Contro una morale di plastica
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Contro una morale di plastica
«Stiamo piegando i valori etici alle esigenze della vita sociale,
ma questo impedisce di distinguere fra bene e male».
Sergio Belardinelli
(« Avvenire », 9/6/’07)
Il Dio di Abramo e di Gesù Cristo è soprattutto un Dio che ama. « Deus caritas est ». Non è dunque un Dio che guarda il mondo con indifferenza, un giudice severo e inflessibile, un Dio che « è politica o niente », secondo la nota affermazione dell’ayatollah Khomeini; ma non è nemmeno un Dio da coccolare in privato o nel quale proiettare semplicemente i nostri desideri, una sorta di « oppio » per il popolo, un Dio che serva alla morale, all’ordine sociale, alla giustizia, all’identità di una cultura o semplicemente a farci essere più buoni. È un Dio che, amandoci, ci fa vedere la possibilità di un’altra storia, ci sollecita ad amare a nostra volta, a uscire dal nostro « isolamento », a scoprire l’incommensurabile dignità di ognuno di noi, nonostante le nostre manchevolezze; è un Dio misericordioso che redime e salva e che, proprio e soltanto per questo, ci spinge « a trasformare il mondo », a lavorare per rendere più umana la nostra vita sociale e individuale.
Se il mondo in generale, secondo una linea di pensiero oggi assai condivisa, non è altro che « caso e necessità »; se ciò che chiamiamo mondo umano non è altro che l’ultimo stadio di sviluppo di antichissime comunità batteriche, è evidente che in tale contesto diventa piuttosto difficile parlare di libertà. E questo è quanto meno curioso, visto che, proprio in nome della libertà, si è costituito principalmente il cosiddetto mondo moderno, con la rivendicazione di sempre maggiori diritti in ogni ambito della vita individuale e sociale. Per dirla con le parole di Benedetto XVI, qui siamo di fronte a «un autentico capovolgimento del punto di partenza della nostra cultura, che era una rivendicazione della centralità dell’uomo e della sua libertà».
Forse non è esagerato sostenere che gran parte della filosofia moderna è alla vana ricerca di una sorta di equivalente funzionale di quanto l’amore di Dio è in grado di offrire, ontologicamente, prima ancora che eticamente, a garanzia della bontà dell’essere. Charles Taylor ha mostrato tutto questo in modo, a mio avviso, assai convincente, così come Friedrich Nietzsche, con la sua disperata lucidità, ne ha mostrato i tratti distruttivi e inquietanti. Gli sforzi moderni di costruire una società più giusta, fatta di uomini capaci di riconoscersi reciprocamente, « come se Dio non ci fosse », alla fine si sono rivelati un fallimento (si pensi all’esperienza totalitaria); le odierne tecnologie della vita, una cultura che, in nome della libertà, le vorrebbe utilizzare senza limiti, elaborando contemporaneamente le condizioni affinché la libertà non abbia più senso, rendono questo fallimento ancora più inquietante. E Benedetto XVI se ne rende conto pienamente; vede il nesso che sussiste tra le ontologie e le cosmologie dominanti e la crisi dell’etica contemporanea, la quale, non per nulla, viene ricondotta prevalentemente « entro i confini del relativismo e dell’utilitarismo, con l’esclusione di ogni principio morale che sia valido e vincolante per se stesso ».
Proprio come auspicava Emile Durkheim, certamente uno dei padri della cultura che pervade il nostro tempo, stiamo subordinando l’elemento morale alle esigenze della vita sociale, mettendo così fuori gioco il senso stesso di qualcosa che valga e che obblighi incondizionatamente. Per dirla con le parole del sociologo francese, la nostra morale è diventata « plastica »; «Nulla è indefinitamente e incondizionatamente buono»; abbiamo una morale totalmente funzionalizzata alle esigenze della vita sociale. In linea di principio, quindi, anche l’uccisione di un innocente può diventare legittima, se si riesce a dimostrare, cosa sempre piuttosto semplice, che è per il bene della società. Utilitarismo, relativismo e funzionalismo, in effetti, non conoscono limiti di principio; pongono volta a volta, a seconda delle convenienze, alcuni valori di riferimento e a questi commisurano tutti gli altri. Se, poniamo, si tratta in primo luogo di produrre merci a costi più bassi possibile, diventa irrilevante che ciò avvenga in condizioni quasi disumane, come accade ad esempio in Cina. Se, per fare un altro esempio, si tratta di abbassare i livelli demografici di una determinata popolazione, di per sé, non si può escludere che si faccia ricorso, come in effetti accade, a pratiche di sterilizzazione coatta. Se, per fare un altro esempio ancora, l’uso di embrioni umani può far avanzare la ricerca medica, nulla deve impedirlo. Se, infine, si tratta di soddisfare un desiderio di maternità o di paternità, le conseguenze morali della tecnica cui si fa ricorso diventano indifferenti, poiché ciò che conta è semplicemente il risultato. E si potrebbe continuare.
In ogni caso sono proprio questi esempi che ci fanno comprendere l’importanza di qualcosa che nella nostra vita individuale e sociale obblighi «incondizionatamente». È proprio il caso di dire, con la « Deus caritas est » di Benedetto XVI, che esiste una inscindibile «unificazione dell’uomo con Dio». Ragionando «come se Dio non ci fosse», si arriva, o si potrebbe arrivare, a ragionare come se non ci fosse nemmeno l’uomo. Questo, a mio modo di vedere, è lo sfondo che anima il Discorso di Verona e che presumibilmente animerà tutto il pontificato di Benedetto XVI.

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