Archive pour novembre, 2012

PAPA BENEDETTO: « UN DIO CHE SI INTERESSA DI NOI »

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« UN DIO CHE SI INTERESSA DI NOI »

La catechesi di Benedetto XVI durante l’Udienza Generale di oggi

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 28 novembre 2012 (ZENIT.org).- Riprendiamo di seguito il testo della catechesi tenuta da papa Benedetto XVI durante la consueta Udienza Generale del mercoledì, svoltasi questa mattina nell’Aula Paolo VI.
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Cari fratelli e sorelle,
La domanda centrale che oggi ci poniamo la seguente: come parlare di Dio nel nostro tempo? Come comunicare il Vangelo, per aprire strade alla sua verità salvifica nei cuori spesso chiusi dei nostri contemporanei e nelle loro menti talvolta distratte dai tanti bagliori della società? Gesù stesso, ci dicono gli Evangelisti, nell’annunciare il Regno di Dio si è interrogato su questo: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo?» (Mc 4,30). Come parlare di Dio oggi? La prima risposta è che noi possiamo parlare di Dio, perché Egli ha parlato con noi. La prima condizione del parlare di Dio è quindi l’ascolto di quanto ha detto Dio stesso. Dio ha parlato con noi! Dio non è quindi una ipotesi lontana sull’origine del mondo; non è una intelligenza matematica molto lontana da noi. Dio si interessa a noi, ci ama, è entrato personalmente nella realtà della nostra storia, si è autocomunicato fino ad incarnarsi. Quindi, Dio è una realtà della nostra vita, è così grande che ha anche tempo per noi, si occupa di noi. In Gesù di Nazaret noi incontriamo il volto di Dio, che è sceso dal suo Cielo per immergersi nel mondo degli uomini, nel nostro mondo, ed insegnare l’«arte di vivere», la strada della felicità; per liberarci dal peccato e renderci figli di Dio (cfr Ef 1,5; Rm 8,14). Gesù è venuto per salvarci e mostrarci la vita buona del Vangelo.
Parlare di Dio vuol dire anzitutto avere ben chiaro ciò che dobbiamo portare agli uomini e alle donne del nostro tempo: non un Dio astratto, una ipotesi, ma un Dio concreto, un Dio che esiste, che è entrato nella storia ed è presente nella storia; il Dio di Gesù Cristo come risposta alla domanda fondamentale del perché e del come vivere. Per questo, parlare di Dio richiede una familiarità con Gesù e il suo Vangelo, suppone una nostra personale e reale conoscenza di Dio e una forte passione per il suo progetto di salvezza, senza cedere alla tentazione del successo, ma seguendo il metodo di Dio stesso. Il metodo di Dio è quello dell’umiltà – Dio si fa uno di noi – è il metodo realizzato nell’Incarnazione nella semplice casa di Nazaret e nella grotta di Betlemme, quello della parabola del granellino di senape. Occorre non temere l’umiltà dei piccoli passi e confidare nel lievito che penetra nella pasta e lentamente la fa crescere (cfr Mt 13,33). Nel parlare di Dio, nell’opera di evangelizzazione, sotto la guida dello Spirito Santo, è necessario un recupero di semplicità, un ritornare all’essenziale dell’annuncio: la Buona Notizia di un Dio che è reale e concreto, un Dio che si interessa di noi, un Dio-Amore che si fa vicino a noi in Gesù Cristo fino alla Croce e che nella Risurrezione ci dona la speranza e ci apre ad una vita che non ha fine, la vita eterna, la vita vera. Quell’eccezionale comunicatore che fu l’apostolo Paolo ci offre una lezione che va proprio al centro della fede del problema « come parlare di Dio » con grande semplicità. Nella Prima Lettera ai Corinzi scrive: «Quando venni tra voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso» (2,1-2). Quindi la prima realtà è che Paolo non parla di una filosofia che lui ha sviluppato, non parla di idee che ha trovato altrove o inventato, ma parla di una realtà della sua vita, parla del Dio che è entrato nella sua vita, parla di un Dio reale che vive, ha parlato con lui e parlerà con noi, parla del Cristo crocifisso e risorto. La seconda realtà è che Paolo non cerca se stesso, non vuole crearsi una squadra di ammiratori, non vuole entrare nella storia come capo di una scuola di grandi conoscenze, non cerca se stesso, ma San Paolo annuncia Cristo e vuole guadagnare le persone per il Dio vero e reale. Paolo parla solo con il desiderio di voler predicare quello che è entrato nella sua vita e che è la vera vita, che lo ha conquistato sulla via di Damasco. Quindi, parlare di Dio vuol dire dare spazio a Colui che ce lo fa conoscere, che ci rivela il suo volto di amore; vuol dire espropriare il proprio io offrendolo a Cristo, nella consapevolezza che non siamo noi a poter guadagnare gli altri a Dio, ma dobbiamo attenderli da Dio stesso, invocarli da Lui. Il parlare di Dio nasce quindi dall’ascolto, dalla nostra conoscenza di Dio che si realizza nella familiarità con Lui, nella vita della preghiera e secondo i Comandamenti.
Comunicare la fede, per san Paolo, non significa portare se stesso, ma dire apertamente e pubblicamente quello che ha visto e sentito nell’incontro con Cristo, quanto ha sperimentato nella sua esistenza ormai trasformata da quell’incontro: è portare quel Gesù che sente presente in sé ed è diventato il vero orientamento della sua vita, per far capire a tutti che Egli è necessario per il mondo ed è decisivo per la libertà di ogni uomo. L’Apostolo non si accontenta di proclamare delle parole, ma coinvolge tutta la propria esistenza nella grande opera della fede. Per parlare di Dio, bisogna fargli spazio, nella fiducia che è Lui che agisce nella nostra debolezza: fargli spazio senza paura, con semplicità e gioia, nella convinzione profonda che quanto più mettiamo al centro Lui e non noi, tanto più la nostra comunicazione sarà fruttuosa. E questo vale anche per le comunità cristiane: esse sono chiamate a mostrare l’azione trasformante della grazia di Dio, superando individualismi, chiusure, egoismi, indifferenza e vivendo nei rapporti quotidiani l’amore di Dio. Domandiamoci se sono veramente così le nostre comunità. Dobbiamo metterci in moto per divenire sempre e realmente così, annunciatori di Cristo e non di noi stessi.
A questo punto dobbiamo domandarci come comunicava Gesù stesso. Gesù nella sua unicità parla del suo Padre – Abbà – e del Regno di Dio, con lo sguardo pieno di compassione per i disagi e le difficoltà dell’esistenza umana. Parla con grande realismo e, direi, l’essenziale dell’annuncio di Gesù è che rende trasparente il mondo e la nostra vita vale per Dio. Gesù mostra che nel mondo e nella creazione traspare il volto di Dio e ci mostra come nelle storie quotidiane della nostra vita Dio è presente. Sia nelle parabole della natura, il grano di senapa, il campo con diversi semi, o nella vita nostra, pensiamo alla parabola del figlio prodigo, di Lazzaro e ad altre parabole di Gesù. Dai Vangeli noi vediamo come Gesù si interessa di ogni situazione umana che incontra, si immerge nella realtà degli uomini e delle donne del suo tempo, con una fiducia piena nell’aiuto del Padre. E che realmente in questa storia, nascostamente, Dio è presente e se siamo attenti possiamo incontrarlo. E i discepoli, che vivono con Gesù, le folle che lo incontrano, vedono la sua reazione ai problemi più disparati, vedono come parla, come si comporta; vedono in Lui l’azione dello Spirito Santo, l’azione di Dio. In Lui annuncio e vita si intrecciano: Gesù agisce e insegna, partendo sempre da un intimo rapporto con Dio Padre. Questo stile diventa un’indicazione essenziale per noi cristiani: il nostro modo di vivere nella fede e nella carità diventa un parlare di Dio nell’oggi, perché mostra con un’esistenza vissuta in Cristo la credibilità, il realismo di quello che diciamo con le parole, che non sono solo parole, ma mostrano la realtà, la vera realtà. E in questo dobbiamo essere attenti a cogliere i segni dei tempi nella nostra epoca, ad individuare cioè le potenzialità, i desideri, gli ostacoli che si incontrano nella cultura attuale, in particolare il desiderio di autenticità, l’anelito alla trascendenza, la sensibilità per la salvaguardia del creato, e comunicare senza timore la risposta che offre la fede in Dio. L’Anno della fede è occasione per scoprire, con la fantasia animata dallo Spirito Santo, nuovi percorsi a livello personale e comunitario, affinché in ogni luogo la forza del Vangelo sia sapienza di vita e orientamento dell’esistenza.
Anche nel nostro tempo, un luogo privilegiato per parlare di Dio è la famiglia, la prima scuola per comunicare la fede alle nuove generazioni. Il Concilio Vaticano II parla dei genitori come dei primi messaggeri di Dio (cfr Cost. dogm.Lumen gentium, 11; Decr. Apostolicam actuositatem, 11), chiamati a riscoprire questa loro missione, assumendosi la responsabilità nell’educare, nell’aprire le coscienze dei piccoli all’amore di Dio come un servizio fondamentale alla loro vita, nell’essere i primi catechisti e maestri della fede per i loro figli. E in questo compito è importante anzitutto la vigilanza, che significa saper cogliere le occasioni favorevoli per introdurre in famiglia il discorso di fede e per far maturare una riflessione critica rispetto ai numerosi condizionamenti a cui sono sottoposti i figli. Questa attenzione dei genitori è anche sensibilità nel recepire le possibili domande religiose presenti nell’animo dei figli, a volte evidenti, a volte nascoste. Poi, la gioia: la comunicazione della fede deve sempre avere una tonalità di gioia. E’ la gioia pasquale, che non tace o nasconde le realtà del dolore, della sofferenza, della fatica, della difficoltà, dell’incomprensione e della stessa morte, ma sa offrire i criteri per interpretare tutto nella prospettiva della speranza cristiana. La vita buona del Vangelo è proprio questo sguardo nuovo, questa capacità di vedere con gli occhi stessi di Dio ogni situazione. È importante aiutare tutti i membri della famiglia a comprendere che la fede non è un peso, ma una fonte di gioia profonda, è percepire l’azione di Dio, riconoscere la presenza del bene, che non fa rumore; ed offre orientamenti preziosi per vivere bene la propria esistenza. Infine, la capacità di ascolto e di dialogo: la famiglia deve essere un ambiente in cui si impara a stare insieme, a ricomporre i contrasti nel dialogo reciproco, che è fatto di ascolto e di parola, a comprendersi e ad amarsi, per essere un segno, l’uno per l’altro, dell’amore misericordioso di Dio.
Parlare di Dio, quindi, vuol dire far comprendere con la parola e con la vita che Dio non è il concorrente della nostra esistenza, ma piuttosto ne è il vero garante, il garante della grandezza della persona umana. Così ritorniamo all’inizio: parlare di Dio è comunicare, con forza e semplicità, con la parola e con la vita, ciò che è essenziale: il Dio di Gesù Cristo, quel Dio che ci ha mostrato un amore così grande da incarnarsi, morire e risorgere per noi; quel Dio che chiede di seguirlo e lasciarsi trasformare dal suo immenso amore per rinnovare la nostra vita e le nostre relazioni; quel Dio che ci ha donato la Chiesa, per camminare insieme e, attraverso la Parola e i Sacramenti, rinnovare l’intera Città degli uomini, affinché possa diventare Città di Dio.
[Dopo la catechesi, il Papa si è rivolto ai fedeli provenienti dai vari paesi salutandoli nelle diverse lingue. Ai pellegrini italiani ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto i sacerdoti, religiosi e seminaristi della Diocesi di Macerata – grazie! – accompagnati dal Vescovo, Mons. Claudio Giuliodori e i Frati Minori della Provincia Siciliana: la visita alle Tombe degli Apostoli sia occasione per un nuovo slancio di fede nelle iniziative pastorali. Sono lieto di accogliere i membri della Corte dei Conti della Repubblica Italiana, nel 150° anniversario di fondazione, e auguro a questa Istituzione un proficuo servizio per il bene comune. Saluto inoltre la delegazione di Cervia per la tradizionale consegna del sale e gli appartenenti all’Associazione Civicrazia.
Rivolgo infine un affettuoso pensiero ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli. Il tempo di Avvento che sta per iniziare sia di stimolo per voi, cari giovani, a riscoprire l’importanza della fede in Cristo; aiuti voi, cari ammalati, ad affrontare le vostre sofferenze con lo sguardo rivolto al Bambino Gesù; accresca in voi, cari sposi novelli, il senso della presenza di Dio nella vostra nuova famiglia.

Mosaique Du Catholicon Ange De L Annonciation Daphni

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Publié dans:immagini sacre |on 27 novembre, 2012 |Pas de commentaires »

LETTURA PER L’AVVENTO: AVVENTO: “LEVATI” MARIA, “CORRI, APRI!”

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AVVENTO: “LEVATI” MARIA, “CORRI, APRI!”

I Domenica di Avvento, 28 novembre 2010 (anno a, da domanica prima di avvento 2012 anno c)

di padre Angelo del Favero*

ROMA, venerdì, 26 novembre 2010 (ZENIT.org).- “In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: “Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finchè venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata. Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo” (Mt 24,37-44).
“Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo” (Mt 24,44): non incutono timore queste parole del Vangelo (e quelle che precedono) se le ascoltiamo riferite alla vergine Maria nel giorno in cui le fu annunziato che il “Verbo della vita” (1 Gv 1,1) si sarebbe fatto carne in Lei, non senza il suo assenso al disegno del Padre.
Questa fu davvero un’ora inimmaginabile per la fanciulla di Nazaret, immensamente sorpresa dall’annunzio più inconcepibile che mente umana potesse pensare: il Figlio di Dio sarebbe stato concepito nel suo grembo verginale per opera della Spirito Santo.
Tale stupefacente iniziativa divina, a quanto sembra, trovò Maria del tutto impreparata: “Come avverrà questo? Non conosco uomo” (Lc 1,34); impreparata, ma pronta.
Sì, perché si può essere pronti anche se impreparati, a ben considerare il duplice modo possibile della vigilanza. Anzitutto la nostra vigilanza può dirsi prossima: quella di chi attende un avvenimento conosciuto (se non quanto al contenuto, almeno come fatto ignoto ed importante che si avvicina); in secondo luogo essa può essere remota, cioè profonda, radicata nella vita: come quella naturale di una mamma nei confronti del suo bambino, vigilanza che il suo amore materno alimenta e tiene desta giorno e notte.
Se in Maria mancò la vigilanza prossima, poiché le era impossibile prevedere il contenuto dell’annunzio celeste, certo non mancò quella remota. Non mancò e da sola fu più che sufficiente, dal momento che la “piena di grazia” attimo dopo attimo si ritrovava perfettamente disposta e pronta ad obbedire alla volontà di Dio, in forza e grazia della purezza del suo cuore verginale abitato solo dal desiderio di amare il Signore “con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6,5).
Tale meravigliosa vigilanza è così cantata da un innamorato della Madonna: “Tutto il mondo è in attesa, prostrato alle tue ginocchia: dalla tua bocca dipende la consolazione dei miseri, la redenzione dei prigionieri, la liberazione dei condannati, la salvezza di tutti i figli di Adamo, di tutto il genere umano (…)Non sia che mentre tu sei titubante, egli passi oltre e tu debba, dolente, ricominciare a cercare colui che ami. Levati su, corri, apri! Levati con la fede, corri con la devozione, apri con il tuo assenso. “Eccomi”, dice, “sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Lc 1,38)” (San Bernardo, “Omelie sulla Madonna”, breviario del Tempo di Avvento).
La triplice esortazione del santo (“levati, corri, apri!”) è una pura contemplazione dell’intima disposizione del cuore di Maria che ci aiuta a comprendere il dinamismo della sua vigilanza silenziosa e nascosta, perfettamente pronta ad accogliere in sé la venuta del Cristo non per una preparazione razionale, ma per l’attitudine profonda del suo essere, della sua persona, del suo cuore.
Al riguardo vi sono due osservazioni da fare.
La prima inerisce all’indole femminile di Maria. La sua vigilanza pronta è anzitutto naturale, essenziale, perché scaturisce dalla sua natura femminile materna. E’ per questo istinto proprio della donna che, quando una mamma nella notte è svegliata dal pianto del suo bambino, subito si alza (levati), si affretta alla culla (corri) e se lo prende tra le braccia per calmarlo (il gesto concreto: apri!). Tutto ciò, in genere, è molto più faticoso per il papà, specie se si deve ripetere varie volte nella notte.
E’ su questo terreno favorevole che si innesta poi la fede di Maria, amplificando al soprannaturale la vigilanza della sua natura così da acconsentire la libera e pronta adesione all’invito dell’Angelo, senza titubanza alcuna. Vediamo infatti che nel dialogo con Gabriele, Maria si leva con la fede: “Eccomi”; corre con la devozione: “sono la serva del Signore”; apre il suo grembo con l’assenso: “avvenga di me quello che hai detto” (Lc 1,38).
La sua domanda “Come avverrà questo?” (Lc 1,34) non esprime un dubbio circa la possibilità di ciò che le viene detto, ma chiede responsabilmente una nuova luce per la ragione. Una volta ottenuta (“Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo”) (Lc 1,35), ella dichiara subito quella disponibilità che già era totalmente presente nel suo cuore. Un po’ come un malato che, prontissimo a farsi operare dal chirurgo, chiede in anticipo a che tipo di intervento sarà sottoposto.
Ci aiuta a comprenderne bene questa vigilanza cooperante di Maria il beato J. H. Newman: “..la Vergine merita il suo posto nel piano della salvezza poiché corrispose attivamente e personalmente alla grazia di Dio. Nel momento del suo concepimento ella era passiva nelle mani creatrici di Dio, ma nel momento dell’Annunciazione, quando divenne la Madre di Dio e della misericordia divina, non fu semplicemente uno strumento fisico passivo, ma causa vivente, responsabile e intelligente del fatto che Dio prendesse carne umana dentro di lei. Se non avesse fatto volontariamente atto di obbedienza e di fede non sarebbe diventata la Madre di Dio” (in “MARIA. Pagine scelte”, p. 60).
Alla Madonna l’Angelo non chiede l’assenso, ma attende quella risposta personale che il mondo intero sollecita “prostrato alla sue ginocchia” (S. Bernardo). Maria è così invitata ad esprimere il “sì” del proprio grembo al concepimento della “Vita invisibile” (1Gv 1,2), un sì che è assenso “in luogo e al posto della natura umana” (San Tommaso, S. Theol. III, q. 30, a. I) alla venuta del Salvatore.
Venendo al Vangelo, vediamo che Gesù accosta oggi il Tempo dell’Avvento al tempo di Noè: “Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito..e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo” (Mt 24,38-39).
Il messaggio per noi è reso ancor più chiaro dall’immagine di Maria incinta, inseparabile dall’Avvento. Come il ventre di una donna all’ottavo mese di gravidanza è segno inequivocabile della presenza del bambino dentro di lei, così l’Avvento è il “sacramento” della presenza viva ed efficace di Dio nel nostro mondo, e della sua venuta continua nella storia, entrambe le cose per mezzo della liturgia e della sua Chiesa.
Quelli che ignorano tale presenza e tale venuta del Signore sono da compiangere più di tutti gli uomini, poiché, non sapendo nemmeno di avere bisogno di un Salvatore, sono nella condizione di coloro che perirono nel diluvio: un racconto, per altro, che non deve far venire in mente la “Protezione Civile”. Infatti: “Per la Sacra Scrittura quell’evento acquista i contorni di un atto di un giudizio divino morale sul peccato umano: il Dio biblico non è indifferente di fronte alla corruzione e all’immoralità. Il diluvio è perciò, secondo questa interpretazione, uno strumento di giudizio secondo la classica teoria della retribuzione per cui ad ogni delitto deve già ora corrispondere un castigo” (G. Ravasi, “150 Risposte. Questioni di fede”, p. 143-144).
Oggi il peccato più di ogni altro abominevole ed emblematico dell’attuale cultura della morte è l’uccisione della vita umana nel grembo. Ogni aborto infatti, anche quando la vita è spuntata da un giorno, è una sorta di distruzione di tutta la storia sacra che Dio ha fatto con l’umanità nel suo Figlio, concepito e nato da Maria, poiché: “lo avete fatto a me” (Mt 25,40).
“Ma l’ultima parola non è quella del giudizio e della morte. Nell’uomo giusto Noè, e nella sua discendenza, si manifesta l’amore del Creatore che fa pace con l’umanità. Sorge così l’aurora di un nuovo mondo e di una nuova storia, ed è per questo che la tradizione cristiana ha riletto l’epopea del diluvio in chiave battesimale, come anticipazione simbolica delle acque che cancellano l’uomo vecchio e fanno rinascere l’uomo nuovo che vive nella giustizia e nella santità”(G. Ravasi, id.).
L’Avvento rivela che quest’aurora del mondo nuovo è la Madre di Gesù, Madre di tutti i viventi, di tutti gli uomini concepiti nel grembo e fuori del grembo. A Lei rivolgiamo la supplica della nostra speranza cristiana: “Santa Maria, Madre di Dio, Madre nostra, insegnaci a credere, sperare e amare con te; indicaci la via verso il Salvatore e guidaci nel nostro cammino!”(Enciclica “Spe Salvi”, n. 50, modificato).
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* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

Papa Benedetto: Omelia del Papa nella Messa con i nuovi cardinali

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« FATEVI IMITATORI DI GESÙ »

Omelia del Papa nella Messa con i nuovi cardinali

CITTA’ DEL VATICANO, domenica, 25 novembre 2012 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito l’omelia tenuta questa mattina da papa Benedetto XVI durante la Messa con i nuovi cardinali, nella Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo.
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Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle!
La solennità odierna di Cristo Re dell’universo, coronamento dell’anno liturgico, si arricchisce dell’accoglienza nel Collegio Cardinalizio di sei nuovi Membri che, secondo la tradizione, ho invitato questa mattina a concelebrare con me l’Eucaristia. A ciascuno di essi rivolgo il mio più cordiale saluto, ringraziando il Cardinale James Michael Harvey per le cortesi parole rivoltemi a nome di tutti. Saluto gli altri Porporati e tutti i Presuli presenti, come pure le distinte Autorità, i Signori Ambasciatori, i sacerdoti, i religiosi e tutti i fedeli, specialmente quelli provenienti dalle Diocesi affidate alla guida pastorale dei nuovi Cardinali.
In quest’ultima domenica dell’anno liturgico la Chiesa ci invita a celebrare il Signore Gesù quale Re dell’universo. Ci chiama a rivolgere lo sguardo al futuro, o meglio in profondità, verso la meta ultima della storia, che sarà il regno definitivo ed eterno di Cristo. Egli era all’inizio con il Padre quando è stato creato il mondo, e manifesterà pienamente la sua signoria alla fine dei tempi, quando giudicherà tutti gli uomini. Le tre Letture di oggi ci parlano di questo regno. Nel brano evangelico che abbiamo ascoltato, tratto dal Vangelo di San Giovanni, Gesù si trova in una situazione umiliante – quella di accusato -, davanti al potere romano. E’ stato arrestato, insultato, schernito, e ora i suoi nemici sperano di ottenerne la condanna al supplizio della croce. L’hanno presentato a Pilato come uno che aspira al potere politico, come il sedicente re dei Giudei. Il procuratore romano compie la sua indagine e interroga Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?» (Gv 18,33). Rispondendo a questa domanda, Gesù chiarisce la natura del suo regno e della sua stessa messianicità, che non è potere mondano, ma amore che serve; Egli afferma che il suo regno non va assolutamente confuso con un qualsiasi regno politico: «Il mio regno non è di questo mondo … non è di quaggiù» (v. 36).
E’ chiaro che Gesù non ha nessuna ambizione politica. Dopo la moltiplicazione dei pani, la gente, entusiasmata dal miracolo, lo voleva prendere per farlo re, per rovesciare il potere romano e stabilire così un nuovo regno politico, che sarebbe stato considerato come il regno di Dio tanto atteso. Ma Gesù sa che il regno di Dio è di tutt’altro genere, non si basa sulle armi e sulla violenza. Ed è proprio la moltiplicazione dei pani che diventa, da un lato, segno della sua messianicità, ma, dall’altro, uno spartiacque nella sua attività: da quel momento il cammino verso la Croce si fa sempre più chiaro; lì, nel supremo atto di amore, risplenderà il regno promesso, il regno di Dio. Ma la folla non comprende, è delusa, e Gesù si ritira sul monte da solo a pregare, a parlare con il Padre (cfr Gv 6,1-15). Nel racconto della Passione vediamo come anche i discepoli, pur avendo condiviso la vita con Gesù e ascoltato le sue parole, pensavano ad un regno politico, instaurato anche con l’aiuto della forza. Nel Getsemani, Pietro aveva sfoderato la sua spada e iniziato a combattere, ma Gesù lo aveva fermato (cfr Gv 18,10-11). Egli non vuole essere difeso con le armi, ma vuole compiere la volontà del Padre fino in fondo e stabilire il suo regno non con le armi e la violenza, ma con l’apparente debolezza dell’amore che dona la vita. Il regno di Dio è un regno completamente diverso da quelli terreni.
Ed è per questo che davanti ad un uomo indifeso, fragile, umiliato, come è Gesù, un uomo di potere come Pilato rimane sorpreso; sorpreso perché sente parlare di un regno, di servitori. E pone una domanda che gli sarà sembrata paradossale: «Dunque tu sei re?». Che tipo di re può essere un uomo in quelle condizioni? Ma Gesù risponde in modo affermativo: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce» (18,37). Gesù parla di re, di regno, ma il riferimento non è al dominio, bensì alla verità. Pilato non comprende: ci può essere un potere che non si ottiene con mezzi umani? Un potere che non risponda alla logica del dominio e della forza? Gesù è venuto per rivelare e portare una nuova regalità, quella di Dio; è venuto per rendere testimonianza alla verità di un Dio che è amore (cfr 1 Gv 4,8.16) e che vuole stabilire un regno di giustizia, di amore e di pace (cfr Prefazio). Chi è aperto all’amore, ascolta questa testimonianza e l’accoglie con fede, per entrare nel regno di Dio.
Questa prospettiva la ritroviamo nella prima Lettura che abbiamo ascoltato. Il profeta Daniele predice il potere di un misterioso personaggio collocato tra cielo e terra: «Ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno: tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto» (7,13-14). Sono parole che prospettano un re che domina da mare a mare fino ai confini della terra, con un potere assoluto che non sarà mai distrutto. Questa visione del Profeta, una visione messianica, viene illuminata e trova la sua realizzazione in Cristo: il potere del vero Messia, potere che non tramonta mai e che non sarà mai distrutto, non è quello dei regni della terra che sorgono e cadono, ma è quello della verità e dell’amore. Con ciò comprendiamo come la regalità annunciata da Gesù nelle parabole e rivelata in modo aperto ed esplicito davanti al Procuratore romano, è la regalità della verità, l’unica che dà a tutte le cose la loro luce e la loro grandezza.
Nella seconda Lettura l’autore dell’Apocalisse afferma che anche noi partecipiamo alla regalità di Cristo. Nell’acclamazione rivolta a «Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue» dichiara che Cristo «ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre» (1,5-6). Anche qui è chiaro che si tratta di un regno fondato sulla relazione con Dio, con la verità, e non di un regno politico. Con il suo sacrificio, Gesù ci ha aperto la strada per un rapporto profondo con Dio: in Lui siamo diventati veri figli adottivi, siamo resi così partecipi della sua regalità sul mondo. Essere discepoli di Gesù significa, allora, non lasciarsi affascinare dalla logica mondana del potere, ma portare nel mondo la luce della verità e dell’amore di Dio. L’autore dell’Apocalisse allarga poi lo sguardo alla seconda venuta di Gesù per giudicare gli uomini e stabilire per sempre il regno divino, e ci ricorda che la conversione, come risposta alla grazia divina, è la condizione per l’instaurazione di questo regno (cfr 1,7). E’ un forte invito rivolto a tutti e a ciascuno: convertirsi sempre di nuovo al regno di Dio, alla signoria di Dio, della Verità, nella nostra vita. Lo invochiamo quotidianamente nella preghiera del « Padre nostro » con le parole « Venga il tuo regno », che è dire a Gesù: Signore facci essere tuoi, vivi in noi, raccogli l’umanità dispersa e sofferente, perché in Te tutto sia sottomesso al Padre della misericordia e dell’amore.
A voi, cari e venerati Fratelli Cardinali – penso in particolare a quelli creati ieri – viene affidata questa impegnativa responsabilità: dare testimonianza al regno di Dio, alla verità. Ciò significa far emergere sempre la priorità di Dio e della sua volontà di fronte agli interessi del mondo e alle sue potenze. Fatevi imitatori di Gesù, il quale, davanti a Pilato, nella situazione umiliante descritta dal Vangelo, ha manifestato la sua gloria: quella di amare sino all’estremo, donando la propria vita per le persone amate. Questa è la rivelazione del regno di Gesù. E per questo, con un cuore solo ed un’anima sola, preghiamo: «Adveniat regnum tuum». Amen.

San Colombano

San Colombano dans immagini sacre

 

Publié dans:immagini sacre |on 23 novembre, 2012 |Pas de commentaires »

Benedetto XVI: San Colombano – 23 novembre, mf

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2008/documents/hf_ben-xvi_aud_20080611_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 11 giugno 2008

San Colombano – 23 novembre, mf

Cari fratelli e sorelle,

oggi vorrei parlare del santo abate Colombano, l’irlandese più noto del primo Medioevo: con buona ragione egli può essere chiamato un santo “europeo”, perché come monaco, missionario e scrittore ha lavorato in vari Paesi dell’Europa occidentale. Insieme agli irlandesi del suo tempo, egli era consapevole dell’unità culturale dell’Europa. In una sua lettera, scritta intorno all’anno 600 ed indirizzata a Papa Gregorio Magno, si trova per la prima volta l’espressione “totius Europae – di tutta l’Europa”, con riferimento alla presenza della Chiesa nel Continente (cfr Epistula I,1).
Colombano era nato intorno all’anno 543 nella provincia di Leinster, nel sud-est dell’Irlanda. Educato nella propria casa da ottimi maestri che lo avviarono allo studio delle arti liberali, si affidò poi alla guida dell’abate Sinell della comunità di Cluain-Inis, nell’Irlanda settentrionale, ove poté approfondire lo studio delle Sacre Scritture. All’età di circa vent’anni entrò nel monastero di Bangor nel nord-est dell’isola, ove era abate Comgall, un monaco ben noto per la sua virtù e il suo rigore ascetico. In piena sintonia col suo abate, Colombano praticò con zelo la severa disciplina del monastero, conducendo una vita di preghiera, di ascesi e di studio. Lì fu anche ordinato sacerdote. La vita a Bangor e l’esempio dell’abate influirono sulla concezione del monachesimo che Colombano maturò col tempo e diffuse poi nel corso della sua vita.
All’età di circa cinquant’anni, seguendo l’ideale ascetico tipicamente irlandese della “peregrinatio pro Christo”, del farsi cioè pellegrino per Cristo, Colombano lasciò l’isola per intraprendere con dodici compagni un’opera missionaria sul continente europeo. Dobbiamo infatti tener presente che la migrazione di popoli dal nord e dall’est aveva fatto ricadere nel paganesimo intere Regioni già cristianizzate. Intorno all’anno 590 questo piccolo drappello di missionari approdò sulla costa bretone. Accolti con benevolenza dal re dei Franchi d’Austrasia (l’attuale Francia), chiesero solo un pezzo di terra incolta. Ottennero l’antica fortezza romana di Annegray, tutta diroccata ed abbandonata, ormai coperta dalla foresta. Abituati ad una vita di estrema rinuncia, i monaci riuscirono entro pochi mesi a costruire sulle rovine il primo eremo. Così, la loro rievangelizzazione iniziò a svolgersi innanzitutto mediante la testimonianza della vita. Con la nuova coltivazione della terra cominciarono anche una nuova coltivazione delle anime. La fama di quei religiosi stranieri che, vivendo di preghiera e in grande austerità, costruivano case e dissodavano la terra, si diffuse celermente attraendo pellegrini e penitenti. Soprattutto molti giovani chiedevano di essere accolti nella comunità monastica per vivere, come loro, questa vita esemplare che rinnovava la coltura della terra e delle anime. Ben presto si rese necessaria la fondazione di un secondo monastero. Fu edificato a pochi chilometri di distanza, sulle rovine di un’antica città termale, Luxeuil. Il monastero sarebbe poi diventato il centro dell’irradiazione monastica e missionaria di tradizione irlandese sul continente europeo. Un terzo monastero fu eretto a Fontaine, un’ora di cammino più a nord.
A Luxeuil Colombano visse per quasi vent’anni. Qui il santo scrisse per i suoi seguaci la Regula monachorum – per un certo tempo più diffusa in Europa di quella di san Benedetto – disegnando l’immagine ideale del monaco. È l’unica antica regola monastica irlandese che oggi possediamo. Come integrazione egli elaborò la Regula coenobialis, una sorta di codice penale per le infrazioni dei monaci, con punizioni piuttosto sorprendenti per la sensibilità moderna, spiegabili soltanto con la mentalità del tempo e dell’ambiente. Con un’altra opera famosa intitolata De poenitentiarum misura taxanda, scritta pure a Luxeuil, Colombano introdusse nel continente la confessione e la penitenza private e reiterate; fu detta penitenza “tariffata” per la proporzione stabilita tra gravità del peccato e tipo di penitenza imposta dal confessore. Queste novità destarono il sospetto dei Vescovi della regione, un sospetto che si tramutò in ostilità quando Colombano ebbe il coraggio di rimproverarli apertamente per i costumi di alcuni di loro. Occasione per il manifestarsi del contrasto fu la disputa circa la data della Pasqua: l’Irlanda seguiva infatti la tradizione orientale in contrasto con la tradizione romana. Il monaco irlandese fu convocato nel 603 a Châlon-sur-Saôn per rendere conto davanti a un sinodo delle sue consuetudini relative alla penitenza e alla Pasqua. Invece di presentarsi al sinodo, egli mandò una lettera in cui minimizzava la questione invitando i Padri sinodali a discutere non solo del problema della data della Pasqua, problema piccolo secondo lui, “ma anche di tutte le necessarie normative canoniche che da molti – cosa più grave – sono disattese” (cfr Epistula II,1). Contemporaneamente scrisse a Papa Bonifacio IV – come qualche anno prima già si era rivolto a Papa Gregorio Magno (cfr Epistula I) – per difendere la tradizione irlandese (cfr Epistula III).
Intransigente come era in ogni questione morale, Colombano entrò poi in conflitto anche con la Casa reale, perché aveva rimproverato aspramente il re Teodorico per le sue relazioni adulterine. Ne nacque una rete di intrighi e manovre a livello personale, religioso e politico che, nell’anno 610, si tradusse in un decreto di espulsione da Luxeuil di Colombano e di tutti i monaci di origine irlandese, che furono condannati ad un definitivo esilio. Furono scortati fino al mare ed imbarcati a spese della corte verso l’Irlanda. Ma la nave si incagliò a poca distanza dalla spiaggia e il capitano, vedendo in ciò un segno del cielo, rinunciò all’impresa e, per paura di essere maledetto da Dio, riportò i monaci sulla terra ferma. Essi, invece di tornare a Luxeuil, decisero di cominciare una nuova opera di evangelizzazione. Si imbarcarono sul Reno e risalirono il fiume. Dopo una prima tappa a Tuggen presso il lago di Zurigo, andarono nella regione di Bregenz presso il lago di Costanza per evangelizzare gli Alemanni.
Poco dopo però Colombano, a causa di vicende politiche poco favorevoli alla sua opera, decise di attraversare le Alpi con la maggior parte dei suoi discepoli. Rimase solo un monaco di nome Gallus; dal suo eremo si sarebbe poi sviluppata la famosa abbazia di Sankt Gallen, in Svizzera. Giunto in Italia, Colombano trovò un’accoglienza benevola presso la corte reale longobarda, ma dovette affrontare subito difficoltà notevoli: la vita della Chiesa era lacerata dall’eresia ariana ancora prevalente tra i longobardi e da uno scisma che aveva staccato la maggior parte delle Chiese dell’Italia settentrionale dalla comunione col Vescovo di Roma. Colombano si inserì con autorevolezza in questo contesto, scrivendo un libello contro l’arianesimo e una lettera a Bonifacio IV per convincerlo a fare alcuni passi decisi in vista di un ristabilimento dell’unità (cfr Epistula V). Quando il re dei longobardi, nel 612 o 613, gli assegnò un terreno a Bobbio, nella valle della Trebbia, Colombano fondò un nuovo monastero che sarebbe poi diventato un centro di cultura paragonabile a quello famoso di Montecassino. Qui giunse al termine dei suoi giorni: morì il 23 novembre 615 e in tale data è commemorato nel rito romano fino ad oggi.
Il messaggio di san Colombano si concentra in un fermo richiamo alla conversione e al distacco dai beni terreni in vista dell’eredità eterna. Con la sua vita ascetica e il suo comportamento senza compromessi di fronte alla corruzione dei potenti, egli evoca la figura severa di san Giovanni Battista. La sua austerità, tuttavia, non è mai fine a se stessa, ma è solo il mezzo per aprirsi liberamente all’amore di Dio e corrispondere con tutto l’essere ai doni da Lui ricevuti, ricostruendo così in sé l’immagine di Dio e al tempo stesso dissodando la terra e rinnovando la società umana. Cito dalle sue Instructiones: “Se l’uomo userà rettamente di quelle facoltà che Dio ha concesso alla sua anima allora sarà simile a Dio. Ricordiamoci che gli dobbiamo restituire tutti quei doni che egli ha depositato in noi quando eravamo nella condizione originaria. Ce ne ha insegnato il modo con i suoi comandamenti. Il primo di essi è quello di amare il Signore con tutto il cuore, perché egli per primo ci ha amato, fin dall’inizio dei tempi, prima ancora che noi venissimo alla luce di questo mondo” (cfr Instr. XI). Queste parole, il Santo irlandese le incarnò realmente nella propria vita. Uomo di grande cultura –scrisse anche poesie in latino e un libro di grammatica – si rivelò ricco di doni di grazia. Fu un instancabile costruttore di monasteri come anche intransigente predicatore penitenziale, spendendo ogni sua energia per alimentare le radici cristiane dell’Europa che stava nascendo. Con la sua energia spirituale, con la sua fede, con il suo amore per Dio e per il prossimo divenne realmente uno dei Padri dell’Europa: egli mostra anche oggi a noi dove stanno le radici dalle quali può rinascere questa nostra Europa.

Omelia XXXIV Domenica del Tempo Ordinario: La solennità di Cristo Re dell’universo

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La solennità di Cristo Re dell’universo

padre Antonio Rungi

XXXIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) – Cristo Re (22/11/2009)

Vangelo: Gv 18,33b-37  

Celebriamo oggi la XXXIV domenica del tempo ordinario, ultima domenica dell’anno liturgico, solennità di Cristo Re dell’universo. La parola di Dio ci porta nel cuore del mistero della sofferenza e dell’amore di Cristo e soprattutto al momento della sua passione, condanna a morte e all’incontro di Gesù con Pilato. Il racconto della passione come ci viene presentato dal quarto vangelo ci descrive un Gesù cosciente della sua missione, della sua regalità, del suo essere per gli altri, per difendere la verità. Anzi egli stesso è la verità. E chi è nella verità si mette dalla parte di Cristo. La regalità di Cristo è una regalità di servizio, donazione, oblazione e il suo regno segue la logica dell’amore e non del potere, della verità e non della menzogna, della bontà e non dell’odio, della giustizia e non della cattiveria e dell’egoismo. Egli offre la sua vita e la dà pienamente, fino a versare tutto il sangue per la nostra salvezza e redenzione. Non è un Re prepotente, dispotico, capace di far soffrire, ma è un Re che soffre e prende su di sé la croce e la sofferenza dell’intera umanità. Esempio di vita per tutti i cristiani, ma soprattutto per quanti occupano posti di potere, hanno una responsabilità, vivono la condizione di chi deve essere guida illuminata per gli altri.
Anche il testo dell’Apocalisse, seconda lettura della solennità odierna ci immerge in questa visione di speranza e fiducia in Gesù Cristo. Egli è Colui che ci ama, che ci ha liberati dalla condizione di peccato, versando il suo sangue per noi. Spesso guardiamo a Dio come il Giudice. Gesù ci rivela il volto misericordioso del Padre e ci rassicura che è primogenito di una nuova umanità, quella redenta mediante il suo sangue e che è indirizzata verso la felicità senza limite. A questo Dio che è amore bisogna elevare l’inno di lode e di ringraziamento, la riconoscenza più piena e duratura di quanto egli ha fatto per noi. Quando verrà a giudicare i vivi è morti egli darà possibilità della conversione e del pentimento a quanti non l’hanno riconosciuto sulla terra, a quanti lo hanno crocifisso e trafitto e continuano a crocifiggerlo con i peccati. Quante cattiverie che offendono Dio e gli uomini. Quante falsità, quanto pseudo bene ed amore che diciamo di volere agli altri in una visione egoistica della nostra vita. L’usa e getta della nostra società, lo sfruttamento della bontà e della generosità, della dolcezza e della tenerezza del cuore di tanti fratelli trovano nel volto del Crocifisso, dell’Ecce Homo la chiave di lettura più autentica per questo nostro tempo e mondo, come lo fu al tempo di Cristo. Gesù che passò beneficando tutti e sanando tutti viene condannato a morte e dall’altare della croce esercita la sua signoria e la sua regalità con l’amore vero. Chi ama sa donare se stesso all’altro, sa rinunciare alle sue personali soddisfazioni e aspettative per far crescere gli altri, sa salire il calvario in silenzio, sa accettare la crocifissione e soprattutto la morte, perché non c’è più grande amore per i fratelli se non quello di dare la vita per loro. Gesù è questo modello di amore e di vero Re e Signore della Storia.
Il profeta Daniele, nella prima lettura di oggi, ci introduce in quelle visioni tipiche di chi dialoga con Dio e guarda oltre il tempo e la storia cogliendo presentando il volto di un mondo e di una realtà futura. Ed egli nel brano di oggi della prima lettura ci dice esattamente cosa vide e come questa visione sia riferita alla figura del Cristo liberatore e del Cristo Re dell’universo, che celebriamo nella giornata di oggi. Cogliamo in questo brano il senso più vero della solennità di oggi e il significato escatologico della regalità di Cristo: il potere dell’amore che Cristo è venuto ad inaugurare sulla terra e che avrà la sua pienezza nell’eternità è il vero potere a cui dobbiamo tutti aspirare. Solo nell’amare e nell’amore trova senso ogni cosa che facciamo nella vita per noi stessi, per gli altri, per la Chiesa e per la società.
Sia questa la nostra sincera preghiera che eleviamo al Signore, molte volte, nella sofferenza e nella fatica di ogni giorno, contrassegnata da tante delusioni e da tanti motivi di abbattimento e scoraggiamento, di ingratitudine e di solitudine: « O Dio, fonte di ogni paternità, che hai mandato il tuo Figlio per farci partecipi del suo sacerdozio regale, illumina il nostro spirito, perché comprendiamo che servire è regnare, e con la vita donata ai fratelli confessiamo la nostra fedeltà al Cristo, primogenito dei morti e dominatore di tutti i potenti della terra ». Amen.

Santa Cecilia in Trastevere, Rome – Statue of St. Cecilia’s incorrupt body sculpted by Stefano Maderno (1610), who was an eyewitness to the exhumation in 1599.

Santa Cecilia in Trastevere, Rome - Statue of St. Cecilia's incorrupt body sculpted by Stefano Maderno (1610), who was an eyewitness to the exhumation in 1599. dans immagini sacre IMG_4704pa40

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22 NOVEMBRE : SANTA CECILIA, VERGINE E MARTIRE

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22 NOVEMBRE : SANTA CECILIA, VERGINE E MARTIRE

Nobile romana.
La festa di santa Cecilia, vergine e martire, è la più popolare fra le feste che si succedono al declinare dell’anno liturgico. Cecilia appartenne ad una delle più illustri famiglie di Roma e nel secolo III fu una delle più grandi benefattrici della Chiesa, per la sua generosità e per il dono che alla Chiesa fece del suo palazzo in Trastevere. Meritò certamente per questo di essere sepolta con onore nel cimitero di san Callisto presso la cripta destinata alla sepoltura dei Papi. Ma ciò che maggiormente contribuì a farla amare dappertutto è il fatto che sul suo ricordo è nato un grazioso racconto, che ha ispirato pittori, musici, poeti e la stessa Liturgia.
Cecilia sarebbe stata costretta a sposare un giovane pagano: Valeriano. Durante il festino nuziale, rallegrata dalle melodie della musica, Cecilia nel suo cuore si univa agli Angeli per cantare le lodi di Dio, al quale si era consacrata. Condannata ad essere bruciata nelle terme del suo palazzo, il fuoco non la toccò e, inviato un carnefice, perché le troncasse la testa, tentò tre volte, facendole tre gravi ferite al collo, ma la lasciò ancora semiviva e l’agonia durò quattro giorni. Fu deposta nella tomba vestita della veste di broccato d’oro, che indossava nel giorno del martirio, il suo palazzo fu trasformato in basilica.

Il culto.
I fedeli non dimenticarono la giovane martire e sappiamo che già nel secolo V essi solevano raccogliersi al titolo di santa Cecilia. Nel secolo VI Cecilia era forse la santa più venerata di Roma e nel secolo nono Papa Pasquale restaurò la sua chiesa. Spiacente di non possedere reliquie della santa, il Papa vide una notte in sogno una giovane bellissima, che gli disse essere il suo corpo molto vicino alla chiesa restaurata. Fatti degli scavi si ritrovò il corpo vestito di broccato e fu collocato in un sarcofago di marmo sotto l’altare della chiesa.
Nel 1559 il cardinale Sfondrati, modificando l’altare, ritrovò il sarcofago e lo fece aprire. I presenti videro un corpo coperto di un leggero velo, che ne lasciava intravvedere le forme e sul quale scintillavano i resti della veste di broccato. Emozione e gioia a Roma furono immense, ma non si osò, per un senso di rispetto, sollevare il velo per rendersi conto delle condizioni della salma venerata. Lo scultore Maderno riprodusse nel marmo, idealizzandola, la positura della santa che evoca l’idea della verginità e del martirio. Da quella data, come canta un inno,  » il corpo riposa sotto il marmo silenzioso, mentre in cielo, sul suo trono, l’anima di Cecilia canta la sua gioia e accoglie con benevolenza i nostri voti ».
E i nostri voti la Chiesa rivolge a santa Cecilia, ricordando il suo nome ogni giorno nel Canone della Messa e cantandolo nelle Litanie dei Santi, in occasione delle suppliche solenni. I musici di ogni regione del mondo la venerano quale patrona, la Francia innalzò in Albi una luminosa cattedrale e nel 1866, Dom Guéranger pose sotto la protezione della santa, modello di verginità cristiana e di puro amore, il primo convento dei Benedettini della Congregazione di san Pietro di Solesmes.

Gli insegnamenti della santa.
La scarsità di notizie storiche non deve sminuire l’amore che dobbiamo serbare per i santi ai quali la Chiesa ha sempre reso un culto, ottenendo costante protezione e grazie importanti nel corso della storia.
« La Chiesa onora in santa Cecilia, diceva Dom Guéranger, tre caratteristiche, che, riunite insieme, la distinguono nella meravigliosa coorte dei santi in cielo e ne fa derivare grazie ed esempi. Le caratteristiche sono la verginità, lo zelo apostolico e il sovrumano coraggio con il quale sfidò la morte e i supplizi e di qui il triplice insegnamento che ci dà questa sola storia cristiana ».

La verginità.
« Nel nostro tempo, ciecamente asservito al culto della sensualità, occorre resistere con le forti lezioni della nostra fede al travolgimento cui a stento riescono a sottrarsi i figli della promessa. Dopo la caduta dell’impero romano si videro forse costumi, famiglia e società correre pericolo così grave?
Letteratura, arti, lusso, già da tempo presentano il godimento fisico come unico scopo dell’uomo e ormai nella società troviamo molti che vivono col solo intento di soddisfare i sensi. Sventurato il giorno in cui la società, per essere salvata, crederà di poter contare sulle energie dei suoi membri! L’impero romano fece l’esperienza, tentò più volte di respingere l’invasione, ma per l’infrollimento dei suoi figli, ricadde su se stesso e non si sollevò più.
Soprattutto è minacciata la famiglia. È tempo che essa pensi alla sua difesa contro il riconoscimento legale e l’incoraggiamento del divorzio, e si difenderà in un modo solo: riformando se stessa, rigenerandosi con la legge di Dio e ritornando dignitosa e cristiana. Torni in onore il matrimonio con le sue caste esigenze, cessi di essere un gioco o una speculazione, paternità e maternità siano serio dovere e non calcolo e, con la famiglia, riprenderanno dignità e vigore la città e lo Stato.
Però, se gli uomini non sapranno apprezzare l’elemento superiore, senza del quale la natura umana è soltanto rovina, cioè la continenza, il matrimonio non potrà di nuovo nobilitarsi. Non tutti sono tenuti ad abbracciarlo nella sua nozione assoluta, ma tutti devono onorarlo, se non vogliono trovarsi in balia del senso mostruoso come dice l’Apostolo (Rm 1,28). La continenza rivela all’uomo il segreto della sua dignità, che tempra l’anima a tutte le rinunce, che risana il cuore ed eleva tutto il suo essere. La continenza è il culmine della bellezza morale dell’individuo e, nello stesso tempo, la grande forza della società umana. Il mondo antico, avendone soffocato il sentimento, andò in dissoluzione e solo il Figlio della Vergine, comparso sulla terra, rinnovando e affermando questo principio salvatore, diede all’umanità nuove energie.
I figli della Chiesa, degni di questo nome, gustano questa dottrina e non ne restano stupiti, perché le parole del Salvatore e degli Apostoli loro hanno rivelato, e la storia della fede che professano in ogni sua pagina presenta loro in atto, la feconda virtù della continenza. che tutti gli stati della vita cristiana devono professare, ciascuno nella sua misura. Per essi santa Cecilia è solo un esempio di più, ma così fulgido da meritare la venerazione di tutti i tempi nella storia del cristianesimo. Quanta virtù ha ispirato Cecilia, quanto coraggio ha saputo infondere e quante debolezze ha prevenute o riparate! Tanta potenza di moralizzazione pose Dio nei suoi santi che influisce non solo attraverso la diretta imitazione delle loro virtù, ma ancora per le induzioni che ciascun fedele può trarne per il suo caso particolare ».

Lo zelo apostolico.
« Il secondo carattere che si deve studiare nella vita di santa Cecilia è l’ardore dello zelo del quale resta ammirabile esempio e anche sotto questo aspetto possiamo raccogliere utili insegnamenti. Caratteristica dell’epoca nostra è l’insensibilità al male del quale non ci sentiamo personalmente responsabili, i cui risultati non ci toccano. Si è daccordo che tutto precipita, si nota il totale sfacelo e non si pensa neppure a tendere la mano al vicino, per strapparlo al naufragio. Dove saremmo, se il cuore dei primi cristiani fosse stato gelido come il nostro e non fosse stato conquiso dall’immensa pietà e dall’inesauribile amore, che loro vietò di non avere più speranza per il mondo in cui Dio li aveva collocati, perché fossero sale della terra? (Mt 5,13). Tutti allora sentivano la responsabilità del dono ricevuto. Liberi o schiavi, persone note o sconosciute, tutti erano oggetto di una dedizione senza limiti da parte di questi cuori pieni della carità di Cristo. Leggendo gli Atti degli Apostoli e le Epistole si vedrà con quale pienezza si sviluppava l’apostolato dei primi tempi e come l’ardore dello zelo durasse a lungo senza affievolirsi, tanto che i pagani dicevano: « Vedete come si amano! ». Come avrebbero potuto non amarsi, se in ordine alla fede si sentivano figli gli uni degli altri?
Quanta tenerezza materna provava Cecilia per i fratelli, per il fatto di essere cristiana! Il nome di Cecilia, e con il suo molti altri, ci testimoniano che il cristianesimo conquistò il mondo, strappandolo al giogo della depravazione pagana, con questi atti di devozione agli altri che, compiuti in mille luoghi nello stesso tempo, produssero un completo rinnovamento. Imitiamo almeno in parte questi esempi cui tutto dobbiamo e vediamo di sciupare meno tempo ed eloquenza a gemere su mali già troppo noti. È meglio che ciascuno si metta all’opera e conquisti uno almeno dei suoi fratelli e il numero dei fedeli avrà già superato quello degli increduli. Lo zelo non è morto, lo sappiamo, opera anzi in molti e dà gioia e conforto alla Chiesa con i suoi frutti; ma perché deve dormire cosi profondamente in tanti cuori che Dio per lo zelo aveva preparati? ».

Il coraggio.
« Basterebbe davvero a caratterizzare l’epoca il generale torpore causato dalla mollezza dei costumi; conviene aggiungere ancora un altro sentimento, che ha la stessa sorgente e basterebbe, se dovesse durare a lungo, a rendere incurabile il decadimento di una nazione. Tale sentimento è la paura che ormai si è estesa a tutti. Paura di perdere i propri beni o i propri posti, paura di rinunciare al proprio lusso o alle proprie comodità, paura infine di perdere la vita! Non occorre dire che nulla snerva di più e maggiormente danneggia il mondo di questa umiliante preoccupazione, ma soprattutto occorre dire che non è affatto cristiana. Dimentichiamo di essere soltanto pellegrini sulla terra e abbiamo spenta nel cuore la speranza dei beni futuri! Cecilia ci insegna a disfarci della paura. Quando Cecilia era viva, la vita era meno sicura di oggi e a ragione si poteva avere paura e tuttavia si era tranquilli e spesso i potenti tremavano davanti alle loro vittime.
Solo Dio sa ciò che ci attende; ma se la paura non è sostituita da un sentimento più degno dell’uomo e del cristiano, la crisi politica divorerà presto la vita dei singoli e perciò, qualsiasi cosa avvenga, è giunta l’ora di ricominciare la nostra storia. Non sarà vano l’insegnamento, se arriveremo a comprendere che con la paura i primi cristiani ci avrebbero traditi, perché la parola di vita non sarebbe giunta fino a noi, con la paura a nostra volta tradiremmo le future generazioni, che da noi attendono di ricevere il deposito ricevuto dai nostri padri » (Dom Guéranger, u. s.).

Lode allo sposo delle vergini. 
« Quale nobile falange ti segue, o Signore, Sposo delle vergini! Le anime di elezione sono tua conquista e dalle loro pure labbra sale a te la lode squisita dei loro cuori ferventi. Non è possibile contarle attraverso i secoli, perché ogni generazione ne accresce il numero, da quelle che consacrano, per amore a te, la loro vita ai poveri, ai malati, ai lebbrosi, e a tutte le miserie morali, a quelle che, per amore tuo, rinunciano alle gioie della famiglia e si consacrano alle scuole cristiane, alle istituzioni benefiche o si mortificano nei chiostri.
Ecco, prime, le vergini particolarmente benemerite, perché sigillarono col sangue il loro amore sui roghi o nelle arene: Blandina, Barbara, Agata, Lucia, Agnese… e Cecilia, che in nome di tutte fece omaggio della loro fortezza e consacrò la gloria della loro virtù, a te, o Gesù, seminator casti consilii (Prima Antifona del secondo Notturno della festa), divino seminatore di casti propositi, che solo, mieti simili spighe, che solo, leghi tali manipoli! ».

Preghiera alla patrona dei musici.
« Una similitudine frequente nei Padri della Chiesa fa dell’anima nostra una sinfonia, un’orchestra, Symphonialis anima. Appena la grazia l’afferra, come il soffio che sotto le dita dell’artista fa vibrare l’organo, si commuove e vibra all’unisono coi pensieri e sentimenti del Salvatore. Ecco il magnifico concerto delle anime pure, che Dio può ascoltare con compiacenza, senza che lo turbi la stonatura delle note false del peccato, né la cacofonia urtante delle bestemmie e dei tradimenti!
Degnati, o Cecilia, ricambiare il nostro omaggio, ottenendoci la costante armonia della nostra volontà con le nostre aspirazioni alla virtù e le nostre possibilità di fare il bene! Degnati convincerci che lo stato di grazia, vita normale del cristiano, non è sola astensione dal male, né avara e fredda osservanza dei comandamenti, ma un’attività piena di gioia e di entusiasmo, che sa dare alla carità e allo zelo tutte le possibilità » (Card. Grente, Oeuvres Oratoires, VIII, p. 17-20).

Preghiera per la Chiesa.
« Aggiungiamo ancora una preghiera per la santa Chiesa di cui fosti umile figlia, prima di esserne speranza e sostegno. Nella notte fitta del secolo presente, lo Sposo tarda ad apparire e nel solenne e misterioso silenzio permette alla vergine di abbandonarsi al sonno fino a quando si farà sentire l’annuncio del suo arrivo (Mt 25,5). Onoriamo il tuo riposo sulla porpora della tua vittoria, o Cecilia!
Sappiamo che non ci dimentichi, perché nel Cantico, lo Sposo dice: Dormo, ma il mio cuore vigila (Ct 5,2).
È vicina l’ora in cui lo Sposo apparirà, chiamando tutti i suoi sotto l’insegna della sua Croce e presto risuonerà il grido: Ecco lo Sposo, uscitegli incontro! (Mt 25,6). Dirai allora, o Cecilia, ai cristiani, come al fedele drappello, che, nell’opera della lotta si è stretto attorno a te: Soldati di Cristo, rigettate le opere delle tenebre, vestite le armi della luce (Atti di santa Cecilia).
La Chiesa, che pronunzia tutti i giorni il tuo nome con amore e con fede durante i santi Misteri, attende con certezza il tuo soccorso, o Cecilia! Sa che l’aiuto non le mancherà. Tu prepara la sua vittoria, elevando i cuori cristiani verso le sole realtà troppo spesso dimenticate. Quando gli uomini ripenseranno alla eternità del nostro destino, sarà assicurata salvezza e pace ai popoli.
Sii sempre, o Cecilia, le delizie dello Sposo! Saziati dell’armonia suprema di cui è sorgente. Veglierai su di noi dalla gloria del cielo e, quando giungerà la nostra ultima ora, assistici, te ne supplichiamo, per i meriti del tuo eroico martirio, assistici sul letto di morte, ricevi l’anima nostra nelle tue braccia, portala al soggiorno immortale, dove ci sarà dato comprendere, vedendo la felicità che ti circonda, il prezzo della verginità, dell’apostolato e del martirio » (Dom Guéranger, Histoire de sainte Cécile, 1849, Conclusione).

da: dom Prosper Guéranger, L’anno liturgico. – II. Tempo Pasquale e dopo la Pentecoste, trad. it. L. Roberti, P. Graziani e P. Suffia, Alba, 1959, p. 1302-1308

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IL BLOG DEL VESCOVO PRIGIONIERO…il vescovo di Shanghai mons. Ma Daqin …

http://www.zenit.org/article-33008?l=italian

IL BLOG DEL VESCOVO PRIGIONIERO

Da tre mesi agli arresti domiciliari per la sua ribellione al potere politico cinese, il vescovo di Shanghai mons. Ma Daqin continua a scrivere sul suo portale

ROMA, sabato, 6 ottobre 2012 (ZENIT.org) – «L’hanno isolato quasi completamente. Il seminario di Sheshan, a poca distanza da Shanghai, è diventata la sua gabbia dorata, dopo che ai seminaristi è stato impedito di rientrare per riprendere l’anno accademico. Dicono che il vescovo sia dimagrito, pallido: speriamo che continui a resistere».
Così una fonte che chiede di restare anonima racconta a MissiOnLine la situazione di mons. Taddeo Ma Daqin, giovane ausiliare di Shanghai (44 anni), da tre mesi agli arresti domiciliari. Il vescovo è stato privato della libertà per punizione contro il suo gesto di ribellione pubblico al potere politico cinese: il 7 luglio scorso, durante la sua ordinazione episcopale, Ma ha avuto il coraggio (o la sfacciataggine, secondo Pechino) di annunciare pubblicamente le dimissioni dall’Associazione patriottica dei cattolici cinesi, l’organismo politico con il quale il Partito comunista controlla la vita della cosiddetta « Chiesa ufficiale » in Cina.
Nella medesima occasione mons. Ma aveva rifiutato l’imposizione delle mani da un vescovo scomunicato presente alla cerimonia per imposizione del governo (mons. Zhan Silu, vescovo di Mindong nel Fujian) e aveva evitato di bere al suo stesso calice, rendendo così evidentissima la presa di distanza da quanti non sono in comunione con il Papa e la volontà di non sottostare alla politica del governo che cerca di « mescolare » il più possibile, in occasione di celebrazioni pubbliche (Messe, ordinazioni sacerdotali ed episcopali), i vescovi legittimi e in comunione col Papa e quelli ordinati senza l’approvazione di Roma.
Le dimissioni dall’Associazione patriottica erano state, a quel punto, la logica conclusione di un atteggiamento di coraggio e resistenza. L’Apcc è indicata apertamente da Benedetto XVI, nella Lettera ai cattolici cinesi del 2007, come un grosso ostacolo al processo di riconciliazione interno della Chiesa cinese e al cammino verso la normalità della vita ecclesiale.
La scelta di abbandonare l’Apcc sta costando al vescovo Ma un isolamento quasi totale. Mandati a casa d’imperio i giovani che vi risiedevano, il seminario è stato svuotato per trasformarsi in « residenza provvisoria » del presule. L’unico contatto con l’esterno è il blog che mons. Ma continua a tenere, naturalmente premurandosi di non toccare argomenti sgraditi al regime. Ecco perché, da letterato e amante della tradizione classica cinese qual è, il vescovo ricorre a citazioni di opere classiche o di autori da lui amati, come nel caso di Simone Weil, filosofa e mistica francese di origine ebrea: in uno degli ultimi articoli pubblicati, mons. Ma presenta alcune riflessioni spirituali sul tema della sofferenza e del dolore proprio da testi di questa grande figura di credente, spesso citata, peraltro, dai « cristiani culturali » cinesi.
In altri casi, il blog di mons. Ma diffonde musica via Internet, « una musica triste che penso voglia esprimere la sofferenza della sua solitudine forzata », azzarda la nostra fonte.
Da quando il suo blog è stato riaperto, il 16 luglio scorso (dopo un black out imposto dalle autorità), il vescovo Ma ha caricato, oltre ad alcuni articoli, il testo di un’opera cinese in 6 scene (da lui composta) su Xu Guangqi e sulla sua amicizia con Matteo Ricci, spiegando di aver voluto così celebrare il 450esimo anniversario della nascita di Xu Guangqi, che cade proprio quest’anno. Alcuni cattolici cinesi – riferisce Asia News – hanno risposto ai suoi articoli inviando il proprio saluto, sostegno e preghiere per il vescovo.
L’ultimo post pubblicato sul blog del vescovo Ma Daqin risale al 21 settembre. Mentre proprio ieri l’agenzia UcaNews ha dato notizia dei «corsi di rieducazione da dodici ore al giorno» cui sono attualmente sottoposti quelli che erano i suoi collaboratori. Chiediamo ai nostri lettori di sostenere la battaglia del vescovo Ma Daqin inviando una mail all’indirizzo della nostra redazione mondoemissione@pimemilano.com con nell’oggetto la frase «SOLIDALI CON IL VESCOVO MA DAQIN».


[Articolo tratto dal sito MissiOnLine, del Pime]

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