Archive pour janvier, 2013

«AMO PERCHÉ AMO, AMO PER AMARE» – SAN BERNARDO

http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/letture_patristiche_w.htm#«AMO PERCHÉ AMO, AMO PER AMARE»

«AMO PERCHÉ AMO, AMO PER AMARE»

SAN BERNARDO *

San Bernardo (1090-1153) si fece monaco a Citeaux e, tre anni dopo, divenne il primo Abate di Chiara valle. I doni di natura e di grazia hanno conferito a questo letterato, teologo e mistico, un fascino tutto particolare. La sua opera conserva ancora oggi un grande valore spirituale.
Nei suoi sermoni sul Cantico dei Cantici, grazie anche alla perfezione della forma letteraria, egli ci fa gustare i frutti di una lunga esperienza di vita spirituale.

L’amore basta a se stesso, piace per sé e a motivo di sé; è merito e ricompensa a se stesso. Non cerca all’infuori di sé nessuna causa e nessun frutto: suo frutto è appunto amare. Amo perché amo, amo per amare. Grande cosa è l’amore purché risalga al suo principio e, ritornato alla sua origine, riversatosi nella sua fonte, attinga sempre da essa per poter fluire perennemente. Di tutti i moti dell’anima, dei sentimenti e degli affetti, l’amore è il solo col quale la creatura può rispondere al suo Creatore, se non da pari a pari, almeno da simile a simile…
L’amore dello Sposo, o meglio lo Sposo che è amore, chiede solo reciprocità d’amore e fedeltà. L’amata dunque deve amari o a sua volta. Come potrebbe non amare lei che è sposa e sposa dell’Amore? Come potrebbe l’Amore non essere amato?
E’ giusto allora che, rinunziando a tutti gli altri affetti, si dia interamente ad un unico amore, lei a cui tocca rispondere all’Amore stesso ricambiando amore. Infatti anche se si effonde tutta in amore, che proporzione ci sarà tra questo suo amore e lo scorrere perenne di quella che è la fonte? Certamente il flusso dell’amore non sgorga con la stessa ricchezza da chi ama e da chi è l’Amore, dall’anima e dal Verbo, dalla sposa e dallo Sposo, dal Creatore e dalla creatura: l’abbondanza della fonte non è certo quella dell’assetato. E allora? Sarà quindi vano, sparirà completamente il desiderio di quella che aspetta le nozze? L’aspirazione di chi attende, l’ardore dell’amante, la fiducia di chi spera saranno delusi perché la sposa non può correre col passo di un gigante, contendere in dolcezza col miele, in mitezza con l’agnello, in candore col giglio, in luminosità col sole, in amore con colui che è Carità? No. Infatti, anche se la creatura ama di meno perché è più piccola, tuttavia può amare con tutta se stessa e dove c’è il tutto nulla manca. Perciò, come ho detto, amare così è una vera unione nuziale: non è infatti possibile volere tanto bene e non essere ricambiati nella stessa misura, in modo che il perfetto connubio consista nel reciproco consenso di due. A meno che qualcuno non obbietti che è l’anima ad essere amata dal Verbo, amata prima e di più. Perciò è prevenuta e superata nell’amore. Beata colei che ha meritato di essere prevenuta e benedetta con tanta tenerezza! Felice quella a cui è stato concesso di sperimentare un abbraccio così soave! Questo non è altro che amore santo e casto, dolce e delicato, amore tanto sereno quanto sincero, amore reciproco tutto intimo e forte, che congiunge due non in una sola carne, ma in un solo spirito e di due non fa più due ma uno solo, come dice Paolo: Chi aderisce a Dio, è un solo spirito con lui (1 Cor. 6, 17).

* Sermones super Cantica Canticorum, sermo LXXXIII, vol. II – Ed. Cist. Roma 1958 – pp. 300-302.

MILANO NON DIMENTICA LE VITTIME DELL’OLOCAUSTO NAZISTA (Il Cardinale Scola…)

http://www.zenit.org/article-35296?l=italian

MILANO NON DIMENTICA LE VITTIME DELL’OLOCAUSTO NAZISTA

Il cardinale Scola inaugura il Memoriale della Shoah nel Binario 21 della Stazione Centrale, luogo da cui nel gennaio del ’44 partirono i convogli destinati ad Auschwitz

Salvatore Cernuzio
ROMA, Monday, 28 January 2013 (Zenit.org).
Custodire la memoria per evitare di ripetere gli errori passati ed edificare quindi anche il presente. Già ieri Benedetto XVI aveva rivolto questo invito ai fedeli riuniti in piazza San Pietro per l’Angelus, durante il quale, in occasione del “Giorno della Memoria”, ha ricordato le vittime dell’orrore nazista.
Anche il cardinale Angelo Scola ha ribadito tale concetto, inaugurando ieri il Memoriale della Shoah, il nuovo spazio nella Stazione centrale di Milano dedicato “a quanti hanno avuto barbaramente strappata la vita nei campi di sterminio, sia ebrei, sia deportati politici”.
Oltre all’Arcivescovo di Milano, erano presenti alla cerimonia anche il rabbino capo Alfonso Arbib; il presidente della Fondazione Memoriale, Ferruccio de Bortoli, autorità civili e numerosi altri rappresentanti della Comunità ebraica e della società milanese.
Il Memoriale della Shoah è stato allestito nel Binario 21 della stazione ambrosiana, un binario ferroviario «sotto» la città, divenuto negli anni il simbolo della deportazione ebraica, perché proprio da lì, il 30 gennaio 1944, partirono i convogli destinati ad Auschwitz carichi di circa 605 persone. Di queste, ne tornarono solo ventidue.
A lungo abbandonato, il Binario 21 è spesso stato oggetto di diverse ipotesi di recupero. Solo nel 2009 però si è dato finalmente il via ai lavori di un ambizioso progetto che ha visto una prima realizzazione proprio ieri, nel «cuore» del Memoriale. Da zona cadente della Stazione centrale, il binario è, dunque, diventato ora un luogo di memoria, di ricordi, ma anche di studio, documentazione e “ammonizione” per il domani.
La struttura ospita un percorso tematico: dalla «Sala delle testimonianze», dedicata alle voci dei sopravvissuti, si passa al «Cannocchiale della Discriminazione», spazio multimediale di proiezioni in movimento. Si arriva poi al «Binario della Destinazione Ignota» e al «Muro dei Nomi», sul quale sono ricordati i nomi di tutte le persone deportate quel tragico 30 gennaio.
“Questo Memoriale – ha dichiarato il cardinale – Scola con le attività ad esso collegate, dice non solo per la nostra città, ma a tutto il Paese, che la memoria non è puro ricordo ma opera di edificazione del presente”. “Non mi sfuggono – ha proseguito – le responsabilità storiche di taluni figli della Chiesa di fronte alle tragiche ingiustizie compiute contro i membri del popolo ebraico”.
Il porporato ha quindi ricordato le parole del Beato Giovanni Paolo II, quando, nella storica visita al Mausoleo di Yad Vashem a Gerusalemme, affermò con grande chiarezza: «La Chiesa cattolica, motivata dalla legge evangelica della verità e dell’amore e non da considerazioni politiche, è profondamente rattristata per l’odio, gli atti di persecuzione e le manifestazioni di antisemitismo dirette contro gli ebrei da cristiani in ogni tempo e in ogni luogo».
Nella storia di Milano degli ultimi decenni, ha ricordato poi il cardinale Scola, “non manca certo la documentazione di innumerevoli gesti di carità tra i nostri popoli”. Tuttavia, ha aggiunto, “in questa sede, non è il caso di sottolineare l’opera dei cristiani”. L’atteggiamento richiesto è infatti un altro: «prendere atto della ferita dell’altro e portarne il peso accettando la propria responsabilità» come affermò il card. Jean-Marie Lustiger, uno dei più autorevoli interpreti del dialogo tra giudei e cristiani.
Un dialogo che – ha affermato Scola – “nel frangente spesso doloroso di transizione che l’umanità sta vivendo” è più urgente che mai. “Il legame tra ebrei e cristiani – ha rimarcato l’Arcivescovo – è chiamato ad un compito improcrastinabile: essere un terreno fecondo in cui possa mettere radici e svilupparsi l’incontro e il confronto tra i membri di tutte le religioni e mondovisioni, a partire dagli altri figli di Abramo, i musulmani”.
“Per gli ebrei e per i cristiani – ha aggiunto il porporato – la logica profonda di un autentico rapporto tra culture, civiltà e religioni, impostato secondo verità, implica sempre l’autoesposizione dei soggetti che ne sono protagonisti perché il Dio di Abramo è un Dio che si è esposto compromettendosi con la storia”.
La città di Milano si propone quindi come crocevia “di incontro di tutte le fedi religiose e mondovisioni”. In particolare, l’augurio del cardinale Scola è “che questo Memoriale possa rappresentare un fattore privilegiato per la edificazione di nuova ambrosiana civiltà”.

Beatrice Auricchio, Bambini dietro filo spinato

Beatrice Auricchio, Bambini dietro filo spinato dans immagini

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Publié dans:immagini, Shoah |on 26 janvier, 2013 |Pas de commentaires »

per il 27 gennaio il giorno della memoria – Primo Levi: il dovere della memoria

http://www.repubblicaletteraria.it/PrimoLevi.html

Primo Levi: il dovere della memoria 

di Tina Borgogni Incoccia

Fino dal tempo di detenzione nel campo di sterminio di Auschwitz, Primo Levi sentì l’esigenza di raccontare la sua esperienza infernale e, subito dopo il ritorno, provò l’impulso immiediato e violento di farne “gli altri” partecipi, forse per liberarsi di un peso insopportabile da sostenere.
Voi che vivete sicuri / nelle vostre tiepide case, /  voi che trovate tornando a sera / il cibo caldo e visi amici: considerate se questo è un uomo / che lavora nel fango / che non conosce pace / che lotta per mezzo pane / che muore per un sì o per un no. Considerate se questa è una  donna, / senza capelli e senza nome / senza più forza di ricordare / vuoti gli occhi e freddo il grembo / come una rana d’inverno.
Così leggiamo nella poesia che costituisce l’avantesto di Se questo è un uomo.
Scrisse il libro di getto, con l’incubo di non essere ascoltato e creduto. In realtà, nella frenesia vitale di riappropriazione dell’esistenza, caratteristica di tutti i dopoguerra, non c’era troppa voglia di voltarsi indietro e riaffondare nell’orrore del passato. Il libro, rifiutato da Einaudi, trovò finalmente un editore che ne stampò soltanto duemilacinquecento copie, di cui appena millecinquecento vendute, soprattutto a Torino, città dell’autore. Italo Calvino ne fece una buona recensione sull’“Unità”, ma Levi, convinto ormai del fallimento della sua aspirazione alla scrittura, si impegnò a svolgere con scrupolo soltanto la sua professione di chimico.
Dieci anni dopo, furono i giovani a risvegliare in lui la vocazione sopita.
Invitato nel 1956 a partecipare ad una mostra sulla deportazione, egli si vide circondato dai ragazzi che volevano sapere, volevano sentirlo raccontare. La sua parola, concisa, senza sbavature, con l’evidenza efficace della verità dei fatti raccontati, trovò finalmente gli ascoltatori attenti che egli avrebbe voluto incontrare nei primi anni del suo ritorno a casa.
L’editore Einaudi, nuovamente sollecitato, si decise finalmente a pubblicare il libro, nella collana dei Saggi (1958) e da allora esso fu ristampato e tradotto in tante lingue del mondo. A questo libro ne seguirono altri: La tregua, Vizio di forma, La chiave a stella, Se non ora, quando?, I sommersi e i salvati, che confermarono in Primo Levi la sua vocazione di scrittore e gli fecero ottenere premi e riconoscimenti in Italia e all’estero.
Egli era tornato dai campi di sterminio nell’ottobre del 1945, dopo un viaggio lungo e avventuroso attraverso la Russia, viaggio che descrisse nel suo secondo libro La tregua, pubblicato nel 1963 e premiato a Venezia col Campiello. Il racconto, scritto con intenti letterari, cioè con una più accurata elaborazione formale, con una maggiore variatà di argomenti, con note anche ironiche e scherzose che potevano rendere più piacevole la lettura, ha avuto nel 1997 una trasposizione filmica, realizzata dal regista Francesco Rosi nel decennale della morte dell’autore.
Nessun libro di Levi raggiunse comunque l’efficacia del primo, scritto con l’impeto febbrile dovuto all’urgenza della sua prima disperata testimonianza. Ad Auschwitz, durante la deportazione, le S.S. avevano ironicamente sentenziato: Se anche sopravviverete, non vi crederà nessuno. Si sbagliavano profondamente.
Levi attribuiva la sua sopravvivenza a vari fattori: egli conosceva abbastanza il tedesco e questo gli permetteva di capire gli ordini con immediatezza. Data la sua laurea in Chimica lo avevano utilizzato in un laboratonio dove soffriva meno il freddo e i disagi materiali. Si era inoltre ammalato provvidenzialmente di scarlattina quando, nel 1945, avvicinandosi i Russi, i prigionieri furono fatti spostare a Buchenwald e a Mathausen dove morirono quasi tutti, mentre i malati furono abbandonati al loro destino.
Pochi furono i superstiti, perché inumane erano le condizioni di vita del campo. Nella lotta per sopravvivere ognuno era ferocemente e disperatamente solo, tutto teso con selvaggia pazienza e con qualsiasi mezzo, a ritagliarsi un angolo minuscolo di privilegio, un grammo in più di pane, un lavoro meno sfibrante. Gli altri, i sopraffatti dalle fatiche, dall’inedia, dal freddo, erano destinati a soccombere, ad essere eliminati, ormai distrutti e già morti prima di andare nelle camere a gas, perché troppo stanchi.
Essi popolano la mia memoria della loro presenza senza volto _ scrive Levi _ e se potessi racchiudere in un’immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine, che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occbi non si possa leggere traccia del pensiero.
E, sempre a proposito di Auschwitz, Levi afferma:
Devo dire che l’esperienza di Auschwitz è stata tale per me da spazzare qualsiasi resto di educazione religiosa che pure ho avuta. C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio. Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo.                                                                                                                                   
In mezzo a tanta desolazione, avvertiamo però ad un tratto nelle sue pagine la sferzata di energia che può provenire dalla forza morale emanata dalla grande poesia.
Levi sta lavorando con altri all’interno di una grande cisterna interrata con poca luce e la polvere di ruggine che gli brucia le palpebre. Arriva Jean, il prigioniero alsaziano che gode nel Kommando di una posizione particolare, perché è il più giovane (lo chiamano il Pikolo) e può scegliere chi lo accompagnerà a ritirare, con il carretto, la marmitta di cinquanta chili con il rancio giornaliero. Viene scelto Levi. Il ragazzo ha simpatia per lui, conosce bene il francese e vorrebbe imparare l’italiano.
Il tragitto è di circa un chilometro, ma Jean sceglie la via più lunga. E’ una chiara e tiepida mattinata di giugno e all’orizzonte si delineano i Carpazi bianchi di neve. Levi sceglie per la sua lezione il canto di Ulisse (Inferno, XXVI). Deve parlare di Dante, di Beatrice, di Virgilio. Il Pikolo è attentissimo e Levi comincia a declamare: Lo maggior corno della fiamma antica… Gli anni del Liceo sono purtroppo lontani e qualche verso è inesorabilmente dimenticato. L’episodio è lungo e il tempo passa velocemente. Ci sarebbero ancora tante cose da dire, ma a Levi preme arrivare alla terzina che sta fissa e luminosa nella sua memoria.                                              
Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi, ho bisogno che tu capisca:

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti
ma per seguir virtute e canoscenza (1).
(1) voce arcaica, per conoscenza

Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di  tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono.
Forse il messaggio è arrivato perché riguarda tutti gli uomini in travaglio e Jean è intelligente. La conclusione avviene in fretta perché è tardi e sono arrivati alla cucina; sono ormai nella fila, in mezzo alla folla sordida e sbrindellata dei porta-zuppa degli altri Kommandos.

Infin che il mar fu sopra a noi ricbiuso.

L’ultimo verso è pronunciato prima dell’annuncio ufficiale che la zuppa del giorno è di cavolo e rape: kraut und rüben.
Tina Borgogni Incoccia

Primo Levi, Se questo è un uomo. La tregua, Torino, Einaudi tascabili, 1999.

 Primo Levi: la materia e la letteratura

27 gennaio 2002. Giornata della memoria per le vittime dell’odio razziale
La Repubblica Letteraria Italiana. Letteratura e Lingua Italiana online www.repubblicaletteraria.it

Jesus preaching in Synagogue – vangelo di domanica prossima

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Publié dans:immagini sacre |on 25 janvier, 2013 |Pas de commentaires »

OMELIA III SETTIMANA DEL T.O. (27-01-2013): IO SONO QUELLO CHE VOI ASPETTATE

http://www.lachiesa.it/calendario/Detailed/20130127.shtml

OMELIA  III SETTIMANA DEL T.O. (27-01-2013)

DON MARCO PEDRON

IO SONO QUELLO CHE VOI ASPETTATE

Nel vangelo di oggi Gesù torna a Nazaret. Dov’era stato finora? Gesù è stato nel deserto (Lc 4,1-13) dove ha incontrato il diavolo nelle tentazioni ma soprattutto ha aderito al movimento del Battista.
Il Battista è ritenuto santo e anche un po’ fanatico dal popolo; sicuramente è mal visto dalle autorità religiose che ne temono la sua popolarità (Mt 21,25-26) e che lo considerano un pazzo scatenato e uno posseduto (Mt 11,18: « E’ venuto Giovanni che non mangia e non beve…: ha un demonio »).
Adesso però il Battista è in galera nel supercarcere di Macheronte per guai politi con Erode e non può più predicare. Lo fa però Gesù. E la sua fama si diffonde velocemente e rapidamente (Lc 4,14).
Gesù va nelle sinagoghe a predicare e ha grande successo; dai paesi vicini arrivano le voci entusiastiche, i consensi e le lodi.
Adesso torna nella sua città, Nazaret, a va nella sinagoga.
Osserviamo che si dice « secondo il solito » (Lc 4,16): vuol dire che anche per Gesù, come per ogni buon ebreo, era tradizione andarci di sabato. Ma non ci andrà ancora per molto.
Intanto qui Gesù ci va, ma non per partecipare al culto, ma per insegnare. E visto ciò che accade nelle sinagoghe ogni volta che predica, non ci andrà più. Infatti, e lo sentiremo domenica prossima, dopo la sua predica « quelli della sinagoga » tentarono di farlo fuori (Lc 4,29).
Nel vangelo questa cosa è incredibile: quando Gesù si presenta alle persone pie e religiose queste tentano di farlo fuori e di fargli la pelle. Quando Gesù invece si presenta ai delinquenti e la feccia della società, questi lo ascoltano.
E perché cercano di farlo fuori?
I luoghi sacri sono quelli più pericolosi per Gesù. Per tre volte tenta di insegnare nelle sinagoghe: la prima lo interrompono malamente (Mc 1,21); la seconda e la terza decidono e tentano di assassinarlo (Mc 3,1; Lc 4,16-30).
La zona di massimo pericolo rimane il Tempio. La « Casa di Dio » è il posto più pericoloso per Gesù: delle 12 volte che il verbo « uccidere » (apokteino) appare in Gv, 6 volte lo si incontra nel tempio (Gv 7,19.20.25; 8,22.37.40). E delle 8 volte che Gv usa il verbo « arrestare » (piazo), 4 sono nel tempio (7,30.32.33; 8,20).
Ciò che è incredibile dei vangeli è che i posti più religiosi « uccidono », o ci provano, il figlio di Dio. E lo fanno in nome di Dio. Perché la gente che non conosce Dio si attacca al proprio Dio. Chi non ha sperimentato Dio si attacca alle idee e alle regole di Dio e diventa rigido, inflessibile e giudicante.
Chi « ha conosciuto » Dio, invece, sa Chi è Lui: Lui è amore, vitalità, perdono, gioia, compassione tenerezza. Ma chi non lo conosce lo ridurrà alle proprie idee e alla propria testa.
E quando qualcuno parlerà di Dio a chi non conosce Dio, questi gli risponderà: « Tu sei pazzo! Dio non è così ». Perché, per lui che non lo conosce, Dio è come i suoi pensieri.
C’è una storia che racconta così: « Quando il guru si sedeva per le funzioni religiose ogni sera arrivava il gatto del santuario e distraeva i fedeli. Così egli ordinò che durante le funzioni serali il gatto venisse legato. Molto tempo dopo la morte del guru si continuava a legare il gatto durante le funzioni serali. E quando alla fine il gatto morì, portarono al santuario un altro gatto per legarlo debitamente durante le funzioni serali. Secoli dopo i discepoli del guru scrissero dotti trattati sul ruolo essenziale di un gatto in ogni funzione correttamente condotta ». Fa sorridere… forse!
Il divieto di digiunare ventiquattro ore prima di fare la Comunione era dovuto al fatto che la gente non si ingolfasse e soprattutto che non arrivasse a Messa ubriaca (secoli fa era assai frequente). Ma mio nonno si sentiva in colpa terribile (peccato grave!) se non digiunava o contravveniva alla regola.
Un’altra storia racconta che un uomo e un monaco camminavano verso il monastero. Arrivati al fiume incontrarono una donna molto bella che pure lei voleva attraversare il fiume, solo che l’acqua era troppo alta. Il monaco disse: « Io per amore di Dio non la posso toccare ». L’uomo, invece, se la pose sulle spalle e la portò dall’altra parte del fiume. Durante la prosecuzione del viaggio verso il monastero il monaco non fece che riprendere l’uomo: « Hai toccato una donna! E vai al monastero con questo peccato? Ma non ti vergogni? E cosa dirà la gente? E una donna così? E le hai toccato le natiche! », e così via. Per tutte le quattro ore del viaggio il monaco non fece altro che richiamare l’uomo alle regole di Dio e a cosa aveva fatto. Ad un certo punto l’uomo lo interruppe e gli disse: « Fratello, io la donna l’ho lasciata al fiume. Tu quand’è che decidi di lasciarla? ».
Gli uomini normali peccano e poi tutto finisce lì. Ma gli uomini troppo religiosi vedono peccato e male dappertutto: non perché ci sia ma perché loro non riescono a staccarsene. Il peccato che vedono dovunque è la proiezione delle proprie ombre interne.
Allora: c’è grande attesa (« gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui »; Lc 4,20).
C’è molta gente nella sinagoga (« gli occhi di tutti ») e il capo della sinagoga dev’essere molto contento. Infatti, se non vi sono dieci maschi adulti il capo della sinagoga deve pagarli (minyan) perché si possa svolgere la liturgia. Ma oggi ce ne sono in abbondanza.
Ma perché lo vogliono far fuori? Anche a quell’epoca c’era l’anno liturgico; la Bibbia era suddivisa in tre anni e ad ogni Sabato corrispondeva una lettura. Gesù, che capisce poco di liturgia, oppure che non gli gusta la liturgia fissata dai liturgisti, quando gli danno il rotolo del profeta Isaia anziché leggere la lettura che quel giorno presentava, ne cerca una particolare.
La traduzione dice: « Apertolo trovò » (Lc 4,17). Ma il verbo eurisko vuol dire cercare. Allora Gesù non legge il testo che doveva leggere ma ne va in cerca di un altro. E’ lui che lo cerca! E questa cosa sconcerta perché le regole liturgiche erano sacrali.
Il testo che Gesù legge si leggeva sì di sabato ma nella cinquantesima e cinquantunesima settimana dell’anno, durante l’estate e non in quel momento.
Gesù cerca il passo di Isaia al capitolo 61, che parla dell’investizione dell’unto del Signore e lo legge: « Lo Spirito del Signore è sopra di me, per questo mi ha consacrato con l’unzione (e fino a qui, tutto bene), e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore » (Lc 4,18-19). E fin qua tutto ok.
Gesù cita Isaia ma citando il profeta egli definisce la sua missione: « Io sono qui per questo; Dio mi ha mandato per questo ». E qual è la prima preoccupazione di Dio? L’umanità sofferente.
La prima preoccupazione di Dio è « la povertà » (Lc 4,18: « ai poveri il lieto annuncio=vangelo »). Gesù non è venuto per costituire un gruppo di monaci che si dedicano alla preghiera ma per togliere la povertà, ogni povertà. Perché se i soldi non fanno la felicità, figuriamoci la povertà!
L’A.T. era chiaro su questo. Dio stesso diceva: « Non vi sarà più nessun povero in mezzo a voi perché il Signore senza dubbio ti benedirà nella terra che ti ha dato in eredità » (Dt 15,4). A quel tempo vi erano tante nazioni e ognuna aveva la propria divinità. I popoli circostanti, vedendo che in Israele non c’era nessun bisognoso, nessun povero, avrebbero dovuto dire: « Il Dio di Israele è il più importante ». Qual è la buona notizia che i poveri attendono? La fine della povertà!
Se uno era povero (cioè mancante di) di cibo Gesù gli dava il pane (Lc 9,10-17: la condivisione dei pani). Ma questo non piace ai ricchi; i ricchi ti fanno l’elemosina ma non vogliono condividere.
Se uno era povero di libertà, lui gliela offriva: « Va vendi quello che hai, dallo ai poveri, poi vieni e seguimi » (Lc 18,22). Sei prigioniero perché ti sei attaccato a quella cosa lì: liberatene e sarai libero. Ma questo non piace a chi ha certezze, sicurezze. Perché a volte sono tutto e solo quello che ha.
Se uno era povero di vista, lui gli dava la luce (Gv 9). Se uno non ci vedeva, lui gli apriva gli occhi. Ma questo non piace a molti perché si vedono cose che non si vorrebbero vedere.
Se uno era oppresso lui gli dava la libertà (Gv 11,43): « Lazzaro esci fuori! ». « Non vedi che sei oppresso dalle tue sorelle? Non vedi che ti fanno morire? Non vedi che sono relazioni mortali? Vuoi morire lì dentro? Esci fuori! ». Per niente agli altri dice: « E voi, scioglietelo e lasciatelo andare » (Gv 11,44). Ma questo non piace a molti perché vivere vuol dire cambiare i rapporti, le relazioni e gli equilibri.
Lui è venuto per questo: per darti ciò che ti manca… se lo vuoi però!
Ma adesso viene il bello perché il profeta Isaia continua dicendo: « Un giorno di vendetta del Signore » (Is 61,2). E che fa Gesù? Gesù si ferma qui e non lo dice questo versetto, che era il più atteso perché era « il tempo della rivincita, della vendetta sui nostri nemici ».
Se noi non capiamo il contesto non capiamo perché poi lo vogliono uccidere. Infatti uno si chiede: « Ma che cos’avrà detto poi di così tanto male? ». E uno non capisce.
Nazaret è in Galilea. E la Galilea era un ambiente di nazionalisti. Succedeva infatti spesso che in Galilea, paese di rivoluzionari, la gente si sollevasse contro il potere romano invocando la venuta del Messia.
Allora: la gente che lo ascolta non aspetta altro che quel versetto: « E’ tempo del Messia, che ci farà vendetta e scaccerà i nostri oppressori Romani ». La gente aspetta questo Messia; questo era il lieto annuncio: che loro, poveri, schiavi e prigionieri sarebbero stati liberati dal Messia dai Romani.
Come vedete in ogni tempo Dio « viene usato »: oggi gli si chiede di vincere al Superenalotto, di farci trovare l’uomo giusto, di mandarci questo o quello, a quel tempo di mandare il Messia-Rambo.
Poi, dice il vangelo, « Gesù lo arrotolò, lo consegnò all’inserviente e sedette » (Lc 4,20). Le persone sono sconcertate: « Ma come? Perché ha interrotto? Non va avanti? ». La lettura della Bibbia, fatta così, è mutilata, blasfema, irriverente. C’è bisogno di una spiegazione.
E’ per questo che « gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui » (Lc 4,20). Nell’aria c’è una tensione pazzesca perché non è in linea con le attese di tutti, con le attese della tradizione, con le attese dei religiosi. Gesù dice: « Sì, il Messia viene ma non è affatto il Rambo che pensate voi! ».
E quando dice: « Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi » (Lc 4,21) succede il putiferio e il finimondo. E domenica prossima sentiremo cosa accadrà!
Forse noi non ci rendiamo bene conto ma Gesù si definisce l’unto, il Messia tanto aspettato. « Quello che da secoli aspettavate, quello che da sempre avete pregato e invocato, il vostro desiderio più grande: eccomi qua, sono io. Io sono l’unto; io sono il Messia; io sono l’aspettato ».
Se un vostro amico vi dicesse: « Io sono Gesù Cristo », qual è la prima cosa che fate? La prima è che vi mettete a ridere, la seconda, invece, è che vi preoccupate e la terza che lo portate da uno psichiatra. E da uno bravo, perché uno che dice così!
C’era un uomo (fatto reale riportato da Bandler e Grinder) che si credeva Gesù Cristo. Gli psichiatri avevano provato tutti i metodi classici, ma nessuno riusciva a fargli cambiare idea. La situazione sembrava senza vie d’uscita e irrisolvibile. Così un giorno Bandler va da quest’uomo e gli chiede: « Lei è Gesù Cristo? ». E l’altro: « Sì, figlio mio ». Al che Bandler gli dice: « Torno tra un istante ». L’uomo rimane un tantino confuso; 3-4 minuti dopo, ecco che Bandler torna con un metro a nastro. Chiede all’uomo di allargare le braccia, ne misura l’apertura, misura quindi l’altezza dell’uomo, e se ne va. L’uomo che si proclama Gesù Cristo resta un tantino incerto. Qualche minuto dopo Bandler ritorna con un bel trave di legno, un altro appuntito da una parte, un martello e dei chiodi. Bandler richiede: « E’ lei Gesù Cristo? ». E l’uomo: « Lei lo ha detto, io lo sono! ». Bandler: « Bene, bene! ». Così distende l’uomo sopra il trave, gli apre le braccia (l’uomo è totalmente confuso ed esterrefatto), prende un chiodo e il martello. In quell’istante l’uomo gli chiede: « Ma si può sapere cosa sta facendo? ». Bandler: « Lei è Gesù Cristo, sì o no? »: L’uomo: « Gliel’ho detto, io lo sono ». Bandler: « Bene, bene, perché io sono il governatore romano Ponzio Pilato e lei sa bene cosa adesso gli faccio… ». Non finisce di dire queste parole che l’uomo si mette ad urlare: « No, no, lo giuro, non sono io Gesù Cristo, non sono io… ». Caso risolto. L’uomo non si definì mai più Gesù Cristo.

E il problema più grande per Gesù non era che si dichiarasse lui l’Unto (unto=masciah, ebracio=messia): che fosse l’Unto, il Messia, potevano accettarlo. Ma mai avrebbero potuto accettare che fosse così.
Essere l’Unto era il desiderio più grande di tutti. Perché il Messia era così aspettato che tutti lo avrebbero seguito: era la massima attesa di ogni ebreo.
Chi desiderò ardentemente di essere l’Unto, il Consacrato, fu Erode. E’ interessante sapere cosa fece Erode perché ricorda dei personaggi un po’ megalomani di oggi. E questo ci fa capire il perché è terrorizzato quando gli dicono: « E’ nato il Messia a Betlemme, il re dei Giudei » (Mt 2,2).
Erode arrivò al potere in maniera illegale, perché diventò re di Giudea pur non potendo, in quanto era arabo. Diventò re in maniera oscura, non si sa ancora bene come fece. E siccome aveva l’ostilità da parte del gruppo dirigente, Erode capì che per farsi accettare doveva occupare quelli che all’epoca erano i mezzi di informazione. Erode venne chiamato il Grande perché era furbo (in questo senso « grande »!). Chi erano quelli che detenevano l’informazione? I farisei! Bene, lui li eliminò tutti.
Ma non era ebreo. Quindi si fece pubblicizzare dal suo storiografo di essere l’Unto del Signore, cioè l’Inviato del Signore. E per dimostrare che era ebreo si era fatto costruire un falso albero genealogico.
Era megalomane, aveva cinque sfarzosi castelli e una particolarità che ci descrive Giuseppe Flavio è quella che si tingeva i capelli. Giuseppe Flavio scriveva: « Erode è un vecchio svergognato che si tinge i capelli di rosso ». Aveva un fratello, poi, sul quale scaricava tutte le sue malefatte.
Aveva promesso, perché la folla e la gente non lo amava tanto, diecimila posti di lavoro e comprendendo l’importanza dello sport e della pubblicità, finanziò le olimpiadi dell’epoca. Quello che è tragico è che Erode ha regnato per quarant’anni!
Essere l’Unto era la massima aspirazione di tutti. Gesù poteva benissimo essere un pazzo. Non sono mica matti quelli che vogliono uccidere il « pazzo » Gesù. Dobbiamo capirli. Agli occhi dei discepoli Gesù era il Messia. Ma agli occhi degli altri Gesù era davvero pazzo.                                   
Ciò che colpisce di Gesù è 1. la sua ferma e incrollabile convinzione di essere il Messia. Si può dire: « E va beh, era il Figlio di Dio, lo sapeva! ». Ma da un punto di vista umano, quanta sicurezza, autostima, quale radicamento uno deve avere per essere certo, sicuro, di essere l’Inviato?
Da questo punto di vista la fiducia in sé è la base, le fondamenta per costruire ogni sogno. Una cosa non sta in piedi senza fondamenta; senza fiducia in sé non si può raggiungere nessun sogno.                                       

E poi 2. di Gesù colpisce questo « oggi ». Gesù chiude il tempo dell’attesa. L’attesa si compie oggi. Basta posticipare, basta rimandare, basta sperare che accada chissà cosa. Io lo faccio oggi.
C’è un « scusa » che dovrei dire a qualcuno? Lo faccio « oggi ».
C’è una scelta difficile che dovrei fare? La faccio oggi: prendo il coraggio e scelgo.
C’è una prigione da cui devo uscire? Qualunque sia il costo, lo faccio oggi.
C’è una cosa che dovrei vedere o ammettere? Smetto di raccontarmela, di nascondermela, lo faccio oggi.
C’è un « sì » che dovrei dire a qualcuno? Anche se ho paura, lo faccio oggi.
C’è un « no » che dovrei dire a qualcuno? Anche se vuol dire conflitto o tensione, lo dico oggi.
Mi accorgo che la vita mi sta scappando? Devo cambiare oggi. Domani in genere è mai. Domani è solo una illusione per dirsi « no » rivestita da « sì ». L’anno di grazia del Signore, se scelgo, è « oggi ». La scelta cambia il caso in destino.
Durante gli esercizi spirituali ci hanno fatto fare questo esercizio: « Dovete morire fra due giorni: cosa fate? ». E ciascuno ha detto e scritto cosa avrebbe fatto. Il giorno dopo alla mattina ci hanno detto: « Bene adesso avete questa giornata per farlo ». E l’abbiamo fatto. E’ stato meraviglioso: cose che si rimandavano (e non si sa perché) le abbiamo fatte « oggi ». E la domanda che c’è rimasta è: « Ma perché qualcuno ci deve costringere? Perché non farlo da noi? ».
Pensate alla cosa più urgente della vostra vita? Pensata… Fatela oggi.
E’ l’azione, l’oggi, che cambia la direzione della mia vita.

Pensiero della Settimana
« Da domani sarò triste, da domani.
Ma oggi sarò contento: a che serve essere tristi, a che serve?
Perché soffia un vento cattivo?
Perché dovrei dolermi, oggi, del domani?
Forse il domani è buono, forse il domani è chiaro.
Forse domani splenderà ancora il sole.
E non vi sarà ragione di tristezza.
Da domani sarò triste, da domani.
Ma oggi sarò contento; e ad ogni amaro giorno dirò:
« Da domani, sarò triste. Oggi no ».


(Preghiera di un ragazzo trovata in un ghetto nel 1941)

CONVERSIONE DI SAN PAOLO, 25 GENNAIO – UFFICIO DELLE LETTURE

25 GENNAIO : CONVERSIONE DI SAN PAOLO

(lo so sono in ritardo, ma l’Ufficio si può fare in qualsiasi ora)

UFFICIO DELLE LETTURE

INNO

 O apostoli di Cristo,
colonna e fondamento
della città di Dio!

Dall’umile villaggio
di Galilea salite
alla gloria immortale.

Vi accoglie nella santa
Gerusalemme nuova
la luce dell’Agnello.

La Chiesa che adunaste
col sangue e la parola
vi saluta festante;

ed implora: fruttifichi
il germe da voi sparso
per i granai del cielo.

Sia gloria e lode a Cristo,
al Padre e allo Spirito,
nei secoli dei secoli. Amen

1 ant.  Io sono Gesù che tu perseguiti;
duro è per te resistere al pungolo.

SALMO 18 A

I cieli narrano la gloria di Dio, *
    e l’opera delle sue mani annunzia il firmamento.
Il giorno al giorno ne affida il messaggio *
    e la notte alla notte ne trasmette notizia.

Non è linguaggio e non sono parole, *
    di cui non si oda il suono.
Per tutta la terra si diffonde la loro voce *
    e ai confini del mondo la loro parola.

Là pose una tenda per il sole †
    che esce come sposo dalla stanza nuziale, *
    esulta come prode che percorre la via.

Egli sorge da un estremo del cielo †
    e la sua corsa raggiunge l’altro estremo: *
    nulla si sottrae al suo calore.

1 ant.  Io sono Gesù che tu perseguiti;
duro è per te resistere al pungolo.

2 ant.  Anania, va’ e cerca Saulo:
io l’ho scelto perché annunzi il mio nome
a tutti i popoli.

SALMO 63

Ascolta, Dio, la voce, del mio lamento, *
    dal terrore del nemico preserva la mia vita.
Proteggimi dalla congiura degli empi *
    dal tumulto dei malvagi.

Affilano la loro lingua come spada, †
    scagliano come frecce parole amare *
    per colpire di nascosto l’innocente;

lo colpiscono di sorpresa *
    e non hanno timore.

Si ostinano nel fare il male, †
    si accordano per nascondere tranelli; *
    dicono: «Chi li potrà vedere?».

Meditano iniquità, attuano le loro trame: *
    un baratro è l’uomo e il suo cuore un abisso.

Ma Dio li colpisce con le sue frecce: *
    all’improvviso essi sono feriti,
la loro stessa lingua li farà cadere; *
    chiunque, al vederli, scuoterà il capo.

Allora tutti saranno presi da timore, †
    annunzieranno le opere di Dio *
    e capiranno ciò che egli ha fatto.

Il giusto gioirà nel Signore †
    e riporrà in lui la sua speranza, *
    i retti di cuore ne trarranno gloria.

2 ant.  Anania, va’ e cerca Saulo:
io l’ho scelto perché annunzi il mio nome
a tutti i popoli.

3 ant.  Nelle sinagoghe Paolo annunciava Gesù,
affermando che era il Cristo.

SALMO 96

Il Signore regna, esulti la terra, *
    † gioiscano le isole tutte.
Nubi e tenebre lo avvolgono, *
    giustizia e diritto sono la base del suo trono.

Davanti a lui cammina il fuoco *
    e brucia tutt’intorno i suoi nemici.
Le sue folgori rischiarano il mondo: *
    vede e sussulta la terra.

I monti fondono come cera davanti al Signore, *
    davanti al Signore di tutta la terra.
I cieli annunziano la sua giustizia *
    e tutti i popoli contemplano la sua gloria.

Siano confusi tutti gli adoratori di statue †
    e chi si gloria dei propri idoli. *
    Si prostrino a lui tutti gli dei!

Ascolta Sion e ne gioisce, †
    esultano le città di Giuda *
    per i tuoi giudizi, Signore.

Perché tu sei, Signore, l’Altissimo su tutta la terra, *
    tu sei eccelso sopra tutti gli dei.

Odiate il male, voi che amate il Signore: †
    lui che custodisce la vita dei suoi fedeli *
    li strapperà dalle mani degli empi.

Una luce si è levata per il giusto, *
    gioia per i retti di cuore.
Rallegratevi, giusti, nel Signore, *
    rendete grazie al suo santo nome.

3 ant.  Nelle sinagoghe Paolo annunciava Gesù,
affermando che era il Cristo.

V. Buono e pietoso è il Signore,
V. lento all’ira e grande nell’amore.

PRIMA LETTURA         

Dalla lettera ai Galati di san Paolo, apostolo 1,11-24
Rivelò a me il suo Figlio perché lo annunziassi

    Vi dichiaro dunque, fratelli, che il vangelo da me annunziato non è modellato sull’uomo; infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo. Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri. Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco.
    In seguito, dopo tre anni andai a Gerusalemme per consultare Cefa, e rimasi presso di lui quindici giorni; degli apostoli non vidi nessun altro, se non Giacomo il fratello del Signore. In ciò che vi scrivo io attesto davanti a Dio che non mentisco. Quindi andai nelle regioni della Siria e della Cilicia- Ma ero sconosciuto personalmente alle chiese della Giudea che sono in Cristo; soltanto avevano sentito dire: «Colui che una volta ci perseguitava, va ora annunziando la fede che un tempo voleva distruggere». E glorificavano Dio a causa mia.

RESPONSORIO         Cfr. Gal 1,11-12; 2 Cor 11,10.7

R. Il vangelo che annunzio non è modellato sull’uomo: * non l’ho ricevuto da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo.
V. La verità di Cristo è in me, poiché vi ho annunziato il vangelo di Dio:
R. non l’ho ricevuto da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo.

SECONDA LETTURA         

Dalle «Omelie» di san Giovanni Crisostomo, vescovo
(Om. 2, Panegirico di san Paolo, apostolo; PG 50,477-480)
Paolo sopportò ogni cosa per amore di Cristo

    Che cosa sia l’uomo e quanta la nobiltà della nostra natura, di quanta forza sia capace questo essere pensante lo mostra in un modo del tutto particolare Paolo. Ogni giorno saliva più in alto, ogni giorno sorgeva più ardente e combatteva con sempre maggior coraggio contro le difficoltà che incontrava. Alludendo a questo diceva: Dimentico il passato e sono proteso verso il futuro (cfr. Fil 3,13). Vedendo che la morte era ormai imminente, invitava tutti alla comunione di quella sua gioia dicendo: «Gioite e rallegratevi con me» (Fil 2,18). Esulta ugualmente anche di fronte ai pericoli incombenti, alle offese e a qualsiasi ingiuria e, scrivendo ai Corinzi, dice: Sono contento delle mie infermità, degli affronti e delle persecuzioni (cfr. 2 Cor 12,10). Aggiunge che queste sono le armi della giustizia e mostra come proprio di qui gli venga il maggior frutto, e sia vittorioso dei nemici. Battuto ovunque con verghe, colpito da ingiurie e insulti, si comporta come se celebrasse trionfi gloriosi o elevasse in alto trofei. Si vanta e ringrazia Dio, dicendo: Siano rese grazie a Dio che trionfa sempre in noi (cfr. 2 Cor 2,14). Per questo, animato dal suo zelo di apostolo, gradiva di più l’altrui freddezza e le ingiurie che l’onore, di cui invece noi siamo così avidi. Preferiva la morte alla vita, la povertà alla ricchezza e desiderava assai di più la fatica che non il riposo. Una cosa detestava e rigettava: l’offesa a Dio, al quale per parte sua voleva piacere in ogni cosa.
    Godere dell’amore di Cristo era il culmine delle sue aspirazioni e, godendo di questo suo tesoro, si sentiva più felice di tutti. Senza di esso al contrario nulla per lui significava l’amicizia dei potenti e dei principi. Preferiva essere l’ultimo di tutti, anzi un condannato però con l’amore di Cristo, piuttosto che trovarsi fra i più grandi e i più potenti del mondo, ma privo di quel tesoro.
    Il più grande ed unico tormento per lui sarebbe stato perdere questo amore. Ciò sarebbe stato per lui la geenna, l’unica sola pena, il più grande e il più insopportabile dei supplizi.
    Il godere dell’amore di Cristo era per lui tutto: vita, mondo, condizione angelica, presente, futuro, e ogni altro bene. All’infuori di questo, niente reputava bello, niente gioioso. Ecco perché guardava alle cose sensibili come ad erba avvizzita. Gli stessi tiranni e le rivoluzioni di popoli perdevano ogni mordente. Pensava infine che la morte, la sofferenza e mille supplizi diventassero come giochi da bambini quando si trattava di sopportarli per Cristo.

RESPONSORIO         Cfr. 1 Tm 1,13-14; 1 Cor 15,9

R. Dio mi ha usato misericordia, perché agivo senza saperlo. * La grazia ha sovrabbondato, insieme alla fede e alla carità, che è in Cristo Gesù.
V. Non merito di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio.
R. La grazia ha sovrabbondato, insieme alla fede e alla carità, che è in Cristo Gesù.

Celebrazione vigiliare

TE DEUM

Noi ti lodiamo, Dio, *
ti proclamiamo Signore.
O eterno Padre, *
tutta la terra ti adora.

A te cantano gli angeli *
e tutte le potenze dei cieli:
Santo, Santo, Santo *
il Signore Dio dell’universo.

I cieli e la terra *
sono pieni della tua gloria.
Ti acclama il coro degli apostoli *
e la candida schiera dei martiri;

le voci dei profeti si uniscono nella tua lode; *
la santa Chiesa proclama la tua gloria,
adora il tuo unico Figlio, *
lo Spirito Santo Paraclito.

O Cristo, re della gloria, *
eterno Figlio del Padre,
tu nascesti dalla Vergine Madre *
per la salvezza dell’uomo.

Vincitore della morte, *
hai aperto ai credenti il regno dei cieli.
Tu siedi alla destra di Dio, nella gloria del Padre. *
Verrai a giudicare il mondo alla fine dei tempi.

Soccorri i tuoi figli, Signore, *
che hai redento col tuo sangue prezioso.
Accoglici nella tua gloria *
nell’assemblea dei santi.

Salva il tuo popolo, Signore, *
guida e proteggi i tuoi figli.
Ogni giorno ti benediciamo, *
lodiamo il tuo nome per sempre.

Degnati oggi, Signore, *
di custodirci senza peccato.
Sia sempre con noi la tua misericordia: *
in te abbiamo sperato.

Pietà di noi, Signore, *
pietà di noi.
Tu sei la nostra speranza, *
non saremo confusi in eterno.

ORAZIONE

    O Dio, che hai illuminato tutte le genti con la parola dell’apostolo Paolo, concedi anche a noi, che oggi ricordiamo la sua conversione, di camminare sempre verso di te e di essere testimoni della tua verità. Per il nostro Signore.

Benediciamo il Signore.
R. Rendiamo grazie a Dio.

San Paolo Apostolo

San Paolo Apostolo dans immagini sacre saint-paul-the-apostle-40

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Publié dans:immagini sacre |on 24 janvier, 2013 |Pas de commentaires »

RITORNARE A SAN PAOLO: PERCHÉ MORIRE È UN GUADAGNO

http://www.stpauls.it/coopera/1206cp/ritornareasanpaolo.htm

 RITORNARE A SAN PAOLO

 di Angelo Colacrai, ssp

Perché morire è un guadagno

Paolo insegna la necessità di morire come e con Cristo. Chiunque accoglie Gesù, crocifisso, morto e sepolto, come il Cristo e Signore, accoglie il Figlio risorto, esaltato dal Padre.
La morte è solo una porta di ingresso nella Famiglia di Dio. Già celebrare comunitariamente l’Eucaristia, è koinonía con il Padre e il Figlio, primogenito fra molti fratelli. Per Paolo morire è guadagnare la vita quando è un donarsi come Gesù sulla croce; è lo spendersi e sopraspendersi come liturgo di Cristo, adempiendo la liturgia dell’annuncio perché la famiglia umana divenga offerta gradita, santificata dallo Spirito. Fare l’apostolo è versare la vita, portandosi addosso la morte di Gesù salvatore degli uomini.
Particolari della parete absidale mosaicata della Chiesa di San Paolo Apostolo di Barletta. Nella parte centrale c’è il crocifisso e davanti, stretto al crocifisso, si trova santo Stefano ferito dalle pietre della lapidazione che ancora stanno ai suoi piedi. A sinistra della croce giace il corpo di san Paolo. A destra, guardando la croce, in posizione speculare a san Paolo – caduto con le braccia anch’esse aperte sulla croce – si trova la piscina battesimale in forma di croce.
RITMO A DUE TEMPI
Paolo parla di morte, ma sempre in connessione alla risurrezione e alla vita nuova. Nell’articolazione del suo pensiero intenso, insieme umanistico e teologico, unisce tre termini che singolarmente presi hanno significati opposti.
Paolo riesce a superare questa contraddizione fondamentale del morire, allineandola, meglio facendone il principio di una vita nuova, eterna.
Nell’ordine alfabetico del testo greco, riporto l’elenco (quasi) completo dei termini con cui Paolo insegna il mistero pasquale: – athanasía, un termine usato 3 volte, significa « immortalità ». Nell’AT greco ricorre solo nell’apocrifo 4Mac 14,5; 16,13 e nel libro della Sap 3,4; 4,1; 8,13.17; 15,3. Paolo lo usa in 1Cor 15,53-54; 1Tm 6,16. Nel resto del NT, il termine è sconosciuto. – anazáo, 1 (Rm 7,9), « riprendo vita », indica l’azione del peccato, anch’esso vivo come una realtà micidiale.
– anástasis, 8 (Rm 1,4; 6,5; 1Cor 15,12-13.21.42; Fil 3,10; 2Tm 2,18), la « risurrezione »; – apothneisko, 42 (cfr. Rm 5,7; 6,10; 14,8; 2Cor 5,14-15) significa « muoio ». – aphtharsía, 7 volte nel corpus paulinum, significa « incorruttibilità »; è sconosciuta al resto del NT, mentre ricorre nell’AT greco (4Mac 9,22; 17,12; Sap 2,23; 6,18-19; Rm 2,7; 1Cor 15,42.50.53-54; Ef 6,24; 2Tm 1,10): la vita eterna, percepibile come incorruttibilità, è per coloro che, perseverando nelle opere di bene, dono di sé, cercano gloria e onore che sono attributi divini.
L’aggettivo áphthartos, 4 volte, in Rm 1,23; 1Cor 9,25; 15,52; 1Tm 1,17, significa « incorruttibile » ed è usato anche altrove nell’AT e nel NT (Sap 12,1; 18,4; Mc 16,8; 1Pt 1,4.23; 3,4). Di per sé riferito solo a Dio, Re dei secoli, mentre uomini e donne, animali e cose sono corruttibili o corrotti, pur potendo aspirare all’incorruttibilità della risurrezione come ad una corona regale. La vita dopo la morte è descritta fondamentalmente dal verbo egeíro, usato 41 volte da Paolo (cfr. Rm 4,24; 8,11; 1Cor 15,15-16; 2Cor 4,14; 2Tm 2,8) come il superamento della morte ingloriosa di Gesù crocifisso. Significa « io risorgo ».
Anche l’exanástasis, (solo in Fil 3,11), « risurrezione da » (dai morti) è termine paolino (cfr. il testo greco di Gn 7,4, dove ha un significato opposto: cancellazione degli uomini dalla faccia della terra) come conseguenza immediata del conformarsi alla morte di Gesù.
Anche exegeíro (in Rm 9,17; 1Cor 6,14), « risorgo da », è usato, solo da Paolo nel NT, per indicare la risurrezione dei credenti basata sulla risurrezione del Signore ad opera del Padre.
Davvero conosciamo Cristo crocifisso e Dio che lo esalta, morendo apostolicamente.
La morte, cioè, compresa l’esecuzione di una condanna, è un’esperienza cristiana imprescindibile: il termine epithanátios, (1Cor 4,9), « condannato a morte », è autobiografico per Paolo, che, assieme agli altri apostoli come lui, è messo all’ultimo posto.
La morte per scomunica è dunque la migliore, come per Gesù, quella che garantisce la vita nuova. Il verbo záo, « io vivo », è usato almeno 59 volte da Paolo (cfr. Rm 1,17; 6,2; 8,13; 14,8-9; 2Cor 5,15; 13,4; Gal 2,20), per rivelare come « il giusto », o il credente nella croce, viva di fede « per Dio in Cristo Gesù », Signore dei morti e dei vivi – mentre godersi la vita « secondo la carne », vivendo per se stessi, non ha un futuro oltre il proprio io. La « vita » zoa, 37 volte nel corpus paulinum (cfr. 2Cor 2,16; Gal 6,8) indica sia quella presente che la futura. Il verbo zoiogonéo, (1Tm 6,13), « do vita », può usarlo in prima persona, davvero solo Dio mentre zoiopoiéo (Rm 4,17; 8,11; 1Cor 15,22.36.45; 2Cor 3,6; Gal 3,21), « faccio vivere », è almeno in un caso, riferito anche all’ultimo Adamo, a Gesù risorto che divenne e resta per sempre « spirito datore di vita ».
Morire da cristiani e da apostoli, come Paolo, è dunque una necessità. Il sostantivo maschile thánatos, la « morte » (cfr. Rm 5,12; 7,13; 1Cor 15,55; 2Cor 2,16), domina sovrana la storia degli uomini soprattutto dell’AT, fino alla morte sulla croce di Gesù. Il verbo thneisko, 1 (solo in 1Tm 5,6), « muoio », indica la morte di una giovane vedova che si abbandona ai piaceri della vita da single; thnetós (Rm 6,12; 8,11; 1Cor 15,53-54; 2Cor 4,11; 5,4) ricorda quanto ciò che è umano è « mortale ».
MA MORIRE DA CRISTIANI CHE SIGNIFICA?
Nel NT, e anche in Paolo, è usato koimáomai (1Cor 7,39; 11,30; 15,6.18.20.51; 1Ts 4,13-15), da cui la parola « cimitero ». Questo verbo ci induce a considerare la morte come un sonno, « io mi addormento » – anche se la CEI, e non ne comprendo il perché, drammatizza con « io muoio », per Cristo, risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti (= che si sono addormentati).
La morte è comunque una realtà che riduce progressivamente la vitalità personale. Paolo usa infatti anche l’aggettivo nekrós, 43 (cfr. Rm 1,4; 8,11; 1Cor 15,12.29; 2Tm 4,1), « necrotico » e il sostantivo nékrosis (in Rm 4,19; 2Cor 4,10), « necrosi » pensando al corpo del vecchio Abramo e al grembo seccato e sterile della moglie Sara, dai quali, però, per grazia sarà generato Isacco, il figlio della promessa. È però la necrosi di Gesù, sulla croce svuotato della sua dignità, vitalità, giovinezza, che Paolo fa sua nel compimento della missione. Solo questa necrosi, evangelica e apostolica, garantisce la rivelazione di Gesù risorto, Signore della vita.
Paolo inventa il suo linguaggio per indicare questa connessione esistenziale tra morte e vita. Solo lui, in tutta la Bibbia, usa syzáo in Rm 6,8; 2Cor 7,3; 2Tm 2,11, « convivo », per dire che se siamo con-morti con Cristo, in quanto con-crocifissi apostolicamente insieme a lui, crediamo che con-vivremo con lui.
IL MERITO DI UN ESSERE UMANO È CONFORMARSI FEDELMENTE ALLA MORTE DI GESÙ.
Paolo usa anche syzoopoiéo (in Ef 2,5; Col 2,13), « faccio con-vivere » assieme a synapothneisko (in 2Cor 7,3; 2Tm 2,11) « muoio con ». Il contrario è synegeíro, 3 (Ef 2,6; Col 2,12; 3,1), « risorgo con »: chi muore con Cristo risorge con lui.
L’ultimo termine che registriamo in questa lista, è phthartós, in Rm 1,23; 1Cor 9,25; 15,53-54: indica l’essere « soggetto a corruzione ». il corpo,anche quello di Paolo, è corruttibile ossia mortale; ma alla fine si veste d’incorruttibilità e d’immortalità.
Morire con e come Cristo – e vivere e morire come Paolo per la nostra Famiglia Paolina – è una necessità, ma anche merito nella prospettiva dell’esaltazione nella vita stessa del nuovo Adamo, spirituale e immortale, come quella del Padre. Ci è dunque necessario morire per vivere secondo il ritmo delle feste di Pasqua.
LA VITA COME COMPIMENTO
Il Padre chiama all’esistenza figli e cose che ancora non sono e, parallelamente, dà vita a chi, come Abramo e Sara, sono necrotizzati, per generare Isacco, figura di Cristo. Per Abramo, la vita è promessa divina, mantenuta (Rm 4,17) mentre nel corpo sta avanzando la morte.
Credere in Dio Creatore è presupposto della fede cristiana, essendo già fiducioso abbandono in « Colui che ha risuscitato dai morti Gesù, nostro Signore ».
LA VIA DIPENDE DAL PADRE E DAL FIGLIO
Per Paolo proclamare la croce è necessario come primo tempo di un ritmo pasquale, quello della promessa che Dio manterrà. Il secondo, della definitiva giustizia che è virtù divina, è appunto quello della risurrezione. Se la vita è compimento di una promessa, o di un patto fedele, la morte è necessaria all’apostolo.
Se, infatti, quand’eravamo nemici, – ragiona Paolo – siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più ora che siamo riconciliati saremo salvati mediante la sua vita (Rm 5,10). Gesù muore per fedeltà.
Infatti se per la caduta di uno solo, la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo (Rm 5,17).
La morte obbediente, apostolica, di Gesù è principio di vita nuova. Se per il battesimo siamo stati sepolti con lui nella morte, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, anche noi possiamo camminare, per sempre, in una vita nuova (cfr. Rm 6,4).
La morte di Gesù è inscindibile dalla vita. Se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo, risorto dai morti, più non muore; la morte non ha potere su di lui. Se Gesù mori, mori per il peccato una volta per tutte; ora vive e vive per Dio e da Dio, per sempre. La morte è finita. Perché se mediante la morte di Cristo, anche noi siamo messi a morte per quanto riguarda la Legge e i precetti, già apparteniamo a un altro Signore, risuscitato dai morti (cfr. Rm 7,4). È la legge dello Spirito, che dà vita in Cristo Gesù. È lo Spirito la stessa vita del Risorto che ci ha liberato dalla legge del peccato e della morte (Rm 8,2).
DISANGUIBAZIONE FINALE
Sempre in Romani, Paolo usa « morte » e « vita » solo a partire dal Crocifisso Risorto. Se la carne di per sé tende alla morte, lo Spirito tende alla vita e alla pace. Ora, se Cristo è in noi, il corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita filiale e fraterna. E se lo Spirito che ha risuscitato Gesù dai morti abita in noi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà vita anche a corpi mortali per mezzo dello Spirito che pure abita in noi.
Per Paolo, la vita è spirituale. Infatti, « se vivete secondo la carne, morirete. Ma se, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete ».
La vita è un’indissolubile connessione, la nuova alleanza con Dio in Cristo. « Io sono infatti persuaso – sostiene Paolo – che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che e in Cristo Gesù, nostro Signore » (Rm 8,38-39). La vita è fedeltà del Creatore e del Salvatore; è relazione familiare, filiale e fraterna con Dio, che non muore.
CAMBIO DI PROSPETTIVA
La vita, ma anche la morte, per Paolo sono termini apostolici. La missione da compiere è diventare per alcuni odore di morte per la morte e per altri odore di vita per la vita (cfr. 2Cor 2,16). Un giudizio è necessario per un ministro della nuova alleanza, – non però della lettera ma dello Spirito; perché la lettera (la Legge) produce la morte, lo Spirito invece dà vita – portando sempre e dovunque nel corpo la morte di Gesù, perché anche la sua vita si manifesti. Poco importa, al presente, l’essere consegnati alla morte; questo avviene perché la vita del Cristo si manifesti. Cosicché se nel ministro agisce la morte, parola della croce, in chi l’accoglie si rivela il Risorto.
VIVERE È CRISTO
La morte dell’apostolo è vangelo. Nella 1Ts, Paolo invita ad attendere il Figlio, che il Padre ha risuscitato, Gesù, che ci libera dall’ira che viene. Vivere è attendere la morte come un incontro definitivo, nuziale. Se crediamo nel vangelo pasquale, allora Dio radunerà con suo Figlio coloro che sono morti. Gesù si è consegnato alla morte perché, « sia che noi vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui » (1Ts 5,10).
E quando il nostro corpo si sarà « abbigliato », anch’esso d’immortalità, si compirà la festa promessa dalla Scrittura: La morte è stata inghiottita nella vittoria (1Cor 15,54). Allora anche la morte degli apostoli sarà una buona notizia, un annuncio magari in sordina, del Signore che viene, come via, verità e vita per chi lo sta aspettando scomparendo un tantino ogni giorno.

Angelo Colacrai, ssp 

IL PAPA: LA CONVERSIONE DI SAN PAOLO, UN INCONTRO CON CRISTO (2008)

http://www.zenit.org/article-15303?l=italian

IL PAPA: LA CONVERSIONE DI SAN PAOLO, UN INCONTRO CON CRISTO

Catechesi all’udienza generale del mercoledì

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 3 settembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo dell’intervento pronunciato questo mercoledì mattina da Benedetto XVI nel corso dell’Udienza generale nell’aula Paolo VI.

Nel suo discorso, il Papa ha continuato il ciclo di catechesi sulla figura dell’Apostolo Paolo, commentando la conversione di San Paolo.

* * *
Cari fratelli e sorelle,
la catechesi di oggi sarà dedicata all’esperienza che san Paolo ebbe sulla via di Damasco e quindi a quella che comunemente si chiama la sua conversione. Proprio sulla strada di Damasco, nei primi anni 30 del secolo I, e dopo un periodo in cui aveva perseguitato la Chiesa, si verificò il momento decisivo della vita di Paolo. Su di esso molto è stato scritto e naturalmente da diversi punti di vista. Certo è che là avvenne una svolta, anzi un capovolgimento di prospettiva. Allora egli, inaspettatamente, cominciò a considerare « perdita » e « spazzatura » tutto ciò che prima costituiva per lui il massimo ideale, quasi la ragion d’essere della sua esistenza (cfr Fil 3,7-8). Che cos’era successo?
Abbiamo a questo proposito due tipi di fonti. Il primo tipo, il più conosciuto, sono i racconti dovuti alla penna di Luca, che per ben tre volte narra l’evento negli Atti degli Apostoli (cfr 9,1-19; 22,3-21; 26,4-23). Il lettore medio è forse tentato di fermarsi troppo su alcuni dettagli, come la luce dal cielo, la caduta a terra, la voce che chiama, la nuova condizione di cecità, la guarigione come per la caduta di squame dagli occhi e il digiuno. Ma tutti questi dettagli si riferiscono al centro dell’avvenimento: il Cristo risorto appare come una luce splendida e parla a Saulo, trasforma il suo pensiero e la sua stessa vita. Lo splendore del Risorto lo rende cieco: appare così anche esteriormente ciò che era la sua realtà interiore, la sua cecità nei confronti della verità, della luce che è Cristo. E poi il suo definitivo « sì » a Cristo nel battesimo riapre di nuovo i suoi occhi, lo fa realmente vedere.
Nella Chiesa antica il battesimo era chiamato anche « illuminazione », perché tale sacramento dà la luce, fa vedere realmente. Quanto così si indica teologicamente, in Paolo si realizza anche fisicamente: guarito dalla sua cecità interiore, vede bene. San Paolo, quindi, è stato trasformato non da un pensiero ma da un evento, dalla presenza irresistibile del Risorto, della quale mai potrà in seguito dubitare tanto era stata forte l’evidenza dell’evento, di questo incontro. Esso cambiò fondamentalmente la vita di Paolo; in questo senso si può e si deve parlare di una conversione. Questo incontro è il centro del racconto di san Luca, il quale è ben possibile che abbia utilizzato un racconto nato probabilmente nella comunità di Damasco. Lo fa pensare il colorito locale dato dalla presenza di Ananìa e dai nomi sia della via che del proprietario della casa in cui Paolo soggiornò (cfr At 9,11).
Il secondo tipo di fonti sulla conversione è costituito dalle stesse Lettere di san Paolo. Egli non ha mai parlato in dettaglio di questo avvenimento, penso perché poteva supporre che tutti conoscessero l’essenziale di questa sua storia, tutti sapevano che da persecutore era stato trasformato in apostolo fervente di Cristo. E ciò era avvenuto non in seguito ad una propria riflessione, ma ad un evento forte, ad un incontro con il Risorto. Pur non parlando dei dettagli, egli accenna diverse volte a questo fatto importantissimo, che cioè anche lui è testimone della risurrezione di Gesù, della quale ha ricevuto immediatamente da Gesù stesso la rivelazione, insieme con la missione di apostolo. Il testo più chiaro su questo punto si trova nel suo racconto su ciò che costituisce il centro della storia della salvezza: la morte e la risurrezione di Gesù e le apparizioni ai testimoni (cfr. 1 Cor 15). Con parole della tradizione antichissima, che anch’egli ha ricevuto dalla Chiesa di Gerusalemme, dice che Gesù morto crocifisso, sepolto, risorto apparve, dopo la risurrezione, prima a Cefa, cioè a Pietro, poi ai Dodici, poi a cinquecento fratelli che in gran parte in quel tempo vivevano ancora, poi a Giacomo, poi a tutti gli Apostoli. E a questo racconto ricevuto dalla tradizione aggiunge: « Ultimo fra tutti apparve anche a me » (1 Cor 15,8). Così fa capire che questo è il fondamento del suo apostolato e della sua nuova vita. Vi sono pure altri testi nei quali appare la stessa cosa: « Per mezzo di Gesù Cristo abbiamo ricevuto la grazia dell’apostolato » (cfr Rm 1,5); e ancora: « Non ho forse veduto Gesù, Signore nostro? » (1 Cor 9,1), parole con le quali egli allude ad una cosa che tutti sanno. E finalmente il testo più diffuso si legge in Gal 1,15-17: « Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco ». In questa « autoapologia » sottolinea decisamente che anche lui è vero testimone del Risorto, ha una propria missione ricevuta immediatamente dal Risorto.
Possiamo così vedere che le due fonti, gli Atti degli Apostoli e le Lettere di san Paolo, convergono e convengono sul punto fondamentale: il Risorto ha parlato a Paolo, lo ha chiamato all’apostolato, ha fatto di lui un vero apostolo, testimone della risurrezione, con l’incarico specifico di annunciare il Vangelo ai pagani, al mondo greco-romano. E nello stesso tempo Paolo ha imparato che, nonostante l’immediatezza del suo rapporto con il Risorto, egli deve entrare nella comunione della Chiesa, deve farsi battezzare, deve vivere in sintonia con gli altri apostoli. Solo in questa comunione con tutti egli potrà essere un vero apostolo, come scrive esplicitamente nella prima Lettera ai Corinti: « Sia io che loro così predichiamo e così avete creduto » (15, 11). C’è solo un annuncio del Risorto, perché Cristo è uno solo.
Come si vede, in tutti questi passi Paolo non interpreta mai questo momento come un fatto di conversione. Perché? Ci sono tante ipotesi, ma per me il motivo è molto evidente. Questa svolta della sua vita, questa trasformazione di tutto il suo essere non fu frutto di un processo psicologico, di una maturazione o evoluzione intellettuale e morale, ma venne dall’esterno: non fu il frutto del suo pensiero, ma dell’incontro con Cristo Gesù. In questo senso non fu semplicemente una conversione, una maturazione del suo « io », ma fu morte e risurrezione per lui stesso: morì una sua esistenza e un’altra nuova ne nacque con il Cristo Risorto. In nessun altro modo si può spiegare questo rinnovamento di Paolo. Tutte le analisi psicologiche non possono chiarire e risolvere il problema. Solo l’avvenimento, l’incontro forte con Cristo, è la chiave per capire che cosa era successo: morte e risurrezione, rinnovamento da parte di Colui che si era mostrato e aveva parlato con lui. In questo senso più profondo possiamo e dobbiamo parlare di conversione. Questo incontro è un reale rinnovamento che ha cambiato tutti i suoi parametri. Adesso può dire che ciò che prima era per lui essenziale e fondamentale, è diventato per lui « spazzatura »; non è più « guadagno », ma perdita, perché ormai conta solo la vita in Cristo.
Non dobbiamo tuttavia pensare che Paolo sia stato così chiuso in un avvenimento cieco. È vero il contrario, perché il Cristo Risorto è la luce della verità, la luce di Dio stesso. Questo ha allargato il suo cuore, lo ha reso aperto a tutti. In questo momento non ha perso quanto c’era di bene e di vero nella sua vita, nella sua eredità, ma ha capito in modo nuovo la saggezza, la verità, la profondità della legge e dei profeti, se n’è riappropriato in modo nuovo. Nello stesso tempo, la sua ragione si è aperta alla saggezza dei pagani; essendosi aperto a Cristo con tutto il cuore, è divenuto capace di un dialogo ampio con tutti, è divenuto capace di farsi tutto a tutti. Così realmente poteva essere l’apostolo dei pagani.
Venendo ora a noi stessi, ci chiediamo che cosa vuol dire questo per noi? Vuol dire che anche per noi il cristianesimo non è una nuova filosofia o una nuova morale. Cristiani siamo soltanto se incontriamo Cristo. Certamente Egli non si mostra a noi in questo modo irresistibile, luminoso, come ha fatto con Paolo per farne l’apostolo di tutte le genti. Ma anche noi possiamo incontrare Cristo, nella lettura della Sacra Scrittura, nella preghiera, nella vita liturgica della Chiesa. Possiamo toccare il cuore di Cristo e sentire che Egli tocca il nostro. Solo in questa relazione personale con Cristo, solo in questo incontro con il Risorto diventiamo realmente cristiani. E così si apre la nostra ragione, si apre tutta la saggezza di Cristo e tutta la ricchezza della verità. Quindi preghiamo il Signore perché ci illumini, perché ci doni nel nostro mondo l’incontro con la sua presenza: e così ci dia una fede vivace, un cuore aperto, una grande carità per tutti, capace di rinnovare il mondo.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, ai religiosi e alle religiose, figli spirituali di don Orione, che ricordano quest’anno significative ricorrenze giubilari, come pure ai Missionari del Pontificio Istituto Missioni estere. Cari fratelli e sorelle, vi accolgo volentieri ed auspico di cuore che il vostro pellegrinaggio apporti frutti di bene a voi ed alle vostre comunità. Saluto inoltre i fedeli del Duomo di Oderzo e quelli del Santuario Santi Cosma e Damiano, in Eboli. Cari amici, la sosta presso la tomba di Pietro vi rafforzi nella fede cosicché, di ritorno alle vostre case, possiate rendere testimonianza dell’esperienza spirituale vissuta in questi giorni.
Saluto infine i giovani, i malati e gli sposi novelli. Cari giovani, riprendendo dopo le vacanze le consuete attività quotidiane, tornate al ritmo regolare del vostro intimo dialogo con Dio, diffondendo con la vostra testimonianza la sua luce attorno a voi. Voi, cari malati, trovate sostegno e conforto in Gesù, che continua la sua opera di redenzione nella vita di ogni uomo. E voi, cari sposi novelli, sforzatevi di mantenere un contatto costante con il Signore che dona la salvezza a tutti e attingete al suo amore perché anche il vostro sia sempre più saldo e duraturo.

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