Mysitcal Church

http://digilander.libero.it/davide.arpe/CrocePaloRavasi.htm
BIBBIA: LE DOMANDE SCOMODE
a cura di Mons. Gianfranco Ravasi
GESÙ È STATO “INCHIODATO SULLA CROCE O APPESO SUL LEGNO?”
Alcuni lettori mi hanno invitato — da quando ho aperto questa rubrica dedicata alle “pagine difficili” o problematiche della Bibbia e alle relative ricadute nella catechesi — a interessarmi più spesso dell’esegesi biblica dei testimoni di Geova. Siamo già intervenuti in passato ma a livello generale, puntando sulla loro ermeneutica globale delle Scritture, che rivela un’interpretazione di taglio ora fondamentalistico ora allegorico, con una serie di incongruenze imbarazzanti. Vorremmo adesso soffermarci su una loro pretesa specifica, spesso ribadita con enfasi: la croce, così cara ai cristiani, in verità sarebbe un elemento spurio e idolatrico.
Per spazzare via l’obiezione dei testimoni di Geova basterebbe solo ricorrere al Nuovo Testamento, a cui anch’essi si appellano: la parola greca staurôs, “croce”, applicata direttamente o indirettamente a Cristo, ricorre 27 volte, mentre il verbo derivato stauroun, “crocifiggere”, risuona ben 46 volte, che diventano 52 se si allegano anche i verbi composti (ad esempio, il systauroun, ossia l”’essere con-crocifissi” con Cristo, verbo caro soprattutto a san Paolo). D’altronde è noto che la crocifissione, il servile supplicium, come lo definiva lo storico romano Tacito, cioè il supplizio infamante degli schiavi, era praticata in Palestina dalle forze di occupazione romane contro i rivoluzionari, come è attestato anche dallo scheletro di un giovane ebreo di nome Yehohanan (Giovanni) con un chiodo nella caviglia e segni di perforazione nell’avambraccio, ritrovato a nord-est di Gerusalemme negli anni Sessanta del secolo scorso. Le modalità della crocifissione, infatti, erano un po’ differenti da quelle che l’arte ha raffigurato nei secoli, ma il supplizio era, comunque, causa di «una sofferenza intollerabile e della più penosa delle morti», come afferma lo storico ebraico filoromano Giuseppe Flavio, vissuto poco dopo Gesù, nella sua opera Guerra giudaica (7, 202-203).
A questo punto ci potremmo domandare: se le cose stanno così, perché i testimoni di Geova ce l’hanno tanto con la croce? La loro avversione ha sostanzialmente una duplice radice. La prima è di ordine “teologico”: essi ritengono che la croce sia un simbolo pagano e soprattutto che essa non dev’essere adorata. Ora, che sia un simbolo usato anche da altre culture è indubbio perché indica non di rado i quattro punti cardinali dello spazio. Ma questo non toglie nulla al fatto reale che Gesù sia stato condannato a morte su una croce concreta usata per le esecuzioni capitali romane. L”’adorazione” della croce, poi, come ovvio, non dev’essere tanto l’esaltazione feticistica di un legno, quanto la celebrazione di colui che su di esso è stato sacrificato: «Noi predichiamo Cristo crocifisso», dice san Paolo, «scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani, ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, potenza di Dio e sapienza di Dio» (1Corinzi 1,23-24).
L’altra obiezione dei testimoni di Geova è di indole più “esegetica”. Negli Atti degli apostoli in particolare, parlando della morte di Cristo, si afferma che egli «fu appeso a un legno» (5,30; 10,39; 13,29; 16,24). Questa espressione ha una duplice spiegazione. La prima è di ordine storico: la croce era costituita, infatti, da un legno verticale che era già infisso nel terreno, mentre il condannato portava sulle spalle il cosiddetto patibulum che era il braccio orizzontale della croce, che veniva poi sollevato sul palo verticale quando la vittima era stata inchiodata ai polsi o negli avambracci. Questo “legno” verticale era, dunque, l’asse portante. La forma finale della croce era, quindi, a T (in greco tau), anche se sopra di essa un altro paletto poteva recare il titulus, ossia la motivazione ufficiale della condanna a morte. L’altra ragione per il ricorso al termine “legno” è, invece, di indole teologica, come insegna san Paolo, che cita un passo del libro del Deuteronomio (21,23) per mostrare che in Cristo si addensa tutta la “maledizione” del peccato perché si trasformi in “benedizione” per noi: «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno, perché in Cristo Gesù la benedizione di Abramo passasse alle genti» (Galati 3,13-14). Non c’è, quindi, nessuna ragione sensata per negare la croce di Cristo e il suo valore salvifico.
Gianfranco Ravasi, Inchiodato sulla croce o appeso sul legno? in Vita Pastorale, periodici S. Paolo n. 7 2006 p. 56.
http://www.zenit.org/article-35188?l=italian
« LA FEDE CI RENDE PELLEGRINI SULLA TERRA »
La catechesi di Benedetto XVI durante l’Udienza Generale di oggi
CITTA’ DEL VATICANO, Wednesday, 23 January 2013 (Zenit.org).
Riprendiamo di seguito la catechesi tenuta questa mattina da papa Benedetto XVI durante la consueta Udienza Generale del mercoledì, svoltasi nell’Aula Paolo VI.
***
Cari fratelli e sorelle,
in quest’Anno della fede, vorrei iniziare oggi a riflettere con voi sul Credo, cioè sulla solenne professione di fede che accompagna la nostra vita di credenti. Il Credo comincia così: « Io credo in Dio ». E’ un’affermazione fondamentale, apparentemente semplice nella sua essenzialità, ma che apre all’infinito mondo del rapporto con il Signore e con il suo mistero. Credere in Dio implica adesione a Lui, accoglienza della sua Parola e obbedienza gioiosa alla sua rivelazione. Come insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica, «la fede è un atto personale: è la libera risposta dell’uomo all’iniziativa di Dio che si rivela» (n. 166). Poter dire di credere in Dio è dunque insieme un dono – Dio si rivela, va incontro a noi – e un impegno, è grazia divina e responsabilità umana, in un’esperienza di dialogo con Dio che, per amore, «parla agli uomini come ad amici» (Dei Verbum, 2), parla a noi affinché, nella fede e con la fede, possiamo entrare in comunione con Lui.
Dove possiamo ascoltare Dio e la sua parola? Fondamentale è la Sacra Scrittura, in cui la Parola di Dio si fa udibile per noi e alimenta la nostra vita di « amici » di Dio. Tutta la Bibbia racconta il rivelarsi di Dio all’umanità; tutta la Bibbia parla di fede e ci insegna la fede narrando una storia in cui Dio porta avanti il suo progetto di redenzione e si fa vicino a noi uomini, attraverso tante luminose figure di persone che credono in Lui e a Lui si affidano, fino alla pienezza della rivelazione nel Signore Gesù.
Molto bello, a questo riguardo, è il capitolo 11 della Lettera agli Ebrei, che abbiamo appena sentito. Qui si parla della fede e si mettono in luce le grandi figure bibliche che l’hanno vissuta, diventando modello per tutti i credenti. Dice il testo nel primo versetto: «La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede» (11,1). Gli occhi della fede sono dunque capaci di vedere l’invisibile e il cuore del credente può sperare oltre ogni speranza, proprio come Abramo, di cui Paolo dice nella Lettera ai Romani che «credette, saldo nella speranza contro ogni speranza» (4,18).
Ed è proprio su Abramo, che vorrei soffermarmi e soffermare la nostra attenzione, perché è lui la prima grande figura di riferimento per parlare di fede in Dio: Abramo il grande patriarca, modello esemplare, padre di tutti i credenti (cfrRm 4,11-12). La Lettera agli Ebrei lo presenta così: «Per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. Per fede, egli soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa. Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso» (11,8-10).
L’autore della Lettera agli Ebrei fa qui riferimento alla chiamata di Abramo, narrata nel Libro della Genesi, il primo libro della Bibbia. Che cosa chiede Dio a questo patriarca? Gli chiede di partire abbandonando la propria terra per andare verso il paese che gli mostrerà, «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò» (Gen 12,1). Come avremmo risposto noi a un invito simile? Si tratta, infatti, di una partenza al buio, senza sapere dove Dio lo condurrà; è un cammino che chiede un’obbedienza e una fiducia radicali, a cui solo la fede consente di accedere. Ma il buio dell’ignoto – dove Abramo deve andare – è rischiarato dalla luce di una promessa; Dio aggiunge al comando una parola rassicurante che apre davanti ad Abramo un futuro di vita in pienezza: «Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome… e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,2.3).
La benedizione, nella Sacra Scrittura, è collegata primariamente al dono della vita che viene da Dio e si manifesta innanzitutto nella fecondità, in una vita che si moltiplica, passando di generazione in generazione. E alla benedizione è collegata anche l’esperienza del possesso di una terra, di un luogo stabile in cui vivere e crescere in libertà e sicurezza, temendo Dio e costruendo una società di uomini fedeli all’Alleanza, «regno di sacerdoti e nazione santa» (cfr. Es19,6).
Perciò Abramo, nel progetto divino, è destinato a diventare «padre di una moltitudine di popoli» (Gen 17,5; cfr Rm 4,17-18) e ad entrare in una nuova terra dove abitare. Eppure Sara, sua moglie, è sterile, non può avere figli; e il paese verso cui Dio lo conduce è lontano dalla sua terra d’origine, è già abitato da altre popolazioni, e non gli apparterrà mai veramente. Il narratore biblico lo sottolinea, pur con molta discrezione: quando Abramo giunge nel luogo della promessa di Dio: «nel paese si trovavano allora i Cananei» (Gen 12,6). La terra che Dio dona ad Abramo non gli appartiene, egli è uno straniero e tale resterà sempre, con tutto ciò che questo comporta: non avere mire di possesso, sentire sempre la propria povertà, vedere tutto come dono. Questa è anche la condizione spirituale di chi accetta di seguire il Signore, di chi decide di partire accogliendo la sua chiamata, sotto il segno della sua invisibile ma potente benedizione. E Abramo, « padre dei credenti », accetta questa chiamata, nella fede. Scrive san Paolo nella Lettera ai Romani: «Egli credette, saldo nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza. Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo – aveva circa cento anni – e morto il seno di Sara. Di fronte alla promessa di Dio non esitò per incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento»(Rm 4,18-21).
La fede conduce Abramo a percorrere un cammino paradossale. Egli sarà benedetto ma senza i segni visibili della benedizione: riceve la promessa di diventare grande popolo, ma con una vita segnata dalla sterilità della moglie Sara; viene condotto in una nuova patria ma vi dovrà vivere come straniero; e l’unico possesso della terra che gli sarà consentito sarà quello di un pezzo di terreno per seppellirvi Sara (cfr Gen 23,1-20). Abramo è benedetto perché, nella fede, sa discernere la benedizione divina andando al di là delle apparenze, confidando nella presenza di Dio anche quando le sue vie gli appaiono misteriose.
Che cosa significa questo per noi? Quando affermiamo: « Io credo in Dio », diciamo come Abramo: « Mi fido di Te; mi affido a Te, Signore », ma non come a Qualcuno a cui ricorrere solo nei momenti di difficoltà o a cui dedicare qualche momento della giornata o della settimana. Dire « Io credo in Dio » significa fondare su di Lui la mia vita, lasciare che la sua Parola la orienti ogni giorno, nelle scelte concrete, senza paura di perdere qualcosa di me stesso. Quando, nel Rito del Battesimo, per tre volte viene richiesto: « Credete? » in Dio, in Gesù Cristo, nello Spirito Santo, la santa Chiesa Cattolica e le altre verità di fede, la triplice risposta è al singolare: « Credo », perché è la mia esistenza personale che deve ricevere una svolta con il dono della fede, è la mia esistenza che deve cambiare, convertirsi. Ogni volta che partecipiamo ad un Battesimo dovremmo chiederci come viviamo quotidianamente il grande dono della fede.
Abramo, il credente, ci insegna la fede; e, da straniero sulla terra, ci indica la vera patria. La fede ci rende pellegrini sulla terra, inseriti nel mondo e nella storia, ma in cammino verso la patria celeste. Credere in Dio ci rende dunque portatori di valori che spesso non coincidono con la moda e l’opinione del momento, ci chiede di adottare criteri e assumere comportamenti che non appartengono al comune modo di pensare. Il cristiano non deve avere timore di andare « controcorrente » per vivere la propria fede, resistendo alla tentazione di « uniformarsi ». In tante nostre società Dio è diventato il « grande assente » e al suo posto vi sono molti idoli, diversissimi idoli e soprattutto il possesso e l’ »io » autonomo. E anche i notevoli e positivi progressi della scienza e della tecnica hanno indotto nell’uomo un’illusione di onnipotenza e di autosufficienza, e un crescente egocentrismo ha creato non pochi squilibri all’interno dei rapporti interpersonali e dei comportamenti sociali.
Eppure, la sete di Dio (cfr. Sal 63,2) non si è estinta e il messaggio evangelico continua a risuonare attraverso le parole e le opere di tanti uomini e donne di fede. Abramo, il padre dei credenti, continua ad essere padre di molti figli che accettano di camminare sulle sue orme e si mettono in cammino, in obbedienza alla vocazione divina, confidando nella presenza benevola del Signore e accogliendo la sua benedizione per farsi benedizione per tutti. È il mondo benedetto della fede a cui tutti siamo chiamati, per camminare senza paura seguendo il Signore Gesù Cristo. Ed è un cammino talvolta difficile, che conosce anche la prova e la morte, ma che apre alla vita, in una trasformazione radicale della realtà che solo gli occhi della fede sono in grado di vedere e gustare in pienezza.
Affermare « Io credo in Dio » ci spinge, allora, a partire, ad uscire continuamente da noi stessi, proprio come Abramo, per portare nella realtà quotidiana in cui viviamo la certezza che ci viene dalla fede: la certezza, cioè, della presenza di Dio nella storia, anche oggi; una presenza che porta vita e salvezza, e ci apre ad un futuro con Lui per una pienezza di vita che non conoscerà mai tramonto.
[Dopo la catechesi, il Papa si è rivolto ai fedeli provenienti dai vari paesi salutandoli nelle diverse lingue. Ai pellegrini italiani ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. Saluto le religiose, gli studenti e i gruppi parrocchiali. Saluto in particolare i fedeli di Frazzanò, accompagnati dal Vescovo di Patti, Mons. Ignazio Zambito, in occasione dell’Anno Giubilare per l’anniversario della morte del monaco San Lorenzo, vostro patrono. A tutti l’auspicio che la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani stimoli in ogni comunità l’impegno a chiedere con insistenza al Signore il dono dell’unità e a vivere la comunione fraterna.
Infine, un pensiero affettuoso ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Venerdì prossimo celebreremo la Festa della Conversione di San Paolo. Cari giovani, l’Apostolo Paolo sia per voi modello di integrità di vita e di radicalità nella fede. Cari ammalati, offrite le vostre sofferenze per la causa dell’unità della Chiesa di Cristo. E voi, cari sposi novelli, ispiratevi alla vita dell’Apostolo delle genti, riconoscendo il primato a Dio e al suo amore nella vostra vita familiare. Grazie e auguri a tutti voi.
http://www.tanogabo.it/religione/Maria_scrittori_Padri_del_II_secolo.htm
MARIA NEGLI SCRITTORI E NEI PADRI DEL II SECOLO
LA VERGINE MARIA NEI PIÙ ANTICHI SCRITTI APOCRIFI
Apocrifo indica quei libri che dal titolo e dalla materia trattata presentano affinità con la Bibbia. La Chiesa nega loro ogni carattere soprannaturale e non li include nel novero dei libri fonte della Rivelazione, detti canonici. Tuttavia non possono essere ignorati in una ricerca storica, dato che sono espressione della letteratura cristiana antica e costituiscono esempi arcaici della sensibilità ecclesiale. Nella storia della Chiesa col termine « apokryphos » venivano indicati anche sia quei libri la cui lettura richiedeva una particolare iniziazione, sia quelli che venivano esclusi da una lettura pubblica. Essi, in ogni caso vennero sempre tutti considerati extra canonici.
Vi sono apocrifi dell’A.T e del N.T. Per quanto riguarda il N.T. vi sono: vangeli, atti, epistole, apocalissi ecc. I Vangeli apocrifi a loro volta si suddividono in: vangeli sinottici, in vangeli eterodossi e in vangeli che si prefiggono di aggiungere notizie mancanti nei vangeli canonici. Circa il loro genere letterario, dobbiamo dire che gli apocrifi non si esprimono ordinatamente per concetti, ma con simboli, immagini, e descrizioni artistiche e quindi non appartengono al genere gnostico – sapienziale ma piuttosto a quello narrativo – apocrifo.
Questi arcaici documenti del II e del III secolo rivelano la venerazione dei giudeo – cristiani per la Madre di Gesù. Sono opere di letterati che, in forma elegante, esprimono le loro convinzioni religiose proprie dell’ambiente cristiano. Essi non vanno giudicati con le nostre categorie di pensiero ma con quelle del loro tempo e trasmettono la fede dei primi cristiani ed in questo sta il loro valore. Tra di essi notiamo:
PROTOVANGELO DI GIACOMO(O NATIVITÀ DI MARIA)
opera in tre parti di un giudeo cristiano della diaspora del II secolo. Sottolinea la santità di Maria e la concezione verginale di Gesù. Ha quindi per oggetto Maria, ebbe una grande diffusione e godette dell’attenzione e della venerazione di molti Padri orientali.
ODI DI SALOMONE
Sono 42 inni modellati secondo i salmi dell’AT, opera di un giudeo cristiano della prima metà del II secolo, in greco e in siriano e cantano la riconoscenza del pio israelita verso Dio. L’Ode XIX celebra la Maternità di Maria e l’assenza del dolore del parto in Lei e la sua attiva partecipazione all’evento dell’Incarnazione.
ORACOLI SIBILLINI
Sono 15 libri con materiale che va dal II al VI secolo con elementi pagani, giudaici e cristiani. Il Libro VIII, scritto prima del 180 è una soave parafrasi dell’Annunciazione ed è citato dai Padri antichi a cominciare da Giustino.
LETTERA AGLI APOSTOLI 3,14
A metà tra testo evangelico, lettera e apocalisse, fu composto in Asia Minore o Egitto tra il 160 e il 170 e contiene le rivelazioni di Gesù agli apostoli dopo la sua resurrezione. Il III capitolo contiene una solenne professione di fede nel concepimento verginale, molto importante per la Liturgia.
STORIA DI GIUSEPPE IL FALEGNAME
Parla di Giuseppe ed ha un accenno a Maria al momento della sua morte. Ci è pervenuta in traduzioni arabe e copte
TRANSITUS VIRGINIS O DORMITIO MARIAE
Composto nel IV secolo con parti originali più antiche in copto risalenti al II secolo, ritenute opere di Leucio, discepolo di Giovanni. Presenta gli ultimi istanti della vita di Maria e l’assunzione del suo corpo al cielo che non subì, quindi, la corruzione del sepolcro. Sorprendente le coincidenze dei dati offerti dalle scoperte archeologiche con quelle trasmesse da quest’opera, come ad es. le tre camere sepolcrali della versione siriana del documento. Poco considerato dai Padri per la provenienza giudaico – cristiana, dato che quella chiesa nei primi secoli venne considerata scismatica.
ATTI DI PILATO 2,3,4
Racconto della passione di Gesù inviato da Pilato a Tiberio risalente alla fine del I secolo o la metà del II. Citato più volte da Giustino, contiene le dicerie sui natali illegittimi di Gesù.
VAGELO DI FILIPPO
Di origine gnostica ha un accenno al tema Eva – Maria.
PERCHÉ GLI APOCRIFI MARIANI?
Si suppone che gli apocrifi siano stati scritti per quattro motivi fondamentali:
- Difendere la fede nella verginale concezione e trascendenza divina di Gesù e di riflesso la figura etica e sociale di Maria. Tra gli Ebrei circolavano voci circa l’illegittimità dei natali di Cristo, secondo le quali Gesù sarebbe stato figlio di una povera filatrice, adultera e ripudiata, con un soldato romano di nome Pantera. A questa calunnia si reagì con l’esaltazione della concezione verginale e con manifestazione di amore per lei.
- Veicolare idee e sentimenti che erano vivi soprattutto nella comunità giudeo – cristiana particolarmente legata alla Madre di Gesù;
- Colmare i vuoti dei vangeli canonici soprattutto sulle sue origini e il destino finale di Maria;
- Raccontare l’infanzia di colei che sarebbe stata la Madre di Dio.
Rilievi conclusivi
Possiamo concludere dicendo che gli Apocrifi:
1. sono un segno evidente che in parecchie aree ecclesiali si era recepita la grande dignità di Maria;
2. sono una testimonianza della fede nel concepimento e nel parto verginale, visti come segni della divinità di Gesù e come salvaguardia della sua trascendenza;
3. hanno interessanti intuizioni teologiche come l’accostamento Eva ingannata – Maria fedele e quello Annunciazione – Genesi;
5. sono un test del senso dei fedeli circa il destino ultraterreno di Maria che spesso precede la Liturgia e la Teologia;
6. sono opere sostanzialmente fantasiose nelle quali Maria viene distaccata dalla famiglia umana e circondata da molti elementi irreali e mitici.
http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/commenti/2012/199q01b1.html
UNA FAVOLA CHE INSEGNA AGLI ADULTI
MIA SORELLA È UN QUADRIFOGLIO
DI GIULIA GALEOTTI
Viola ha una nuova sorellina, che decide si dovrà chiamare Mimosa (« perché sono due fiori e i colori viola e giallo stanno bene insieme »). È molto contenta, anche se capisce subito che qualcosa non torna: il papà, la mamma e le nonne si comportano in modo molto strano. Sono arrabbiati, tristi, piangono, guardano nel vuoto, fuggono o addirittura non si fanno vedere. È dunque innanzitutto attraverso le reazioni degli adulti che gradualmente si fa strada in Viola la consapevolezza della diversità di Mimosa. È diversa, ma è anche speciale. Speciale come un quadrifoglio.
È questa la trama di uno splendido libro per bambini di Beatrice Masini e Svjetlan Junakovi? (Mia sorella è un quadrifoglio, Milano, Carthusia 2012, pagine 32, euro 15,90), dalla eloquente dedica: « Questa storia è per quei bambini e quei grandi che non si accontentano di essere uguali e che non hanno paura di essere diversi ». Una storia pensata per parlare ai bambini di disabilità e, in particolare, di cosa significhi per una famiglia accogliere la nascita di un bimbo disabile.
Invece di tanta retorica vuota e altisonante, ideologia schizofrenica tra desiderio individuale e politicamente corretto, questa coloratissima storia affronta con semplicità e pacatezza temi complessi come la diversità e l’accettazione. E lo fa attraverso lo sguardo, le curiosità, i timori e l’esperienza quotidiana di una bambina che si trova nella delicata posizione di essere una sorella: « Io l’avevo già capito da sola che Mimosa era diversa dagli altri bambini. Ma uno non può mica chiedere scusa per quello che è. È così e basta ». Il racconto di Viola è il racconto di un incontro e di una scoperta; di una bambina che osserva se stessa, Mimosa e il loro rapporto (« a volte mia sorella non mi piace, però forse ogni tanto anch’io non piaccio a lei. [...] Così siamo pari, e siamo sempre sorelle »); che osserva la mamma (« lo so che ho due fiori in casa » dice « e devo innaffiarli tutti e due »), il papà (con la sua faccia di uno che non ha dormito bene) e gli altri adulti.
Superata l’iniziale gelosia, solo Viola sembra davvero capire che ognuno, a suo modo, è speciale. Prezioso come un raro quadrifoglio. Martino, il suo nuovo (e odioso) compagno di scuola, la prende in giro: « »Tua sorella non è mica normale ». Tanto prima o poi lo becco, Martino. E comunque ha ragione. Mia sorella non è normale. Lei è speciale. Essere normali vuol dire essere uguali: come i fili d’erba, come i trifogli in un prato. Mia sorella invece è un quadrifoglio. I quadrifogli sono rari e sono diversi. Sono rari perché sono diversi. Sono diversi perché sono rari. Tutti vorrebbero trovarne uno, ma ci riescono in pochi. I quadrifogli portano fortuna. Noi abbiamo la fortuna di averne uno tutto nostro: Mimosa, il quadrifoglio ».
È preziosissima, la voce di Viola. Il suo sguardo capace di indicare, innanzitutto a noi adulti tremebondi, la direzione.
(L’Osservatore Romano 31 agosto 2012)
http://www.atma-o-jibon.org/italiano3/bonhoeffer2.htm
DIETRICH BONHOEFFER
LE DIECI PAROLE: PRIMA TAVOLA
INTERPRETAZIONE
DEI PRIMI TRE COMANDAMENTI
In mezzo a tuoni, lampi, dense nubi, terremoti e terrificante squillare di tromba Dio manifesta al suo servo Mosè sul Monte Sinai i dieci comandamenti. Non si tratta del risultato di lunghe riflessioni di uomini saggi ed esperti della vita umana e dei suoi ordini: è la Parola rivelata di Dio, al cui suono la terra trema e gli elementi si scatenano. Non si tratta di una saggezza universale, offerta ad ogni uomo pensante, ma di un avvenimento sacro, al quale persino il popolo di Dio non può avvicinarsi pena la morte; di una rivelazione di Dio nella solitudine della vetta di un vulcano fumante: ecco come i dieci comandamenti entrano nel mondo. Non è Mosé a dadi; li dà Dio; non è Mosé a scriverli; li scrive Dio stesso con il suo dito su tavole di pietra, come ripetutamente ed energicamente sottolinea la Bibbia: «E non aggiunse altro» (Deut. 5,19), cioè Dio in persona scrisse solo queste parole; in esse è compresa tutta la volontà di Dio. La preminenza dei dieci comandamenti di fronte a tutte le altre parole di Dio è messa in rilievo con la massima chiarezza dal fatto che le due tavole vengono conservate nell’arca nel Santo dei santi. I dieci comandamenti hanno il loro posto nel santuario; bisogna cercarli qui, nel luogo della benevola presenza di Dio nel mondo, e da qui sempre di nuovo essi si diffondono nel mondo (Is. 2,3 ).
In ogni tempo gli uomini si sono chiesti qual è il principio fondamentale della loro vita, ed è un fatto assai strano che i risultati di queste riflessioni concordano quasi sempre tra di loro e per lo più con i dieci comandamenti. Ogni volta che le situazioni umane sono scosse da profondi rivolgimenti e disordini esteriori o interiori, gli uomini che sanno mantenere la chiarezza e l’avvedutezza della riflessione e del giudizio riconoscono che senza timor di Dio, senza rispetto dei genitori, senza protezione della vita, del matrimonio, della proprietà e dell’onore – qualunque sia la forma di questi beni – non è possibile che gli uomini vivano insieme. Per riconoscere queste leggi della vita non è necessario essere cristiani, basta seguire la propria esperienza e la propria sana ragione. Il cristiano prova piacete ad avere in comune con altri uomini questi concetti così importanti. È pronto a collaborate e a lottate con loro dove si tratta di realizzare scopi comuni. Non si meraviglia che in ogni tempo certi uomini abbiano raggiunto le stesse conclusioni sulla vita umana, che, per lo più, coincidono con i dieci comandamenti; infatti i comandamenti sono stati dati appunto dal creatore e conservatore della vita. Ma ciononostante il cristiano non dimentica mai la differenza fondamentale che c’è tra queste leggi della vita e i comandamenti di Dio. In quelle è la ragione a parlare, in questi Dio. La ragione umana predice al trasgressore delle leggi della vita che la vita stessa si vendicherà su di lui portandolo, dopo un iniziale apparente successo, al fallimento ed all’infelicità. Ma Dio non parla della vita, dei suoi successi o fallimenti, Egli parla di se stesso. La prima Parola di Dio nei dieci comandamenti è ‘Io’. L’uomo deve trattare con questo « io », non con una legge generale, non con un « si deve fare questo o quello », ma col Dio vivente. In ogni parola dei dieci comandamenti, in fondo, Dio parla di se stesso; e questo, nei comandamenti, è la cosa più importante. Sono, infatti, la rivelazione di Dio. Nei dieci comandamenti non obbediamo a una legge ma a Dio; e la nostra trasgressione non è un fallimento di fronte alla Legge, ma di fronte a Dio stesso. Non solo disordine e insuccesso colpiscono il trasgressore, ma l’ira stessa di Dio. Non è solo stoltezza trasgredire il comandamento di Dio, ma è peccato, ed il salario del peccato è la morte. Perciò il Nuovo Testamento chiama i dieci comandamenti « Parole di vita » (Atti 7,38).
Forse invece di dire « dieci comandamenti » sarebbe meglio parlare delle « dieci parole » di Dio, come si esprime la Bibbia (Deut. 4,13). Così, non li confonderemmo tanto facilmente con le leggi umane, e non metteremmo tanto facilmente da parte le prime parole: «Io sono il « Signore, l’Iddio tuo», come se si trattasse di un preambolo che veramente non fa parte dei dieci comandamenti e non sta bene nel contesto. In realtà, invece, proprio queste prime parole sono le più importanti, la chiave dei dieci comandamenti; ci fanno vedere in che cosa il comandamento di Dio si distingue per tutta l’eternità dalle leggi umane. Nei dieci comandamenti Dio parla altrettanto della sua grazia quanto del suo comandamento. Non si tratta di un brano che in certo qual modo potremmo considerare volontà di Dio, separatamente da Dio; in essi al contrario si manifesta tutto il Dio vivente quale è veramente. Questa è la cosa fondamentale.
I dieci comandamenti, come li conosciamo noi, sono un’abbreviazione del testo biblico. Chi ci dà il diritto di allontanarci in questo modo dalla Bibbia in un passo così decisivo? La chiesa cristiana universale ascolta i dieci comandamenti in forma diversa dal popolo di Israele. Ciò che riguarda Israele quale popolo dotato di una realtà politica, non è vincolante per la chiesa cristiana, che è popolo spirituale in mezzo a tutti i popoli. Perciò la chiesa, nella libertà della sua fede nel Dio dei comandamenti, ha osato sostituire la traduzione letterale del testo biblico con una traduzione che è esegesi ecclesiastica del testo. «Io sono il Signore, l’Iddio tuo»: quando Dio dice « Io », allora si tratta di rivelazione. Dio potrebbe anche lasciare che il mondo vada per la sua strada, e tacere. Perché Dio dovrebbe aver bisogno di parlare di se stesso? Se Dio dice « Io », questo è grazia. Quando Dio dice « Io », dice semplicemente tutto, la prima cosa e l’ultima; quando Dio dice « Io », vuol dire: «tienti pronto a comparire davanti al tuo Dio, o Israele» (Amos 4,10).
«Io sono il Signore». Non un Signore, ma il Signore! Con ciò Dio pretende di essere l’unico Signore. Ogni diritto di comandare e di pretendere obbedienza appartiene a lui solo. Dio, rivelandosi come Signore, ci libera da ogni assoggettamento umano. C’è e noi abbiamo un solo signore e «nessuno può servire due padroni». Serviamo solo Dio e non serviamo nessun uomo. Anche quando eseguiamo ordini di signori terreni, in realtà serviamo solo Dio. È un grave errore di molti cristiani credere che Dio durante la nostra vita terrena ci abbia sottomesso a molti altri signori accanto a lui, e che la nostra vita sia posta in continuo conflitto tra gli ordini di questi signori terreni e il comandamento di Dio. Abbiamo un solo Signore a cui obbedire; i suoi ordini sono chiari e non ci pongono in balìa di conflitti. È vero che Dio ha dato a genitori e superiori il diritto ed il potere di darci degli ordini, ma ogni autorità terrena è fondata solamente sulla signoria di Dio, in questa trova la sua autorità ed il suo onore; altrimenti è usurpazione e non ha diritto a pretendere obbedienza.
Obbedendo solo al comandamento di Dia, obbediamo anche ai nostri genitori e superiori. La nostra obbedienza a Dio ci impone anche l’ obbedienza a genitori e superiori. Ma non ogni obbedienza a genitori e superiori è anche obbedienza a Dio. La nostra obbedienza non ha valore in quanto è resa a uomini, ma solo in quanta è resa a Dio. «Qualunque cosa fate, agite di buon animo, come per il Signore e non per gli uomini» (Col. 3,23). «Siete stati riscattati a gran prezzo, non vogliate diventar schiavi degli uomini» (1Cor. 7,23).
Solo l’obbedienza a Dio è il fondamento della nostra Libertà. Ma il Signore Iddio non solo è l’unico ad avere il diritto di comandare, ma anche il solo ad avere il potere di far valere il suo comandamento; ha a disposizione tutti i mezzi per farlo. Chi vuole erigersi a Signore accanto a lui, necessariamente precipita. Chi disprezza il suo comandamento deve morire. Ma chi serve lui solo e confida in lui, viene da lui sostenuto e preservato; a costui farà godere ogni bene ora ed in eterno.
«Il tuo Dio». Dio parla al suo popolo eletto, alla comunità che lo ascolta nella fede. Per lei il Signore irraggiungibilmente lontano e potente è allo stesso tempo vicino, presente e misericordioso. «Qual è quella nazione che abbia gli dei così vicini a sé, com’è vicino a noi il nostro Dio quando lo invochiamo?» (Deut. 4,7). Non è un estraneo, un tiranno, né un cieco destino che ci carica di pesi insopportabili, sotto i quali dobbiamo crollare; ma è Dio, il Signore, che ci ha eletto, creato e amato, che ci conosce e vuol essere accanto a noi, con noi e per noi. Ci dà i comandamenti perché possiamo essere e restare accanto a lui, per lui e con lui. Si mette dalla nostra parte, facendoci conoscere il suo comandamento come Signore e amichevole aiuto: «Così non agisce verso nessun pagano» (Salmo 147,20). Dio è tanto grande, che anche la cosa più piccola non è troppo piccola per lui; egli è a tal punto il Signore, da sapersi porre accanto a noi per sostenerci. Se Dio è accanto a noi, allora i suoi comandamenti non sono difficili, allora la sua legge è la nostra consolazione (Salmo 119, 92), il suo giogo è soave, il suo peso leggero. «Io corro la via dei tuoi precetti, poiché tu consoli il mio cuore» (Salmo 119,32). Nell’arca dell’alleanza che è il trono della benevola presenza di Dio, sono deposte le due tavole, rinchiuse, avvolte, circondate dalla grazia di Dio.
Chi vuol parlare dei dieci comandamenti, deve cercarli nell’arca dell’alleanza, e così deve allo stesso tempo parlare della grazia di Dio. Chi vuole annunziare i dieci comandamenti, deve contemporaneamente annunziare la libera grazia di Dio.
IL PRIMO COMANDAMENTO
«Non avere altri dei nel mio cospetto». L’imperativo negativo che ora segue per ben dieci volte è solo la spiegazione della precedente testimonianza che Dio dà di se stesso. In dieci brevi frasi è espresso qui che cosa significa per la nostra vita che Dio è il Signore Iddio nostro. Il contesto acquista la massima chiarezza se davanti ad ognuna di queste proposizioni introduciamo un «perciò»: «Io sono il Signore, Iddio tuo»… e perciò non… È per bontà che Dio, mediante questi divieti, ci vuol preservare da errori e trasgressioni e ci indica i limiti, entro i quali possiamo vivere in comunione con lui.
«Non avere altri dei nel mio cospetto». Non è affatto una cosa ovvia. In ogni tempo i popoli con civiltà progredite hanno conosciuto un cielo popolato da varie divinità, ed era segno della grandezza e dignità di un dio, se non era geloso del posto che un altro dio occupava nel cuore devoto degli uomini. La virtù umana della generosità e della tolleranza veniva attribuita anche agli dei. Ma Dio non ammette altro dio accanto a sé; vuol essere l’unico Dio. Vuole essere e fare tutto per l’uomo; perciò vuole anche essere adorato come unico Dio. Accanto a lui non c’è posto per null’altro; sotto di lui si pone la creazione. Dio vuole essere l’unico Dio, perché egli soltanto è Dio.
Qui non si tratta di altri dei che potremmo adorare al posto di Dio, ma del fatto che potremmo pensare di porre qualcosa accanto a Dio. Ci sono dei cristiani che dicono che accanto alla fede in Dio, che non lascerebbero per nulla al mondo, hanno ragion d’essere anche il mondo, lo stato, il lavoro, la famiglia, la scienza, l’arte, la natura. Dio dice che nulla, assolutamente nulla ha il diritto di esistere accanto a lui, ma solo al di sotto di lui. Ciò che noi poniamo accanto a lui è un idolo.
Si è soliti dire che i nostri idoli sono il denaro, là voluttà, l’onore, altri uomini, noi stessi. Più appropriato sarebbe dire che nostri idoli sono lo spiegamento delle nostre forze, il potere, il successo. Ma, in fondo, gli uomini nella loro debolezza hanno sempre amato tutte queste cose, e nulla di tutto quanto è stato detto sopra è ciò che veramente intende il primo comandamento parlando di « altri dei ». Per noi il mondo è stato privato dei suoi dei; non adoriamo più nulla. Troppo chiaramente abbiamo provato la debolezza e nullità di tutte le cose, per poterle ancora divinizzare. Troppo abbiamo perso la fiducia in tutto ciò che esiste, per poter essere ancora in grado di avere dei e di adorarli. Se per noi c’è ancora un idolo, questo è forse il nulla, la fine, l’insensatezza di tutto. E il primo comandamento ci chiama al solo vero Dio, l’onnipotente, il giusto e misericordioso, che ci salva dalla rovina, dal nulla, e ci fa rimanere nella sua comunità.
Ci furono tempi in cui l’autorità profana puniva severamente il rinnegamento di Dio e l’idolatria. Se anche lo faceva per proteggere la comunità dal traviamento e dal disonore, tuttavia non rendeva un servizio a Dio, perché, in primo luogo, Dio vuole essere servito in piena libertà; poi, le forze della seduzione, secondo il piano di Dio, devono servire a mettere alla prova i credenti e a rinvigorirli; terzo, il rinnegamento aperto di Dio nonostante tutto è in noi più promettente che una confessione di fede ipocrita, ottenuta con un ricatto. Le autorità profane devono concedere protezione esteriore alla fede nel Dio dei dieci comandamenti; ma la lotta con l’incredulità deve essere lasciata solo alla potenza della Parola di Dio.
Non è sempre facile fissare il momento in cui la partecipazione ad un atto ordinato dallo stato diviene idolatria.
I primi cristiani rifiutavano di contribuire anche solo con un granello di incenso al sacrificio che serviva al culto dell’imperatore romano, e per questo sopportavano il martirio. I tre uomini nel libro del profeta Daniele (cap. 3) rifiutarono di inginocchiarsi, secondo gli ordini del re, davanti all’idolo d’oro che simboleggiava la potenza del re e del suo regno. D’altro canto il profeta Elia permise espressamente al capo dell’esercito siriano Naaman di inginocchiarsi, accompagnando il suo re, nel tempio pagano (2 Re 5,12). La maggior parte dei cristiani in Giappone di recente ha dichiarato che la partecipazione al culto statale dell’imperatore è lecita.
In tutte le decisioni di questo genere si dovrà considerare quanto segue: 1) l’ordine di partecipare a simili atti politici richiede univocamente l’adorazione di altri dei? allora è preciso dovere del cristiano rifiutarsi. 2) ci sono dei dubbi se si tratta di un atto religioso o politico? allora nella decisione si dovrà considerare se partecipandovi si dia scandalo alla comunità di Cristo e al mondo; se cioè si susciti anche minimamente l’impressione del rinnegamento di Gesù Cristo. Se per il giudizio comune dei cristiani non è così, nulla impedisce la partecipazione; ma se è così, anche qui si dovrà rifiutare la partecipazione.
La chiesa luterana ha fatto rientrare il secondo comandamento biblico, la proibizione di farsi delle immagini, nel primo. Non è vietato alla chiesa la rappresentazione figurativa di Dio. Dio stesso in Gesù Cristo ha preso forma umana e si è offerto alla vista degli uomini. È solo proibito adorare o venerare le immagini come se in esse fosse insita una potenza divina. Sotto lo stesso divieto cade h superstiziosa venerazione di amuleti, immagini protettive ecc., come se avessero un particolare potere di proteggere da disgrazie.
«Ascolta, o Israele, Jahve è il nostro Dio; Jahve è uno solo. Ama Jahve tuo Dio con tutto il cuore, con tutto l’animo, con tutta la forza» (Deut. 6,4). Gesù Cristo ci ha insegnato a rivolgerei fiduciosi in preghiera a questo nostro Dio: «Padre nostro, che sei nel cielo».
IL SECONDO COMANDAMENTO
«Non usare il nome dell’Eterno, che è il tuo Dio, invano; perché l’Eterno non terrà per innocente chi avrà usato il suo nome invano». « Dio » non è per noi un concetto generale, con cui indicare quanto di più alto, di più santo, di più potente si possa pensare. « Dio » è un nome. È ben diverso se dei pagani dicono « dio », o se lo diciamo noi, ai quali Dio stesso ha parlato. Dio è per noi il nostro Dio, il Signore, il vivente. « Dio » è un nome e questo nome è la cosa più santa che possediamo, poiché in esso non abbiamo qualcosa di immaginario, ma Dio stesso in tutto il suo essere, nella sua rivelazione. Se ci è concesso dire « Dio », lo è solo perché Dio, nella sua incommensurabile grazia, si è fatto conoscere da noi. Se diciamo « Dio », è come se lui stesso ci parlasse, ci chiamasse, ci consolasse e ci comandasse. Avvertiamo la sua vicinanza a noi nella sua azione, nella sua creazione, nel suo giudizio, nel suo ammonimento. «Ti ringrazio, o Signore, perché il tuo nome ci è così vicino» (Salmo 75,2). «Il nome di Jahve è una torre fortissima; il giusto vi si rifugia ed è al sicuro» (Prov. 18,10).
La parola « dio » è nulla; il nome « Dio » è tutto.
Gli uomini, per lo più, oggi intuiscono bene che Dio non è solo una parola, ma un nome. Perciò cercano di evitare di dire « Dio »; e dicono invece « divinità », « destino », « provvidenza », « natura », « l’onnipotente ». « Dio » suona quasi come una confessione di fede. E questo non lo vogliono. Vogliono la parola, non il nome. Il nome, infatti, è impegnativo.
Il secondo comandamento ci invita a santificare il nome di Dio. Il secondo comandamento, veramente, possono violarlo solo coloro che conoscono il nome di Dio. La parola « dio » non vale né più né meno di altre parole umane, e chi ne abusa disonora solo se stesso ed i propri pensieri. Ma chi conosce il nome di Dio e ne abusa, disonora e profana Dio. Il secondo comandamento non parla di bestemmia del nome di Dio, ma del suo abuso, così come il primo comandamento non parlava del rinnegamento di Dio, ma di altri dei accanto a Dio. I credenti non corrono pericolo di bestemmiare Dio, ma di usare male del suo nome.
Noi, che conosciamo il nome di Dio, lo usiamo male se lo pronunciamo come se fosse solo una parola, come se in questo nome non fosse sempre Dio stesso a parlarci. C’è un abuso del nome di Dio nel bene e nel male. È veramente difficile immaginare che i cristiani possano abusare del nome di Dio nel male; eppure succede. Se nominiamo Dio e lo invochiamo coscientemente per far apparire buona e pia dinanzi al mondo una causa empia e malvagia, se chiediamo la benedizione di Dio per una causa malvagia, se nominiamo Dio in un contesto che lo disonora, allora noi ne abusiamo per il male. Sappiamo bene che in tal caso Dio stesso sarebbe senz’altro contrario alla causa per cui lo invochiamo; ma, dato che il suo nome ha un potere anche di fronte al mondo, noi ci richiamiamo a Lui.
Più pericoloso, perché più difficile da riconoscere, è l’abuso del nome di Dio nel bene. Accade quando noi cristiani pronunciamo il nome di Dio così spesso, così semplicemente, così scorrevolmente, in modo così confidenziale da pregiudicare la santità e il miracolo della sua rivelazione. È un abuso se a ogni problema ed a ogni necessità umana rispondiamo sempre prontamente con la parola Dio o con un versetto biblico, come se fosse la cosa più naturale di questo mondo che Dio debba risolvere subito tutti i nostri problemi umani ed essere già lì pronto ad accorrere in nostro aiuto ad ogni difficoltà. È abuso se noi facciamo di Dio un tappabuchi per ogni nostra minima difficoltà. È abuso se mettiamo semplicemente a tacere ogni sincero sforzo scientifico o artistico con la parola Dio. È abuso se gettiamo la « perla ai porci ». È abuso parlare di Dio senza essere coscienti della presenza vivente nel suo nome. È abuso parlare di Dio come se lo avessimo sempre a nostra disposizione e come se ci fossimo seduti con lui a consiglio. In tutti questi modi noi abusiamo del nome di Dio e ne facciamo una vuota parola umana e chiacchiere inefficaci. Con ciò noi lo profaniamo più di quanto potrebbero fare tutti i bestemmiatori.
Al pericolo di un tale abuso del nome di Dio gli Israeliti ovviarono col divieto di pronunciarlo in genere. Dal rispetto che questa regola mette in luce non possiamo che trarre un insegnamento. È certo meglio non pronunciare affatto il nome di Dio che abbassarlo a semplice parola umana. Ma noi abbiamo l’obbligo sacro e il fondamentale diritto di testimoniare di Dio gli uni agli altri e di fronte al mondo. E questo lo facciamo solo se pronunciamo il nome di Dio in modo tale che in esso la Parola del Dio vivente, presente, giusto e pieno di grazia renda testimonianza a se stessa. Ciò accade solo se noi preghiamo ogni giorno come ci ha insegnato Gesù Cristo: «Sia santificato il tuo nome».
Le autorità profane dell’occidente hanno sempre punito la bestemmia in pubblico. Con ciò hanno testimoniato di essere chiamate a proteggere la fede in Dio e il servizio di Dio da disprezzo e oltraggio. Ma esse non furono mai in grado di soffocare da sole i movimenti spirituali, dalle cui aberrazioni, bene o male intese, nascono tali oltraggi; e non può nemmeno essere loro compito. La soppressione violenta dei movimenti spirituali non aiuta la chiesa. Questa non pretende altro che di poter liberamente annunziare il suo messaggio e liberamente vivere, e confida che il nome di Dio correttamente annunziato riesca a imporsi e a incutere rispetto da solo.
È abuso giurare nel nome di Dio? Per il contenuto del parlare di un cristiano non c’è differenza se egli parla sotto giuramento o no, se usa il testo del giuramento così detto religioso o quello non religioso. Il suo sì è sì ed il sua no è no, non imparta quali giuramenti vi si aggiungano. Tra cristiani non c’è giuramento, ma solo un sì o un no. Solo per via degli altri uomini e per via della menzogna che regna nel mondo il cristiano può rendere la sua parola – non certo più vera – ma più credibile, servendosi della formula di giuramento richiesta dallo stato; e per lui è di secondaria importanza se in questa formula è nominato Dio o no. Il giuramento per il cristiano è solo una conferma esteriore, di ciò che, in ogni caso, per lui è un dato di fatto, cioè che la sua parola è stata detta al cospetto di Dio.
IL TERZO COMANDAMENTO
«Ricordati del giorno del riposo per santificarlo». È difficile per noi comprendere che questa comandamento occupa un posto di pari dignità accanto al divieto di adorare idoli o anche a quello di non uccidere, che chi viola questo comandamento non è meno colpevale di chi disprezza i genitori, del ladro, dell’adultero, del calunniatore. La nostra vita è fatta di giorni feriali riempiti di lavoro, in mezzo alla gente. A noi sembra che il giorno del riposo sia un piacevole permesso, ma è divenuto per noi un pensiero alquanto estraneo che in esso sia contenuta tutta la serietà del comandamento di Dio.
Dio comanda il giorno di festa. Comanda il riposo e la santificazione della festa.
Il decalogo non contiene nessun ordine di lavorare, ma uno di riposare dal lavoro sì. È proprio il contrario di quanto siamo soliti pensare. Nel terzo comandamento il lavoro è presupposto come stato naturale; ma Dio sa che l’opera che l’uomo compie acquista un tale potere su di lui, che egli non riesce più a liberarsene, e si aspetta ogni cosa dalla propria opera, e così dimentica Dio. Perciò Dio comanda di riposare dal proprio lavoro. Non è il lavoro a mantenere l’uomo, ma solo Dio; non del suo lavoro può vivere l’uomo, ma solo di Dio. «Se l’Eterno non edifica la casa, invano s’affaticano gli edificatori; se l’Eterno non guarda la città, invano vegliano le guardie. Egli dà altrettanto ai suoi diletti, mentre essi dormono» (Salmo 127,12); così la Bibbia parla contro tutti quelli che del lavoro fanno la loro religione. Il riposo festivo è il segno visibile che l’uomo vive della grazia di Dio e non delle proprie opere.
Durante il giorno del riposo dovrebbe regnare il silenzio esteriore ed interiore. Nelle nostre case si lascino da parte tutti i lavori non strettamente necessari per la vita; il decalogo include espressamente in questo comandamento anche servi, estranei, animali. Non dobbiamo cercare una distrazione disordinata, ma tranquillità e raccoglimento. Poiché questo non è facile, poiché, anzi, l’inoperosità spinge facilmente a vuoto ozio, a distrazione e divertimenti stancanti, ci deve essere espressamente comandato il riposo. Si richiede forza per obbedire a questo comandamento.
Il riposo festivo è la premessa indispensabile per la santificazione della festa. L’uomo abbassato ad essere una macchina da lavoro e sovraffaticato ha bisogno di riposo, perché il suo pensiero possa chiarirsi, i suoi sentimenti possano purificarsi, la sua volontà possa ricevere una nuova direzione.
La santificazione del giorno festivo è il contenuto del riposo in esso. Il giorno di festa viene santificato mediante l’annunzio della Parola di Dio nel culto e mediante l’ascolto pronto e rispettoso di questa Parola. La dissacrazione del giorno di festa inizia col decadimento della predicazione cristiana. È, perciò, in primo luogo, colpa della chiesa e soprattutto dei suoi ministri. Il rinnovamento della santificazione della festa parte dal rinnovamento della predicazione.
Gesù ha infranto le leggi ebraiche del riposo del sabato. Lo fece per richiamare alla vera santificazione del sabato. Il giorno del riposo viene santificato non da quello che fanno o non fanno gli uomini, ma dall’azione di Gesù Cristo per la salvezza degli uomini. Perciò i primi cristiani hanno sostituito il sabato con il giorno della risurrezione di Gesù Cristo e lo hanno chiamato giorno del Signore. A ragione, perciò, Lutero non traduce letteralmente la parola ebraica con « sabato » ma ne dà un’interpretazione spirituale come «giorno festivo». La nostra domenica è il giorno in cui lasciamo che Gesù Cristo agisca in noi e negli uomini. Veramente questo dovrebbe accadere ogni giorno, ma la domenica riposiamo dal nostro lavoro per poter essere più aperti a questa azione di Cristo in noi.
« Il riposo domenicale è lo scopo della santificazione della domenica. Dio vuole condurre il suo popolo alla sua quiete, a riposare dal lavoro quotidiano in terra. «Cuore, rallegrati, sarai liberato dalla miseria di questa terra e dal lavoro del peccato». Liberato dall’operare umano imperfetto, il popolo di Dio guarderà la pura e perfetta opera di Dio e vi parteciperà. Il cristiano che santifica la domenica può trovare in questo riposo domenicale un riflesso e una promessa del riposo eterno presso il Creatore, il Redentore, Colui che porta a compimento il mondo.
Agli occhi del mondo la domenica ha la funzione di mettere in evidenza, che i figli di Dio vivono della grazia di Dio e che gli uomini sono chiamati al suo Regno. Perciò preghiamo: «Venga il tuo Regno».
http://www.zenit.org/article-35079?l=italian
LA DIMORA DI DIO: RILEGGERE LA « LUMEN GENTIUM »
Intervento di mons. Mariano Crociata nella prima delle Tre Letture Teologiche, svoltasi ieri nella sala della Conciliazione del Palazzo Lateranense
ROMA, Friday, 18 January 2013 (Zenit.org).
Si dirà che il Concilio più che delle divine verità si è occupato principalmente della Chiesa, della sua natura, della sua composizione, della sua vocazione ecumenica, della sua attività apostolica e missionaria. Questa secolare società religiosa, che è la Chiesa, ha cercato di compiere un atto riflesso su se stessa, per conoscersi meglio, per meglio definirsi, e per disporre di conseguenza i suoi sentimenti ed i suoi precetti.
È vero. Ma questa introspezione non è stata fine a se stessa, non è stata atto di pura sapienza umana, di sola cultura terrena; la Chiesa si è raccolta nella sua intima coscienza spirituale, non per compiacersi di erudite analisi di psicologia religiosa o di storia delle sue esperienze, ovvero per dedicarsi a riaffermare i suoi diritti e a descrivere le sue leggi, ma per ritrovare in se stessa vivente ed operante, nello Spirito Santo, la parola di Cristo, e per scrutare più a fondo il mistero, cioè il disegno e la presenza di Dio sopra e dentro di sé, e per ravvivare in sé quella fede, ch’è il segreto della sua sicurezza e della sapienza, e quell’amore che la obbliga a cantare senza posa le lodi di Dio [1].
Questa lunga citazione dell’Allocuzione con cui papa Paolo VI chiudeva il Concilio Vaticano II esprime la coscienza con cui i Padri conciliari e la Chiesa tutta hanno vissuto un evento, di cui decantare oggi l’attualità non è affermazione di circostanza e celebrare l’anniversario è invece esperienza condivisa di una storia degli effetti dalla portata pervasiva e penetrante.
È manifesta, nelle parole del Papa, la consapevolezza che il tema della Chiesa è stato al centro dell’intenzione e della riflessione del Concilio. Non è difficile trovare riscontro a tale consapevolezza nella ricostruzione dei dibattiti e nell’influsso che la costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, promulgata il 21 novembre 1964, ha esercitato sulla stessa vicenda conciliare sia nel corso della sua elaborazione sia successivamente, lungo la medesima sessione conciliare e soprattutto in quella conclusiva del 1965, che ha visto l’approvazione della quasi totalità dei documenti emanati.
Senza tema di sminuire la ricchezza e la varietà dei suoi contenuti, porre il suo insegnamento nell’ottica ecclesiologica fornisce un principio unitario e coerente di intellegibilità del Concilio. Nel rispondere alla domanda: “Chiesa, che cosa dici di te stessa?” esso torna a visitare l’identità e la missione della Chiesa per adempierle con rinnovata fedeltà nel mutato contesto storico.
Molto è stato giustamente detto circa l’inedito carattere pastorale di questo Concilio, ma sarebbe un fraintendimento contrapporlo a quelli del passato sommariamente definendoli dottrinali e disciplinari, poiché come la condanna dell’errore costituiva in altre epoche la forma adeguata per l’esercizio della responsabilità pastorale, così l’assenza di eresie da condannare non ha precluso né limitato, ma ha semmai potenziato, la portata e la fecondità dottrinale e disciplinare del Vaticano II.
In questo Anno della fede risuonano di un’eco speciale le parole di Paolo VI sul bisogno a cui il Concilio ha risposto di «ravvivare in sé quella fede, ch’è il segreto» della Chiesa. L’assise di cinquant’anni fa ha voluto, innanzitutto, ribadire che fede e Chiesa si implicano e presuppongono a vicenda. Non solo non c’è Chiesa senza credenti, ma non si dà nemmeno fede formata che possa essere accolta e vissuta fuori della Chiesa.
Di ciò troviamo risonanza e densità di elementi in tutti i documenti conciliari; ma è soprattutto la Lumen Gentium a racchiuderli e legittimarli organicamente. Proprio la connessione tra fede e Chiesa pone in rilievo un aspetto pregiudiziale nell’approccio alla costituzione conciliare. Esso riguarda l’atteggiamento e la comprensione con cui ciascuno giunge a prendere in considerazione il documento. Non è solo una disposizione spirituale quella che è chiesta, ma un’appropriata attitudine intellettuale.
Parlare della Lumen Gentium chiede di prendere coscienza del modello di Chiesa che ciascuno si è formato e con cui operiamo. Lo chiede non tanto l’esercizio di ascesi intellettuale suggerito dalla circostanza, ma l’onesta considerazione di ciò che un tale documento conciliare rappresenta, e cioè – per dirla ancora con le parole di Paolo VI – la volontà e la possibilità della Chiesa di «ritrovare in se stessa vivente ed operante, nello Spirito Santo, la parola di Cristo, e per scrutare più a fondo il mistero, cioè il disegno e la presenza di Dio sopra e dentro di sé».
Questo ha fatto la Chiesa del Concilio e questo noi torniamo a cercare a distanza di cinquant’anni. Non stiamo a giudicare adesso, se il compito sia stato adempiuto o meno, o in quale misura; conta sapere che l’aver riportato a nuovo splendore l’identità sorgiva e la missione originaria ci rapporta alla Chiesa del Concilio come parte in causa, poiché mette in questione la nostra idea di Chiesa e, con ciò stesso, interpella la nostra stessa autocomprensione credente.
Se il valore e il significato di ciò che il Concilio insegna non ci coinvolgono in ciò che esso intende effettivamente essere – manifestazione della parola di Cristo nella potenza dello Spirito – allora la rivisitazione della Lumen Gentium potrà alpiù accumulare qualche elemento ulteriore di conoscenza o poco più. Ma, più che con elementi aggiuntivi, in realtà noi siamo misurati con la proposta di un modello che chiede un ripensamento del nostro essere credenti e del nostro essere Chiesa, per diventare tali in modo più avvertito e partecipe.
Quale modello di Chiesa presenta la Lumen Gentium?
La domanda solleva molte più questioni di quante risposte lasci intravedere. Il dibattito post-conciliare sta lì a segnalare le animate controversie che sono state suscitate e, se possibile, acuisce l’esigenza di trovare un punto fermo che, senza disperdere i molteplici utili esiti della ricerca, consenta di pervenire a una visione unitaria e coerente. Papa Benedetto XVI, nel famoso discorso alla Curia romana del 2005, ha indicato un principio fondamentale per la corretta interpretazione del Concilio, parlando di «“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa» [2].
Il significato di tale enunciato ha un chiaro fondamento ecclesiologico nella formula “unico soggetto-Chiesa”, che non può essere concepito in senso a-storico, ma nemmeno può essere ridotto a espressione mutevole di processi intesi in termini storicistici. Non è un caso che il contenuto della Lumen Gentium si ponga in netta antitesi con tali fraintendimenti. La natura della Chiesa non consente di isolare nessuno dei momenti della sua vicenda storico-teologica dalla sua origine e dal suo intero dispiegarsi nel volgere del tempo.
Il criterio ermeneutico enunciato da Benedetto XVI presenta implicazioni feconde anche nell’approccio interpretativo a questo singolo e peculiare documento sulla Chiesa, poiché segnala come – al pari della comunità ecclesiale nel suo insieme – anche un evento straordinario come un Concilio non possa essere compreso se non nella rete della molteplicità delle relazioni che intrattiene con la vita e la storia tutta della Chiesa, ma anche al proprio interno nell’intreccio tra evento conciliare e testi prodotti.
Così siamo coerentemente condotti a formulare un criterio interpretativo del documento che – in analogia con l’esegesi biblica – può essere enunciato come “lettura canonica”, che considera il testo nella sua struttura e composizione definite nel testo promulgato. Tale criterio non deve temere di vedere mortificato l’apporto dell’applicazione al testo del metodo storico-critico. La mole di materiali e di studi critici accumulata in questi decenni ha mostrato ampiamente la differenza di sensibilità che si sono intrecciate nell’elaborazione dei documenti e della stessa Lumen Gentium, la quale porta tracce più o meno riconoscibili di approcci teologici diversi se non, per qualche verso, anche contrapposti.
Facile osservare che a inseguire tali divaricazioni si perviene solo alla loro sterile constatazione e, al limite, alla scelta tendenzialmente teologica (se non addirittura ideologica) di preferenza per l’una o per l’altra. Senza insinuare artificiose contrapposizioni, è proprio qui il caso di evidenziare la distinzione tra teologia e dottrina, accomunate senz’altro dalla storicità oltre che dai contenuti del sapere della fede, ma differenziate, nel primo caso, per la prevalenza della particolarità dell’opzione teorica dettata dai soggetti e dal contesto e, nel secondo, dalla ricerca predominante della risposta al dono della fede accolta nella continuità con l’evento originario e nell’unità della comunione ecclesiale.
Simili considerazioni trovano riscontro negli sviluppi che hanno segnato l’interpretazione della Lumen Gentium nel corso di questi decenni, centrata, di volta in volta, sulle categorie di sacramento, di popolo di Dio, di comunione, per citare solo i passaggi più rilevanti [3]. Sulla rispondenza di tali accentuazioni all’effettualità del testo e all’intenzionalità del Concilio non c’è motivo di discutere; ce n’è invece se prendiamo in considerazione la legittima rivendicazione di altri aspetti di essere tenuti nella dovuta attenzione – o di essi stessi considerati in maniera non esclusiva o unilaterale – per un’integrale comprensione della Chiesa secondo l’insegnamento della Lumen Gentium.
Per queste ragioni, allo scopo di approssimarci al modello di Chiesa che cerchiamo, dobbiamo ragionevolmente attenerci – primo – alla struttura della costituzione dogmatica e – secondo – all’integrità dei suoi contenuti così come essa è uscita dall’approvazione dei Padri conciliari. Ciò comporta due conseguenze. La prima vuole che i temi e il loro ordine organizzativo all’interno del documento siano tenuti nel debito conto. La seconda invita a ripercorrere il dibattito ermeneutico per ritrovare le fila di un tessuto che si tiene insieme e perciò chiede di integrare, e non contrapporre, le categorie di volta in volta messe in evidenza e talora perfino assolutizzate.
La Chiesa ci appare come mistero (cap. I), cioè realtà divino-umana dall’apertura popolare, cioè inclusiva e universale (cap. II), la cui articolazione interna conferisce, sulla base della comune dignità battesimale, una responsabilità sacramentale specifica ai portatori del ministero ordinato (cap. III), ma ugualmente una dignità propria ai laici (cap. IV) e ai religiosi (cap. VI) nell’adempimento di una missione che ha il suo cuore nella chiamata alla santità (cap. V) e nella destinazione escatologica (cap. VII) ; così comprendendosi e vivendo, essa guarda a Maria (cap. VIII) come alla sintesi personale singolare della sua identità e del suo compito.
Lo sviluppo di tale autocomprensione ecclesiologica fa perno sulla categoria di mistero, termine di rara densità biblico-teologica che evoca la radice di tutto nella vita e nell’iniziativa di Dio stesso. Essa ultimamente consiste nella volontà di portare all’essere dal nulla la realtà creata da Dio. La Chiesa non viene compresa se non si trova connessa con questo fondamento nella creazione e nel suo rapporto con essa. La volontà divina di creare l’uomo quale vertice della creazione si spiega con l’intenzione di renderlo partecipe della sua stessa vita; ora una tale partecipazione si compie attraverso il luogo storico della Chiesa. Questa è stata pensata e voluta nell’atto stesso di creare l’uomo per destinarlo alla divinizzazione.
Tale disegno rimane inadeguatamente inteso se non viene colto simultaneamente nella sua configurazione trinitaria. Le categorie ecclesiologiche fondamentali di popolo di Dio, corpo di Cristo e tempio dello Spirito stanno in reciproca e circolare relazione perché l’iniziativa divina vede all’opera unitariamente e distintamente le persone divine. Essere Chiesa e stare nella Chiesa equivale a entrare e intrattenere una relazione vitale con le persone di Dio, singolarmente e insieme, attraverso le forme di cui si alimenta l’identità e l’appartenenza ecclesiale, e cioè la parola, il sacramento, la comunione [4].
A proposito di quest’ultimo riferimento, non può essere sottaciuto che il Sinodo dei Vescovi del 1985, dedicato al Vaticano II, ha centrato la comprensione della sua ecclesiologia attorno alla categoria di comunione [5].
Il dato curioso è rappresentato dalla ricorrenza relativamente irrisoria del termine nei testi conciliari e dalla sua marginalità come concetto esplicito; è importante tuttavia cogliere, proprio in quella operazione ermeneutica, la possibilità di ripensare il modello proposto dal testo conciliare senza legarsi a un letteralismo rigido ma anche senza mai tradirne la lettera e il senso. Anche in questo caso si deve concludere che il criterio decisivo è la compatibilità delle categorie ecclesiologiche conciliari valutate e recepite nel loro insieme.
Semmai, proprio questo esempio permette di ricentrare il focus interpretativo attorno alla categoria di partenza della Lumen Gentium, e cioè mistero, che dice il dimorare della presenza di Dio lungo la storia nel luogo della comunità dei credenti, battezzati e redenti; la comunione appare in tale luce come una variazione espressiva dell’essere e della vita di Dio che la sua iniziativa storico-salvifica immette nel tessuto delle relazioni e della storia degli uomini attraverso quel singolare luogo sociale che è la Chiesa.
La questione da cui siamo partiti ci chiede a questo punto di avviare un confronto serrato e una riflessione adeguata a commisurare il nostro modello di Chiesa con quello che essa stessa ci presenta nella massima istanza della sua manifestazione storico-teologica attraverso l’evento conciliare, e in particolare della costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, che occupa in esso un posto centrale e strutturante.
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