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http://www.atuttascuola.it/collaborazione/samuele/italiano/paradosso.htm
Il paradosso de “Il Natale” di Alessandro Manzoni
di Samuele Gaudio
Negli anni successivi alla sua conversione, avvenuta all’incirca nel 1810, Alessandro Manzoni progetta di scrivere un ciclo di dodici inni sacri, dedicandoli alle ricorrenze dell’anno liturgico. Non è difficile riuscire a immaginare come questi componimenti, dei quali portò a compimento solo cinque, possano esser stati facilmente considerati una conseguenza quasi forzata della sua conversione, “giustificati” dall’evidente ed eccessivo entusiasmo religioso dello scrittore. Così accade che vengano agevolmente etichettati come espressioni mal riuscite di una forzata enfasi spirituale e riposti in qualche stantio angolo della memoria. Pressappoco com’è accaduto alla serie di crocefissi dipinti da William Congdon che proprio come gli inni sacri sono stati realizzati proprio dopo la conversione del pittore; considerati dai critici come il suo tradimento nei confronti dell’arte stessa. C’è davvero una così discorde dicotomia tra arte e fede?
Accade però che accostandosi al testo di un inno manzoniano, come per esempio Il Natale, con la disposizione di un umile e aperto lettore, si possa svelare la reale capacità poetica di Manzoni, tesa a rendere ognuno partecipe dell’imponente annuncio che permea il testo. Egli ci chiama in causa, la poesia dell’inno è corale e collettiva, si rende portavoce di ogni uomo; sono proprio da interpretare in questo senso le parole Ecco ci è nato un Pargolo, Ci fu largito un Figlio (vv. 29-30). Il destinatario dell’avvenimento cristiano, così potentemente affermato nella sua evidenza, è l’uomo, tutti gli uomini, rappresentati da quel ci insistentemente ripetuto. Anche la struttura formale e ritmica sembra orientata a voler rispondere alla necessità della poesia di farsi interprete dei sentimenti della collettività, che sfociano nella gioia e nella festosità del riconoscimento della salvezza donata all’uomo dalla nascita del figlio di Dio. Il carattere festoso si può riconoscere nella volontà di Manzoni di accostarsi a un tipo di metro più breve e regolare nel ritmo (il componimento consta di sedici strofe di ottonari) riproducendo cadenze più vicine alle forme della poesia popolare. Egli si discosta così dal periodare solenne dei suoi precedenti componimenti più classicisti. Il primo e il terzo verso di ogni strofa è sdrucciolo, sono rimati tra loro rispettivamente il secondo e il quarto poi il quinto e il sesto con rima baciata, la strofa termina con un verso tronco.
Il componimento si potrebbe dividere in quattro parti distinte. Nella prima (vv. 1-28) Manzoni attraverso l’ampia metafora del masso che rovina al fondo del colle descrive la situazione dell’umanità prima dell’avvento di Cristo, viene attestata l’impossibilità dell’uomo di riconquistare la vetta del colle, ovvero la salvezza, perduta a causa del peccato. Sembra che la disperazione dell’uomo non possa lasciare spazio che a una flebile speranza, nella domanda di una possibile e immeritata grazia. La seconda parte (vv. 29-56) esplode nell’annuncio della nascita del figlio di Dio, che ha profanato Se Stesso assumendo forma umana, incarnandosi, per salvare l’uomo. In questi versi richiama il salmo di Isaia, ponendosi in continuità con la tradizione degli inni del cristianesimo primitivo. Nella terza parte Manzoni (vv. 57-98) narra i fatti che storicamente sono occorsi quella notte, riprendendo alcune frasi del vangelo di Luca, evidenziando come anche i pastori sono chiamati a essere partecipi dell’accaduto. L’ultima parte è una ninna nanna al bambino Gesù (vv. 99-112) dove si fonde in un’opposizione il carattere più popolare del canto con la consapevolezza della natura regale, divina di Cristo; paradosso evidente ad esempio tra il verbo e la natura del soggetto corrispondente nei versi in cui coloro che sono presenti alla nascita vedono vagire il Re del ciel (v. 98).
Questa opposizione si riscontra anche nel modo in cui sono bilanciati nel testo termini diversi e discordanti, anche volti ad indicare lo stesso oggetto, ad esempio vertice e cima antica, oppure lunga erta montana e calle. Manzoni avvicina espressioni di diversa natura, ottenendo una rudezza espressiva che è caratteristica degli inni, essa è resa veicolo di realtà spirituali e da questo aspetto prende vita lo stile paradossale degli inni. Dal fatto cioè che quelle realtà trascendenti di cui Manzoni vuole annunciare la verità nell’inno trovano la loro espressione nella carne di quelle parole rudi, forzate, sembrerebbero improprie, ma è proprio attraverso queste parole che arrivano a raggiungere fisicamente la miseria dell’uomo e a salvarla . È un paradosso di cui si rende fautore Dio stesso, il quale non ha ribrezzo di farsi carne, di umiliarsi, donandosi all’uomo perché l’uomo possa donare sé a Dio. Con gli inni sacri Manzoni non “tradisce” l’arte in nome della fede ma la eleva in funzione di uno scopo più nobile e assoluto, quello di rendere maggiormente evidente e accessibile a tutti gli uomini l’esistenza di un fatto ,che accade nella storia, il quale rende possibile la loro salvezza.
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Non è difficile riuscire a immaginare come il Natale di Manzoni possa esser stato facilmente considerato una conseguenza quasi forzata della conversione manzoniana, “giustificato” dall’evidente ed eccessivo entusiasmo religioso dello scrittore. Così accade che venga agevolmente etichettato come espressione mal riuscite di una forzata enfasi spirituale e riposto in qualche stantio angolo della memoria. Pressappoco com’è accaduto alla serie di crocefissi dipinti da William Congdon che proprio come gli inni sacri, ciclo di cui Il Natale fa parte sono stati realizzati proprio dopo la conversione del pittore; considerati dai critici come il suo tradimento nei confronti dell’arte stessa. C’è davvero una così discorde dicotomia tra arte e fede?
Negli anni successivi alla sua conversione, avvenuta all’incirca nel 1810, Alessandro Manzoni progetta di scrivere un ciclo di dodici inni sacri, dedicandoli alle ricorrenze dell’anno liturgico. questi componimenti, dei quali portò a compimento solo cinque, Accade però che accostandosi al testo di un inno manzoniano, come per esempio Il Natale, con la disposizione di un umile e aperto lettore, si possa svelare la reale capacità poetica di Manzoni, tesa a rendere ognuno partecipe dell’imponente annuncio che permea il testo. Egli ci chiama in causa, la poesia dell’inno è corale e collettiva, si rende portavoce di ogni uomo; sono proprio da interpretare in questo senso le parole Ecco ci è nato un Pargolo, Ci fu largito un Figlio (vv. 29-30)
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Negli anni successivi alla sua conversione al cattolicesimo Alessandro Manzoni progetta di scrivere un ciclo di dodici inni sacri, dedicandoli alle ricorrenze dell’anno liturgico. Non è difficile riuscire a immaginare come questi componimenti, dei quali portò a compimento solo cinque, possano esser stati facilmente considerati una conseguenza quasi forzata della sua conversione, “giustificati” dall’evidente ed eccessivo entusiasmo religioso dello scrittore. Così accade che vengano agevolmente etichettati come espressioni mal riuscite di una forzata enfasi spirituale e riposti in qualche stantio angolo della memoria. Pressappoco com’è accaduto alla serie di crocefissi dipinti da William Congdon che proprio come gli inni sacri sono stati realizzati proprio dopo la conversione del pittore; considerati dai critici come il suo tradimento nei confronti dell’arte stessa. C’è davvero una così discorde dicotomia tra arte e fede? Accade però che accostandosi al testo di un inno manzoniano, come per esempio Il Natale, con la disposizione di un umile e aperto lettore, si possa svelare la reale capacità poetica di Manzoni, tesa a rendere ognuno partecipe dell’imponente annuncio che permea il testo. Egli ci chiama in causa, la poesia dell’inno è corale e collettiva, si rende portavoce di ogni uomo; sono proprio da interpretare in questo senso le parole Ecco ci è nato un Pargolo, Ci fu largito un Figlio (vv. 29-30).
http://www.cristianocattolico.it/catechesi/spiritualita/preparati-betlemme.html
Preparati Betlemme
di MANUEL NIN
(Osservatore Romano 2 dicembre 2012)
La tradizione liturgica bizantina, nei giorni tra il 15 novembre e il 24 di-cembre inquadra la cosiddetta “Quaresima di Natale”, dove troviamo una serie di tropari chiamati theotòkia —cioè de-dicati alla Madre di Dio — assai ric-chi teologicamente. Facendo ecce-zione delle due domeniche che pre-cedono il Natale, nelle quali si commemorano i padri, gli antenati del Signore, si potrebbe dire che la liturgia bizantina non ha in se stessa un periodo liturgico, con delle particolarità eucologiche proprie, che preceda il Natale. Ci sono co-munque nella tradizione bizantina alcuni tropari e la stessa festa del 21 novembre, l’ingresso della Madre di Dio nel tempio, e quella del 9 di-cembre, la concezione di Maria nel seno di Anna, che in qualche modo rimandano alla celebrazione della nascita secondo la carne del Verbo eterno di Dio. La liturgia bizantina prepara al Natale in un modo molto discreto, molto umile. Una serie bellissima di tropari ci fa pregustare tutto il mistero dell’Incarnazione: l’attesa fiduciosa, la povertà della grotta, i personaggi e anche i luoghi vetero-testamentari che si affacciano in questi giorni. Pensiamo alle volte che Betlemme col-legata con l’Eden viene inserita nei testi, a Isaia che si rallegra, alla Madre di Dio presentata come agnella, cioè colei che porta in seno Cristo l’Agnello di Dio. Attraverso immagini poetiche e per mezzo di un intreccio di reminiscenze bi-bliche siamo posti di fronte al mi-stero della nostra salvezza, al miste-ro indicibile di Dio che per amore si incarna, si fa uno di noi, si fa uo-mo, “si fa piccolo” come piace dire ai Padri. «Oggi la Vergine si dirige verso la grotta per dare a luce ineffabil-mente il Verbo che è prima dei se-coli. Rallegrati terra tutta, glorifica con gli angeli e i pastori, avendo udito che il Dio che è prima dei se-coli ha voluto apparire come tenero bambino». Questo tropario si canta nei giorni festivi che precedono il Natale, a partire dal 26 novembre, dopo la conclusione della festa dell’ingresso della Madre di Dio nel tempio. Si può dire che questi testi siano frutto di una lectio divina che la Chiesa fa della Sacra Scrittu-ra alla luce del mistero celebrato. «L’Antico Testamento usa l’im-magine di una ragazza o di una vergine per parlare del popolo, di tutto il popolo: «la vergine figlia di Sion» (Isaia, 37, 22). Nel tropario, però, il riferimento biblico è chiara-mente un altro, pure di Isaia (7, 14): «la vergine concepirà e partori-rà un figlio che chiamerà Emma-nuele». Già il Nuovo Testamento nel vangelo di Matteo, i Padri e tutta la tradizione cristiana hanno letto questo passo di Isaia in chiave cristologica. «Si dirige verso la grotta per da-re a luce ineffabilmente il Verbo che è prima dei secoli». Nell’Antico Testamento la grotta è sempre pre-sentata come luogo di rifugio, sia di fronte al nemico sia di fronte a Dio stesso. «Per dare a luce ineffa-bilmente il Verbo che è prima dei secoli». Il testo del tropario rie-cheggia in modo diretto, quello di Giovanni: «In principio era il Ver-bo, il Verbo era presso Dio e il Ver-bo era Dio» (1, 1) e: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (1, 14). Ma nello stes-so tropario, e non in modo meno diretto, troviamo anche una serie di passi dell’Antico Testamento, so-prattutto della letteratura sapienzia-le e dei salmi: «la Parola del Signo-re è veritiera» (Salmi, 32, 4); «la tua Parola, Signore, è eterna» (Salmi, 118, 89); «la tua Parola è lampada ai miei passi» (Salmi, 118, 105). E, testo fondamentale: «la tua Parola onnipotente scese dal cielo» (Sapienza, 18, 15). «Rallegrati terra tutta, glorifica con gli angeli e i pastori». Il tropario prose-gue riprendendo la gioia di tutta la creazione, e si fa eco di due “rallegramenti” di tutto il popolo: quello delle vittorie di Saul e soprattutto quello di David sui nemici. Questa gioia del popolo vie-ne collegata a quella degli angeli e dei pastori (Luca, 2, 8. 18. 20). «Avendo udito che il Dio che è prima dei secoli ha vo-luto apparire come tenero bambino». Qui il tropario riassume tutto il mistero, tutta l’economia della nostra salvezza. Il testo biblico che è retroterra di questa conclu-sione sembra chiaramente quello diFilippesi: «il quale essendo di natura divina, non considerò un tesoro ge-loso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo» (2, 6-7). E il tropario: «ha voluto apparire come tenero bambi-no (…) il Dio invisibile rivelato nel suo tempio, una persona umana vi-sibile». Un secondo testo, preso sempre dalla liturgia bizantina che precede il Natale, è il tropario Preparati Be-tlemme, uno dei testi teologicamente più belli della liturgia bizantina in questo periodo. Qui troviamo una lettura cristologica di diversi fatti dell’Antico Testamento: dal giardi-no dell’Eden dove fiorì l’albero del-la vita all’altro giardino, la Vergine, da dove fiorisce l’Albero della Vita. «Preparati, Betlemme, l’Eden viene aperto a tutti; esulta, Efrata, perché l’Albero della vita, nella grotta, fio-risce dalla Vergine. Paradiso spiri-tuale si è mostrato il suo seno, nel quale (si trova) il frutto divino, di cui, mangiandone, vivremo e non moriremo come Adamo. Cristo è nato per rialzare — risuscitare — l’immagine caduta (dell’uomo)». Il tropario si distende in tre par-ti: la prima contiene tutta una para-frasi del testo di Michea: «E tu, Be-tlemme di Efrata così piccola per essere tra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore di Giuda» (5, 1). Il tro-pario propone un paragone tra il giardino dell’Eden, contenente l’al-bero della vita, che era stato chiuso e custodito dai cherubini, e la Ver-gine che vede fiorire l’Albero della Vita, cioè Cristo, il Verbo di Dio. Il testo sottolinea che l’Albero della Vita fiorisce nella grotta, cioè na-scosto, nel mistero; l’Albero della Vita apparirà agli uomini, chiara-mente e visibilmente, quando lo si vedrà non più nella grotta ma sulla montagna, cioè innalzato sulla cro-ce nel Calvario. La seconda parte del tropario: «Paradiso spirituale si è mostrato il suo seno, nel quale (si trova) il frut-to divino, di cui, mangiandone, vi-vremo e non moriremo come Ada-mo», sviluppa il paragone tra il Pa-radiso e il grembo di Maria. Men-tre l’albero del Paradiso è diventato fonte di morte per Adamo, dal grembo di Maria invece germoglia il Frutto della Vita per coloro che ne mangiano. Infine leggiamo: «Cristo è nato per rialzare l’immagine caduta (dell’uomo)». In questa terza parte troviamo una chiara conclusione cristologica. Adamo, fatto a imma-gine e somiglianza di Dio verrà rialzato — risuscitato — da Cristo stesso nella sua Pasqua.