Archive pour le 8 janvier, 2013

Baby Jesus with Mary and Joseph, Don Bosco, Torino

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AGIRE SIMBOLICO: IN SILENZIO

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AGIRE SIMBOLICO: IN SILENZIO

di Sante Babolin

Nella celebrazione eucaristica, sovente si richiede una pausa di silenzio: dopo il saluto, prima dell’atto penitenziale e di proclamare le orazioni, dopo l’omelia e la comunione. Poi, caso singolare, il silenzio apre la liturgia del Venerdì santo: « il sacerdote e i sacri ministri si recano all’altare e, fatta la riverenza, si prostrano a terra o s’inginocchiano: tutti in silenzio pregano per breve tempo ». Nelle regole monastiche il silenzio è considerato « grande cerimonia » e quindi più espressivo della parola. Nella preghiera, il tema del silenzio raccoglie altri temi importanti: esame di coscienza, meditazione, adorazione. Ci viene spontaneo allora domandarci: quando il silenzio è « grande cerimonia » dentro l’Eucaristia? quando funziona come pausa nell’esecuzione d’una « musica corale » come potrebbe essere considerata un’azione liturgica? quando esprime adorazione?   
SIMBOLICA DEL SILENZIO                                                                  
Considerato come azione simbolica, il silenzio assume un significato positivo o negativo, nel senso che la bocca resta chiusa, o perché si prepara ad aprirsi o perché non vuole aprirsi: il silenzio è preludio alla parola e alla rivelazione, il mutismo è chiusura alla comunicazione e alla rivelazione per rifiuto di riceverla o di trasmetterla o per punizione di averla offuscata nella confusione dei gesti e delle passioni; il silenzio è preparazione al dono, il mutismo è rifiuto del dono (toglie la parola per togliere l’amore). Il silenzio racchiude grandi avvenimenti, il mutismo li occulta; l’uno dà alle cose grandezza e maestà, l’altro le deprezza e le degrada; l’uno segna un progresso, l’altro un regresso. Nel rito eucaristico il silenzio richiesto deve compiersi con significato positivo e non come mutismo: secondo la sacra Scrittura, vi fu silenzio prima della creazione e vi sarà silenzio alla fine dei tempi; nel momento presente siamo invitati a « fare silenzio » di fronte alla maestà di Dio, coltivando l’adorazione nel cuore: « Il Signore risiede nel suo tempio santo; taccia davanti a lui tutta la terra » (Ab 2, 20). Dio si rivela all’anima che fa regnare il silenzio dentro di sé, ma rende muto e insensibile chi si perde in chiacchiere (rumore e confusione), proprio come l’Agnello dell’Apocalisse che, prima di aprire il settimo e ultimo sigillo, attende che si faccia silenzio (Ap 8, 1). Inoltre, sempre seguendo alcuni testi della sacra Scrittura, scopriamo che il silenzio vie ne spesso espresso con il termine greco esichía, pure usato per esprimere tranquillità, calma, mitezza e pace. Paolo raccomanda a Timoteo « di far pregare per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità » (1Tm 2, 2); e Pietro, sullo stesso tono, invita i cristiani « a cercare ciò che è prezioso davanti a Dio e cioè ad ornare l’interno del cuore con un’anima incorruttibile piena di mitezza e di pace » (1Pt 3, 4). Dobbiamo allora riconoscere che il significato del gesto di « tenere la bocca chiusa », per un processo di naturale isomorfismo, si dilata fino a congiungere altri significati simili: quiete, calma, pace, pazienza e mitezza: atteggiamenti che convergono nello stato d’animo più profondo del dominio di sé: si fa silenzio per diventare « signori di se stessi ». D’altra parte, per « possederci » ed entrare nel silenzio abbiamo pure bisogno di sentirci bene nella nostra pelle, di ascoltarci nel profondo senza giudicarci e mantenendo un costante atteggiamento di umiltà di fronte alla maestà di Dio e di abbandono al suo amore di Padre: « io non giudico me stesso, confessa Paolo ai cristiani di Corinto, perché anche se non sono consapevole di colpa alcuna non per questo sono giustificato; mio giudice è il Signore » (1Cor 4, 3-4). Il silenzio, richiesto nei momenti richiamati sopra, sembra sia un nongesto, mentre realizza una vera e propria esichìa eucaristica; su questo tracciato si potrebbe sviluppare una felice riflessione sulla dimensione eucaristica dell’esicasmo. Soltanto qualche pennellata.
Virginio Ciminaghi: litografia per l’Evangeliario delle Chiese d’Italia: le dieci vergini. « A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli incontro! » (cf Mt 25,1-13). L’artista raffigura il grido che « taglia » il silenzio nel mezzo della notte, come una lama affilata, verticale
ESICASMO DI LUCE E D’AMORE
Dopo la consacrazione, la rubrica liturgica suggerisce che, quando il sacerdote presenta al popolo i santi Doni, tutti fissino lo sguardo sull’Ostia consacrata e sul Calice e adorino il Corpo e il Sangue di Cristo. Qui il silenzio, che chiude la bocca, apre gli occhi per farci contemplare (theoréin) i segni sacramentali dell’amore sconvolgente di Dio, del suo manikòs eros (espressione tanto cara a S. Massimo il Confessore), come ai piedi della Croce sul calvario, quando « tutte le folle che erano accorse a quello spettacolo (theoria), ripensando (theorésantes) a quanto era accaduto, se ne tornavano percotendosi il petto » (Lc 23, 48). Il silenzio eucaristico è quindi accoglienza pura, è farsi terra « informe e deserta »: è quindi la « grande celebrazione » del Venerdì santo (passione e morte del Signore) che fissa il significato spirituale del silenzio eucaristico e ci indica come possiamo diventare « silenzio – esichìa », piena e incondizionata disponibilità alla volontà salvifica del Padre: « Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per me, la salverà » (Lc 9, 23-24). Il silenzio richiesto dopo la comunione assume altro significato complementare: è l’amore sponsale per Gesù, è cedere alla sua divina seduzione per essere con lui una cosa sola. È l’ardente desiderio che Gesù espresse nella preghiera al Padre, a voce alta perché i suoi discepoli sapessero quanto era grande e sincero questo desiderio di essere uno con loro: « Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me, perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me eio in te, siano anch’essi in noi una cosa sola: io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità » (Gv 17, 20-21. 23). Qui entra in azione tutta la spiritualità del Cantico dei Cantici: « Somiglia il mio diletto a un capriolo o ad un cerbiatto. Eccolo, egli sta dietro il nostro muro, guarda dalla finestra, spia attraverso le inferriate » (Ct 2, 9). Anche il cristiano, che ama profondamente il suo Signore e trova in lui tutta la gioia della vita, spia continuamente l’amico dell’anima per scoprire quello che gli piace. È da questa operazione d’amore che prende forma ogni tentativo d’imitare Cristo: è l »amore che stimola ogni cammino di santità. Gli spazi di silenzio, vissuti con consapevole profondità nell’Eucaristica, possono favorire anche una « cultura del silenzio », una specie di esicasmo moderno, che sarebbe salutare innanzitutto nella vita personale e nelle relazioni sociali, in cui troppo spesso dominano l’agitazione e la superficialità: coltivare il silenzio significa esercitarci nell’attenzione per l’altro, esaminarci per capirci di più e non chiuderci nel nostro narcisismo, riflettere sulle nostre scelte e prevederne le conseguenze, così da fuggire da una irresponsabile spontaneità che talvolta può costarci cara. invece nella vita di fede coltivare il silenzio significa « vivere tutto alla presenza di Dio », puntando a diventare quei veri adoratori in spirito e verità che il Padre sta cercando. Alla Samaritana che chiedeva a Gesù dove si deve adorare Dio, Gesù rispose: « Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre, poiché i veri adoratori lo adoreranno in spirito e verità; e il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità » (Gv 4, 21.23-24). Concludendo, anche le pause di silenzio nel rito eucaristico sono gesti importanti, che vanno eseguiti veramente (almeno per alcuni secondi e, talvolta, per qualche minuto), con convinzione ed interiorità; posti così, cominciano a dire la loro parola che può illuminare la mente e riscaldare il cuore, favorendo un rapporto più intimo con Dio e più vero con i fratelli.

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PAPA BENEDETTO: «VA’ E ANCHE TU FA’ LO STESSO» – Messaggio del Papa per la Giornata Mondiale del Malato 2013

http://www.zenit.org/article-34888?l=italian

«VA’ E ANCHE TU FA’ LO STESSO»

Messaggio del Papa per la Giornata Mondiale del Malato 2013

CITTA’ DEL VATICANO, Tuesday, 8 January 2013 (Zenit.org).
Pubblichiamo di seguito il messaggio di papa Benedetto XVI per la XXI Giornata Mondiale del Malato, in programma l’11 febbraio prossimo, memoria liturgica della Madonna di Lourdes. Quest’anno, la Giornata verrà celebrata in forma solenne presso il santuario mariano di Altötting, in Baviera (Germania).
***
«Va’ e anche tu fa’ lo stesso» (Lc 10, 37)
Cari fratelli e sorelle!
1. L’11 febbraio 2013, memoria liturgica della Beata Vergine Maria di Lourdes, si celebrerà in forma solenne, presso il Santuario mariano di Altötting, la XXI Giornata Mondiale del Malato. Tale giornata è per i malati, per gli operatori sanitari, per i fedeli cristiani e per tutte le persone di buona volontà «momento forte di preghiera, di condivisione, di offerta della sofferenza per il bene della Chiesa e di richiamo per tutti a riconoscere nel volto del fratello infermo il Santo Volto di Cristo che, soffrendo, morendo e risorgendo ha operato la salvezza dell’umanità» (Giovanni Paolo II, Lettera istitutiva della Giornata Mondiale del Malato, 13 maggio 1992, 3). In questa circostanza, mi sento particolarmente vicino a ciascuno di voi, cari ammalati che, nei luoghi di assistenza e di cura o anche a casa, vivete un difficile momento di prova a causa dell’infermità e della sofferenza. A tutti giungano le parole rassicuranti dei Padri del Concilio Ecumenico Vaticano II: «Non siete né abbandonati, né inutili: voi siete chiamati da Cristo, voi siete la sua trasparente immagine» (Messaggio ai poveri, ai malati e ai sofferenti).
2. Per accompagnarvi nel pellegrinaggio spirituale che da Lourdes, luogo e simbolo di speranza e di grazia, ci conduce verso il Santuario di Altötting, vorrei proporre alla vostra riflessione la figura emblematica del Buon Samaritano (cfr Lc 10,25-37). La parabola evangelica narrata da san Luca si inserisce in una serie di immagini e racconti tratti dalla vita quotidiana, con cui Gesù vuole far comprendere l’amore profondo di Dio verso ogni essere umano, specialmente quando si trova nella malattia e nel dolore. Ma, allo stesso tempo, con le parole conclusive della parabola del Buon Samaritano, «Va’ e anche tu fa’ lo stesso» (Lc 10,37), il Signore indica qual è l’atteggiamento che deve avere ogni suo discepolo verso gli altri, particolarmente se bisognosi di cura. Si tratta quindi di attingere dall’amore infinito di Dio, attraverso un’intensa relazione con Lui nella preghiera, la forza di vivere quotidianamente un’attenzione concreta, come il Buon Samaritano, nei confronti di chi è ferito nel corpo e nello spirito, di chi chiede aiuto, anche se sconosciuto e privo di risorse. Ciò vale non solo per gli operatori pastorali e sanitari, ma per tutti, anche per lo stesso malato, che può vivere la propria condizione in una prospettiva di fede: «Non è lo scansare la sofferenza, la fuga davanti al dolore, che guarisce l’uomo, ma la capacità di accettare la tribolazione e in essa di maturare, di trovare senso mediante l’unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore» (Enc. Spe salvi, 37).
3. Vari Padri della Chiesa hanno visto nella figura del Buon Samaritano Gesù stesso, e nell’uomo incappato nei briganti Adamo, l’Umanità smarrita e ferita per il proprio peccato (cfr Origene, Omelia sul Vangelo di Luca XXXIV, 1-9; Ambrogio, Commento al Vangelo di san Luca, 71-84;  Agostino,  Discorso 171). Gesù è il Figlio di Dio, Colui che rende presente l’amore del Padre, amore  fedele, eterno, senza barriere né confini. Ma Gesù è anche Colui che “si spoglia” del suo “abito divino”, che si abbassa dalla sua “condizione” divina, per assumere forma umana (Fil 2,6-8) e accostarsi al dolore dell’uomo, fino a scendere negli inferi, come recitiamo nel Credo, e portare speranza e luce. Egli non considera un tesoro geloso il suo essere uguale a Dio, il suo essere Dio (cfr Fil 2,6), ma si china, pieno di misericordia, sull’abisso della sofferenza umana, per versare l’olio della consolazione e il vino della speranza.
4. L’Anno della fede che stiamo vivendo costituisce un’occasione propizia per intensificare la diaconia della carità nelle nostre comunità ecclesiali, per essere ciascuno buon samaritano verso l’altro, verso chi ci sta accanto. A questo proposito, vorrei richiamare alcune figure, tra le innumerevoli nella storia della Chiesa, che hanno aiutato le persone malate a valorizzare la sofferenza sul piano umano e spirituale, affinché siano di esempio e di stimolo. Santa Teresa del Bambino Gesù e del Volto Santo, “esperta della scientia amoris” (Giovanni Paolo II, Lett. ap., Novo Millennio ineunte, 42), seppe vivere «in unione profonda alla Passione di Gesù» la malattia che la condusse «alla morte attraverso grandi sofferenze». (Udienza Generale, 6 aprile 2011). Il Venerabile Luigi Novarese, del quale molti ancora oggi serbano vivo il ricordo, nell’esercizio del suo ministero avvertì in modo particolare l’importanza della preghiera per e con gli ammalati e i sofferenti, che accompagnava spesso nei Santuari mariani, in speciale modo alla grotta di Lourdes. Mosso dalla carità verso il prossimo, Raoul Follereau ha dedicato la propria vita alla cura delle persone affette dal morbo di Hansen sin nelle aree più remote del pianeta, promuovendo fra l’altro la Giornata Mondiale contro la Lebbra. La beata Teresa di Calcutta iniziava sempre la sua giornata incontrando Gesù nell’Eucaristia, per uscire poi nelle strade con la corona del Rosario in mano ad incontrare e servire il Signore presente nei sofferenti, specialmente in coloro che sono “non voluti, non amati, non curati”. Sant’Anna Schäffer di Mindelstetten seppe, anche lei, in modo esemplare unire le proprie sofferenze a quelle di Cristo: «il letto di dolore diventò… cella conventuale e la sofferenza costituì il suo servizio missionario… Confortata dalla Comunione quotidiana, ella diventò un’instancabile strumento di intercessione nella preghiera e un riflesso dell’amore di Dio per molte persone che cercavano il suo consiglio» (Omelia per la canonizzazione, 21 ottobre 2012). Nel Vangelo emerge la figura della Beata Vergine Maria, che segue il Figlio sofferente fino al supremo sacrificio sul Golgota. Ella non perde mai la speranza nella vittoria di Dio sul male, sul dolore e sulla morte, e sa accogliere con lo stesso abbraccio di fede e di amore il Figlio di Dio nato nella grotta di Betlemme e morto sulla croce. La sua ferma fiducia nella potenza divina viene illuminata dalla Risurrezione di Cristo, che dona speranza a chi si trova nella sofferenza e rinnova la certezza della vicinanza e della consolazione del Signore.
5. Vorrei infine rivolgere il mio pensiero di viva riconoscenza e di incoraggiamento alle istituzioni sanitarie cattoliche e alla stessa società civile, alle diocesi, alle comunità cristiane, alle famiglie religiose impegnate nella pastorale sanitaria, alle associazioni degli operatori sanitari e del volontariato. In tutti possa crescere la consapevolezza che «nell’accoglienza amorosa e generosa di ogni vita umana, soprattutto se debole e malata, la Chiesa vive oggi un momento fondamentale della sua missione» (Giovanni Paolo II, Esort. ap. postsinodale Christifideles laici, 38).
Affido questa XXI Giornata Mondiale del Malato all’intercessione della Santissima Vergine Maria delle Grazie venerata ad Altötting, affinché accompagni sempre l’umanità sofferente, in cerca di sollievo e di ferma speranza, aiuti tutti coloro che sono coinvolti nell’apostolato della misericordia a diventare dei buoni samaritani per i loro fratelli e sorelle provati dalla malattia e dalla sofferenza, mentre ben volentieri imparto la Benedizione Apostolica.
Dal Vaticano, 2 gennaio 2013

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