Archive pour novembre, 2012

16 Novembre : Santa Margherita di Scozia Regina e vedova

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Santa Margherita di Scozia Regina e vedova

16 novembre – Memoria Facoltativa

Ungheria, circa 1046 – Edimburgo, Scozia, 16 novembre 1093

Figlia di Edoardo, re inglese in esilio per sfuggire all’usurpatore Canuto, Margherita nacque in Ungheria intorno al 1046. Sua madre, Agata, discendeva dal santo re magiaro Stefano. Quando aveva nove anni suo padre potè tornare sul trono; ma presto dovette fuggire ancora, questa volta in Scozia. E qui Margherita a 24 anni fu sposa del re Malcom III, da cui ebbe sei figli maschi e due femmine. Il Messale romano la descrive come «modello di madre e di regina per bontà e saggezza». Si racconta che il re non sapesse leggere e avesse un grande rispetto per questa moglie istruita: baciava i libri di preghiera che la vedeva leggere con devozione. Caritatevole verso i poveri, gli orfani, i malati, li assisteva personalmente e invitava Malcom III a fare altrettanto. Già gravemente ammalata ricevette la notizia dell’uccisione del marito e del figlio maggiore nella battaglia di Alnwick: disse di offrire questa sofferenza come riparazione dei propri peccati. Morì a Edimburgo il 16 novembre 1093. (Avvenire)

Etimologia: Margherita = perla, dal greco e latino

Martirologio Romano: Santa Margherita, che, nata in Ungheria e sposata con Malcolm III re di Scozia, diede al mondo otto figli e si adoperò molto per il bene del suo regno e della Chiesa, unendo alla preghiera e ai digiuni la generosità verso i poveri e offrendo, così, un fulgido esempio di ottima moglie, madre e regina.
Nel suo celebre quadro, rappresentante il Paradiso, il Beato Angelico pose fra molti frati, anche un Re e una Regina, volendo significare che la corona reale può unirsi felicemente all’aureola della santità.
La Santa di oggi fu infatti Regina di Scozia, e Regina abbastanza fortunata, fatto insolito questo, perché le altre coronate, si santificarono quasi sempre attraverso la disgrazia, l’umiliazione e l’infelicità.
Molte sono le Margherite di sangue reale iscritte nel Calendario cristiano: Margherita figlia del Re di Lorena, benedettina del XIII secolo; Margherita figlia del Re d’Ungheria, domenicana dello stesso secolo; Margherita figlia del Re di Baviera, vedova del XIV secolo; Margherita di Lorena, allevata come figlia del Re Renato d’Angiò; alle quali si potrebbero aggiungere Margherita dei Duchi di Savoia e Margherita dei Conti Colonna.
Quella di oggi nacque nel 1046, nipote di Edmondo 11, detto Fianchi di Ferro, e figlia di Edoardo, rifugiatosi in terra straniera per sfuggire a Canuto, usurpatore del trono d’Inghilterra.
Sua madre, Agata, sorella della Regina d’Ungheria, discendeva dal Re Santo Stefano. Morto l’usurpatore Canuto, Edoardo poteva tornare in Inghilterra, quando Margherita non aveva che 9 anni, ma dopo qualche tempo, la famiglia reale dovette fuggire ancora, in Scozia, dove il Re Malcom III chiese la mano di Margherita, che a ventiquattro anni s’assideva così sul trono di Scozia.
Ebbe sei figli maschi e due femmine, che educò amorosamente e che non le diedero mai nessun dolore. Suo marito non era né malvagio né violento, soltanto un po’ rude e ignorante. Non sapeva leggere, ed aveva un grande rispetto per la moglie istruita. Baciava i libri di preghiera che le vedeva leggere con devozione; chiedeva costantemente il suo consiglio.
Ella non insuperbì per questo. Si mantenne discreta, rispettosa e modesta. E caritatevole verso i poveri, gli orfani, i malati, che assisteva e faceva assistere al Re. Per la Scozia non corsero mai anni migliori di quelli passati sotto il governo veramente cristiano di Malcom III e di Margherita, la quale, benvoluta dai sudditi, amata dal marito, venerata dai figli, dedicava tutta la sua vita al bene della sua anima e al benessere degli altri.
Non avendo dolori propri, cercò di lenire quelli degli altri; non avendo disgrazie familiari o dinastiche, cercò di soccorrere gli altri disgraziati, non conoscendo né, miseria né mortificazioni, cercò di consolare i miseri e gli umiliati. E accolse con animo lieto l’unica brutta notizia, che le giunse sul letto di morte. Il marito ed un figlio erano caduti combattendo in una spedizione contro Guglielmo detto il Rosso. A chi, con cautela, cercava di attenuare la crudeltà della notizia, Margherita fece capire di averla già avuta. E ringraziò Dio di quel dolore che le sarebbe servito a scuotere, nelle ultime ore, i peccati di tutta la vita.
Ciò non significava disamore e insensibilità verso il marito e il figlio morti. Ella sperava, anzi ne era certa, di riunirsi a loro, dopo quel doloroso passo, oltre la porta della morte, nella luce della Redenzione.

Fonte: 
Archivio Parrocchia

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15 Novembre : Sant’ Alberto Magno Vescovo e dottore della Chiesa

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Sant’ Alberto Magno Vescovo e dottore della Chiesa

15 novembre – Memoria Facoltativa

Lauingen (Baviera), 1206 circa – Colonia, 15 novembre 1280

Nacque in Germania verso il 1200.
Molto giovane venne in Italia per studiare le arti a Padova e forse anche a Bologna e Venezia. Durante il soggiorno nella penisola conobbe i domenicani, dai quali fu inviato a Colonia per la formazione religiosa e per lo studio della teologia.
Approdò infine a Parigi dove tenne la cattedra di teologia per tre anni, durante i quali ebbe un allievo d’eccezione:Tommaso d’Aquino.
Rimandato dai superiori a Colonia per fondarvi lo studio teologico, portò con sé Tommaso con il quale avviò un progetto molto ambizioso: il commento dell’opera di Dionigi l’Areopagita e degli scritti filosofico­naturali di Aristotele. Alberto vedeva il punto d’incontro di questi due autori nella dottrina dell’anima.
Posta da Dio nell’oscurità dell’essere umano (Dionigi), secondo Aristotele l’anima si esprime nella conoscenza e negli aspetti pratici dell’esistenza umana.In questo agire complesso e meraviglioso, essa svela la sua origine divina. Alberto dava così avvio all’orientamento mistico nel suo ordine che sarà sviluppato da maestro Eckhart, mentre la ricerca filosofico-teologica verrà proseguita da san Tommaso. Grande studioso delle scienze naturali, Alberto non rifuggì dagli incarichi pastorali. Fu provinciale dell’ordine domenicano per il nord della Germania, per breve tempo vescovo di Ratisbona, partecipò al concilio di Lione. Il «dottore universale» morì nel 1280.

Patronato: Scienziati
Etimologia: Alberto = di illustre nobiltà, dal tedesco
Emblema: Bastone pastorale

Martirologio Romano: Sant’Alberto, detto Magno, vescovo e dottore della Chiesa, che, entrato nell’Ordine dei Predicatori, insegnò a Parigi con la parola e con gli scritti filosofia e teologia. Maestro di san Tommaso d’Aquino, riuscì ad unire in mirabile sintesi la sapienza dei santi con il sapere umano e la scienza della natura. Ricevette suo malgrado la sede di Ratisbona, dove si adoperò assiduamente per rafforzare la pace tra i popoli, ma dopo un anno preferì la povertà dell’Ordine a ogni onore e a Colonia in Germania si addormentò piamente nel Signore.
Alberto, della nobile famiglia Bollstadt, prese ancora giovanissimo l’Abito dei Predicatori dalle mani del Beato Giordano di Sassonia, immediato successore del Santo Patriarca Domenico. Dopo aver trionfato nel mondo, al giovane studente sembrò ostacolo insormontabile le difficoltà che incontrava nello studio della Teologia, e fu tentato di fuggire dalla casa del Signore. La Madonna, però, di cui era devotissimo, lo animò a perseverare, rassenerandolo nei suoi timori, dicendogli: “Attendi allo studio della sapienza e affinché non ti avvenga di vacillare nella fede, sul declinare della vita ogni arte di sillogizzare ti sarà tolta”. Sotto la tutela della Celeste Madre, Alberto divenne sapiente in ogni ramo della cultura, sì da essere acclamato Dottore universale e meritare il titolo di Grande, ancor quando era in vita. Insegnò con sommo onore a Parigi e nei vari Studi Domenicani di Germania, soprattutto in quello di Colonia, da lui fondato, dove ebbe tra i suoi discepoli San Tommaso d’Aquino, di cui profetizzò la grandezza. Fu Provinciale di Germania e, nel 1260, Vescovo di Ratisbona, alla cui sede rinunziò per darsi di nuovo all’insegnamento e alla predicazione. Fu arbitro e messaggero di pace in mezzo ai popoli, e al Concilio di Lione portò il contributo della sua sapienza per l’unione della Chiesa Greca con quella Latina. Avanzato negli anni saliva ancora vigoroso la cattedra, ma un giorno, come Maria aveva predetto, la sua memoria si spense. Anelò allora solo al cielo, al quale volò dopo quattro anni, il 15 novembre 1280, consumato dalla divina carità. La sua salma riposa nella chiesa parrocchiale di Sant’Andrea a Colonia. Papa Gregorio XV nel 1622 lo ha beatificato. Papa Pio XI nel 1931 lo ha proclamato Santo e Dottore della Chiesa. Il 16 dicembre 1941 Papa Pio XII lo ha dichiarato Patrono dei cultori delle scienze naturali.

Autore: Franco Mariani

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Holy Mary with Jezus at Byzantine museum – Kerkyra – Corfu

Holy Mary with Jezus at Byzantine museum - Kerkyra - Corfu dans immagini sacre 75989381

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PAPA BENEDETTO: « SE DIO PERDE LA CENTRALITÀ, L’UOMO PERDE IL SUO POSTO GIUSTO »

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« SE DIO PERDE LA CENTRALITÀ, L’UOMO PERDE IL SUO POSTO GIUSTO »

La catechesi del Papa XVI durante l’Udienza Generale di oggi

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 14 novembre 2012 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della catechesi tenuta da papa Benedetto XVI durante l’Udienza Generale del mercoledì, la quale si è svolta questa mattina nell’Aula Paolo VI.
***
Cari fratelli e sorelle,
mercoledì scorso abbiamo riflettuto sul desiderio di Dio che l’essere umano porta nel profondo di se stesso. Oggi vorrei continuare ad approfondire questo aspetto meditando brevemente con voi su alcune vie per arrivare alla conoscenza di Dio. Vorrei ricordare, però, che l’iniziativa di Dio precede sempre ogni iniziativa dell’uomo e, anche nel cammino verso di Lui, è Lui per primo che ci illumina, ci orienta e ci guida, rispettando sempre la nostra libertà. Ed è sempre Lui che ci fa entrare nella sua intimità, rivelandosi e donandoci la grazia per poter accogliere questa rivelazione nella fede. Non dimentichiamo mai l’esperienza di sant’Agostino: non siamo noi a possedere la Verità dopo averla cercata, ma è la Verità che ci cerca e ci possiede.
Tuttavia ci sono delle vie che possono aprire il cuore dell’uomo alla conoscenza di Dio, ci sono dei segni che conducono verso Dio. Certo, spesso rischiamo di essere abbagliati dai luccichii della mondanità, che ci rendono meno capaci di percorrere tali vie o di leggere tali segni. Dio, però, non si stanca di cercarci, è fedele all’uomo che ha creato e redento, rimane vicino alla nostra vita, perché ci ama. E’ questa una certezza che ci deve accompagnare ogni giorno, anche se certe mentalità diffuse rendono più difficile alla Chiesa e al cristiano comunicare la gioia del Vangelo ad ogni creatura e condurre tutti all’incontro con Gesù, unico Salvatore del mondo. Questa, però, è la nostra missione, è la missione della Chiesa e ogni credente deve viverla gioiosamente, sentendola come propria, attraverso un’esistenza animata veramente dalla fede, segnata dalla carità, dal servizio a Dio e agli altri, e capace di irradiare speranza. Questa missione splende soprattutto nella santità a cui tutti siamo chiamati.
Oggi – lo sappiamo – non mancano le difficoltà e le prove per la fede, spesso poco compresa, contestata, rifiutata. San Pietro diceva ai suoi cristiani: «Siate sempre pronti a rispondere, ma con dolcezza e rispetto, a chiunque vi chiede conto della speranza che è nei vostri cuori» (1 Pt 3,15). Nel passato, in Occidente, in una società ritenuta cristiana, la fede era l’ambiente in cui si muoveva; il riferimento e l’adesione a Dio erano, per la maggioranza della gente, parte della vita quotidiana. Piuttosto era colui che non credeva a dover giustificare la propria incredulità. Nel nostro mondo, la situazione è cambiata e sempre di più il credente deve essere capace di dare ragione della sua fede. Il beato Giovanni Paolo II, nell’Enciclica Fides et ratio, sottolineava come la fede sia messa alla prova anche nell’epoca contemporanea, attraversata da forme sottili e capziose di ateismo teorico e pratico (cfr nn. 46-47). Dall’Illuminismo in poi, la critica alla religione si è intensificata; la storia è stata segnata anche dalla presenza di sistemi atei, nei quali Dio era considerato una mera proiezione dell’animo umano, un’illusione e il prodotto di una società già falsata da tante alienazioni. Il secolo scorso poi ha conosciuto un forte processo di secolarismo, all’insegna dell’autonomia assoluta dell’uomo, considerato come misura e artefice della realtà, ma impoverito del suo essere creatura «a immagine e somiglianza di Dio». Nei nostri tempi si è verificato un fenomeno particolarmente pericoloso per la fede: c’è infatti una forma di ateismo che definiamo, appunto, «pratico», nel quale non si negano le verità della fede o i riti religiosi, ma semplicemente si ritengono irrilevanti per l’esistenza quotidiana, staccati dalla vita, inutili. Spesso, allora, si crede in Dio in modo superficiale, e si vive «come se Dio non esistesse» (etsi Deus non daretur). Alla fine, però, questo modo di vivere risulta ancora più distruttivo, perché porta all’indifferenza verso la fede e verso la questione di Dio.
In realtà, l’uomo, separato da Dio, è ridotto a una sola dimensione, quella orizzontale, e proprio questo riduzionismo è una delle cause fondamentali dei totalitarismi che hanno avuto conseguenze tragiche nel secolo scorso, come pure della crisi di valori che vediamo nella realtà attuale. Oscurando il riferimento a Dio, si è oscurato anche l’orizzonte etico, per lasciare spazio al relativismo e ad una concezione ambigua della libertà, che invece di essere liberante finisce per legare l’uomo a degli idoli. Le tentazioni che Gesù ha affrontato nel deserto prima della sua missione pubblica, rappresentano bene quegli «idoli» che affascinano l’uomo, quando non va oltre se stesso. Se Dio perde la centralità, l’uomo perde il suo posto giusto, non trova più la sua collocazione nel creato, nelle relazioni con gli altri. Non è tramontato ciò che la saggezza antica evoca con il mito di Prometeo: l’uomo pensa di poter diventare egli stesso «dio», padrone della vita e della morte.
Di fronte a questo quadro, la Chiesa, fedele al mandato di Cristo, non cessa mai di affermare la verità sull’uomo e sul suo destino. Il Concilio Vaticano II afferma sinteticamente così: «La ragione più alta della dignità dell’uomo consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio. Fin dal suo nascere l’uomo è invitato al dialogo con Dio: non esiste, infatti, se non perché, creato per amore da Dio, da Lui sempre per amore è conservato, né vive pienamente secondo verità se non lo riconosce liberamente e se non si affida al suo Creatore» (Cost. Gaudium et spes, 19).
Quali risposte, allora è chiamata a dare la fede, con «dolcezza e rispetto», all’ateismo, allo scetticismo, all’indifferenza verso la dimensione verticale, affinché l’uomo del nostro tempo possa continuare ad interrogarsi sull’esistenza di Dio e a percorrere le vie che conducono a Lui? Vorrei accennare ad alcune vie, che derivano sia dalla riflessione naturale, sia dalla stessa forza della fede. Le vorrei molto sinteticamente riassumere in tre parole: il mondo, l’uomo, la fede.
La prima: il mondo. Sant’Agostino, che nella sua vita ha cercato lungamente la Verità ed è stato afferrato dalla Verità, ha una bellissima e celebre pagina, in cui afferma così: «Interroga la bellezza della terra, del mare, dell’aria rarefatta e dovunque espansa; interroga la bellezza del cielo…, interroga tutte queste realtà. Tutte ti risponderanno: guardaci pure e osserva come siamo belle. La loro bellezza è come un loro inno di lode. Ora queste creature così belle, ma pur mutevoli, chi le ha fatte se non uno che è la bellezza in modo immutabile?» (Sermo 241, 2: PL 38, 1134). Penso che dobbiamo recuperare e far recuperare all’uomo d’oggi la capacità di contemplare la creazione, la sua bellezza, la sua struttura. Il mondo non è un magma informe, ma più lo conosciamo e più ne scopriamo i meravigliosi meccanismi, più vediamo un disegno, vediamo che c’è un’intelligenza creatrice. Albert Einstein disse che nelle leggi della natura «si rivela una ragione così superiore che tutta la razionalità del pensiero e degli ordinamenti umani è al confronto un riflesso assolutamente insignificante» (Il Mondo come lo vedo io, Roma 2005). Una prima via, quindi, che conduce alla scoperta di Dio è il contemplare con occhi attenti la creazione.
La seconda parola: l’uomo. Sempre sant’Agostino, poi, ha una celebre frase in cui dice che Dio è più intimo a me di quanto lo sia io a me stesso (cfr Confessioni III, 6, 11). Da qui egli formula l’invito: «Non andare fuori di te, rientra in te stesso: nell’uomo interiore abita la verità» (De vera religione, 39, 72). Questo è un altro aspetto che noi rischiamo di smarrire nel mondo rumoroso e dispersivo in cui viviamo: la capacità di fermarci e di guardare in profondità in noi stessi e leggere quella sete di infinito che portiamo dentro, che ci spinge ad andare oltre e rinvia a Qualcuno che la possa colmare. Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma così: «Con la sua apertura alla verità e alla bellezza, con il suo senso del bene morale, con la sua libertà e la voce della coscienza, con la sua aspirazione all’infinito e alla felicità, l’uomo si interroga sull’esistenza di Dio» (n. 33).
La terza parola: la fede. Soprattutto nella realtà del nostro tempo, non dobbiamo dimenticare che una via che conduce alla conoscenza e all’incontro con Dio è la vita della fede. Chi crede è unito a Dio, è aperto alla sua grazia, alla forza della carità. Così la sua esistenza diventa testimonianza non di se stesso, ma del Risorto, e la sua fede non ha timore di mostrarsi nella vita quotidiana, è aperta al dialogo che esprime profonda amicizia per il cammino di ogni uomo, e sa aprire luci di speranza al bisogno di riscatto, di felicità, di futuro. La fede, infatti, è incontro con Dio che parla e opera nella storia e che converte la nostra vita quotidiana, trasformando in noi mentalità, giudizi di valore, scelte e azioni concrete. Non è illusione, fuga dalla realtà, comodo rifugio, sentimentalismo, ma è coinvolgimento di tutta la vita ed è annuncio del Vangelo, Buona Notizia capace di liberare tutto l’uomo. Un cristiano, una comunità che siano operosi e fedeli al progetto di Dio che ci ha amati per primo, costituiscono una via privilegiata per quanti sono nell’indifferenza o nel dubbio circa la sua esistenza e la sua azione. Questo, però, chiede a ciascuno di rendere sempre più trasparente la propria testimonianza di fede, purificando la propria vita perché sia conforme a Cristo. Oggi molti hanno una concezione limitata della fede cristiana, perché la identificano con un mero sistema di credenze e di valori e non tanto con la verità di un Dio rivelatosi nella storia, desideroso di comunicare con l’uomo a tu per tu, in un rapporto d’amore con lui. In realtà, a fondamento di ogni dottrina o valore c’è l’evento dell’incontro tra l’uomo e Dio in Cristo Gesù. Il Cristianesimo, prima che una morale o un’etica, è avvenimento dell’amore, è l’accogliere la persona di Gesù. Per questo, il cristiano e le comunità cristiane devono anzitutto guardare e far guardare a Cristo, vera Via che conduce a Dio.
[Dopo la catechesi, il Papa si è rivolto ai fedeli provenienti dai vari paesi salutandoli nelle diverse lingue. Ai pellegrini italiani ha detto:]
Rivolgo un affettuoso benvenuto ai pellegrini di lingua italiana, in particolare ai gruppi parrocchiali, alle associazioni e agli studenti. Saluto i partecipanti al Forum organizzato da Caritas Internationalis e i missionari, sacerdoti e laici, che prendono parte al corso organizzato dalla Pontificia Università Salesiana: la visita alla Sede di Pietro favorisca in tutti il rinnovamento spirituale e l’impegno nell’evangelizzazione.
Un pensiero infine per i giovani, gli ammalati e gli sposi novelli. Domani celebreremo la memoria di Sant’Alberto Magno, patrono dei cultori delle scienze naturali. Cari giovani, sappiate conciliare lo studio rigoroso con le esigenze della fede; cari ammalati, confidate nell’aiuto della medicina, ma in misura ancora maggiore nella misericordia di Dio; e voi, cari sposi novelli, con l’amore e la stima reciproca testimoniate la bellezza del Sacramento ricevuto.

COMMENTO AD EDITH STEIN: SPIRITUALITA’ DELLA CROCE…

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26/03/2010

COMMENTO AD EDITH STEIN: SPIRITUALITA’ DELLA CROCE…

Essere figli di Dio significa procedere mano nella mano con Dio, fare la volontà del Padre, non la propria, riporre nelle mani di Dio tutti gli affanni e tutte le speranze, non preoccuparsi più di sé e del proprio futuro. Ecco su che riposano la libertà e la letizia dei figli di Dio. Quanti pochi sono, anche tra gli uomini di autentica pietà, anche tra quelli che si sanno sacrificare eroicamente, coloro che le possiedono! Vanno sempre come piegati sotto il peso opprimente dei loro affanni, dei loro doveri. Conosciamo tutti la metafora degli uccelli del cielo e dei gigli del campo. Ma quando si incontra un uomo che non ha un patrimonio, né pensione, né assicurazione, e che tuttavia vive senza preoccuparsi del suo futuro, allora si scuote il capo come su qualcosa di anormale. Certo chi si attendesse dal Padre celeste che gli dia sempre a suo tempo quel reddito e quel sostentamento che lui ritiene auspicabili, avrebbe potuto far male i propri conti. Non a queste condizioni si stipula un patto con Dio. Vivere nell’inconcussa fiducia nel Signore si può solo quando questa comprenda la disponibilità ad accettare dalla mano del Signore qualsiasi cosa. Egli solo sa, cosa ci giovi. E se venisse il tempo in cui il bisogno e la privazione fossero più convenienti di una condizione agiata e sicura, o l’insuccesso e l’umiliazione fossero migliori dell’onore e della considerazione, allora si dovrà essere pronti anche per quello. Se si procede così, allora si può vivere, sgravati dal futuro, dal presente. Il “Fiat volutas tua!” nella sua piena dimensione deve essere la norma di una vita cristiana. Deve regolare il corso della giornata da mane a sera, e il dipanarsi dell’anno, e la vita tutta. Diviene allora anche l’unica preoccupazione del cristiano. Tutte le altre le si è gettate sul Signore, ed egli le ha prese su di sé…Chi appartiene a Cristo deve vivere fino in fondo tutta la vita di Cristo. Deve crescere sino alla maturità di Cristo, deve intraprendere la Via Crucis, deve passare per il Getsemani e il Golgota.
(Edith Stein, Il mistero del Natale)

Ci piace accostare questo splendido passo d Edith Stein con una serie di variazioni sul tema, al di là di ogni sforzo esegetico, ma con fedeltà allo spirito di un testo da cui traspare un’esperienza vissuta, una fede che rompe con la prosaicità delle convenzioni sociali, di cui si alimenta il mito del buon cittadino, dell’uomo onesto, ligio ai propri doveri. Una fede dunque che non decade a strumento per “vivere tranquilli e attraversare felicemente il mondo” (Kierkegaard). Si gioca al cristianesimo: esercizio ludico particolarmente frequente in occasione di alcune festività. Gioco che viene messo da parte quando entrano in scena i presunti problemi reali della vita: assicurarsi un futuro agiato, economicamente garantito, ricco di successi e riconoscimenti. Affidarsi a Dio, senza preoccupazioni per un domani che non ci appartiene, nella consapevolezza che i progetti umani non coincidono, anzi quasi sempre confliggono, con il progetto di Dio. Sia fatta la volontà del Signore: metro di valutazione e criterio ispiratore di ogni azione quotidiana, orizzonte unico di riferimento del proprio essere nel mondo. Gesù Cristo, centro unico dell’esistenza. “In obsequio  Jesu Christi vivere”: una sequela che comporta necessariamente sofferenza, che si fa più acuta laddove il nostro sogno di un mondo intriso di amore e misericordia si infrange sugli scogli del dolore delle vittime e degli innocenti, del trionfo della malvagità. Deus absconditus. Notte oscura, dove ci assale l’angoscia, la tentazione della disperazione, della ribellione. Notte che ci libera dai nostri pregiudizi, dall’immagine di un Dio garante dell’ordine borghese e delle piccole aspirazioni umane. La strada del Calvario continua a marcare il corso della storia: oppressione, miseria, ingiustizia, fame, sofferenza. Ed il cristiano è chiamato a battere questa strada dolorosa con lo sguardo rivolto al Cristo crocifisso. Amico “della passione di Cristo”, crocifisso “interiormente ed esteriormente con Cristo” (S. Giovanni della Croce).
“Gesù crocifisso sia il vostro specchio e la croce il vostro riposo” (s. Maria Maddalena de’ Pazzi). “Un impegno dentro le vicende terrene proiettato verso ‘cieli nuovi e terra nuova’, dentro il qui ed ora della storia, con tutti i suoi conflitti tarlati dal peccato” (D. Buggert).
Un impegno nutrito di preghiera, di contemplazione. Di infinita fiducia in un Dio che non abbandona l’uomo, nonostante le sue infedeltà, i suoi tradimenti, i suoi peccati. Di consegna all’amore di Dio. Di partecipazione alla passione di Cristo: avvenimento cruciale nella storia della salvezza, a partire da cui dare un senso alla sofferenza e alla morte.
“Non c’è vita umana senza sofferenza, non c’è vita umana senza morte. La scelta per noi non è tra una vita in cui c’è sofferenza e una vita senza sofferenza; la scelta è tra una vita in cui cerchiamo di portare e di combattere da soli la sofferenza – e così ci schiaccia -, o una vita in cui la sofferenza nostra è affidata alla Croce di Cristo, vissuta in unione con Lui, sofferenza, questa, reale, ma vittoriosa e feconda. Dio è tanto buono e tanto potente da usare anche la lacerazione e la stortura del male per realizzare qualcosa di più bello, di più perfetto ancora”.(M. Paolinelli)
Camminare ora sulle orme di Cristo, abbracciando la sua croce. “Oggi dietro le sue orme, dobbiamo fare nostra la solidarietà nell’amore con i poveri. Nella partecipazione ai processi storici di liberazione dei poveri-crocifissi della terra è presente la croce di Gesù Cristo” (J. Lois).
Ove manchi questa partecipazione la spiritualità della croce rischia di trasformarsi “in stoicismo, masochismo o, peggio ancora, in alibi per non ripercorrere la via della croce, illudendosi di trovarsi già in essa” (J. Sobrino). La follia della croce che ci apre allo stupore al di là della fredda logica della ragione e “noi, cristiani, abbiamo cessato forse di stupirci: una lunga tradizione degenerata in routine, ha ammantato e addomesticato il mistero che abita pacificamente le nostre strade e le nostre case. Questo segno, sul ciglio della strada, troppo spesso non ci inquieta. Fa parte dei nostri oggetti familiari. Bisognerebbe che ridiventasse il ‘tremendum’ e il ‘fascinosum’ della nostra fede” (S. Breton).
Ed è qui – nella croce di Cristo- che si colloca la rivoluzione di cui ha tanto bisogno un’umanità pietrificata dall’odio e devastata dalla violenza.

Amedeo Guerriere ocds
(Il Castello dell’anima, 31.03.04)

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I Tre Re Magi

I Tre Re Magi dans immagini sacre 20%20AGE%2012%20HUNGARY%20THE%20MAGI

http://www.artbible.net/3JC/-Mat-02,01-The%20magis,%20Les%20mages/1-The%20star-L’etoile/index3.html

Publié dans:immagini sacre |on 13 novembre, 2012 |Pas de commentaires »

IL FIUME E IL DELTA Di Gianfranco Ravasi

www.ufficiocatechisticopotenza.it

(non trovo l’indirizzo web completo, questo è il riferimento)

Di Gianfranco Ravasi

IL FIUME E IL DELTA.

È un’immagine che spesso si usa quando si inizia una ricerca storico-letteraria (e nel nostro caso anche teologica) in un terreno già esplorato e perciò segnato da orme e da piste: si è soliti parlare di una foresta bibliografica. Ebbene, questo simbolo è del tutto pertinente quando ci si mette a scrivere qualcosa sui Vangeli perché alle spalle dello studioso o del semplice appassionato si distende un’immensa selva di libri, di analisi, di approfondimenti, di documenti. Nessun altro testo nella storia dell’umanità, come i quattro libretti dei Vangeli che totalizzano solo 64.327 parole greche, ha sollecitato una simile attenzione dagli esiti molto variegati.
Quello che noi proporremo ora sarà, perciò, solo una pallida sintesi e uno schema scheletrico che deve rimandare a studi ben più ponderosi e compiuti. Per delineare il nostro itinerario ricorreremo a un’altra immagine, quella di un fiume che nasce da una sorgente, si dirama in forma ancora esitante, raggiunge un percorso più placido e solenne, alimentato dalle acque degli affluenti e approda al suo delta conclusivo. Ora, « in principio » è necessario porre la figura di Gesù la cui carta d’identità minima potrebbe essere così definita:
 ad apparirci è, invece, il Cristo glorioso ed è solo lui che deve interessare.
Attorno agli anni ’50 del secolo scorso questo modo di affrontare il problema del rapporto tra Gesù e i Vangeli, detto dagli studiosi l’Old Quest, cioè l’antico modo di far ricerca sul Gesù storico, lasciò spazi o a una New Quest, un nuovo approccio ben più ottimistico sulla possibilità di isolare nei Vangeli componenti storiche riguardanti Gesù di Nazaret. Una delle strade privilegiate fu quella dei cosiddetti « criteri di storicità », cioè di verifica dell’autenticità storica o meno dei vari dati evangelici. Ne citiamo solo due. Il primo è chiamato convenzionalmente il « criterio di discontinuità ». Sono da ritenersi storicamente autentici i dati dei Vangeli che stridono col giudaismo contemporaneo e rivelano un’originalità tale da non poter essere considerati come un semplice prodotto dell’ambito ebraico (ad esempio, la libertà di Gesù nei confronti delle leggi rituali di purità, le persone di dubbia fama che circondano Gesù, il modo autoritativo con cui sceglie i discepoli, a differenza dei maestri giudaici che erano scelti dai discepoli, e così via). Sono da ritenersi storici anche i dati che stridono con le convinzioni della Chiesa delle origini, come, ad esempio, le tentazioni che presentano un Gesù in balìa di Satana, o le debolezze e i tradimenti degli apostoli o il Gesù battezzato da Giovanni, in posizione di inferiorità, tra i peccatori. Tutti questi dati, infatti, non sarebbero mai stati « inventati » dalla comunità cristiana delle origini perché in contrasto con la loro fede e venerazione nei confronti di Cristo. Quindi dovevano appartenere alla realtà storica in quanto tale.
L’altro criterio è opposto ed è quello detto « della continuità »: è da considerare come storicamente autentico un detto o un atto di Gesù qualora esso non sia anacronistico ma conforme con l’epoca o l’ambiente linguistico, geografico, politico, sociale e culturale dello stesso Gesù ma sia anche intimamente coerente col suo insegnamento e con l’immagine generale. È facile intuire che, se i Vangeli dipingessero il fondale della vita e dell’opera di Gesù coi colori e le figure del mondo greco-romano del II secolo, avremmo qualcosa di simile alle famose « Cene » di Gesù dipinte dal Veronese o di altr i artisti in cui Cristo e i suoi commensali sono inseriti in architetture rinascimentali e con particolari occidentali. Il sospetto sul valore storico degli eventi descritti sarebbe più che legittimo. Ebbene, i Vangeli riflettono invece con una buona approssimazione (non dimentichiamo che essi non sono libri storici in senso stretto) lo sfondo topografico e socio-culturale del I secolo.
EQUILIBRIO DECISIVO. L’ambiente sociale (lavoro, abitazioni, professioni, strati della società), religioso (le rivalità teologiche tra il movimento « progressista » dei Farisei e quello « conservatore » e « clericale » dei Sadducei, le tensioni messianiche, il ritualismo, la demonologia…), geografico (le tre regioni palestinesi della Galilea a nord, di Samaria al centro e della Giudea al sud, le città come Gerusalemme, Cafarnao, Nazaret e le conferme dell’archeologia), linguistico (il substrato aramaizzante di certe pagine greche dei Vangeli, i cosiddetti procedimenti mnemonici di una civiltà orale) è ben rappresentato dai Vangeli, senza anacronismi eccessivi e sospetti. Osservava uno studioso canadese, René Latourelle: « Non si saprebbe inventare coi vari pezzi presenti nei Vangeli un insieme di dati così complessi coordinandoli nei particolari in un tessuto a maglie molto fitte. La ragione d’essere di questa fedeltà è nella realtà stessa che la produce ». Le parabole di Gesù sono l’emblema più significativo di questa coerenza non artificiosa. Una coerenza con l’orizzonte del I secolo dimostrata da quella che viene ora denominata come Third Quest, la « terza ricerca » sul Gesù storico, quella attenta a collocare Gesù nel contesto storico ebraico di quel periodo.
Fermiamoci qui perché fin troppo lungo è stato il nostro itinerario, pur nella semplificazione adottata. Ciò che deve rimanere ben fisso nello studio dei Vangeli è un equilibrio molto delicato ma decisivo. Esso è stato formulato nel linguaggio teologico col termine incarnazione sulla scia di quella celebre affermazione del pro logo del vangelo di Giovanni:ho lógos sarx eghéneto, « la Parola divenne carne ». La perfetta trascendenza della Parola creatrice, salvatrice e rivelatrice di Dio entra nella fragilità carnale dell’uomo Gesù di Nazaret, la divinità s’irradia nella storia. Per usare un’immagine del filosofo Soeren Kierkegaard, le due sfere dell’umano e del divino in Gesù Cristo entrano in collisione ma non per un’esplosione di rigetto bensì per un abbraccio. Ed è proprio questa unità che dev’essere correttamente custodita.
Alle origini, dunque, c’è questa figura storica, la sua predicazione e attività pubblica per le strade, i villaggi e le città prima della Gal ilea, la regione settentrionale, e poi della meridionale Giudea, e infine la sua morte a Gerusalemme. Un evento « misterioso » (a livello storico e teologico, ma ovviamente con sensi diversi), la sua risurrezione, dà al fiume il primo impulso che impedisce alle acque di ristagnare o di essere assorbite dal terreno. Esse, infatti, scorrono e quel fluire un po’ variegato tra colline e valli è l’annunzio che i discepoli di Cristo faranno negli anni successivi alla sua morte. È quel kèrygma o « annunzio » essenziale della vita, delle opere, del messaggio, della morte e della risurrezione di Gesù che viene destinato a ebrei e pagani ma che è anche sviluppato in vere e proprie lezioni di catechesi per coloro che hanno già fatto una prima scelta per Cristo. Non si tratta di pura e semplice memoria di atti e di detti: quei ricordi sono, infatti, illuminati dall’esperienza dell’evento della pasqua di Cristo vissuta dalla comunità dei discepoli, un’esperienza che li ha trasformati in veri e propri « apostoli » e testimoni.
Il fiume comincia ad irrobustirsi; fuor di metafora, nascono probabilmente i primi testi scritti, sono quasi dei « protovangeli ». Su di essi possiamo solo formare ipotesi, vagliando i Vangeli terminali a noi giunti e certe macchie omogenee di colore che essi rivelano. Certamente nacque subito un antico racconto della passione-morte-risurrezione di Gesù; si formarono narrazioni sull’infanzia di Gesù, trasfigurate alla luce della fine tragica e gloriosa di quella vita. Secondo molti studiosi sorsero anche alcune collezioni di « detti » – o, come si dice in greco, di lóghia – pronunziati da Cristo. Tra di esse è da menzionare quella che gli esegeti denominano convenzionalmente « fonte Q » (dal tedesco Quelle, cioè « fonte ») e che fu anticipata già agli inizi dell’Ottocento dagli studi sui Vangeli del filosofo tedesco Friedrich Schleiermacher. Questa raccolta di parole di Gesù è da molti considerata come una delle fonti ben identificabili nei primi tre Vangeli. Non manc arono forse anche libretti che elencavano una serie di atti miracolosi di Gesù. E qualche studioso afferma ancora, sulla scia di una convinzione diffusa in passato, l’esistenza anche di una prima edizione del vangelo di Matteo in aramaico, la lingua popolare della Palestina di allora.
Ma ormai stiamo per giungere al delta del fiume: è una foce a quattro bracci. Le acque precedenti vi si convogliano su percorsi differenti, mentre altre onde confluiscono da diversi corsi d’acqua. Siamo giunti ai Vangeli. Tre di essi si organizzano secondo una planimetria piuttosto omogenea, sono i cosiddetti « Vangeli sinottici ». Il termine deriva dal greco e suppone che con uno sguardo (opsis) d’insieme (syn-) i Vangeli di Matteo, Marco e Luca possano essere colti come un trittico parallelo le cui scene sono sostanzialmente omogenee o per lo meno rivelano coincidenze significative. Per spiegare questo fenomeno, detto « questione sinottica », si è ricorsi a decine e decine di ipotesi tra le quali particolare fortuna ebbe la cosiddetta « teoria delle due fonti ». Contrariamente a quanto si riteneva nell’antichità cristiana e nei secoli successivi, il primo Vangelo fu quello di Marco (non quello di Matteo che apre ancora oggi il Nuovo Testamento nelle edizioni ufficiali): non fu, dunque, Marco a sintetizzare Matteo ma furono Matteo e Luca ad ampliare Marco, loro fonte primaria, usando un altro testo di riferimento, la « fonte Q » che abbiamo sopra descritta e che conservava soprattutto parole di Gesù, e altre fonti proprie a Matteo e Luca.

ULTIMO BRACCIO: GIOVANNI. L’ultimo braccio del delta della tradizione di Gesù Cristo è, come noto, il Vangelo di Giovanni che, messo in « sinossi » col trittico Marco-Matteo-Luca, rivela una sua originalità di fonti oltre che diverse redazioni successive. Ebbene, nella tetrade dei Vangeli confluiscono memorie storiche di Gesù e su Gesù che la testimonianza dei primi discepoli, la predicazione cristiana o kèrygma, gli eventuali primi scritti avevano elabor ato, interpretato, arricchito e ampliato. Come ha insegnato una scuola esegetica, detta in tedesco di Redaktionsgeschichte, cioè di « storia della redazione », i singoli evangelisti non ripeterono materialmente i dati ricevuti dalla prima tradizione cristiana, quasi fossero meri compilatori, ma li selezionarono, li adattarono alle comunità a cui li indirizzavano, li ordinarono comportandosi da veri « redattori », li interpretarono secondo le proprie prospettive teologiche. È per questo che il profilo di Gesù Cristo nei quattro Vangeli è sostanzialmente lo stesso ma ha lineamenti nuovi, sottolineature differenti, espressioni inedite secondo ciascun vangelo. È ciò che, ad esempio, aveva già intuito il celebre autore dei Racconti di Canterbury, Geoffrey Chaucer (1340 ca.-1400), quando nel Racconto di Melibeo a proposito della narrazione della passione di Gesù secondo i vari evangelisti, osservava: « Voi sapete che ogni evangelista non ci narra il martirio di Gesù Cristo del tutto nello stesso modo del suo compagno. Eppure tutti i loro racconti sono veri e tutti concordano nel senso che, se pur vi sono discrepanze nel modo del racconto, perché uno dice di più e l’altro di meno nelle pagine che descrivono la sua compassionevole passione, il significato generale è però indubbiamente uno solo ».
GENERE UNICO. A questa osservazione del tutto pertinente dobbiamo aggiungere una nota sulla qualità specifica dei Vangeli. Da un lato, bisogna evitare la Scilli del mito o della pura e semplice teologia, quasi essi siano trattati speculativi; d’altro lato, bisogna schivare la Cariddi della storicità assoluta, quasi che essi siano da ricondurre al genere dei manuali di storiografia o delle biografie scientifiche. Il loro genere letterario è, in un certo senso, unico, il genere detto appunto « vangelo », come lo era quello della stessa predicazione che li precedeva. Essi partono dalla storia di Gesù di Nazaret ma non è alla sua ricostruzione rigorosa che dedicano tutti i loro sforzi (si notano facilmente divergenze di ambientazione, formulazione, trama, dettaglio). Quei dati vengono, infatti, interpretati e compresi nel loro significato più profondo e trascendente. E la luce che riesce a perforare la superficie dei fatti di Gesù per coglierne il valore di rivelazione e di salvezza è la pasqua di Cristo, un evento che ha lasciato dietro di sé tracce storiche ma che appartiene a un altro piano, al di là della storia. Se si tiene ben fissa questa qualità, risulta tutto sommato secondaria la questione cronologica, cioè se Marco sia da collocare attorno al 50 (come vorrebbe l’ipotesi che si affida a una fragile e ipotetica identificazione di una presenza di questo vangelo in una manciata di lettere greche di un papiro, il 7Q5, ritrovato tra i documenti della comunità giudaica di Qumran e databile attorno al 50) oppure se il 70, l’anno del crollo di Gerusalemme sotto le armate imperiali romane di Tito, sia la vera e più probabile discriminante temporale. Nella bassa o nell’alta cronologia vale sempre il fatto che i Vangeli sono preoccupati di assumere la storia per trapassarla e per offrirla elaborata non storiograficamente ma teologicamente.
Ciò non esclude, però, che intensa sia stata la ricerca per isolare nei documenti evangelici, caratterizzati da questo intimo intreccio tra storia e fede, la sostanza storica di Gesù di Nazaret, quella sorgente da cui il fiume ha iniziato il suo complesso percorso. Questa investigazione si era avviata in pieno Illuminismo razionalista e aveva registrato correzioni di tiro, lungo però una traiettoria che aveva alla fine delineato una figura bifronte: da un lato, l’uomo Gesù di Nazaret, essere storico che ha lasciato qualche labile traccia nei documenti romani e giudaici e un’impronta marcata nei Vangeli; d’altro lato, ecco Cristo, figlio di Dio, Messia e Signore, che domina nella pagine neotestamentarie. La domanda fondamentale era una sola: il Gesù storico e il Cristo della fede possono essere accordati in un unic o personaggio oppure il secondo prevarica e offusca il primo?
Una risposta che condizionò molto la successiva ricerca storica e teologica del ’900 fu pronunziata da un professore tedesco, Rudolf Bultmann, docente in un’università di provincia, Marburg, a una novantina di chilometri a nord di Francoforte. Per comprenderla è necessario partire un po’ da lontano e usare termini tedeschi che diverranno comuni nell’esegesi contemporanea. Iniziamo col nome di una « scuola » a cui partecipò anche Bultmann, quella di Formgeschichte. Per illustrarne il metodo ricorriamo a due immagini. Il geologo, quando deve catalogare la sequenza dei « pacchi » di strati di un terreno, deve procedere a un taglio stratigrafico che ne definisca nettamente la successione. Oppure il critico d’arte, quando deve studiare una tela determinando l’elaborazione progressiva del soggetto che su di essa è stato dipinto, può ricorrere anche alla radiografia: essa rivela che sotto la superficie dell’opera finale sono spesso presenti abbozzi o schizzi o varianti. Ebbene, quella « scuola » di ricerca voleva appunto andare al di là della superficie dei Vangeli, cercando di risalire lungo i vari strati, oltre la redazione finale fino alla predicazione dei primi annunziatori del messaggio cristiano e possibilmente fino alla memoria dello stesso Gesù storico.
Il desiderio era proprio quello di approdare alla sorgente, alle parole e alle opere dello stesso Gesù storico. Si cercava, quindi, di delineare la « formazione » (Form) dei Vangeli nella loro storia (Geschichte). Questa formazione si era attuata attraverso il calarsi delle parole e delle opere di Gesù in « forme » (Form) letterarie, simili a piccoli stampi fissi (pensiamo alle parabole, ai racconti di miracoli, ai lóghia, cioè a frasi lapidarie o detti di Gesù, alle polemiche o controversie di Cristo coi suoi avversari e così via). Questa operazione che selezionava e adattava le memorie di Gesù e su Gesù presenti nella cristianità delle origini avvenne, secon do questa « scuola » di studiosi tedeschi sorta ai tempi della Prima Guerra Mondiale, sulla spinta di diversi contesti – chiamati Sitz im Leben, cioè « situazione nella vita » o ambiente vitale – entro cui venivano trasmessi la memoria e il messaggio di Cristo. Per Bultmann si trattava di ambiti popolari, inclini alla creazione di miti e di leggende, pronti a esasperare gli aspetti clamorosi e religiosi, ad adattare e a deformare la vicenda di Gesù secondo le istanze concrete delle varie comunità. Sulla base di queste considerazioni è facile immaginare quale sia stato il risultato dell’investigazione della Formgeschichte e di Bultmann.
LA « NUOVA RICERCA ». Una parete divisoria invalicabile separa dunque secondo Bultmann il Cristo della fede, a noi pienamente disponibile, dal Gesù storico: non sappiamo nulla del « come » egli abbia parlato, amato, vissuto; non sappiamo nulla dei contenuti della sua predicazione e della sua umanità storica; sappiamo solo che Gesù è stato un dato esistente, e questo ci dovrebbe bastare perché i Vangeli vogliono presentare solo a credenti il Cristo della fede e della gloria pasquale, il Figlio di Dio, il Salvatore. Come aveva affermato un collega di Bultmann, Martin Dibelius, « in principio c’era la predicazione », il kèrygma, l’annunzio di fede, e non il Gesù della storia. La sorgente del cristianesimo, allora, non sarebbe nell’ebreo Gesù di Nazaret ma nel Cristo predicato e creduto, nell’annunzio pasquale degli apostoli. Come è evidente, su una via antitetica rispetto a quella dell’Illuminismo razionalista, anche questi teologi protestanti che procedevano su una via di fede, approdavano però allo stesso esito: il Gesù storico ci sfugge ed è secondario;

Publié dans:CAR. GIANFRANCO RAVASI |on 13 novembre, 2012 |Pas de commentaires »

PAPA BENEDETTO: « LA LONGEVITÀ È UNA BENEDIZIONE DI DIO »

http://www.zenit.org/article-33826?l=italian

« LA LONGEVITÀ È UNA BENEDIZIONE DI DIO »

Il Papa visita la Casa-Famiglia della Comunità di Sant’Egidio a Roma, in occasione dell’Anno Europeo dell’invecchiamento attivo e della solidarietà tra le generazioni

CITTA’ DEL VATICANO, lunedì, 12 novembre 2012 (ZENIT.org) – Alle ore 11 di questa mattina, il Santo Padre Benedetto XVI ha visitato la Casa-Famiglia « Viva gli Anziani » della Comunità di Sant’Egidio, al Gianicolo, in occasione dell’Anno Europeo dell’invecchiamento attivo e della solidarietà tra le generazioni.
Al Suo arrivo, il Papa, dopo una breve visita alla struttura residenziale, si è recato nel giardino della Casa-Famiglia dove ha incontrato gli ospiti auto-sufficienti, i volontari e i membri della Comunità di Sant’Egidio. Quindi ha pronunciato il discorso che riportiamo di seguito:
***
Cari fratelli e care sorelle,
sono davvero lieto di essere con voi in questa casa-famiglia della Comunità di Sant’Egidio dedicata agli anziani. Ringrazio il vostro Presidente, Prof. Marco Impagliazzo, per le calorose parole che mi ha rivolto. Con lui, saluto il Prof. Andrea Riccardi, Fondatore della Comunità. Ringrazio della loro presenza il Vescovo ausiliare del Centro storico, Mons. Matteo Zuppi, il Presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia, Mons. Vincenzo Paglia, e tutti gli amici della Comunità di Sant’Egidio.
Vengo tra di voi come Vescovo di Roma, ma anche come anziano in visita ai suoi coetanei. Superfluo dire che conosco bene le difficoltà, i problemi e i limiti di questa età, e so che queste difficoltà, per molti, sono aggravate dalla crisi economica. Talvolta, a una certa età, capita di volgersi al passato, rimpiangendo quando si era giovani, si godeva di energie fresche, si facevano progetti per il futuro. Così lo sguardo, a volte, si vela di tristezza, considerando questa fase della vita come il tempo del tramonto.
Questa mattina, rivolgendomi idealmente a tutti gli anziani, pur nella consapevolezza delle difficoltà che la nostra età comporta, vorrei dirvi con profonda convinzione: è bello essere anziani! In ogni età bisogna saper scoprire la presenza e la benedizione del Signore e le ricchezze che essa contiene. Non bisogna mai farsi imprigionare dalla tristezza! Abbiamo ricevuto il dono di una vita lunga. Vivere è bello anche alla nostra età, nonostante qualche « acciacco » e qualche limitazione. Nel nostro volto ci sia sempre la gioia di sentirci amati da Dio, e non la tristezza.
Nella Bibbia, la longevità è considerata una benedizione di Dio; oggi questa benedizione si è diffusa e deve essere vista come un dono da apprezzare e valorizzare. Eppure spesso la società, dominata dalla logica dell’efficienza e del profitto, non lo accoglie come tale; anzi, spesso lo respinge, considerando gli anziani come non produttivi, inutili.
Tante volte si sente la sofferenza di chi è emarginato, vive lontano dalla propria casa o è nella solitudine. Penso che si dovrebbe operare con maggiore impegno, iniziando dalle famiglie e dalle istituzioni pubbliche, per fare in modo che gli anziani possano rimanere nelle proprie case. La sapienza di vita di cui siamo portatori è una grande ricchezza. La qualità di una società, vorrei dire di una civiltà, si giudica anche da come gli anziani sono trattati e dal posto loro riservato nel vivere comune. Chi fa spazio agli anziani fa spazio alla vita! Chi accoglie gli anziani accoglie la vita!
La Comunità di Sant’Egidio, fin dal suo inizio, ha sorretto il cammino di tanti anziani, aiutandoli a restare nei loro ambienti di vita, aprendo varie case-famiglia a Roma e nel mondo. Mediante la solidarietà tra giovani e anziani, ha aiutato a far comprendere come la Chiesa sia effettivamente famiglia di tutte le generazioni, in cui ognuno deve sentirsi « a casa » e dove non regna la logica del profitto e dell’avere, ma quella della gratuità e dell’amore.
Quando la vita diventa fragile, negli anni della vecchiaia, non perde mai il suo valore e la sua dignità: ognuno di noi, in qualunque tappa dell’esistenza, è voluto, amato da Dio, ognuno è importante e necessario (cfr Omelia per l’inizio del Ministero petrino, 24 aprile 2005).
L’odierna visita si colloca nell’anno europeo dell’invecchiamento attivo e della solidarietà tra generazioni. E proprio in questo contesto desidero ribadire che gli anziani sono un valore per la società, soprattutto per i giovani. Non ci può essere vera crescita umana ed educazione senza un contatto fecondo con gli anziani, perché la loro stessa esistenza è come un libro aperto nel quale le giovani generazioni possono trovare preziose indicazioni per il cammino della vita.
Cari amici, alla nostra età facciamo spesso l’esperienza del bisogno dell’aiuto degli altri; e questo avviene anche per il Papa. Nel Vangelo leggiamo che Gesù disse all’apostolo Pietro: «Quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi» (Gv 21, 18).
Il Signore si riferiva al modo in cui l’Apostolo avrebbe testimoniato la sua fede fino al martirio, ma questa frase ci fa riflettere sul fatto che il bisogno di aiuto è una condizione dell’anziano. Vorrei invitarvi a vedere anche in questo un dono del Signore, perché è una grazia essere sostenuti e accompagnati, sentire l’affetto degli altri! Questo è importante in ogni fase della vita: nessuno può vivere solo e senza aiuto; l’essere umano è relazionale. E in questa casa vedo, con piacere, che quanti aiutano e quanti sono aiutati formano un’unica famiglia, che ha come linfa vitale l’amore.
Cari fratelli e sorelle anziani, talvolta le giornate sembrano lunghe e vuote, con difficoltà, pochi impegni e incontri; non scoraggiatevi mai: voi siete una ricchezza per la società, anche nella sofferenza e nella malattia. E questa fase della vita è un dono anche per approfondire il rapporto con Dio.
L’esempio del Beato Papa Giovanni Paolo II è stato ed è tuttora illuminante per tutti. Non dimenticate che tra le risorse preziose che avete c’è quella essenziale della preghiera: diventate intercessori presso Dio, pregando con fede e con costanza. Pregate per la Chiesa, anche per me, per i bisogni del mondo, per i poveri, perché nel mondo non ci sia più violenza. La preghiera degli anziani può proteggere il mondo, aiutandolo forse in modo più incisivo che l’affannarsi di tanti.
Vorrei affidare oggi alla vostra preghiera il bene della Chiesa e la pace nel mondo. Il Papa vi ama e conta su tutti voi! Sentitevi amati da Dio e sappiate portare in questa nostra società, spesso così individualista ed efficientista, un raggio dell’amore di Dio. E Dio sarà sempre con voi e con quanti vi sostengono con il loro affetto e con il loro aiuto.
Vi affido tutti alla materna intercessione della Vergine Maria, che accompagna sempre il nostro cammino con il suo amore materno, e volentieri imparto a ciascuno la mia Benedizione.
Grazie a tutti voi!
Al termine del discorso, il Papa ha scoperto e benedetto una targa-ricordo della Visita. Quindi, dopo aver salutato i giovani della Comunità di Sant’Egidio, ha lasciato la Casa-Famiglia per rientrare in Vaticano.

Fra Angelico, Coronation of Virgin

Fra Angelico, Coronation of Virgin dans immagini sacre Fra-Angelico-Coronation-of-the-Virgin-2

http://www.patheos.com/blogs/kathyschiffer/2012/04/regina-coeli-queen-of-heaven-2/

 

Publié dans:immagini sacre |on 12 novembre, 2012 |Pas de commentaires »

Un ritratto di Montini oltre i luoghi comuni della tristezza e della sofferenza (del Cardinale Tettamanzi, dal Corriere della Sera, Archivio)

http://archiviostorico.corriere.it/2008/giugno/23/Paolo_Papa_tentato_dalla_gioia_co_9_080623099.shtml

BIOGRAFIE IL CARDINALE TETTAMANZI RIFLETTE SUL SAGGIO DI GISELDA ADORNATO A 30 ANNI DALLA MORTE DEL PONTEFICE

dal: (23 giugno 2008) – Corriere della Sera

Un ritratto di Montini oltre i luoghi comuni della tristezza e della sofferenza

Il cardinale Albino Luciani, in un biglietto del 13 agosto 1978 indirizzato a monsignor Pasquale Macchi, segretario personale di Paolo VI, porge le condoglianze per la morte del Papa – tredici giorni prima di essere eletto suo successore – e scrive: «A Venezia, nel 1972, mi ricordo di averLe detto: « Oggi il Papa non è compreso da tanti; la storia lo metterà in luce, lui e la sua opera »». E aggiunge: «Mi sembra che già la luce su Paolo VI sia cominciata bene». Credo si possa dire oggi, a trent’ anni dalla morte, che quella «luce» intorno alla figura e al magistero del Papa sia andata sempre più ampliandosi perché, in questo periodo, è stato possibile studiare con maggiore documentazione e in una migliore prospettiva storica il suo insegnamento, la sua pastorale e la sua ricchissima spiritualità. Che è poi quanto ha voluto fare Giselda Adornato, offrendoci questa preziosa biografia, sintesi di studi di decenni sulle fonti. In essa, un pontificato che spesso è stato letto per stereotipi e paradossi viene ricostruito nella sua unitarietà e coerenza, senza nasconderne le difficoltà, ma valorizzando il mondo interiore del protagonista e il suo continuo confronto con la storia. In particolare il libro sottolinea che il Papa segue un preciso criterio: quello di verificare le risposte della Chiesa ai bisogni sempre più grandi dell’ umanità sulla misura della sua fedeltà a Cristo. Quello che sembra costituire un aspetto davvero essenziale, dal 1920, anno dell’ ordinazione di Montini, alla morte, è la sua «straordinaria tensione missionaria». L’ ardente volontà di portare Cristo al mondo nelle diverse circostanze in cui Montini viene chiamato nel suo ministero e alle quali spesso si sottomette con umiltà, perché si sentirebbe portato per altro. È quanto emerge in modo limpido e continuo dal libro di Adornato. Battista, come viene chiamato in famiglia, è un ragazzo che, mentre studia privatamente, fa quello che oggi chiameremmo l’ animatore all’ Oratorio della Pace di Brescia e fonda un periodico giovanile; in seguito, prete romano, è educatore degli universitari, e ne verrà allontanato perché vuole costruire un futuro nel rapporto Chiesa-modernità; da diplomatico vaticano – in Segreteria di Stato per trent’ anni! – cerca tutte le strade per esercitare comunque il suo ministero sacerdotale, anche nell’ affanno delle incombenze d’ ufficio; e scrive: «Il debito sempre aperto: amare gli altri». Inviato come arcivescovo nella Milano del «miracolo» economico, è instancabile missionario in tutti gli ambienti e precorre i tempi chiedendo perdono e ascolto ai «fratelli lontani». Eletto Papa, la trasmissione della fede nella sua integrità è la prima preoccupazione che ha e vive con straordinaria passione. Ebbene, la storia di questa vocazione può venire interpretata tutta, come scrive Adornato, con un appunto di pochi giorni successivo l’ elezione a pontefice: «Forse la nostra vita non ha altra più chiara nota che la disciplina dell’ amore al nostro tempo, al nostro mondo, a quante anime abbiamo potuto avvicinare e avvicineremo: ma nella lealtà e nella convinzione che Cristo è necessario e vero» . E per questo avvicinamento agli uomini del suo tempo, Montini sceglie una modalità di evangelizzazione tratta dalla Gaudete in Domino, l’ unico documento ufficiale di un pontefice sulla gioia cristiana. Per Paolo VI la gioia è qualcosa di contagioso, che ha in sé un’ energia di espansione: per questo la gioia diventa per il cristiano un impegno apostolico e missionario nei riguardi degli altri. Già intorno al 1930 don Montini, riflettendo sulla lettera di San Paolo ai Filippesi, scrive: «Il motivo della gioia ritorna frequente, e non per semplice esortazione di formula di convenzionale cortesia, ma piuttosto come indice di un sentimento abituale che tesse anche nelle ore dolorose la psicologia dell’ Apostolo». E trent’ anni più tardi l’ arcivescovo Montini osserva: «Dove Cristo è, c’ è gioia interiore. E la gioia, anche se ci sono mille difficoltà e nemici e pericoli e, se volete, anche sofferenza di fuori, la gioia non viene meno mai». Dalla cattedra di Pietro, durante l’ udienza del 19 maggio 1965, il Papa si rivolge ai fedeli: «Vorremmo che ciascuno di voi, qui e dopo, si sentisse felice. ( ) Un cristiano può mancare di tutto; ma se è il cristiano unito a Dio nella fede e nella carità, non può mancare di gioia». È dunque una gioia dinamica, questa di Montini, che scaturisce dalla scoperta che Dio si piega sui bisogni più veri dell’ uomo. Per elevarla a gaudio, a profonda gioia spirituale, i cristiani devono poi percorrere un percorso inverso: portare gli uomini a Dio. L’ umanità, creata e amata da Dio – spiega Paolo VI – è al centro dell’ interesse della Chiesa, che non è autoreferenziale, interessata solo alla costruzione di se stessa, ma è tutta protesa verso l’ uomo e la sua salvezza: come la natura divina e quella umana di Cristo non si danno l’ una senza l’ altra, così la Chiesa e l’ umanità sono in necessaria correlazione. L’ esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, del 1975, ripete di continuo l’ equivalenza tra gioia cristiana e gioia nello Spirito Santo. Ecco l’ invito e l’ augurio di Paolo VI: «Conserviamo la dolce e confortante gioia d’ evangelizzare, anche quando occorre seminare nelle lacrime. ( ) Sia questa la grande gioia delle nostre vite impegnate. Possa il mondo del nostro tempo, che cerca ora nell’ angoscia, ora nella speranza, ricevere la Buona Novella non da evangelizzatori tristi e scoraggiati, impazienti e ansiosi, ma da ministri del Vangelo, la cui vita irradii fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia del Cristo, e accettino di mettere in gioco la propria vita affinché il Regno sia annunziato e la Chiesa sia impiantata nel cuore del mondo». Questo testo risponde alle domande che Montini si pone da sempre, usando ad esempio la metafora della barca, o della nave, sulla quale noi cristiani siamo imbarcati e che ci porta verso la salvezza Si chiede: e gli altri? Devono restare dei poveri naufraghi? La «barca» che il Papa guida incontrerà cavalloni e burrasche; lui personalmente conoscerà tante fatiche, tante delusioni, tante sofferenze. Riporterà tutto ad un esercizio di purificazione della propria fede e di ulteriore impegno per rafforzarla. Nei suoi appunti personali si vede chiaramente come, anche nei momenti più difficili, Paolo VI si propone sì «parole gravi, atteggiamento deciso e forte», ma pur sempre con «animo fiducioso e sereno», e vuole «infondere nei fratelli la certezza profetica, l’ energia, il coraggio, la letizia, la fede e la speranza e la carità in Cristo Signore». * * * GISELDA ADORNATO Paolo VI. Il coraggio della modernità SAN PAOLO PP. 368, 24 * * * L’ intervento Questo testo è una sintesi del discorso che il cardinale Tettamanzi (foto) tiene oggi a Milano (ore 17.30) al Centro Paolo VI, per commemorare Papa Montini Il saggio Nell’ occasione si presenta il libro di Giselda Adornato «Paolo VI». Intervengono F. G. Brambilla, E. Guerriero e A. Torno

Tettamanzi Dionigi

Publié dans:Cardinali, Papa Paolo VI |on 12 novembre, 2012 |Pas de commentaires »
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