Archive pour le 14 janvier, 2013

Santa Macrina

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Publié dans:immagini sacre |on 14 janvier, 2013 |Pas de commentaires »

14 GENNAIO : LA «VITA DI SANTA MACRINA» (mf) m. 340 circa

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14 GENNAIO : LA «VITA DI SANTA MACRINA» (mf) m. 340 circa

In fondo non stupisce che metà della già breve Vita di santa Macrina, che Gregorio di Nissa dedica, probabilmente intorno al 390, alla sua sorella maggiore, sia occupata in realtà dalla sua morte. È nella morte infatti che si concentrano una serie di temi dell’opera di Gregorio, che sgorgano qui esaltati dal dolore, seppur trattenuto, per la scomparsa di una donna che «non era estranea alla mia famiglia».
Secondo Gregorio, spiega Peter Brown, successivamente alla Caduta, insieme con la morte una nuova percezione del tempo era entrata a far parte della condizione umana: al tempo «puro» della creazione, caratterizzato dalla certezza del fine, era subentrato un tempo terreno «impuro» e incerto, denso di «ansie mai soddisfatte e vissuto come una perpetua e inquieta “tensione” dell’anima verso un futuro minaccioso e ignoto». «Il tempo umano era fatto da incessanti tentativi di evitare la morte», e al suo cuore, per così dire, trovava posto «l’orologio del matrimonio», lo strumento principe nella lotta contro la paura della fine. Per Gregorio, dunque, «il modo migliore di vincere quella paura consisteva nell’evitare la specifica istituzione sociale che ne era l’esplicito frutto»; di qui l’ossessione per il celibato e il nubilato, la verginità, l’astinenza: «Nel cuore dell’individuo casto cessava finalmente il sonoro ticchettio emesso dall’orologio del tempo mondano».
Così, Macrina, di cui Gregorio acconsente a scrivere, «affinché una vita così luminosa non fosse ignorata e non rimanesse nell’oblio, senza profitto, l’operato di una donna che, in forza del suo vivere filosofico, raggiunse il più alto grado di virtù».                                                                                    
La prima immagine la coglie all’età di dodici anni, «quando, soprattutto, rifulge il fiore della giovinezza», e Macrina «nonostante la sua riservatezza, non riesce a tenere nascosta la propria bellezza». Siamo intorno al 340, Macrina infatti è nata probabilmente nel 328 a Cesarea di Cappadocia, nella ricca famiglia di Emmelia e di Basilio il Retore, un «esercito di santi» se si considera che seguono la vocazione religiosa cinque dei dieci figli, tra i quali appunto Gregorio e il grande Basilio. Alla morte – ecco – del pretendente scelto dal padre, Macrina, già molto addentro alle sacre scritture, sceglie la verginità, sostenendo che lo sposo promesso è soltanto «momentaneamente lontano», «in viaggio e non già defunto», che lo ritroverà dopo la resurrezione e che quindi non vede perché non debba restargli fedele.           
Il matrimonio, come accennato, era in quel contesto materia molto delicata, piena di risvolti economici, sociali e politici, ma la ragazza è irremovibile e convince anche la madre, cui è molto legata, «a rinunziare all’abituale esistenza molto agiata e ai servizi delle domestiche cui era stata avvezza sino ad allora». Dopo la morte del padre, all’età di circa vent’anni, Macrina lascia Cesarea e si ritira ad Annesi, in una proprietà di famiglia, dove fonda un asceterio che si trasforma presto in un vero e proprio monastero femminile, cui ne risulta affiancato anche uno maschile, poi affidato al fratello Pietro, l’ultimogenito. Alle consorelle Macrina detta una regola che purtroppo non si è conservata e sulla quale lo stesso Gregorio si diffonde brevemente. Libertà dalle passioni mondane, lavoro (pare che Macrina fosse particolarmente abile nel «lavoro della lana») e preghiera, preghiera continua e incessante: un’esistenza, commenta Gregorio, «sospesa a mezzo tra la natura umana e quella angelica». «Come le anime libere dai corpi in seguito a morte sono esenti dalle cure di questo mondo, così la loro esistenza era distaccata, del tutto lontana dalle vanità terrene e regolata in modo da imitare le vite degli angeli».
Anzi, azzarda Gregorio, forse si potrebbe dire addirittura che erano superiori a essi, perché comunque «vivevano nella carne, eppure non erano appesantite dal corpo: lievi, levandosi in alto, spaziavano per il firmamento in compagnia degli angeli».
È la morte della sorella, come si diceva, a «interessare» maggiormente Gregorio di Nissa. Morte di fronte alla quale si manifesta ancor più, ai suoi occhi, la grandezza di lei. Macrina aveva già mostrato «la sublimità del suo animo» in occasione della scomparsa, prematura, del fratello Naucrazio, quando «non solo conservò la calma rifuggendo da irrazionali manifestazioni di dolore, ma prestò valido soccorso alla madre che dava prova di debolezza, sollevandola dall’abisso di dolore in cui era caduta», poi di quella della stessa madre e infine di quella del fratello Basilio (quella del padre è menzionata di sfuggita). Sempre Macrina aveva resistito, «come un invitto atleta», ai colpi della sorte mantenendo lo sguardo sereno sull’oltre e, questo è ciò che preme a Gregorio, «levandosi al di sopra della natura medesima».
Ora è il suo turno. Gregorio lo apprende per caso. Sta andando a trovarla e incontra uno dei «servi» del monastero: «Domandai, allora, notizie della grande. La risposta fu che era in preda a grave morbo». Gregorio si affretta ad Annesi e si precipita nella cella di Macrina. Fratello e sorella si vedono, lei fa per tirarsi su (è stesa su «una tavola ricoperta da un sacco»), lui, «sorreggendole con le mani il volto inchinato a terra», la rimette sdraiata. Lei parla, «filosofando intorno alla natura dell’anima e spiegandoci la ragione della vita nella carne, e perché l’uomo è stato fatto e come egli è mortale», lui piange e si sente quasi «libero dai vincoli della natura umana».
Poi Macrina dice che sta meglio («né lo diceva per illuderci») e manda il fratello a riposarsi e rifocillarsi. Quindi sono di nuovo insieme e si abbandonano ai ricordi, «a partire dagli anni della giovinezza». Viene la notte. Salmi e preghiere, «tra un ansimare lieve, persistente». «A quella vista ero combattuto tra me e me da contrastanti sentimenti», ricorda Gregorio: «triste» perché di lì a poco non avrebbe  più udito la sua voce, «però entusiasta innanzi allo spettacolo che si offriva ai miei occhi, convinto che la vergine aveva varcato i confini della natura umana».
La sera dell’indomani Macrina muore. Seguono i primi riti, la vestizione, la notizia che si diffonde, il concorso di folla, l’esposizione della salma, la processione, la funzione, la sepoltura accanto alla madre: si fa il «tempo di pensare al ritorno».
La compostezza, la fortezza, la speranza sono il segno di questa cronaca minuziosa e consapevole dei posteri, ma a me sono rimasti impressi soprattutto due frammenti, incastrati fra tanto ritegno, una «cosa» sfuggita alle consorelle cui Macrina aveva sempre raccomandato il «decoro in ogni evenienza» e una confessione dell’autore: «Quando non fu possibile dominare più a lungo la sofferenza, come fuoco avvampasse nel profondo dei cuori consumandoli, [le religiose] mandarono un urlo straziante, irrefrenabile. Anch’io», aggiunge Gregorio, «non seppi contenermi».

Gregorio di Nissa, Vita di santa Macrina, a cura di E. Marotta, Città Nuova 1989.

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VANGELO DI OGGI: MARCO 1,14-20

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VANGELO DI OGGI: MARCO 1,14-20

14 Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù si recò nella Galilea predicando il vangelo di Dio e diceva: 15 «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo».
16 Passando lungo il mare della Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. 17 Gesù disse loro: «Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini». 18 E subito, lasciate le reti, lo seguirono.
19 Andando un poco oltre, vide sulla barca anche Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo fratello mentre riassettavano le reti. 20 Li chiamò. Ed essi, lasciato il loro padre Zebedèo sulla barca con i garzoni, lo seguirono.

COMMENTO
Marco 1,14-20

L’inaugurazione del regno di Dio  
Il prologo del vangelo di Marco (1,1-13) termina con la tentazione di Gesù nel deserto. Dopo di esso l’evangelista riporta una sezione in cui descrive il ministero pubblico di Gesù in Galilea (1,14–3,35). Il materiale contenuto in questa sezione può sembrare a prima vista eterogeneo. Tuttavia a un’attenta analisi il quadro presentato dall’evangelista rivela una profonda unità. Il tema generale è indicato nel sommario iniziale (1,14-15), dove si riassume la predicazione di Gesù tutta incentrata sulla venuta imminente del regno di Dio. I brani successivi mostrano invece come questa predicazione sia stata accompagnata da gesti significativi che ne hanno manifestato la dinamica interna. In altre parole l’evangelista vuole mettere in luce l’impatto che l’apparizione di Gesù ha avuto in Galilea: Diversamente da Matteo, il quale riporta subito all’inizio del vangelo un discorso programmatico di Gesù («Discorso della montagna»), Marco attesta la venuta del regno di Dio da lui annunziato mediante il racconto delle sue opere straordinarie. Il testo liturgico riprende il sommario introduttivo (vv. 14-15) e la chiamata dei primi discepoli (vv. 16-20).
La predicazione in Galilea (vv. 14-15)
// Mt 4,12.17
Marco introduce la predicazione di Gesù in Galilea con due versetti che rappresentano il primo dei sommari di cui è ricco il secondo vangelo: «Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, predicando il vangelo di Dio, e diceva: Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel vangelo». La notizia secondo cui Gesù ha iniziato il suo ministero pubblico dopo l’arresto di Giovanni contrasta con il fatto che il quarto vangelo ricorda un’attività parallela dei due (cfr. Gv 3,22-24); d’altro canto Marco stesso narrerà solo in seguito l’arresto e la morte di Giovanni (6,17-29). È probabile che egli voglia qui separare nettamente l’opera del Battista da quella di Gesù per motivi più teologici che storici, mettendo così in luce una tendenza che sarà accentuata maggiormente da Luca (cfr. Lc 3,19-20; 16,16). Invece di recarsi in Giudea, zona densamente abitata da giudei, dove avevano sede le principali istituzioni giudaiche, Gesù torna in Galilea, sua terra d’origine. L’evangelista non ignora che in Is 8,23 essa è chiamata «Galilea delle genti» (Galilaia tôn êthnôn), appellativo che all’epoca di Gesù richiamava il carattere misto della sua popolazione (cfr. Mt 4,15).
Il termine «predicare» (keryssô), con cui è indicata l’attività di Gesù in Galilea, indica la proclamazione pubblica fatta da un araldo; con esso i cristiani indicavano l’annunzio della salvezza fatto dagli apostoli (cfr. At 8,5; Rm 10,8; 1Cor 1,23). L’espressione «vangelo (euanghelion) di Dio», appartiene anch’essa al linguaggio della prima comunità cristiana (cfr. Rm 1,1; 15,16; 2Cor 11,7) e indica non la buona novella che ha per oggetto Dio, ma quella che proviene da Dio stesso, in quanto autore della salvezza. Gesù si presenta dunque come colui che, in nome di Dio, annunzia la salvezza imminente (cfr. 2Cor 5,20). L’espressione «predicare il vangelo di Dio», pur rispecchiando il modo di esprimersi dei primi cristiani,  ha però profonde radici bibliche. Il verbo «evangelizzare» (euanghelizô) infatti è usato nella seconda e nella terza parte del libro di Isaia per indicare il lieto annunzio della prossima liberazione rivolto ai giudei esiliati in Mesopotamia e ai primi rimpatriati (cfr. Is 40,9; 52,7; 61,1).
Il lieto annunzio proclamato da Gesù è espresso con una frase molto concisa. Anzitutto egli afferma, con un linguaggio che si ispira all’apocalittica giudaica, che «il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino» (v. 15a): il «tempo» (kairos), cioè il periodo dell’attesa, che separa il momento attuale da quello finale e conclusivo della storia, è arrivato al termine; di conseguenza il «regno di Dio», cioè l’esercizio pieno e definitivo della sua sovranità divina in questo mondo, «è vicino» (enghiken), o meglio si è reso prossimo, sta per realizzarsi in questa terra. In altre parole sta ora iniziando il periodo finale della storia, caratterizzato dal fatto che Dio stesso interviene per far riconoscere e accettare pienamente la sua sovranità non solo su Israele, ma su tutta l’umanità.
Al tempo di Gesù li tema della regalità di JHWH era molto sentito nel giudaismo. Esso gettava le sue radici nell’esperienza primordiale di Israele, il quale attribuiva il titolo di re al Dio che lo aveva liberato dalla schiavitù d’Egitto. In questo contesto la regalità di Dio assumeva una dimensione di potenza, ma soprattutto di misericordia, e suscitava l’impegno per una liberazione interiore basata su norme di giustizia e di uguaglianza. Il periodo trascorso in esilio aveva conferito a questa esperienza un aspetto di universalismo e una forte dimensione escatologica: JHWH è re di tutta l’umanità, ma non ha ancora rivelato pienamente la sua sovranità, cosa che farà quanto prima sconfiggendo in modo definitivo le potenze diaboliche, identificate spesso con l’impero romano, oppressore dei giudei. Gesù afferma dunque che questa attesa apocalittica, in tutta la sua dimensione universalistica, sta per essere adempiuta: egli si riserva però di spiegare con più precisione le modalità con cui ciò avverrà.
All’annunzio del lieto messaggio riguardante l’azione escatologica di Dio fa eco un invito: «convertitevi e credete nel vangelo» (v. 15b). Come già aveva fatto Giovanni Battista, Gesù invita i suoi ascoltatori a «convertirsi» (metanoein, cambiare mente) cioè, in base al linguaggio ebraico sottostante, a «ritornare» a Dio cambiando mentalità e sottomettendosi una volta per tutte alla sua sovranità; ma per fare ciò è necessario «credere (pisteuô) nel vangelo», cioè aprirsi al lieto annunzio ed essere disposti a basare su di esso tutta la propria vita.
I primi discepoli di Gesù (vv. 16-20)
// Mt 4,18-22 // Lc 5,1-11
Il primo gesto compiuto da Gesù dopo il suo ritorno in Galilea è stato, secondo Marco, la chiamata di alcuni discepoli, che ebbe luogo mentre Gesù stava «passando lungo il mare di Galilea», cioè il lago di Genezaret. Luca invece inquadra la loro vocazione in un contesto di miracolo, la pesca miracolosa (cfr. Lc 5,1-11). I primi chiamati sono due fratelli, Simone e Andrea, i quali stanno svolgendo il loro lavoro di pescatori (v. 16). Per la loro professione, che precludeva loro un’osservanza precisa e costante della legge, essi appartenevano a quello che i farisei chiamavano con disprezzo il «popolo della terra». È significativo che uno dei primi due, Andrea, porti un nome greco; ma anche il nome dell’altro, Simone, è una trasposizione greca di Simeone.
Ai due Gesù rivolge l’invito: «Seguitemi; vi farò diventare pescatori di uomini» (v. 17). È dunque lui che prende l’iniziativa, chiamandoli al suo seguito. Il significato simbolico della pesca può essere ricavato da un brano di Geremia (16,16) in cui si tratta in realtà dell’invio di Israele in esilio, ma che, letto alla luce del versetto precedente, poteva alludere alla raccolta degli esuli in vista del ritorno nella terra promessa. Da questo parallelo si ricava che ciascuno dei prescelti, sotto la guida di Gesù, dovrà diventare un centro di aggregazione per altre persone disposte ad accettare il regno di Dio. In altre parole essi dovranno lasciarsi coinvolgere nel progetto di Gesù, per annunziare con lui la venuta del regno di Dio e per chiamare tutto Israele alla conversione e al perdono.
All’invito perentorio di Gesù i primi due chiamati lasciano «subito» (euthys), senza tergiversare, le loro reti, che rappresentano tutto il loro avere, e lo seguono (v. 18); il verbo «seguire» (akoloutheô) rievoca l’esperienza di Israele, che nell’esodo si è lasciato guidare da JHWH e ha preso l’impegno di «camminare nelle sue vie» (cfr. Dt 10,12). Essi rispondono, come aveva fatto Abramo, con una silenziosa obbedienza, abbandonando le proprie sicurezze e affrontando un cambiamento radicale di vita.
Lo stesso invito è rivolto anche a un’altra coppia di fratelli, Giacomo e Giovanni, ugualmente pescatori, i quali seguono Gesù lasciando il loro padre Zebedeo nella barca con i garzoni (vv. 19-20): anche qui appare la radicalità di un gesto che implica l’abbandono non solo di una persona cara, il padre, ma anche di una piccola impresa a gestione familiare, in cui la presenza di garzoni è segno inequivocabile di una certa prosperità.

LINEE INTERPRETATIVE
L’annunzio di Gesù è un «vangelo» in quanto mette in primo piano non ciò che gli uomini devono fare per ottenere il favore di Dio, ma ciò che Dio stesso sta facendo per coinvolgere il suo popolo in un grande progetto di liberazione, che trova nell’antica idea della regalità di Dio il suo carattere distintivo. È significativo il fatto che Gesù annunzia non se stesso e le sue prerogative, ma l’opera di Dio in un mondo dominato da potenze che ne impediscono l’attuazione. Agli ascoltatori egli chiede di convertirsi, cioè di lasciarsi coinvolgere, di non opporre resistenza all’azione di Dio in questo mondo.
La chiamata dei primi discepoli mostra qual era la risposta che Gesù si aspettava quando annunziava la venuta del regno di Dio e invitava alla conversione. L’evangelista sottolinea come la loro chiamata sia dovuta esclusivamente a Gesù, il quale sceglie egli stesso uomini adulti e maturi, impegnati in una precisa attività professionale. Così facendo egli si distacca dai dottori della legge i quali non sceglievano, ma accoglievano giovani studenti che facevano richiesta di essere guidati nello studio della legge. Il fatto che i prescelti siano semplici pescatori mette ulteriormente in luce la gratuità della loro vocazione e al tempo stesso mostra come Gesù, cominciando dagli ultimi, voglia veramente arrivare a tutto il popolo.
I primi chiamati dovranno essere «pescatori di uomini». Ciò significa che essi rappresentano il nucleo centrale intorno al quale e per mezzo del quale dovrà radunarsi l’Israele degli ultimi tempi. Dal punto di vista storico la chiamata dei primi discepoli non può essere avvenuta se non dopo un certo periodo, quando cioè Gesù era già noto in forza della sua predicazione: e di fatti Luca la situa in un momento successivo (Lc 5,1-11). Il fatto che Marco ponga questo episodio subito all’inizio della sua attività rivela un interesse non tanto biografico, quanto piuttosto teologico: il regno di Dio annunziato da Gesù manifesta la sua vera natura ed efficacia anzitutto nell’aggregazione di persone disposte ad assumerlo su di sé e ad accettarne tutte le conseguenze. Il racconto della vocazione dei primi discepoli trasmesso da Giovanni (Gv 1,35-51) si distacca da quello di Marco, in quanto il quarto evangelista, più che i fatti, intende mettere in luce il significato teologico della vocazione.

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