Archive pour novembre, 2012

«Nascesti Dio da un piccolo Ave…» – Giovanni Pascoli: una figura da rivedere sotto il profilo spirituale e letterario

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Incontri con Maria

di MARIA DI LORENZO

«Nascesti Dio da un piccolo Ave…»

Giovanni Pascoli: una figura da rivedere sotto il profilo spirituale e letterario.

«E la Terra sentii nell’Universo. / Sentii, fremendo, ch’è del cielo anch’ella. / E mi vidi quaggiù piccolo e sperso / errare, tra le stelle, in una stella». Sono versi, forse tra i meno noti, ma certamente significativi, del maggior poeta italiano di fine Ottocento, Giovanni Pascoli, di cui quest’anno abbiamo ricordato il centenario della morte, che avvenne a Bologna nella primavera del 1912.

Il poeta era nato a San Mauro di Romagna (oggi San Mauro Pascoli, provincia di Forlì-Cesena) il 31 dicembre 1855. Trascorse un’infanzia serena tra la fattoria La Torre dei principi Torlonia, di cui il padre Ruggero era amministratore, e Savignano, dove frequentò le scuole elementari. Dal 1862 studiò nel collegio degli Scolopi a Urbino.
Un grave episodio turbò gli anni della sua pubertà: il 10 agosto 1867 suo padre venne assassinato, per motivi non chiari, da ignoti rimasti sempre impuniti. L’anno successivo moriva di dolore anche la madre e la serie dei lutti familiari sarebbe continuata con la morte, nel giro di breve tempo, della sorella maggiore e di due fratelli. Questi eventi si incisero a lettere di fuoco nella sua anima, dando anche l’imprinting alla sua successiva produzione letteraria.
La morte è il « mistero » per eccellenza di fronte al quale non si può che arretrare turbati e sgomenti per cercare conforto e rifugio in un mondo fatto di piccole cose, piccole gioie domestiche. Da qui allora il tema del « nido », che tanta parte avrà nella sua poesia, ossia degli affetti familiari, della casa, come qualcosa di «caldo, chiuso, segreto, raccolto in una esistenza senza rapporti con l’esterno, ma brulicante di complici intimità di istinti e di affetti viscerali» (Giorgio Bàrberi Squarotti).
Personalità umana e poetica molto complessa, Zvaní – come affettuosamente lo chiamava sua madre – fece assai presto esperienza del male. Quell’assassinio del padre rimasto impunito, la dura lotta per la sopravvivenza, il tradimento e la disillusione degli ideali politici, la consapevolezza che la felicità non viene dalla ricchezza, ma da un senso della vita modesto e riservato. Un modello bucolico antico, se vogliamo, che impregna i suoi primi bellissimi versi, quelli consegnati alla raccolta Myricae, che già dal titolo allude alla semplicità campestre e alla gioia degli umili arbusti, le tamerici di virgiliana memoria.

C’è appunto una poesia di questa raccolta intitolataCeppo, che vede per protagonista Maria, la madre di Gesù, in una notte di freddo e di tristezza: «È mezzanotte. Nevica. Alla pieve / suonano a doppio; suonano l’entrata. / Va la Madonna bianca tra la neve: / spinge una porta; l’apre: era accostata. / Entra nella capanna: la cucina / è piena d’un sentor di medicina. / Un bricco al fuoco s’ode borbottare: / piccolo il ceppo brucia al focolare. // Un gran silenzio. Sono a Messa? Bene. / Gesù trema; Maria si accosta al fuoco. / Ma ecco un suono, un rantolo che viene / di su, sempre più fievole e più roco. / Il bricco versa e sfrigge: la campana, / col vento, or s’avvicina, or s’allontana. / La Madonna, con una mano al cuore, / geme: una mamma, figlio mio, che muore! // E piano piano, col suo bimbo fiso / nel ceppo, torna all’uscio, apre, s’avvia. / Il ceppo sbracia e crepita improvviso, / il bricco versa e sfrigola via via: / quel rantolo… è finito. O Maria stanca! / Bianca tu passi tra la neve bianca». Di fronte alla morte, ancora una volta presente con la dipartita di una mamma, sembra poter far da contraltare allo strazio – quella « scena primaria » che continuamente si riforma nel cuore del poeta – solo l’infinita dolcezza accogliente della Vergine con il suo Bambino. Un argine al dolore del mondo, quel mondo che in X agosto Pascoli chiama «atomo opaco del male». Quel mondo capace solo di distruggere ciò che da lontano pare promettere in termini di felicità e di bellezza.

Nella raccolta di saggi Le mie letture (Rizzoli 1996, pp. 224, ) don Luigi Giussani prende in esame la dimensione poetica di Giovanni Pascoli usando come chiave di lettura la sua ricerca del trascendente.
Di certo non possiamo definire Pascoli un poeta credente, ma sicuramente possiamo dirlo religioso, perché fu un uomo – e un poeta – sempre alla ricerca di un senso altro della vita, consapevole del mistero sotteso alla vita stessa. Tante sue poesie segnano un percorso euristico di immagini e simboli che costantemente alludono al mistero, al dolore dell’esistenza e alla ricerca di un senso alto delle cose.
Sono versi, i suoi, profondamente attraversati da una tensione escatologica ed esprimono lo stato d’animo di un individuo sempre pronto a interrogarsi sui perché della fede alla quale sembra ambire, ma che alla fine non riesce mai a possedere pienamente. Tutto ciò è ben documentato nel saggio dello studioso pascoliano Massimo Castoldi, Le ali novelle del cristianesimo. Nota sui rapporti fra Pascoli e Semeria (in Lo studio, i libri e le dolcezze domestiche. In memoria di Clemente Mazzotta, Fiorini 2010, pp. 873, H 45,00), che mette in luce, a 80 anni dalla scomparsa del barnabita Giovanni Semeria morto in concetto di santità, la sua frequentazione col grande poeta romagnolo e i loro intensi colloqui sul tema della fede che appassionava molto l’inquieto Pascoli, desideroso di certezze ultraterrene.
«È fuori di dubbio – dice Castoldi – che dopo quell’incontro Pascoli intensificò il suo interesse per la figura di Cristo. Non è più il Cristo dei primi anni, anarchico e vittima del potere, ma è portatore di un messaggio di pace e non di contrapposizione». Il Cristo, per intenderci, di Canzone del Paradiso, del 1909, che sarà lì ad attenderci: «Ed Egli, il Dio vero, l’Uomo Dio, soave, / ci dirà pace, ci dirà: Son io».
E in una conferenza dal titolo assai significativo, Esiste un’arte cristiana moderna?, tenuta nel 1902 a Palermo e a Torino, padre Semeria citava brani di Nel carcere di Ginevra e di I due fanciulli per sostenere che «Pascoli, checché ne sia delle sue idee filosofiche, metafisiche, dogmatiche, è stato sempre, anzi è divenuto ognora più cristiano nelle sue tendenze morali, che sono la vera anima della sua poesia».
Il saggio di Castoldi racconta le lettere e gli incontri tra i due, da cui emerge che il poeta non era affatto anticlericale, come sovente si è scritto, e che – aggiungiamo noi – andrebbe rivista la sua figura sia sotto il profilo spirituale che letterario, giacché nonostante la fortuna postuma molti aspetti restano ancora nell’ombra, per cui ora come ora le immagini che più sovente saltano fuori dai nostri ricordi scolastici sono quelle, francamente un po’ melense, della «cavallina storna» o della «rondine caduta tra spini», immagini riduttive di un grande genio letterario che ha aperto la strada al Novecento.
Dalla sua formulazione della poetica del Fanciullino come modo di concepire la poesia discendono alcune conseguenze fondamentali, come la dimensione irrazionale della stessa poesia, il suo scopo sociale nel mondo, la scoperta dell’infanzia e delle piccole cose che fanno dell’atto poetico un mezzo per la diffusione di un messaggio di solidarietà e di amore fra gli uomini.
Così la poesia pascoliana canta di volta in volta l’umile fatica delle «lavandare» con i loro stornelli, la famiglia raccolta attorno al desco, i frulli degli uccelli, l’«aratro dimenticato» in mezzo al campo, il tuono e il lampo… Ma in tutte le immagini sonore e visive ce n’è una che sempre ritorna e sovrasta le altre, in luminosa arrendevolezza: la voce dell’Ave che chiama a raccolta il cuore degli uomini e che al poeta fa scrivere quel verso bellissimo: «E tu nascesti Dio da un piccolo Ave…» (L’Angelus, Primi poemetti), in cui si ricapitola il destino del mondo, nell’irruzione dell’eterno in ogni esistenza umana, anche e soprattutto attraverso il duro nonché comune apprendistato del dolore.

Maria Di Lorenzo

Publié dans:Letteratura italiana, Maria Vergine |on 7 novembre, 2012 |Pas de commentaires »

PAPA BENEDETTO: « L’UOMO È, NEL PROFONDO, UN ESSERE RELIGIOSO »

http://www.zenit.org/article-33721?l=italian

« L’UOMO È, NEL PROFONDO, UN ESSERE RELIGIOSO »

La catechesi di Benedetto XVI durante l’Udienza Generale di questa mattina

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 7 novembre 2012 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della catechesi tenuta da papa Benedetto XVI durante l’Udienza Generale del mercoledì, che si è svolta questa mattina in piazza San Pietro.
***
Cari fratelli e sorelle,
il cammino di riflessione che stiamo facendo insieme in quest’Anno della fede ci conduce a meditare oggi su un aspetto affascinante dell’esperienza umana e cristiana: l’uomo porta in sé un misterioso desiderio di Dio. In modo molto significativo, il Catechismo della Chiesa Cattolica si apre proprio con la seguente considerazione: «Il desiderio di Dio è inscritto nel cuore dell’uomo, perché l’uomo è stato creato da Dio e per Dio; e Dio non cessa di attirare a sé l’uomo e soltanto in Dio l’uomo troverà la verità e la felicità che cerca senza posa» (n. 27).
Una tale affermazione, che anche oggi in molti contesti culturali appare del tutto condivisibile, quasi ovvia, potrebbe invece sembrare una provocazione nell’ambito della cultura occidentale secolarizzata. Molti nostri contemporanei potrebbero infatti obiettare di non avvertire per nulla un tale desiderio di Dio. Per larghi settori della società Egli non è più l’atteso, il desiderato, quanto piuttosto una realtà che lascia indifferenti, davanti alla quale non si deve nemmeno fare lo sforzo di pronunciarsi. In realtà, quello che abbiamo definito come «desiderio di Dio» non è del tutto scomparso e si affaccia ancora oggi, in molti modi, al cuore dell’uomo. Il desiderio umano tende sempre a determinati beni concreti, spesso tutt’altro che spirituali, e tuttavia si trova di fronte all’interrogativo su che cosa sia davvero «il» bene, e quindi a confrontarsi con qualcosa che è altro da sé, che l’uomo non può costruire, ma è chiamato a riconoscere. Che cosa può davvero saziare il desiderio dell’uomo?
Nella mia prima Enciclica, Deus caritas est, ho cercato di analizzare come tale dinamismo si realizzi nell’esperienza dell’amore umano, esperienza che nella nostra epoca è più facilmente percepita come momento di estasi, di uscita da sé, come luogo in cui l’uomo avverte di essere attraversato da un desiderio che lo supera. Attraverso l’amore, l’uomo e la donna sperimentano in modo nuovo, l’uno grazie all’altro, la grandezza e la bellezza della vita e del reale. Se ciò che sperimento non è una semplice illusione, se davvero voglio il bene dell’altro come via anche al mio bene, allora devo essere disposto a de-centrarmi, a mettermi al suo servizio, fino alla rinuncia a me stesso. La risposta alla questione sul senso dell’esperienza dell’amore passa quindi attraverso la purificazione e la guarigione del volere, richiesta dal bene stesso che si vuole all’altro. Ci si deve esercitare, allenare, anche correggere, perché quel bene possa veramente essere voluto.
L’estasi iniziale si traduce così in pellegrinaggio, «esodo permanente dall’io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio» (Enc. Deus caritas est, 6). Attraverso tale cammino potrà progressivamente approfondirsi per l’uomo la conoscenza di quell’amore che aveva inizialmente sperimentato. E andrà sempre più profilandosi anche il mistero che esso rappresenta: nemmeno la persona amata, infatti, è in grado di saziare il desiderio che alberga nel cuore umano, anzi, tanto più autentico è l’amore per l’altro, tanto maggiormente esso lascia dischiudere l’interrogativo sulla sua origine e sul suo destino, sulla possibilità che esso ha di durare per sempre. Dunque, l’esperienza umana dell’amore ha in sé un dinamismo che rimanda oltre se stessi, è esperienza di un bene che porta ad uscire da sé e a trovarsi di fronte al mistero che avvolge l’intera esistenza.
Considerazioni analoghe si potrebbero fare anche a proposito di altre esperienze umane, quali l’amicizia, l’esperienza del bello, l’amore per la conoscenza: ogni bene sperimentato dall’uomo protende verso il mistero che avvolge l’uomo stesso; ogni desiderio che si affaccia al cuore umano si fa eco di un desiderio fondamentale che non è mai pienamente saziato. Indubbiamente da tale desiderio profondo, che nasconde anche qualcosa di enigmatico, non si può arrivare direttamente alla fede. L’uomo, in definitiva, conosce bene ciò che non lo sazia, ma non può immaginare o definire ciò che gli farebbe sperimentare quella felicità di cui porta nel cuore la nostalgia. Non si può conoscere Dio a partire soltanto dal desiderio dell’uomo. Da questo punto di vista rimane il mistero: l’uomo è cercatore dell’Assoluto, un cercatore a passi piccoli e incerti. E tuttavia, già l’esperienza del desiderio, del «cuore inquieto» come lo chiamava sant’Agostino, è assai significativa. Essa ci attesta che l’uomo è, nel profondo, un essere religioso (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 28), un «mendicante di Dio». Possiamo dire con le parole di Pascal: «L’uomo supera infinitamente l’uomo» (Pensieri, ed. Chevalier 438; ed. Brunschvicg 434). Gli occhi riconoscono gli oggetti quando questi sono illuminati dalla luce. Da qui il desiderio di conoscere la luce stessa, che fa brillare le cose del mondo e con esse accende il senso della bellezza.
Dobbiamo pertanto ritenere che sia possibile anche nella nostra epoca, apparentemente tanto refrattaria alla dimensione trascendente, aprire un cammino verso l’autentico senso religioso della vita, che mostra come il dono della fede non sia assurdo, non sia irrazionale. Sarebbe di grande utilità, a tal fine, promuovere una sorta di pedagogia del desiderio, sia per il cammino di chi ancora non crede, sia per chi ha già ricevuto il dono della fede. Una pedagogia che comprende almeno due aspetti. In primo luogo, imparare o re-imparare il gusto delle gioie autentiche della vita. Non tutte le soddisfazioni producono in noi lo stesso effetto: alcune lasciano una traccia positiva, sono capaci di pacificare l’animo, ci rendono più attivi e generosi. Altre invece, dopo la luce iniziale, sembrano deludere le attese che avevano suscitato e talora lasciano dietro di sé amarezza, insoddisfazione o un senso di vuoto. Educare sin dalla tenera età ad assaporare le gioie vere, in tutti gli ambiti dell’esistenza – la famiglia, l’amicizia, la solidarietà con chi soffre, la rinuncia al proprio io per servire l’altro, l’amore per la conoscenza, per l’arte, per le bellezze della natura –, tutto ciò significa esercitare il gusto interiore e produrre anticorpi efficaci contro la banalizzazione e l’appiattimento oggi diffusi. Anche gli adulti hanno bisogno di riscoprire queste gioie, di desiderare realtà autentiche, purificandosi dalla mediocrità nella quale possono trovarsi invischiati. Diventerà allora più facile lasciar cadere o respingere tutto ciò che, pur apparentemente attrattivo, si rivela invece insipido, fonte di assuefazione e non di libertà. E ciò farà emergere quel desiderio di Dio di cui stiamo parlando.
Un secondo aspetto, che va di pari passo con il precedente, è il non accontentarsi mai di quanto si è raggiunto. Proprio le gioie più vere sono capaci di liberare in noi quella sana inquietudine che porta ad essere più esigenti – volere un bene più alto, più profondo – e insieme a percepire con sempre maggiore chiarezza che nulla di finito può colmare il nostro cuore. Impareremo così a tendere, disarmati, verso quel bene che non possiamo costruire o procurarci con le nostre forze; a non lasciarci scoraggiare dalla fatica o dagli ostacoli che vengono dal nostro peccato.
A questo proposito, non dobbiamo però dimenticare che il dinamismo del desiderio è sempre aperto alla redenzione. Anche quando esso si inoltra su cammini sviati, quando insegue paradisi artificiali e sembra perdere la capacità di anelare al vero bene. Anche nell’abisso del peccato non si spegne nell’uomo quella scintilla che gli permette di riconoscere il vero bene, di assaporarlo, e di avviare così un percorso di risalita, al quale Dio, con il dono della sua grazia, non fa mancare mai il suo aiuto. Tutti, del resto, abbiamo bisogno di percorrere un cammino di purificazione e di guarigione del desiderio. Siamo pellegrini verso la patria celeste, verso quel bene pieno, eterno, che nulla ci potrà più strappare. Non si tratta, dunque, di soffocare il desiderio che è nel cuore dell’uomo, ma di liberarlo, affinché possa raggiungere la sua vera altezza. Quando nel desiderio si apre la finestra verso Dio, questo è già segno della presenza della fede nell’animo, fede che è una grazia di Dio. Sempre sant’Agostino affermava: «Con l’attesa, Dio allarga il nostro desiderio, col desiderio allarga l’animo e dilatandolo lo rende più capace» (Commento alla Prima lettera di Giovanni, 4,6: PL35, 2009).
In questo pellegrinaggio, sentiamoci fratelli di tutti gli uomini, compagni di viaggio anche di coloro che non credono, di chi è in ricerca, di chi si lascia interrogare con sincerità dal dinamismo del proprio desiderio di verità e di bene. Preghiamo, in questo Anno della fede, perché Dio mostri il suo volto a tutti coloro che lo cercano con cuore sincero. Grazie.
[Dopo la catechesi, il Papa si è rivolto ai fedeli provenienti dai vari paesi salutandoli nelle diverse lingue. Ai pellegrini italiani ha detto:]
E adesso, saluto i pellegrini di lingua italiana, provenienti da Parrocchie, da Scuole e da varie Associazioni di numerose diocesi d’Italia. Saluto in particolare i fedeli di Biancavilla e di Ferentino e i rappresentanti dell’Associazione Nazionale di Polizia Penitenziaria. In questo mese di novembre vi invito a far memoria nella preghiera dei cari defunti, che attendono il conforto della nostra solidarietà spirituale.
E desidero, infine, rivolgermi, come di consueto, ai giovani, ai malati ed agli sposi novelli. Dopodomani celebreremo la festa liturgica della Dedicazione della Basilica di San Giovanni in Laterano, cattedrale di Roma. Questa ricorrenza invita voi, cari giovani, a diventare pietre vive e preziose, impiegate per la costruzione della Casa del Signore. Essa incoraggia voi, cari ammalati, ad offrire a Dio il vostro quotidiano sacrificio per il bene di tutta la comunità cristiana; e spinge voi, cari sposi novelli, a rendere le vostre famiglie piccole chiese domestiche. Grazie.

The Church of the Nativity

The Church of the Nativity dans immagini sacre xch-nativity
http://www.jordanjubilee.com/history/droberts.htm

Publié dans:immagini sacre |on 6 novembre, 2012 |Pas de commentaires »

LODE ALLA SAPIENZA INCREATA

http://www.certosini.info/preghiera/medit/guillerand/guillerand_30.htm

Dinanzi a Dio: La Preghiera

Di A. Guillerand, monaco certosino

CAPITOLO XXX

LODE ALLA SAPIENZA INCREATA

Tu sei, o mio Dio, l’Ordine infinito. L’ordine che regna quaggiù è meraviglioso. Ciò che noi possiamo intravederne ci abbaglia: e ciò che noi vediamo è così poco! Tu sei talmente l’Ordine che anche i disordini lo procurano! Tu hai l’arte – la grande arte – di fare l’armonia dalle dissonanze!
Bisogna, è vero, saper superare, per riconoscere questo Ordine supremo, la durata effimera, le circostanze presenti, ciò che non è, e attendere che il presente superficiale e passeggero abbia prodotto ciò che vedeva il tuo sguardo eterno e ciò che voleva il tuo Amore immenso.
La tua Sapienza, o mio Dio, è questo sguardo che supera i tempi e i luoghi, ed è questo volere che si eleva al di sopra del passeggero. Essa è fatta di intelligenza che ordina e di amore che si dona.
L’ordine è figlio dell’intelligenza che ama, e il cui nome proprio è la Sapienza. In noi, l’intelligenza e la volontà, nate dallo stesso centro profondo, sembrano nondimeno dividersi. Io parlerei più esattamente dicendo:  » sembrano distinguersi « . Poiché distinzione non è divisione. Ma in te, o mio Dio, ove tutto è uno, esse non fanno che uno. La Sapienza è l’atto unico col quale tu ti conosci nel tuo amore, e tu ti ami conoscendoti, col quale generi il tuo Verbo comunicandogli il Soffio della tua vita, e col quale tu lo riprendi e ritieni eternamente in te attraverso il movimento di questo Soffio. La Sapienza è questo movimento partito dal Principio ove esso ha la sua sorgente, effuso nel Verbo ove esso diviene Luce che lo mostra, Parola che lo esprime, Immagine che lo rappresenta, raggio sostanziale che ne è lo sfavillio splendido, figura ove esso riproduce i suoi tratti e si fa conoscere. Questo movimento nel Principio è Luce e Amore, nel Verbo è Luce e Amore, e lo è egualmente in se stesso, nel luogo che li unisce, che li porta e li conserva l’uno nell’altro.
E questo movimento che si è comunicato al nulla e che l’ha riempito d’immagini finite dell’Essere che è. Tutti gli esseri e l’ordine che regna in ciascuno di essi e in tutto l’insieme, rappresenta la tua Sapienza, o mio Dio. Ed è questa Sapienza che io debbo ammirare, adorare, amare, quando il mondo si rivela a me nello splendore delle sue meraviglie e della sua armonia. Io debbo vedere nel mondo la tua grandezza, la tua intelligenza, la tua potenza, tutto il gioco di ciò che io chiamo le tue perfezioni e che in te non sono che la perfezione unica della tua Pienezza d’Essere. Io debbo vedere in ciascuno, nell’unità di ciascuno, un’immagine di questa Pienezza infinita; io debbo vedere in tutti gli elementi che lo compongono e in tutti i movimenti ordinati che costituiscono la sua attività, il tuo Amore che unifica tutto, che ordina tutto, che si rappresenta unendo, che unisce ordinando, che per ordinare regola il posto e l’agire di ciascuno, li conserva, li concorda, li sviluppa nella pace, per il bene di tutti e di tutto l’insieme al quale essi appartengono.
Tale è quel gioco di cui parla il tuo Spirito stesso nei tuoi Libri Santi, un gioco sapiente, misurato, armonioso, ove tutto si fa dolcemente, amorosamente, secondo un piano previsto fin nei minimi dettagli e attraverso leggi generali o particolari che rapiscono, quando si studiano, e che assicurano la felicità propria e quella del mondo quando da noi stessi vengono osservate; leggi che tendono tutte a far regnare in tutto e in tutti la pace infinita.
Quando il mondo si lascia condurre da questa Sapienza, vede chiaramente e non urta contro alcun ostacolo, poiché essa è Luce; il mondo è felice e passa attraverso le sofferenze passeggere come condotto dalla tua mano d’amore, poiché essa è l’Amore. Il mondo partecipa alla tua Luce, che non vede che l’Amore, al tuo Amore che non vuole che il Bene, al tuo Bene che è l’Essere; … e rientra nella tua Unità, come il Verbo di cui è l’espressione esteriore, multipla, frammentata, ma unificata da Lui nella Sapienza che tutto ordina.
La tua Sapienza risplende in tutto come in te stesso: nel movimento degli astri, nel movimento delle stagioni che essi comandano, in quello delle piante che sono regolate dalle stagioni, degli esseri animati che un istinto così sicuro e saggio dirige, degli esseri intelligenti che, come tali, possono errare, ma che possono profittare delle loro esperienze perfino sbagliate per elevarsi più in alto e raggiungerti; in quello dei puri spiriti che l’intelligenza istintiva, lo sguardo intuitivo, porta a te d’un sol balzo per sempre, e che vedono ciò che tu vedi e come tu lo vedi, spiriti che vedono nella Luce del tuo Amore e che amano tutto ciò che tu ami; e nel movimento delle intelligenze incarnate ma definitivamente spiritualizzate che fanno entrare la stessa materia nella dimora ove tu ti doni per sempre, e ove tutto ha il suo posto eterno, quella dimora che è il culmine della creazione, e in Colui che è al tempo stesso il capo di tutta la tua opera e il divin Operaio grazie al quale tutto è stato fatto. Così, io rientro con tutto questo insieme nella Sorgente essenziale ove tutto era prima di essere realizzato da te, ove tutto si completa quando, col tuo Verbo Incarnato e nel tuo Verbo Incarnato, tu l’hai ripreso e compiuto.
E’ lì che io canterò eternamente questa Sapienza che non fa che uno con la tua Vita, che non fa che uno con te. E’ lì che io vedrò tutto, amerò tutto, possiederò tutto, che la mia visione sarà il mio amore, che il mio amore sarà Luce, e che luce e amore uniti, ma non confusi, procederanno sotto i miei occhi dal tuo Essere che non farà che uno con essi.

Publié dans:meditazioni, preghiera (sulla) |on 6 novembre, 2012 |Pas de commentaires »

Amba Tawadraus II è il 118mo Patriarca copto di Alessandria

 http://www.asianews.it/notizie-it/Amba-Tawadraus-II-%C3%A8-il-118mo-Patriarca-copto-di-Alessandria-26263.html

05/11/2012 09:09

EGITTO

Amba Tawadraus II è il 118mo Patriarca copto di Alessandria

di André Azzam

Ieri era il suo compleanno: ha 60 anni ed è un grande organizzatore dell’educazione della gioventù. Vuole rafforzare il valore dei giovani, cristiani e musulmani, che hanno compiuto la « rivoluzione dei gelsomini » e accrescere la collaborazione fra musulmani e cristiani per una piena integrazione nella società. In questi giorni molti musulmani hanno pregato coi cristiani per una buona scelta del patriarca. Ma essere cristiani è difficile nel Paese che vede la crescente influenza dei Fratelli Musulmani e dei salafiti.

Il Cairo  (AsiaNews) – Amba Tawadraus (Theodoros), vescovo di Behayra è il nuovo papa di Alessandria, patriarca di san Marco, capo della Chiesa copta ortodossa in Egitto e all’estero.
La sua nomina è avvenuta ieri dopo la messa presieduta da Amba Pakhomios, capo della Chiesa ad interim, dalla morte di Shenouda lo scorso 17 marzo. Un bambino di cinque anni, con gli occhi bendati, ha scelto il suo nome da un’urna che conteneva tre nomi. L’urna era stata posta sull’altare durante la messa.
Il piccolo che ha compiuto l’estrazione è stato scelto fra dodici « salmisti ». Il giorno prima aveva detto a sua madre che « se sono scelto per l’elezione, prenderò il nome di Amba Tawadraus ». Il nome del bambino è Bishoy, lo stesso nome del monastero a cui appartiene il nuovo patriarca. Tutte queste strane coincidenze fanno gridare a tutti che la scelta è « la scelta di Dio ». Ieri moltissimi musulmani si sono congratulati con i loro amici cristiani per il nuovo capo della Chiesa, che dà lustro all’Egitto. A Damanhour, la città natale di Amba Tawadraus, la popolazione ha organizzato una festa piena di gioia, anche perché proprio ieri era il 60mo compleanno del nuovo papa di Alessandria.
Il nuovo patriarca dovrebbe conservare il suo nome, diventando papa Tawadraus II. Tawradaus I è stato il 40mo patriarca ; Tawradaus II è il 118mo. Egli è nato il 4 novembre del 1952 a Damanhour, a sudest di Alessandria, una città sul ramo di Rosetta del delta del Nilo. Nel 1975 si è laureato in farmacia all’università di Alessandria, seguita da una fellowship in Gran bretagna dell’Organizzazione mondiale della Sanità. Il 20 agosto del 1986 è entrato nel monastero di Wadi Natroun ed è divenuto sacerdote il 23 dicembre 1989. Il 15 febbraio 1990 ha cominciato il suo servizio pastorale nella sua diocesi di Behayra.
Il 15 giugno 1997 è divenuto vescovo. Il monastero di Amba Bishoy, nella sua diocesi è vicino al monastero siriano dove papa Shenouda era divenuto monaco. Shenouda stesso ha vissuto ad Amba Bishoy, sequestrato nel 1981 dall’allora presidente Anwar Sadat e tenuto lì fino al 1986.
Amba Tawadraus è noto per essere un brillante organizzatore. Ha già mostrato le sue capacità strutturando un percorso educativo religioso per i giovani,  a partire dall’infanzia e vorrebbe diffonbdere questo metodo anche alla diaspora copta in Europa, Stati Uniti, Canada, Australia, per arricchire la Chiesa con differenti culture e preparare lo svuiluppo e il progresso della comunità per il futuro. Egli vuole sottolineare la profonda unità fra tutti i membri della Chiesa copta in Egitto e all’estero e considera importante il dare fiducia ai giovani che hanno fatto la rivoluzione del 15 gennaio 2011, che ha visto la collaborazione fra cristiani e musulmani.
Egli vuole anche potenziare la collaborazione fra cristiani e musulmani, entrambi importanti per la società egiziana, per una migliore integrazione sociale.
In Egitto, tutti pensano che la Chiesa copta ha in qualche modo un ruolo politico, oltre a quello religioso e spirituale, avendo una grande influenza sui fedeli.
Con grande meraviglia, molti musulmani hanno pregato insieme ai cristiani per una buona scelta del nuovo patriarca!
Un ex candidato alla presidenza, Abd al Moneim Abou al-Foutouh, ha dichiarato che « il Papa di Alessandria non è solo papa dei copti, ma di tutta la nazione ». Egli ha ricordato che papa Ghobril (1131-1145) ha chiesto ai cristiani di usare la lingua araba per leggere e predicare il vangelo, e da allora « la Chiesa copta è divenuta una Chiesa per la nazione ».
Il presidente Morsi è stato invitato a partecipare alla cerimonia di intronizzazione di Tawadraus II, il prossimo 18 novembre, nella cattedrale di san Marco al Cairo.
Nella Chiesa copta e nella popolazione vi è un senso di felicità per il nuovo patriarca, che dovrà affrontare molti temi delicati riguardo ai cristiani. Anche il loor numero fa problema ed è soggetto a molte interpretazioni: la stampa dice che i cristiani egiziani sono il 10-12%; molti studi specialistici dall’estero affermano che essi sono più del 15% della popolazione; ma i salafiti rivendicano che l’Egitto è musulmano al 95%
Si può dire che la popolazione egiziana è sui 90 milioni , dei quali circa 17milioni sono cristiani. Come osservano molti studiosi, il numero non è la cosa più importante. Ciò che è significativo è il fatto che la Chiesa egiziana è molto presente nella nazione e i cristiani egiziani hanno dato un grande contributo al destino del Paese, non solo combattendo in diverse guerre e morendo da patrioti, ma anche lavorando nel « rinascimento (Nahda) » della lingua araba, nella letteratura, nei media, nelle arti e nei mestieri. Essi hanno pure condiviso l’impegno nel movimento nazionalista del XIX secolo e molti di loro hanno assunto importanti cariche nazionali come Nubar Pacha nel XIX secolo; il premier Boutros Ghali nel XX secolo. Ora la situazione è divenuta più dura a causa del crescente potere dei Fratelli Musulmani e degli estremisti salafiti.

Publié dans:Patrairchi |on 6 novembre, 2012 |Pas de commentaires »

Shema’ Israel

Shema' Israel dans immagini sacre 20061031-shema

http://www.parrocchiaspiritosanto.org/?itemid=217

Publié dans:immagini sacre |on 2 novembre, 2012 |Pas de commentaires »

ASCOLTA ISRAELE… – Commento alla lettura biblica, Sinodo 2008

http://donfrancobarbero.blogspot.it/2008/09/per-la-predicazione-del-14-settembre.html

ASCOLTA ISRAELE…

past. Paolo Ribet – culto di apertura del Sinodo 2008

Commento alla lettura biblica – domenica 14 settembre 2008

Questa settimana vi propongo non un mio commento al capitolo di Matteo, ma la predicazione che il pastore valdese Paolo Ribet svolse all’inizio del Sinodo delle chiese valdo-metodiste. Credo che possa davvero nutrire chi la legge e possa essere presa come predicazione domenicale in parrocchie, gruppi, comunità.

Ascolta, Israele: Il SIGNORE, il nostro Dio, è l’unico SIGNORE. Tu amerai dunque il SIGNORE, il tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima tua e con tutte le tue forze. Questi comandamenti, che oggi ti do, ti staranno nel cuore; li inculcherai ai tuoi figli, ne parlerai quando te ne starai seduto in casa tua, quando sarai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, te li metterai sulla fronte in mezzo agli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle porte della tua città (Deut. 6:4-9).

1.- «Shema’ Israel … Ascolta Israele», con queste parole, tratte dal libro del Deuteronomio, si apre la preghiera che il pio ebreo recita ancora oggi, due volte al giorno, in una secolare ripetizione che da un lato ha marcato la fede di un popolo, orientandola verso un centro, un perno attorno a cui ruota tutto il resto e d’altro lato, proprio attraverso la ripetizione, ha marcato la coscienza di generazioni intere di credenti. «Non c’è dubbio, scrive un commentatore, che lo Shema’ costituisca il centro teologico del libro del Deuteronomio: queste poche parole concentrano il carattere del Dio di Israele su un punto singolo: Yahvé, il Signore, è uno solo. Ed allo stesso modo esse concentrano su un’unica affermazione la risposta, fondata sul Patto, appropriata per questa caratteristica di Dio: che Israele ami in modo totale il Signore».
Del resto, a ben vedere, quella di Deuteronomio 6 non è neanche una preghiera, per lo meno nel senso in cui tale parola è intesa comunemente; ma è piuttosto la professione di fede che accompagna l’ebreo dalla sua più tenera età fino al momento in cui esala l’ultimo respiro. Certo, la prima parola è: « Ascolta »; e si potrebbe pensare che questa sia un’invocazione a Dio per chiedergli ascolto, attenzione, per implorarlo che siano esaudite le preghiere e le suppliche. Ma è vero il contrario: abbiamo qui un ordine perentorio che Dio stesso rivolge al suo popolo perché tenga sempre presente la sua volontà, espressa dapprima nel patto di salvezza e poi attraverso il dono della sua legge. Lo Shema’ non è dunque una dichiarazione di Israele, bensì la proclamazione della volontà di Dio ad Israele. In questo senso, dicevamo, non è neanche una preghiera.
E’ significativo, allora che queste parole si aprano con l’esortazione forte all’ascolto. Ascoltare l’altro non significa, infatti, soltanto sentirne le parole, non lasciarle sfuggire, ma significa qualcosa di più grande e profondo: significa aprirsi all’altro, partecipare del suo progetto. Solo di lì può nascere un dialogo fecondo. Nel caso del rapporto con Dio, ascoltare significa far propria la sua volontà nella nostra realtà quotidiana. Per questo occorre ripetersi queste parole del continuo, perché compiere la volontà di Dio non è affatto semplice – e dunque è necessario compiere un atto di sottomissione. Per dirla coi rabbini antichi, bisogna « farsi carico del liberatorio giogo della sua parola e della sua legge ».
2.- Questo riferimento all’ascolto è particolarmente importante, nel nostro tempo, perché viviamo un’epoca in cui è necessario ripensare il nostro modo di essere, il nostro modo di porci nei confronti del mondo in cui siamo inseriti – ed è proprio dall’ascolto e dal confronto con la realtà che noi possiamo tentare di incarnare la Parola di cui siamo portatori.
In secondo luogo questa esortazione è quanto mai attuale, perché l’espressione: «Bisogna ascoltare … Noi ascoltiamo le esigenze e le domande della gente…», è stata una delle parole d’ordine che abbiamo sentito più spesso negli ultimi mesi, nel nostro Paese. Soprattutto dopo le elezioni di aprile, una parte politica ha rimproverato l’altra parte di non essere stata capace di ascoltare le esigenze e le preoccupazioni della gente, i suoi bisogni reali – e pertanto di aver perso le elezioni. Ma non esiste un modo solo di ascoltare le esigenze della gente. Ci sono molti modi di ascoltare.
Per quello che io riesco a vedere, il modo più facile ed immediato è quello di cogliere i sentimenti di incertezza e di angoscia, titillare le paure della gente, dando risposte visibili, che colgano la fantasia, come può essere l’individuazione di un nemico (il diverso) e l’invio dell’esercito per le strade contro la microcriminalità. I problemi esistono, e sarebbe folle negarli; ma si tratta, a mio parere, di una « non risposta » perché le paure, se sono dentro di noi, semplicemente si sposteranno da un oggetto all’altro. Le notti sono sempre buie, quando si ha paura.
Vi è allora un altro tipo di risposta, più difficile, più lunga da attuare ed è quella di tentare di andare al fondo delle questioni, cercando i motivi profondi delle paure e del disorientamento che sono alla base di fondo delle questioni, cercando i motivi profondi delle paure e del disorientamento che sono alla base di molti comportamenti aggressivi, che mi sembrano essere la cifra e il segno che qualificano il vero problema del nostro tempo e del nostro Paese. Uno spunto per questa riflessione mi è stato dato da un articolo che ho letto di recente, in cui Joaquin Navarro-Vals (che è stato per anni il responsabile della Sala Stampa del Vaticano), partendo dalle parole pronunciate dal papa sulla guerra del Libano, faceva notare che, nel suo discorso, «Benedetto XVI ha semplicemente fatto rilevare (diversamente dalle analisi della diplomazia delle grandi potenze mondiali) che la vera spinta al conflitto riguarda più la paura di perdere la propria identità che il desiderio di difenderne una dalla minaccia del nemico …
D’altra parte, oggi in tutto il mondo ciò che spinge sempre più spesso i popoli alla guerra civile non è tanto la difesa di un’identità, quanto piuttosto la paura di non averne più alcuna». Il problema, allora, non è quello di costituire un governo solido, che governi popoli disomogenei, «ma il disinnesco della paura profonda che spinge gruppi di persone ad armarsi e a ricercare in modo radicale la propria identità, distruggendo la vita degli altri». Se noi vogliamo veramente ascoltare la gente e le sue paure, dobbiamo metterci in cammino verso la costruzione di una nuova cultura di relazione fra i popoli e le persone. Poi potremo discutere sulle tappe intermedie, ma la meta può essere soltanto la costruzione di questa cultura.
3.- Già, la cultura. Nel nostro Sinodo discuteremo della cultura. E’ un tema non facile, perché « cultura » è un concetto dai contorni piuttosto labili, di difficile definizione – e poi perché il nostro Paese investe pochissimo sulla cultura e perché la cultura viene massificata (verso il basso). E soprattutto, per quel che ci riguarda più da vicino, il nostro Paese non ha una cultura teologica. Esistono, è vero, iniziative molto belle, che spesso vengono marginalizzate, semplicemente ignorate o riservate a piccole nicchie di persone, mentre per la massa Padre Pio viene distribuito a piene mani.
Come si può dunque parlare di cultura? Da dove si deve partire? La prima risposta che viene in mente è che dovremmo partire dal bagaglio di idee e di tradizioni di cui il protestantesimo è portatore. Ma temo che sarebbe un errore.
Qui torniamo al nostro testo biblico: è l’ascolto che è il principio della cultura. Nostro compito è cercare di cogliere le istanze fondamentali, le domande profonde della gente. Per poter dialogare, bisogna almeno tentare di comprendere l’altro, mentre troppo spesso noi pensiamo di avere le risposte, ma raramente teniamo conto di quelle che sono le domande. Vi è dunque la necessità del dialogo con la cultura attorno a noi – o, meglio, con le culture, visto che non possiamo pensare che l’unica cultura con diritto di cittadinanza sia quella occidentale. Ma il nostro ascolto e la nostra prospettiva non possono essere soltanto indirizzate verso il dibattito salottiero delle idee, perché altre voci si levano e chiedono di essere ascoltate.
Noi pensiamo di sapere ciò che è importante per gli altri e di saper indicare la strada giusta. Ma spesso « gli altri » hanno priorità diverse. Voglio fare un esempio: nel dialogo ecumenico, noi contestiamo ai cattolici il papato, il sacerdozio e la transustanziazione; ma poi, dalle loro reazioni ci rendiamo conto che per loro si tratta di realtà secondarie – per lo meno rispetto al modo in cui le poniamo noi – e questo ci irrita molto.
Noi ripetiamo i temi della Riforma o delle polemiche ottocentesche, ma oggi per i cattolici (almeno: per alcuni cattolici) i temi fondamentali sono altri. In una vignetta di tanti anni fa, leggevo una battuta che, con tutti i limiti di una barzelletta, leggeva molto bene questa situazione. Su un muro era scritto: « Cristo è la risposta » ed il protagonista si domandava: « Si, ma qual è la domanda? ». Ecco, spesso noi pensiamo di possedere la risposta, senza porci il problema di conoscere la domanda.
Affrontare un dibattito sulla cultura significa dunque innanzitutto porsi in ascolto delle domande e delle inquietudini profonde del nostro tempo.
4.- «Ascolta, Israele…», ascolta, dunque, il tuo tempo, la gente che vive attorno a te per coglierne le ansie più profonde. Ma per avere una parola significativa da portare in questa situazione, tu, Israele, Popolo di Dio, non puoi soltanto fare delle analisi (per quanto corrette) e non puoi neanche proporre dei progetti o seguire le ultime mode o le tendenze che vengono proposte. Se vuoi avere una parola significativa, che porti pace e salvezza, devi ascoltare in primo luogo il tuo Signore. E’ lì, nella sua Parola che puoi trovare la tua parola, è nei suoi progetti che puoi trovare i tuoi progetti. Non è facile farsi carico del « giogo del Regno di Dio » (come lo chiamavano gli antichi rabbini), per questo bisogna tornare costantemente ad esso, bisogna che diventi la pietra di paragone di ogni nostra speranza e di ogni nostra volontà.
Avete notato che, subito dopo aver chiamato il popolo all’ascolto, all’apertura verso il Signore, e subito dopo aver proclamato che il Signore è il solo Dio che non ammette la vicinanza di altre signorie, siano esse mitiche, ideologiche o storiche, il nostro testo non ci chiede di obbedire a Dio, ma di amarlo. E’ la profondità del rapporto che cambia, è la sua natura stessa. Amare porta all’obbedienza, ma ne cambia le motivazioni. I comandamenti di Dio, i suoi insegnamenti, la sua volontà, segneranno il mio cammino non perché ho paura del castigo, ma perché mi sento profondamente coinvolto nella sua realtà, è il motore stesso della mia azione. «Non son più io che vivo, diceva Paolo, ma è l’amore di Dio che ho conosciuto in Cristo che vive in me». Per questo ripeterò ogni giorno la promessa di fede, per questo insegnerò ai miei figli a vivere la legge, per questo la scriverò sulle porte di casa e delle città, come segno della volontà di fedeltà di un popolo intero.
5.- Sarò capace di portare avanti un progetto così ambizioso? Prima di lanciarmi in proclami avventati, sarà bene fare anche un esame personale: «Chiesa di Dio, ascolta te stessa», ascolta per capire quali sono i tuoi reali progetti, e la tua reale volontà. Per comprendere quali sono le tue paure ed i tuoi punti di forza. Nelle ultime due generazioni, la Chiesa Valdese ha vissuto almeno due fasi molto diverse: una fase di arroccamento ed una fase di apertura.
ARROCCAMENTO – è stata la scelta operata della Chiesa Valdese tra le due guerre che ha dato vita a comunità forti ma chiuse: forte identità, forte coesione e forti contrapposizioni. Ma quel mondo chiuso e contadino su cui poggiava quel progetto non esiste più!
O APERTURA? Questa sembra essere stata la scelta operata dopo la guerra con l’apertura al mondo (politica), alle altre chiese (ecumenismo) o alle altre culture o religioni (globalizzazione). Agape è stato il simbolo di questa generazione. E Tullio Vinay diceva che Agape doveva essere « una piazza », dove si incontra di tutto.
Il rischio in questa fase è quello di perdere la propria identità e di sentirsi disorientati se non si hanno dei confini certi e sicuri. Le nostre comunità sono certamente più aperte, ma sono anche molto più piccole e più fragili. Si cammina sulla lama di un coltello fra ricerca di identità ed apertura all’altro e soltanto chi è forte, forte nel suo rapporto con Dio, può affrontare un simile percorso. Ebbene, piccola Chiesa di Gesù Cristo, ascolta te stessa, per capire se hai la forza ed il coraggio di compiere un viaggio così difficile.
6.- Ma qualunque cosa tu scelga, piccola Chiesa di Gesù Cristo, non potrai rimanere ripiegata su te stessa, perché il Signore che ami e con il quale vuoi vivere non si è mai ripiegato su se stesso, in una visione beatifica della sua santità. Il Dio che ti chiama all’ascolto è colui che a sua volta ha ascoltato, che non è rimasto sordo al grido di dolore che sale dalla terra:
- Ha ascoltato il grido della terra bagnata dal sangue di Abele,
- Ha ascoltato il lamento di Israele schiavo in Egitto,
- Ha ascoltato il grido di Rachele che piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più.
Non possiamo far finta di non sentire il lamento che corre nel mondo, dal Sud Africa, dove è in atto una terribile caccia all’immigrato, all’Italia, dove vediamo cose che pensavamo di non vedere mai, come le ronde contro i campi Rom.
Rimane per noi dunque l’esortazione della Parola di Dio: Ascolta, Israele … Esci da te stesso, esci dal tuo egoismo, apriti all’altro e non chiuderti di fronte alla esigente vocazione che il Signore ti ha rivolto.
- Ascolta il mandato di predicazione che il tuo Signore ti ha dato,
- Ascolta il mandato di servizio che il Signore ti rivolge,
- Ascolta il grido di dolore degli immigrati in balia delle onde nel canale di Sicilia
- Ascolta il grido muto di Eluana Englaro che chiede di essere lasciata andare via, senza che attorno al suo povero corpo si accenda una disputa cinica che risponde più ad istanze di potere che di pietà.
- Ascolta, Israele…

past. Paolo Ribet – culto di apertura del Sinodo 2008

XXXI Domenica del Tempo Ordinario : Ecco la mappa che orienta tutta la vita

http://www.qumran2.net/parolenuove/commenti.php?mostra_id=26746

 Ecco la mappa che orienta tutta la vita

mons. Roberto Brunelli

XXXI Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (04/11/2012)

Vangelo: Mc 12,28-34  

Ancora oggi gli ebrei osservanti recitano ogni giorno una preghiera, che dalla sua prima parola in ebraico è denominata ‘Shemà’: « Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte ». E’ un passo della Bibbia (Deuteronomio 6,4-9), richiamato dalla prima lettura della Messa odierna perché si collega col Vangelo (Marco 12,28-34) in cui si riferisce il dialogo di Gesù con uno scriba, cioè un esperto nelle questioni religiose.
Studiando la Scrittura, gli esperti di allora ne avevano tratto oltre seicento precetti, alcuni importanti (come quelli dei dieci comandamenti) ma altri decisamente meno (come quello di versare al Tempio la decima parte del valore delle foglie di menta raccolte nell’orto): oltre seicento precetti, persino impossibili da ricordare tutti. Per questo lo scriba, evidentemente preoccupato di osservare almeno la sostanza della Legge divina, chiede a Gesù qual è, tra tutti, il comandamento principale. Gesù gli risponde citando appunto lo ‘Shemà’: ama Dio! Ma subito aggiunge, non richiesto, un secondo comandamento, anch’esso compreso nella Sacra Scrittura (Levitico 19,18): « Il secondo è questo: ‘Amerai il tuo prossimo come te stesso’. Non c’è altro comandamento più grande di questi ».
L’accostamento tra l’amore di Dio e l’amore del prossimo costituisce la sintesi della morale cristiana, come è sviluppata in tutti e quattro i vangeli. L’uomo è invitato ad amare Dio, come risposta all’amore che Lui per primo ha riversato su di noi; amare Dio significa onorarlo rispettando la sua volontà, e in particolare amando coloro che egli ama, cioè il prossimo. Chi non ama il prossimo, in realtà non ama neppure Dio; e chi non ama Dio, non ha le motivazioni più forti, vitali e durature per amare il prossimo. In che cosa poi consista l’amore del prossimo, i vangeli lo spiegano ampiamente: basta pensare alle beatitudini, alla parabola del buon samaritano, al metro del giudizio finale. E tutti, in ogni caso, lo intuiscono: la misura minima è non fare del male a nessuno; la misura ottimale è dedicare le proprie risorse, di mente, di cuore, di tempo…e di portafoglio, al fine di procurare al prossimo tutto il bene possibile.
E’ in corso l’Anno della fede: da impegnare per conoscerla meglio, nelle sue diverse articolazioni; ma anche per viverla meglio: e in proposito il duplice precetto dell’amore, per Dio e per il prossimo, ne costituisce la traccia essenziale. Lo suggerisce anche la prima parola della preghiera ebraica (che è compresa nella Bibbia e quindi vale anche per i cristiani): ‘Shemà’, Ascolta! Questo verbo, anche in italiano, ha un significato ben diverso dal semplice sentire; non è l’udire distrattamente o casualmente un discorso, ma il prestarvi attenzione, perché lo si ritiene importante e meritevole di riflessione. Nella Bibbia poi ha un senso ancora più forte: è accoglienza amorosa della divina Parola, per custodirla, meditarla e tradurla nella pratica della vita. Ne è esempio Maria, la quale, dopo aver ascoltato l’impegnativo annuncio celeste sulla sua maternità, risponde: « Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola ». Ne sono esempio tutti i santi, dei quali abbiamo appena celebrato la festa: essi sono santi proprio perché hanno ascoltato la Parola di Dio e ne hanno fatto la guida della propria vita.
Lo scriba del vangelo odierno riconosce giusta la risposta alla sua domanda; amare Dio e il prossimo: nulla vale di più. E allora Gesù lo rassicura: « Non sei lontano dal regno di Dio ».

la discesa agli inferi del Signore, commemorazione dei fedeli defunti

la discesa agli inferi del Signore, commemorazione dei fedeli defunti dans immagini sacre discesa

http://www.simonospetras.org/2012/04/sabato-santo-la-discesa-agli-inferi-del-signore/

Publié dans:immagini sacre |on 1 novembre, 2012 |Pas de commentaires »

Papa: la festa dei santi e il ricordo dei defunti ci rammentano che il destino dell’uomo è Dio (Angelus)

http://www.asianews.it/notizie-it/Papa:-la-festa-dei-santi-e-il-ricordo-dei-defunti-ci-rammentano-che-il-destino-dell%E2%80%99uomo-%C3%A8-Dio-23062.html+

01/11/2011 12:06

VATICANO

Papa: la festa dei santi e il ricordo dei defunti ci rammentano che il destino dell’uomo è Dio

All’Angelus Benedetto XVI ricorda che tutti sono chiaati alla santità. Guardare la Chiesa non nel suo aspetto temporale ed umano, segnato dalla fragilità, ma come Cristo l’ha voluta, cioè «comunione dei santi».

Città del Vaticano (AsiaNews) – L’odierna festa di Tutti i santi, così come, domani, la commemorazione dei defunti ci ricordano che il destino dell’uomo è la santità, è “gioire alla presenza di Dio nell’eternità”. Lo ricorda oggi Benedetto XVI, rivolgendosi, all’Angelus, alle 10mila persone presenti in piazza san Pietro.
“La solennità di Tutti i Santi è occasione propizia per elevare lo sguardo dalle realtà terrene, scandite dal tempo, alla dimensione di Dio, la dimensione dell’eternità e della santità. La Liturgia ci ricorda oggi che la santità è l’originaria vocazione di ogni battezzato. Cristo infatti, che col Padre e con lo Spirito è il solo Santo, ha amato la Chiesa come sua sposa e ha dato se stesso per lei, al fine di santificarla. Per questa ragione tutti i membri del Popolo di Dio sono chiamati a diventare santi, secondo l’affermazione dell’apostolo Paolo: «Questa infatti è la volontà di Dio, la vostra santificazione». Siamo dunque invitati a guardare la Chiesa non nel suo aspetto temporale ed umano, segnato dalla fragilità, ma come Cristo l’ha voluta, cioè «comunione dei santi». Nel Credo la professiamo “santa”, in quanto è il Corpo di Cristo, è strumento di partecipazione ai santi Misteri, in primo luogo l’Eucaristia, e famiglia dei Santi, alla cui protezione veniamo affidati nel giorno del Battesimo”.
“Oggi veneriamo proprio questa innumerevole comunità di Tutti i Santi, i quali, attraverso i loro differenti percorsi di vita, ci indicano diverse strade di santità, accomunate da un unico denominatore: seguire Cristo e conformarsi a Lui, fine ultimo della nostra vicenda umana. Tutti gli stati di vita, infatti, possono diventare, con l’azione della grazia e con l’impegno e la perseveranza di ciascuno, vie di santificazione”.
“La Commemorazione dei fedeli defunti, cui è dedicata la giornata di domani, 2 novembre, ci aiuta a ricordare i nostri cari che ci hanno lasciato, e tutte le anime in cammino verso la pienezza della vita, proprio nell’orizzonte della Chiesa celeste, a cui la Solennità di oggi ci ha elevato. Fin dai primi tempi della fede cristiana, la Chiesa terrena, riconoscendo la comunione di tutto il corpo mistico di Gesù Cristo, ha coltivato con grande pietà la memoria dei defunti e ha offerto per loro suffragi. La nostra preghiera per i morti è quindi non solo utile ma necessaria, in quanto essa non solo li può aiutare, ma rende al contempo efficace la loro intercessione in nostro favore. Anche la visita ai cimiteri, mentre custodisce i legami di affetto con chi ci ha amato in questa vita, ci ricorda che tutti tendiamo verso un’altra vita, al di là della morte. Il pianto, dovuto al distacco terreno, non prevalga perciò sulla certezza della risurrezione, sulla speranza di giungere alla beatitudine dell’eternità, «momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità» (Spe salvi, 12). L’oggetto della nostra speranza infatti è il gioire alla presenza di Dio nell’eternità”.

Publié dans:Angelus Domini, Papa Benedetto XVI |on 1 novembre, 2012 |Pas de commentaires »
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