore.
Affinché quell’inquietudine di Dio per l’uomo vi tocchi, perché tutti sperimentino la sua vicinanza e ricevano in dono la sua gioia. Preghiamo per voi, affinché il Signore vi doni sempre il coraggio e l’umiltà della fede. Preghiamo Maria che ha mostrato ai Magi il nuovo Re del mondo (Mt 2,11), affinché ella, quale Madre amorevole, mostri Gesù Cristo anche a voi e vi aiuti ad essere indicatori della strada che porta a Lui. Amen.

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