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Incontri con Maria
di MARIA DI LORENZO
«Nascesti Dio da un piccolo Ave…»
Giovanni Pascoli: una figura da rivedere sotto il profilo spirituale e letterario.
«E la Terra sentii nell’Universo. / Sentii, fremendo, ch’è del cielo anch’ella. / E mi vidi quaggiù piccolo e sperso / errare, tra le stelle, in una stella». Sono versi, forse tra i meno noti, ma certamente significativi, del maggior poeta italiano di fine Ottocento, Giovanni Pascoli, di cui quest’anno abbiamo ricordato il centenario della morte, che avvenne a Bologna nella primavera del 1912.
Il poeta era nato a San Mauro di Romagna (oggi San Mauro Pascoli, provincia di Forlì-Cesena) il 31 dicembre 1855. Trascorse un’infanzia serena tra la fattoria La Torre dei principi Torlonia, di cui il padre Ruggero era amministratore, e Savignano, dove frequentò le scuole elementari. Dal 1862 studiò nel collegio degli Scolopi a Urbino.
Un grave episodio turbò gli anni della sua pubertà: il 10 agosto 1867 suo padre venne assassinato, per motivi non chiari, da ignoti rimasti sempre impuniti. L’anno successivo moriva di dolore anche la madre e la serie dei lutti familiari sarebbe continuata con la morte, nel giro di breve tempo, della sorella maggiore e di due fratelli. Questi eventi si incisero a lettere di fuoco nella sua anima, dando anche l’imprinting alla sua successiva produzione letteraria.
La morte è il « mistero » per eccellenza di fronte al quale non si può che arretrare turbati e sgomenti per cercare conforto e rifugio in un mondo fatto di piccole cose, piccole gioie domestiche. Da qui allora il tema del « nido », che tanta parte avrà nella sua poesia, ossia degli affetti familiari, della casa, come qualcosa di «caldo, chiuso, segreto, raccolto in una esistenza senza rapporti con l’esterno, ma brulicante di complici intimità di istinti e di affetti viscerali» (Giorgio Bàrberi Squarotti).
Personalità umana e poetica molto complessa, Zvaní – come affettuosamente lo chiamava sua madre – fece assai presto esperienza del male. Quell’assassinio del padre rimasto impunito, la dura lotta per la sopravvivenza, il tradimento e la disillusione degli ideali politici, la consapevolezza che la felicità non viene dalla ricchezza, ma da un senso della vita modesto e riservato. Un modello bucolico antico, se vogliamo, che impregna i suoi primi bellissimi versi, quelli consegnati alla raccolta Myricae, che già dal titolo allude alla semplicità campestre e alla gioia degli umili arbusti, le tamerici di virgiliana memoria.
C’è appunto una poesia di questa raccolta intitolataCeppo, che vede per protagonista Maria, la madre di Gesù, in una notte di freddo e di tristezza: «È mezzanotte. Nevica. Alla pieve / suonano a doppio; suonano l’entrata. / Va la Madonna bianca tra la neve: / spinge una porta; l’apre: era accostata. / Entra nella capanna: la cucina / è piena d’un sentor di medicina. / Un bricco al fuoco s’ode borbottare: / piccolo il ceppo brucia al focolare. // Un gran silenzio. Sono a Messa? Bene. / Gesù trema; Maria si accosta al fuoco. / Ma ecco un suono, un rantolo che viene / di su, sempre più fievole e più roco. / Il bricco versa e sfrigge: la campana, / col vento, or s’avvicina, or s’allontana. / La Madonna, con una mano al cuore, / geme: una mamma, figlio mio, che muore! // E piano piano, col suo bimbo fiso / nel ceppo, torna all’uscio, apre, s’avvia. / Il ceppo sbracia e crepita improvviso, / il bricco versa e sfrigola via via: / quel rantolo… è finito. O Maria stanca! / Bianca tu passi tra la neve bianca». Di fronte alla morte, ancora una volta presente con la dipartita di una mamma, sembra poter far da contraltare allo strazio – quella « scena primaria » che continuamente si riforma nel cuore del poeta – solo l’infinita dolcezza accogliente della Vergine con il suo Bambino. Un argine al dolore del mondo, quel mondo che in X agosto Pascoli chiama «atomo opaco del male». Quel mondo capace solo di distruggere ciò che da lontano pare promettere in termini di felicità e di bellezza.
Nella raccolta di saggi Le mie letture (Rizzoli 1996, pp. 224, ) don Luigi Giussani prende in esame la dimensione poetica di Giovanni Pascoli usando come chiave di lettura la sua ricerca del trascendente.
Di certo non possiamo definire Pascoli un poeta credente, ma sicuramente possiamo dirlo religioso, perché fu un uomo – e un poeta – sempre alla ricerca di un senso altro della vita, consapevole del mistero sotteso alla vita stessa. Tante sue poesie segnano un percorso euristico di immagini e simboli che costantemente alludono al mistero, al dolore dell’esistenza e alla ricerca di un senso alto delle cose.
Sono versi, i suoi, profondamente attraversati da una tensione escatologica ed esprimono lo stato d’animo di un individuo sempre pronto a interrogarsi sui perché della fede alla quale sembra ambire, ma che alla fine non riesce mai a possedere pienamente. Tutto ciò è ben documentato nel saggio dello studioso pascoliano Massimo Castoldi, Le ali novelle del cristianesimo. Nota sui rapporti fra Pascoli e Semeria (in Lo studio, i libri e le dolcezze domestiche. In memoria di Clemente Mazzotta, Fiorini 2010, pp. 873, H 45,00), che mette in luce, a 80 anni dalla scomparsa del barnabita Giovanni Semeria morto in concetto di santità, la sua frequentazione col grande poeta romagnolo e i loro intensi colloqui sul tema della fede che appassionava molto l’inquieto Pascoli, desideroso di certezze ultraterrene.
«È fuori di dubbio – dice Castoldi – che dopo quell’incontro Pascoli intensificò il suo interesse per la figura di Cristo. Non è più il Cristo dei primi anni, anarchico e vittima del potere, ma è portatore di un messaggio di pace e non di contrapposizione». Il Cristo, per intenderci, di Canzone del Paradiso, del 1909, che sarà lì ad attenderci: «Ed Egli, il Dio vero, l’Uomo Dio, soave, / ci dirà pace, ci dirà: Son io».
E in una conferenza dal titolo assai significativo, Esiste un’arte cristiana moderna?, tenuta nel 1902 a Palermo e a Torino, padre Semeria citava brani di Nel carcere di Ginevra e di I due fanciulli per sostenere che «Pascoli, checché ne sia delle sue idee filosofiche, metafisiche, dogmatiche, è stato sempre, anzi è divenuto ognora più cristiano nelle sue tendenze morali, che sono la vera anima della sua poesia».
Il saggio di Castoldi racconta le lettere e gli incontri tra i due, da cui emerge che il poeta non era affatto anticlericale, come sovente si è scritto, e che – aggiungiamo noi – andrebbe rivista la sua figura sia sotto il profilo spirituale che letterario, giacché nonostante la fortuna postuma molti aspetti restano ancora nell’ombra, per cui ora come ora le immagini che più sovente saltano fuori dai nostri ricordi scolastici sono quelle, francamente un po’ melense, della «cavallina storna» o della «rondine caduta tra spini», immagini riduttive di un grande genio letterario che ha aperto la strada al Novecento.
Dalla sua formulazione della poetica del Fanciullino come modo di concepire la poesia discendono alcune conseguenze fondamentali, come la dimensione irrazionale della stessa poesia, il suo scopo sociale nel mondo, la scoperta dell’infanzia e delle piccole cose che fanno dell’atto poetico un mezzo per la diffusione di un messaggio di solidarietà e di amore fra gli uomini.
Così la poesia pascoliana canta di volta in volta l’umile fatica delle «lavandare» con i loro stornelli, la famiglia raccolta attorno al desco, i frulli degli uccelli, l’«aratro dimenticato» in mezzo al campo, il tuono e il lampo… Ma in tutte le immagini sonore e visive ce n’è una che sempre ritorna e sovrasta le altre, in luminosa arrendevolezza: la voce dell’Ave che chiama a raccolta il cuore degli uomini e che al poeta fa scrivere quel verso bellissimo: «E tu nascesti Dio da un piccolo Ave…» (L’Angelus, Primi poemetti), in cui si ricapitola il destino del mondo, nell’irruzione dell’eterno in ogni esistenza umana, anche e soprattutto attraverso il duro nonché comune apprendistato del dolore.
Maria Di Lorenzo