The Nativity of the Christ

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Natale, miseria e nobiltà
padre Gian Franco Scarpitta
Natale del Signore – Messa del Giorno (25/12/2012)
Vangelo: Gv 1,1-18
Giovanni nel prologo si esprime in fase discendente, mostrando che Dio eterno e creatore si incarna per farsi uomo. Contemplando il presepe però tutto parla di piccolezza, umiltà e nascondimento..
La nascita di Gesù Bambino è apportatrice di gioia soprattutto perché ci parla di un Dio umile e dimesso al punto da annullare se stesso per noi, raggiungendoci nella nostra pochezza e nella nostra peccaminosità. Nessuno avrebbe mai concepito che un profeta potesse sorgere a Nazareth o che il Messia potesse nascere nel grembo di una servilissima donna che lo accudisce nelle asperità di una grotta. Nazareth non aveva nulla da dire al popolo d’Israele in quanto non era contemplata neppure nella Bibbia ebraica e nei testi giudaici. Da quella città non era concepibile che potesse sorgere nulla di buono (Gv 1, 46). Neppure poteva essere razionalmente accettabile che il Signore atteso dalle genti potesse nascere in condizioni di estrema povertà e che potesse rivelarsi innanzitutto ad una categoria sociale fra le più reiette e detestabili come quella dei pastori.
Stando alle aspettative tipicamente umane, il Figlio di Dio dovrebbe pretendere ben altro, esigere maggiore attenzione da parte degli uomini e richiedere un’accoglienza sulla terra degna della sua grandezza. Anzi, per condurre l’uomo a salvezza avrebbe potuto procedere in ben altro modo che incarnarsi, per esempio manifestando la sua potenza per mezzo di prodigi, fatti eclatanti o comunque di estrema evidenza.
Ma il pensiero propriamente umano non collima affatto con quello del nostro Dio, nel quale Onnipotenza e Amore coincidono senza opporsi e l’amore per l’uomo si esplicita nell’umiltà e nell’accettazione dei soprusi e delle umiliazioni. Nasce infatti nel nascondimento, lontano dal plauso degli uomini, in condizioni di estrema indigenza, precarietà e abbandono, accudito da semplici viandanti che sono stati cacciati dalla locanda che per loro diritto avrebbero potuto abitare almeno per quella notte: il caravanserraglio era infatti l’albergo riservato ai pellegrini.
Se per l’uomo è inammissibile procacciare da se stesso la miseria e lo stato di inopia assoluta, non è impossibile a Dio incarnarsi e raggiungere l’uomo nella più assoluta delle precarietà e delle ristrettezze, nella più deprezzabile delle condizioni sociali, mostrando preferenza per la piccolezza e per l’assoluta modestia. Eccolo allora essere concepito all’aperto, avvolto in fasce e deposto in uno spregevole alloggio di fortuna, pieno di insidie e di ostilità (Lc 2, 6 – 7).
Il Dio dei teologi, eccolo lì. Umile, dimesso e rannicchiato al freddo in un alloggio di fortuna alle porte di Betlemme. E’ il Dio – appunto- della teologia speculativa, quello che poi sarà considerato Uno e Trino, con categorie di Amore e di Dono, le quali si intuiscono nei sottili ragionamenti, ma che adesso si palesano in un Evento semplice e dimesso.
Che cosa riflette infatti il Bambino nella greppia se non l’Amore che Dio mostra per l’umanità intera? Che cosa esplicita se non il Dono che egli fa di se stesso specialmente alle categorie più reiette e abbandonate di codesta umanità tormentata?
L’amore è sempre straordinario, se è vero amore. Ciò che Dio manifesta è un amore che ha dello straordinario perché non sussiste in alcuna parte del mondo. Amare vuol dire sempre donare senza riserve; Dio a Betlemme ha donato non qualcosa, ma tutto se stesso disinteressatamente e senza condizioni. A fugare ogni dubbio è il fatto che egli sia Amore e Dono indirizzato soprattutto all’umanità meschina, povera, reietta e peccatrice. A Betlemme Dio è grande non solo perché onnipotente e Signore, ma soprattutto perché è semplice, povero con i poveri, ultimo con gli ultimi, sperduto con chi si è disperso.
Ad enfatizzare la semplicità di Dio era stato già il profeta Michea (5, 1 e ss): « E tu, Betlemme di Efrata, così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me colui che dovrà essere il dominatore d’Israele. » Non sono parole improvvisate queste del profeta minore d’Israele, perché tendono a recuperare le origini e a collocare la nascita del Messia nel contesto vivo della sua genealogia terrena. E anche essa è fatta di persone e di situazioni intensamente umili e semplici: Davide, uomo dalla profonda umanità e dalla spiccata generosità, capace di perdonare e soprattutto di chiedere umilmente perdono; la sua casa, la sua discendenza. Michea può profetizzare così quanto poi riferirà Paolo a chiare lettere: « Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono » (1 Cor 26 – 28). Si riscontra qui che la logica propriamente umana è incompatibile con le aspettative del Dio cristiano: questi si mostra logico e sapiente appunto perché rifugge dall’umano. In tutti i casi la sapienza di Dio è superiore di gran lunga a quella che l’uomo concepisce come tale.
Mentre le nostre scelte si orientano verso le mode dell’ultimo grido e prediligono i posti più elevati e le posizioni più eminenti, mentre la propaganda circuisce con la sua subdola persuasione occulta, facendoci apparire indispensabili cose in realtà del tutto futili e meschine, mentre siamo sempre più avvinti dal sensazionalismo di cose superbe e altisonanti, Dio ci suggerisce la via della semplicità e dell’umiltà. La fuga dalle altezzosità e la ricerca del nascondimento e della semplicità di vita apportano di fatto molte più gratificazioni che non la spettacolarità e il successo umanamente intesi.
E’ da prediligersi la sobrietà, il procacciamento delle cose umili e dimesse, che alla fine esaltano molto di più, ci rendono maggiormente credibili agli altri e procurano inaspettate soddisfazioni e ricompense anche da parte di chi ci sta intorno.
Non è forse vero che quanti lavorano nel silenzio, restando a lungo privi della considerazione degli altri, si mostrino molto più proficui e concreti di coloro che pavoneggiano se stessi nell’effimero esibizionismo di progetti in realtà presuntuosi e arrivistici? Come pure è ineccepibile che i più capaci di carità e di servizio disinteressato e sincero sono proprio coloro che si guardano dall’affermare e dall’autoesaltare se stessi: solo gli umili sono i veri generosi e i veri altruisti. Forse la soluzione di molti dei nostri problemi risiede proprio nel mancato amore per l’umiltà e per la mansuetudine. Da parte di Dio si manifesta una concezione del tutto opposta a quella conclamata dal sistema del nostro vissuto: nelle parole e nelle opere di Gesù Cristo egli rivela che la sua misericordia è indirizzata soprattutto ai più deboli e ai reietti, agli esclusi e a quanti non dispongono di un nome o di una posizione che li renda meritori di attenzione. Egli infatti si rende povero per essere dalla parte dei poveri, si umilia per esaltare quanti subiranno umane sopraffazioni, si espone all’odio e alla persecuzione altrui per recare speranza e fiducia ai vessati e agli oppressi di questo ingiusto sistema, si concede alla violenza e al dolore per glorificare le ferite e il dolore di tutti gli uomini. E’ esaltante notare che nel Signore l’umiltà è una via percorribile anche per noi, poiché le caratteristiche di semplicità di vita che ci vengono richieste non sono per nulla paragonabili all’annullamento di se stesso che Dio ha vissuto nel suo Figlio.
Ecco perché il Natale è un tempo privilegiato: esso ci ispira novità di vita nel Divino Bambino, indicandoci i percorsi migliori della convivenza umana, che non possono non apportare realizzazione, pace e prosperità tanto agognate dall’uomo di tutti i tempi.
Nella Festa del Natale il Signore possa davvero ispirarci quel fervore di semplicità evangelica apportatori di serenità che ci rendono graditi a Dio e garantiscono il nostro reale concorso al bene del mondo. La gioia del Natale sia anche apportatrice di pace e infonda coraggio e fiducia nelle apprensioni facendoci dimenticare eventuali conflitti e dissapori per realizzare fra di noi l’unità e la concordia.
Con questi sentimenti, vi comunico sinceramente gli auguri vivissimi di BUON NATALE e un caro saluto a tutti.
http://www.30giorni.it/articoli_id_11831_l1.htm
Semplicità del Natale
«Il presepio è qualcosa di molto semplice, che tutti i bambini capiscono». Una meditazione da Gerusalemme del cardinale Carlo Maria Martini
del cardinale Carlo Maria Martini sj
Gerusalemme, dicembre 2006
Il presepio è qualcosa di molto semplice, che tutti i bambini capiscono. È composto magari di molte figurine disparate, di diversa grandezza e misura: ma l’essenziale è che tutti in qualche modo tendono e guardano allo stesso punto, alla capanna dove Maria e Giuseppe, con il bue e l’asino, attendono la nascita di Gesù o lo adorano nei primi momenti dopo la sua nascita.
Come il presepio, tutto il mistero del Natale, della nascita di Gesù a Betlemme, è estremamente semplice, e per questo è accompagnato dalla povertà e dalla gioia. Non è facile spiegare razionalmente come le tre cose stiano insieme. Ma cerchiamo di provarci.
Il mistero del Natale è certamente un mistero di povertà e di impoverimento: Cristo, da ricco che era, si fece povero per noi, per farsi simile a noi, per amore nostro e soprattutto per amore dei più poveri.
Tutto qui è povero, semplice e umile, e per questo non è difficile da comprendere per chi ha l’occhio della fede: la fede del bambino, a cui appartiene il Regno dei cieli. Come ha detto Gesù: «Se il tuo occhio è semplice anche il tuo corpo è tutto nella luce» (Mt 6, 22). La semplicità della fede illumina tutta la vita e ci fa accettare con docilità le grandi cose di Dio. La fede nasce dall’amore, è la nuova capacità di sguardo che viene dal sentirsi molto amati da Dio.
Il frutto di tutto ciò si ha nella parola dell’evangelista Giovanni nella sua prima lettera, quando descrive quella che è stata l’esperienza di Maria e di Giuseppe nel presepio: «Abbiamo veduto con i nostri occhi, abbiamo contemplato, toccato con le nostre mani il Verbo della vita, perché la vita si è fatta visibile». E tutto questo è avvenuto perché la nostra gioia sia perfetta. Tutto è dunque per la nostra gioia, per una gioia piena (cfr. 1Gv 1, 1-3). Questa gioia non era solo dei contemporanei di Gesù, ma è anche nostra: anche oggi questo Verbo della vita si rende visibile e tangibile nella nostra vita quotidiana, nel prossimo da amare, nella via della Croce, nella preghiera e nell’eucaristia, in particolare nell’eucaristia di Natale, e ci riempie di gioia.
Povertà, semplicità, gioia: sono parole semplicissime, elementari, ma di cui abbiamo paura e quasi vergogna. Ci sembra che la gioia perfetta non vada bene, perché sono sempre tante le cose per cui preoccuparsi, sono tante le situazioni sbagliate, ingiuste. Come potremmo di fronte a ciò godere di vera gioia? Ma anche la semplicità non va bene, perché sono anche tante le cose di cui diffidare, le cose complicate, difficili da capire, sono tanti gli enigmi della vita: come potremmo di fronte a tutto ciò godere del dono della semplicità? E la povertà non è forse una condizione da combattere e da estirpare dalla terra?
Ma gioia profonda non vuol dire non condividere il dolore per l’ingiustizia, per la fame del mondo, per le tante sofferenze delle persone. Vuol dire semplicemente fidarsi di Dio, sapere che Dio sa tutte queste cose, che ha cura di noi e che susciterà in noi e negli altri quei doni che la storia richiede. Ed è così che nasce lo spirito di povertà: nel fidarsi in tutto di Dio. In Lui noi possiamo godere di una gioia piena, perché abbiamo toccato il Verbo della vita che risana da ogni malattia, povertà, ingiustizia, morte.
Se tutto è in qualche modo così semplice, deve poter essere semplice anche il crederci. Sentiamo spesso dire oggi che credere è difficile in un mondo così, che la fede rischia di naufragare nel mare dell’indifferenza e del relativismo odierno o di essere emarginata dai grandi discorsi scientifici sull’uomo e sul cosmo. Non si può negare che può essere oggi più laborioso mostrare con argomenti razionali la possibilità di credere, in un mondo così.
Ma dobbiamo ricordare la parola di san Paolo: per credere bastano il cuore e la bocca. Quando il cuore, mosso dal tocco dello Spirito datoci in abbondanza (cfr. Rm 5, 5; Gv 3, 34), crede che Dio ha risuscitato dai morti Gesù e la bocca lo proclama, siamo salvi (cfr. Rm 10, 8-12). Tutte le complicazioni, tutti gli approfondimenti che talora ci confondono, tutto ciò che è stato sovrimposto attraverso il pensiero orientale e occidentale, attraverso la teologia e la filosofia, sono riflessioni buone, ma non ci devono far dimenticare che credere è in fondo un gesto semplice, un gesto del cuore che si butta e una parola che proclama: Gesù è risorto, Gesù è Signore! È un atto talmente semplice che non distingue fra dotti e ignoranti, tra persone che hanno compiuto un cammino di purificazione o che devono ancora compierlo. Il Signore è di tutti, è ricco di amore verso tutti coloro che lo invocano.
Giustamente noi cerchiamo di approfondire il mistero della fede, cerchiamo di leggerlo in tutte le pagine della Scrittura, lo abbiamo declinato lungo vie talora tortuose. Ma la fede, ripeto, è semplice, è un atto di abbandono, di fiducia, e dobbiamo ritrovare questa semplicità. Essa illumina tutte le cose e permette di affrontare la complessità della vita senza troppe preoccupazioni o paure.
Per credere non si richiede molto. Ci vuole il dono dello Spirito Santo che egli non fa mancare ai nostri cuori e da parte nostra occorre fare attenzione a pochi segni ben collocati. Guardiamo a ciò che successe accanto al sepolcro vuoto di Gesù: Maria Maddalena diceva con affanno e pianto: «Hanno portato via il Signore e non sappiamo dove l’hanno posto». Pietro entra nel sepolcro, vede le bende e il sudario piegato in un luogo a parte e ancora non capisce. Capisce però l’altro discepolo, più intuitivo e semplice, quello che Gesù amava. Egli «vide e credette», riferisce il Vangelo, perché i piccoli segni presenti nel sepolcro fecero nascere in lui la certezza che il Signore era risorto. Non ha avuto bisogno di un trattato di teologia, non ha scritto migliaia di pagine sull’evento. Ha visto piccoli segni, piccoli come quelli del presepio, ma è stato sufficiente perché il suo cuore era già preparato a comprendere il mistero dell’amore infinito di Dio.
Talora noi siamo alla ricerca di segni complicati, e va anche bene. Ma può bastare poco per credere se il cuore è disponibile e se si dà ascolto allo Spirito che infonde fiducia e gioia nel credere, senso di soddisfazione e di pienezza. Se siamo così semplici e disponibili alla grazia, entriamo nel numero di coloro cui è donato di proclamare quelle verità essenziali che illuminano l’esistenza e ci permettono di toccare con mano il mistero manifestato dal Verbo fatto carne. Sperimentiamo come la gioia perfetta è possibile anche in questo mondo, nonostante le sofferenze e i dolori di ogni giorno.