Da Albert Vanhoye SJ, Pietro e Paolo, 227-231. per la festa di San Pietro e Paolo
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Da Albert Vanhoye SJ, Pietro e Paolo, 227-231.
«Ai nostri tempi è specialmente importante approfondire la spiritualità della croce, come la comprendeva s. Paolo: una spiritualità confortante, di cui abbiamo particolarmente bisogno in questi tempi di difficoltà. Viviamo in un mondo secolarizzato e scristianizzato, che si allontana dalla luce del vangelo e torna ai vizi dei pagani vigorosamente condannati, sia da s. Pietro (1Pt 4,3) sia da s. Paolo (Rm 1,21-32; 1Cor 6,9-10; Ef 4,17-19). L’apostolato viene ostacolato da questa atmosfera inquinata; mancano le vocazioni; le difficoltà si moltiplicano. Tutto questo tende a provocare depressione, a diminuire il nostro slancio. San Paolo ci insegna che, al contrario, ciò deve aumentare la nostra fiducia, la nostra sicurezza, anzi il nostro orgoglio cristiano, «il vanto», come egli dice. Si tratta però di una lezione che san Paolo ricevette lui stesso, e non senza resistenza, prima di insegnarla a noi; una lezione che non si aspettava. Lo vediamo bene in 2Cor 12,7-10. Fra le numerose confidenze che Paolo fece ai suoi cristiani sulla sua vita spirituale, questa è la più intima. L’Apostolo ci rivela come Gesù stesso abbia guidato la sua educazione in un periodo molto difficile, e su un punto particolarmente sensibile. […]. In 2Cor 12 Paolo, nei primi versetti, per mostrare che egli valeva più dei suoi rivali in apostolato ha riferito «visioni e rivelazioni del Signore». Poi in 2Cor 12,7, prosegue: «Perché non montassi in superbia per la sublimità delle rivelazioni, mi fu messa una scheggia nella carne: un inviato di satana, incaricato di schiaffeggiarmi, perché non montassi in superbia». Una situazione fortemente umiliante e deprimente per l’Apostolo. […] Una situazione molto contrariante, una situazione orribile, per un apostolo tanto ardente. Paolo, quindi, ricorse alla preghiera. Egli scrive: «A causa di questo, per tre volte ho pregato il Signore affinché l’allontanasse da me». Una preghiera insistente, perseverante, come la preghiera di Gesù nell’agonia. Per ben tre volte, Paolo si è rivolto al Signore Gesù e l’ha pregato di allontanare questo ostacolo. La risposta non è stata quella che aspettava e desiderava. Il Signore rispose, infatti: «Ti basta la mia grazia», il che significava che Paolo non sarebbe stato liberato da questa prova tanto penosa, che gli sembrava molto nociva per il suo apostolato. Il Signore aggiunse: «La potenza, infatti, si compie nella debolezza»: un paradosso, qui espresso da Gesù stesso. Nella frase il verbo greco tradotto «si compie» è lo stesso che troviamo sulle labbra di Gesù al Calvario: «È compiuto» (Gv 19,30), ultima parola di Gesù al momento della sua morte. La potenza arriva al suo compimento nella debolezza: questa è la spiritualità della croce. Poco dopo Paolo dirà che Cristo è stato crocifisso per debolezza: «Infatti Egli fu crocifisso per la sua debolezza» (13,4). La croce è l’esempio più manifesto di una vittoria che prende l’apparenza di una completa sconfitta: è difficile immaginare una sconfitta più vistosa della croce di Gesù; sembrava veramente che tutto fosse finito in senso negativo, perché Gesù moriva condannato, giustiziato, rigettato, la sua opera sembrava definitivamente rovinata. L’apparenza, però, era completamente menzognera, perché la croce è la vittoria su tutte le forze del male, ottenuta non per mezzo della repressione, ma per mezzo della sovrabbondanza dell’amore: «Non lasciarti vincere dal male», dice Paolo nella Lettera ai Romani, «ma vinci il male per mezzo del bene» (Rm 12,21). Questa sua esortazione si ispira alla vittoria della croce: vincere la morte e il male con la sovrabbondanza dell’amore. Non era possibile ottenere una vittoria così completa con altri mezzi, perché per vincere il male radicalmente occorre affrontare il male senza le armi del male».

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