Archive pour le 7 novembre, 2012

The ark of Noah and the cosmic covenant, stavo cercando qualche testo geologico-cristiano suldiluvio, ma non ho trovato niente che mi convincesse

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http://www.artbible.net/1T/Gen0601_Noah_flood/index_3.htm

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«Nascesti Dio da un piccolo Ave…» – Giovanni Pascoli: una figura da rivedere sotto il profilo spirituale e letterario

http://www.stpauls.it/madre/1210md/incontri.htm

Incontri con Maria

di MARIA DI LORENZO

«Nascesti Dio da un piccolo Ave…»

Giovanni Pascoli: una figura da rivedere sotto il profilo spirituale e letterario.

«E la Terra sentii nell’Universo. / Sentii, fremendo, ch’è del cielo anch’ella. / E mi vidi quaggiù piccolo e sperso / errare, tra le stelle, in una stella». Sono versi, forse tra i meno noti, ma certamente significativi, del maggior poeta italiano di fine Ottocento, Giovanni Pascoli, di cui quest’anno abbiamo ricordato il centenario della morte, che avvenne a Bologna nella primavera del 1912.

Il poeta era nato a San Mauro di Romagna (oggi San Mauro Pascoli, provincia di Forlì-Cesena) il 31 dicembre 1855. Trascorse un’infanzia serena tra la fattoria La Torre dei principi Torlonia, di cui il padre Ruggero era amministratore, e Savignano, dove frequentò le scuole elementari. Dal 1862 studiò nel collegio degli Scolopi a Urbino.
Un grave episodio turbò gli anni della sua pubertà: il 10 agosto 1867 suo padre venne assassinato, per motivi non chiari, da ignoti rimasti sempre impuniti. L’anno successivo moriva di dolore anche la madre e la serie dei lutti familiari sarebbe continuata con la morte, nel giro di breve tempo, della sorella maggiore e di due fratelli. Questi eventi si incisero a lettere di fuoco nella sua anima, dando anche l’imprinting alla sua successiva produzione letteraria.
La morte è il « mistero » per eccellenza di fronte al quale non si può che arretrare turbati e sgomenti per cercare conforto e rifugio in un mondo fatto di piccole cose, piccole gioie domestiche. Da qui allora il tema del « nido », che tanta parte avrà nella sua poesia, ossia degli affetti familiari, della casa, come qualcosa di «caldo, chiuso, segreto, raccolto in una esistenza senza rapporti con l’esterno, ma brulicante di complici intimità di istinti e di affetti viscerali» (Giorgio Bàrberi Squarotti).
Personalità umana e poetica molto complessa, Zvaní – come affettuosamente lo chiamava sua madre – fece assai presto esperienza del male. Quell’assassinio del padre rimasto impunito, la dura lotta per la sopravvivenza, il tradimento e la disillusione degli ideali politici, la consapevolezza che la felicità non viene dalla ricchezza, ma da un senso della vita modesto e riservato. Un modello bucolico antico, se vogliamo, che impregna i suoi primi bellissimi versi, quelli consegnati alla raccolta Myricae, che già dal titolo allude alla semplicità campestre e alla gioia degli umili arbusti, le tamerici di virgiliana memoria.

C’è appunto una poesia di questa raccolta intitolataCeppo, che vede per protagonista Maria, la madre di Gesù, in una notte di freddo e di tristezza: «È mezzanotte. Nevica. Alla pieve / suonano a doppio; suonano l’entrata. / Va la Madonna bianca tra la neve: / spinge una porta; l’apre: era accostata. / Entra nella capanna: la cucina / è piena d’un sentor di medicina. / Un bricco al fuoco s’ode borbottare: / piccolo il ceppo brucia al focolare. // Un gran silenzio. Sono a Messa? Bene. / Gesù trema; Maria si accosta al fuoco. / Ma ecco un suono, un rantolo che viene / di su, sempre più fievole e più roco. / Il bricco versa e sfrigge: la campana, / col vento, or s’avvicina, or s’allontana. / La Madonna, con una mano al cuore, / geme: una mamma, figlio mio, che muore! // E piano piano, col suo bimbo fiso / nel ceppo, torna all’uscio, apre, s’avvia. / Il ceppo sbracia e crepita improvviso, / il bricco versa e sfrigola via via: / quel rantolo… è finito. O Maria stanca! / Bianca tu passi tra la neve bianca». Di fronte alla morte, ancora una volta presente con la dipartita di una mamma, sembra poter far da contraltare allo strazio – quella « scena primaria » che continuamente si riforma nel cuore del poeta – solo l’infinita dolcezza accogliente della Vergine con il suo Bambino. Un argine al dolore del mondo, quel mondo che in X agosto Pascoli chiama «atomo opaco del male». Quel mondo capace solo di distruggere ciò che da lontano pare promettere in termini di felicità e di bellezza.

Nella raccolta di saggi Le mie letture (Rizzoli 1996, pp. 224, ) don Luigi Giussani prende in esame la dimensione poetica di Giovanni Pascoli usando come chiave di lettura la sua ricerca del trascendente.
Di certo non possiamo definire Pascoli un poeta credente, ma sicuramente possiamo dirlo religioso, perché fu un uomo – e un poeta – sempre alla ricerca di un senso altro della vita, consapevole del mistero sotteso alla vita stessa. Tante sue poesie segnano un percorso euristico di immagini e simboli che costantemente alludono al mistero, al dolore dell’esistenza e alla ricerca di un senso alto delle cose.
Sono versi, i suoi, profondamente attraversati da una tensione escatologica ed esprimono lo stato d’animo di un individuo sempre pronto a interrogarsi sui perché della fede alla quale sembra ambire, ma che alla fine non riesce mai a possedere pienamente. Tutto ciò è ben documentato nel saggio dello studioso pascoliano Massimo Castoldi, Le ali novelle del cristianesimo. Nota sui rapporti fra Pascoli e Semeria (in Lo studio, i libri e le dolcezze domestiche. In memoria di Clemente Mazzotta, Fiorini 2010, pp. 873, H 45,00), che mette in luce, a 80 anni dalla scomparsa del barnabita Giovanni Semeria morto in concetto di santità, la sua frequentazione col grande poeta romagnolo e i loro intensi colloqui sul tema della fede che appassionava molto l’inquieto Pascoli, desideroso di certezze ultraterrene.
«È fuori di dubbio – dice Castoldi – che dopo quell’incontro Pascoli intensificò il suo interesse per la figura di Cristo. Non è più il Cristo dei primi anni, anarchico e vittima del potere, ma è portatore di un messaggio di pace e non di contrapposizione». Il Cristo, per intenderci, di Canzone del Paradiso, del 1909, che sarà lì ad attenderci: «Ed Egli, il Dio vero, l’Uomo Dio, soave, / ci dirà pace, ci dirà: Son io».
E in una conferenza dal titolo assai significativo, Esiste un’arte cristiana moderna?, tenuta nel 1902 a Palermo e a Torino, padre Semeria citava brani di Nel carcere di Ginevra e di I due fanciulli per sostenere che «Pascoli, checché ne sia delle sue idee filosofiche, metafisiche, dogmatiche, è stato sempre, anzi è divenuto ognora più cristiano nelle sue tendenze morali, che sono la vera anima della sua poesia».
Il saggio di Castoldi racconta le lettere e gli incontri tra i due, da cui emerge che il poeta non era affatto anticlericale, come sovente si è scritto, e che – aggiungiamo noi – andrebbe rivista la sua figura sia sotto il profilo spirituale che letterario, giacché nonostante la fortuna postuma molti aspetti restano ancora nell’ombra, per cui ora come ora le immagini che più sovente saltano fuori dai nostri ricordi scolastici sono quelle, francamente un po’ melense, della «cavallina storna» o della «rondine caduta tra spini», immagini riduttive di un grande genio letterario che ha aperto la strada al Novecento.
Dalla sua formulazione della poetica del Fanciullino come modo di concepire la poesia discendono alcune conseguenze fondamentali, come la dimensione irrazionale della stessa poesia, il suo scopo sociale nel mondo, la scoperta dell’infanzia e delle piccole cose che fanno dell’atto poetico un mezzo per la diffusione di un messaggio di solidarietà e di amore fra gli uomini.
Così la poesia pascoliana canta di volta in volta l’umile fatica delle «lavandare» con i loro stornelli, la famiglia raccolta attorno al desco, i frulli degli uccelli, l’«aratro dimenticato» in mezzo al campo, il tuono e il lampo… Ma in tutte le immagini sonore e visive ce n’è una che sempre ritorna e sovrasta le altre, in luminosa arrendevolezza: la voce dell’Ave che chiama a raccolta il cuore degli uomini e che al poeta fa scrivere quel verso bellissimo: «E tu nascesti Dio da un piccolo Ave…» (L’Angelus, Primi poemetti), in cui si ricapitola il destino del mondo, nell’irruzione dell’eterno in ogni esistenza umana, anche e soprattutto attraverso il duro nonché comune apprendistato del dolore.

Maria Di Lorenzo

Publié dans:Letteratura italiana, Maria Vergine |on 7 novembre, 2012 |Pas de commentaires »

PAPA BENEDETTO: « L’UOMO È, NEL PROFONDO, UN ESSERE RELIGIOSO »

http://www.zenit.org/article-33721?l=italian

« L’UOMO È, NEL PROFONDO, UN ESSERE RELIGIOSO »

La catechesi di Benedetto XVI durante l’Udienza Generale di questa mattina

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 7 novembre 2012 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della catechesi tenuta da papa Benedetto XVI durante l’Udienza Generale del mercoledì, che si è svolta questa mattina in piazza San Pietro.
***
Cari fratelli e sorelle,
il cammino di riflessione che stiamo facendo insieme in quest’Anno della fede ci conduce a meditare oggi su un aspetto affascinante dell’esperienza umana e cristiana: l’uomo porta in sé un misterioso desiderio di Dio. In modo molto significativo, il Catechismo della Chiesa Cattolica si apre proprio con la seguente considerazione: «Il desiderio di Dio è inscritto nel cuore dell’uomo, perché l’uomo è stato creato da Dio e per Dio; e Dio non cessa di attirare a sé l’uomo e soltanto in Dio l’uomo troverà la verità e la felicità che cerca senza posa» (n. 27).
Una tale affermazione, che anche oggi in molti contesti culturali appare del tutto condivisibile, quasi ovvia, potrebbe invece sembrare una provocazione nell’ambito della cultura occidentale secolarizzata. Molti nostri contemporanei potrebbero infatti obiettare di non avvertire per nulla un tale desiderio di Dio. Per larghi settori della società Egli non è più l’atteso, il desiderato, quanto piuttosto una realtà che lascia indifferenti, davanti alla quale non si deve nemmeno fare lo sforzo di pronunciarsi. In realtà, quello che abbiamo definito come «desiderio di Dio» non è del tutto scomparso e si affaccia ancora oggi, in molti modi, al cuore dell’uomo. Il desiderio umano tende sempre a determinati beni concreti, spesso tutt’altro che spirituali, e tuttavia si trova di fronte all’interrogativo su che cosa sia davvero «il» bene, e quindi a confrontarsi con qualcosa che è altro da sé, che l’uomo non può costruire, ma è chiamato a riconoscere. Che cosa può davvero saziare il desiderio dell’uomo?
Nella mia prima Enciclica, Deus caritas est, ho cercato di analizzare come tale dinamismo si realizzi nell’esperienza dell’amore umano, esperienza che nella nostra epoca è più facilmente percepita come momento di estasi, di uscita da sé, come luogo in cui l’uomo avverte di essere attraversato da un desiderio che lo supera. Attraverso l’amore, l’uomo e la donna sperimentano in modo nuovo, l’uno grazie all’altro, la grandezza e la bellezza della vita e del reale. Se ciò che sperimento non è una semplice illusione, se davvero voglio il bene dell’altro come via anche al mio bene, allora devo essere disposto a de-centrarmi, a mettermi al suo servizio, fino alla rinuncia a me stesso. La risposta alla questione sul senso dell’esperienza dell’amore passa quindi attraverso la purificazione e la guarigione del volere, richiesta dal bene stesso che si vuole all’altro. Ci si deve esercitare, allenare, anche correggere, perché quel bene possa veramente essere voluto.
L’estasi iniziale si traduce così in pellegrinaggio, «esodo permanente dall’io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio» (Enc. Deus caritas est, 6). Attraverso tale cammino potrà progressivamente approfondirsi per l’uomo la conoscenza di quell’amore che aveva inizialmente sperimentato. E andrà sempre più profilandosi anche il mistero che esso rappresenta: nemmeno la persona amata, infatti, è in grado di saziare il desiderio che alberga nel cuore umano, anzi, tanto più autentico è l’amore per l’altro, tanto maggiormente esso lascia dischiudere l’interrogativo sulla sua origine e sul suo destino, sulla possibilità che esso ha di durare per sempre. Dunque, l’esperienza umana dell’amore ha in sé un dinamismo che rimanda oltre se stessi, è esperienza di un bene che porta ad uscire da sé e a trovarsi di fronte al mistero che avvolge l’intera esistenza.
Considerazioni analoghe si potrebbero fare anche a proposito di altre esperienze umane, quali l’amicizia, l’esperienza del bello, l’amore per la conoscenza: ogni bene sperimentato dall’uomo protende verso il mistero che avvolge l’uomo stesso; ogni desiderio che si affaccia al cuore umano si fa eco di un desiderio fondamentale che non è mai pienamente saziato. Indubbiamente da tale desiderio profondo, che nasconde anche qualcosa di enigmatico, non si può arrivare direttamente alla fede. L’uomo, in definitiva, conosce bene ciò che non lo sazia, ma non può immaginare o definire ciò che gli farebbe sperimentare quella felicità di cui porta nel cuore la nostalgia. Non si può conoscere Dio a partire soltanto dal desiderio dell’uomo. Da questo punto di vista rimane il mistero: l’uomo è cercatore dell’Assoluto, un cercatore a passi piccoli e incerti. E tuttavia, già l’esperienza del desiderio, del «cuore inquieto» come lo chiamava sant’Agostino, è assai significativa. Essa ci attesta che l’uomo è, nel profondo, un essere religioso (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 28), un «mendicante di Dio». Possiamo dire con le parole di Pascal: «L’uomo supera infinitamente l’uomo» (Pensieri, ed. Chevalier 438; ed. Brunschvicg 434). Gli occhi riconoscono gli oggetti quando questi sono illuminati dalla luce. Da qui il desiderio di conoscere la luce stessa, che fa brillare le cose del mondo e con esse accende il senso della bellezza.
Dobbiamo pertanto ritenere che sia possibile anche nella nostra epoca, apparentemente tanto refrattaria alla dimensione trascendente, aprire un cammino verso l’autentico senso religioso della vita, che mostra come il dono della fede non sia assurdo, non sia irrazionale. Sarebbe di grande utilità, a tal fine, promuovere una sorta di pedagogia del desiderio, sia per il cammino di chi ancora non crede, sia per chi ha già ricevuto il dono della fede. Una pedagogia che comprende almeno due aspetti. In primo luogo, imparare o re-imparare il gusto delle gioie autentiche della vita. Non tutte le soddisfazioni producono in noi lo stesso effetto: alcune lasciano una traccia positiva, sono capaci di pacificare l’animo, ci rendono più attivi e generosi. Altre invece, dopo la luce iniziale, sembrano deludere le attese che avevano suscitato e talora lasciano dietro di sé amarezza, insoddisfazione o un senso di vuoto. Educare sin dalla tenera età ad assaporare le gioie vere, in tutti gli ambiti dell’esistenza – la famiglia, l’amicizia, la solidarietà con chi soffre, la rinuncia al proprio io per servire l’altro, l’amore per la conoscenza, per l’arte, per le bellezze della natura –, tutto ciò significa esercitare il gusto interiore e produrre anticorpi efficaci contro la banalizzazione e l’appiattimento oggi diffusi. Anche gli adulti hanno bisogno di riscoprire queste gioie, di desiderare realtà autentiche, purificandosi dalla mediocrità nella quale possono trovarsi invischiati. Diventerà allora più facile lasciar cadere o respingere tutto ciò che, pur apparentemente attrattivo, si rivela invece insipido, fonte di assuefazione e non di libertà. E ciò farà emergere quel desiderio di Dio di cui stiamo parlando.
Un secondo aspetto, che va di pari passo con il precedente, è il non accontentarsi mai di quanto si è raggiunto. Proprio le gioie più vere sono capaci di liberare in noi quella sana inquietudine che porta ad essere più esigenti – volere un bene più alto, più profondo – e insieme a percepire con sempre maggiore chiarezza che nulla di finito può colmare il nostro cuore. Impareremo così a tendere, disarmati, verso quel bene che non possiamo costruire o procurarci con le nostre forze; a non lasciarci scoraggiare dalla fatica o dagli ostacoli che vengono dal nostro peccato.
A questo proposito, non dobbiamo però dimenticare che il dinamismo del desiderio è sempre aperto alla redenzione. Anche quando esso si inoltra su cammini sviati, quando insegue paradisi artificiali e sembra perdere la capacità di anelare al vero bene. Anche nell’abisso del peccato non si spegne nell’uomo quella scintilla che gli permette di riconoscere il vero bene, di assaporarlo, e di avviare così un percorso di risalita, al quale Dio, con il dono della sua grazia, non fa mancare mai il suo aiuto. Tutti, del resto, abbiamo bisogno di percorrere un cammino di purificazione e di guarigione del desiderio. Siamo pellegrini verso la patria celeste, verso quel bene pieno, eterno, che nulla ci potrà più strappare. Non si tratta, dunque, di soffocare il desiderio che è nel cuore dell’uomo, ma di liberarlo, affinché possa raggiungere la sua vera altezza. Quando nel desiderio si apre la finestra verso Dio, questo è già segno della presenza della fede nell’animo, fede che è una grazia di Dio. Sempre sant’Agostino affermava: «Con l’attesa, Dio allarga il nostro desiderio, col desiderio allarga l’animo e dilatandolo lo rende più capace» (Commento alla Prima lettera di Giovanni, 4,6: PL35, 2009).
In questo pellegrinaggio, sentiamoci fratelli di tutti gli uomini, compagni di viaggio anche di coloro che non credono, di chi è in ricerca, di chi si lascia interrogare con sincerità dal dinamismo del proprio desiderio di verità e di bene. Preghiamo, in questo Anno della fede, perché Dio mostri il suo volto a tutti coloro che lo cercano con cuore sincero. Grazie.
[Dopo la catechesi, il Papa si è rivolto ai fedeli provenienti dai vari paesi salutandoli nelle diverse lingue. Ai pellegrini italiani ha detto:]
E adesso, saluto i pellegrini di lingua italiana, provenienti da Parrocchie, da Scuole e da varie Associazioni di numerose diocesi d’Italia. Saluto in particolare i fedeli di Biancavilla e di Ferentino e i rappresentanti dell’Associazione Nazionale di Polizia Penitenziaria. In questo mese di novembre vi invito a far memoria nella preghiera dei cari defunti, che attendono il conforto della nostra solidarietà spirituale.
E desidero, infine, rivolgermi, come di consueto, ai giovani, ai malati ed agli sposi novelli. Dopodomani celebreremo la festa liturgica della Dedicazione della Basilica di San Giovanni in Laterano, cattedrale di Roma. Questa ricorrenza invita voi, cari giovani, a diventare pietre vive e preziose, impiegate per la costruzione della Casa del Signore. Essa incoraggia voi, cari ammalati, ad offrire a Dio il vostro quotidiano sacrificio per il bene di tutta la comunità cristiana; e spinge voi, cari sposi novelli, a rendere le vostre famiglie piccole chiese domestiche. Grazie.

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